Amleto a Gerusalemme
Gli angeli sopra la città
Gabriele Vacis. In Appendice: Erica Nava, Lorenzo Tombesi, Nicolò Vinetti, Polinice, Eteocle, Antigone nelle piazze proPal
English abstract

Amleto a Gerusalemme, 2016.
Ormai molti anni fa, nel 2008, ho lavorato alla fondazione di una scuola di teatro a Gerusalemme Est. La sede era El-Hakawati, il Teatro Nazionale Palestinese. Non esiste una nazione palestinese, ma esiste un teatro Nazionale palestinese. È un paradosso. Negli anni di lavoro in Palestina avrei capito che tutto quello che riguarda la “terra santa” è paradossale. Oggi ancora di più.
Per raccontare quell’avventura riprendo un’intervista che avevo fatto con Katia Ippaso all’inizio dell’esperienza. Katia è una giornalista che sa molto di teatro, per alcuni periodi è venuta con noi a Gerusalemme per seguire il lavoro. Alla fine ha scritto un libro molto bello: Amleto a Gerusalemme (Napoli 2009).
Per andare a Gerusalemme, si prende l’aereo da Roma e si atterra a Tel Aviv. Dopo il buio del mare Tel Aviv è un’esplosione di luce. E questo già è strano, perché ti aspetti di arrivare in una zona oscura, dove magari c’è il coprifuoco. Invece, è una metropoli, ma più illuminata delle metropoli occidentali. Penso a New York, che mi è sempre sembrata poco illuminata. Là è una questione sociale: per gli americani la cosa pubblica dev’essere ridotta al minimo, quindi per illuminare le notti newyorchesi bastano le luci delle vetrine, sempre accese. Qui a Tel Aviv è una questione di paura. Loro dicono di sicurezza, ma ormai, quella parola lì, sicurezza, vuol dire tutto e niente, spesso serve a nascondere la realtà. La realtà è che le città più illuminate sono quelle che hanno paura. Un po’ come nelle galere, in cui la luce artificiale non si spegne mai. Quindi arrivi di notte al Ben Gurion. Al controllo passaporti, chiedi di non farti mettere il timbro altrimenti non potrai andare in Siria o in Giordania, ma loro te lo mettono lo stesso. Cosa che, paradossalmente, è utile perché ai check point lo vogliono timbrato, se no magari passi cinque minuti infiniti con un mitra puntato a dieci centimetri dal cervello, finché una soldatessa non finisce di controllare il passaporto. Tra Tel Aviv e Gerusalemme devi passare tre, quattro check point. Ma quello che è impressionante sono i ragazzini. I check point sono gestiti da diciotto/diciannovenni armati di M16. Ragazze e ragazzi. Paradossalmente là si realizza una triste parità tra uomini e donne. Spesso il capo della squadra era una ragazzina.
L’autista che ti è venuto a prendere al Ben Gurion di notte ti dice: “Questo è il Muro”. E tu pensi che il Muro sia una cosa che ha un inizio e una fine. Pensi che sia una costruzione simbolica magari in periferia. E invece, a oggi, a soli quattro anni dall’inizio, pare che siano stati costruiti più di 500 km di Muro. L’oggi a cui mi riferivo è l’estate del 2008, quindici anni dopo il muro è lungo più di 700 km. Già allora avevo pensato a come Israele, tutto intero, sia più piccolo della Lombardia. E il muro di Berlino era lungo 150 km. Questo Muro è presente dappertutto, lo attraversi se riesci a superare i check point, quindi puoi entrare in Palestina. Non c’è una nazione palestinese politicamente riconosciuta, ma di fatto Israele e la Palestina sono pesantemente separate da questo Muro, che è alto 8 metri e 40. Il muro di Berlino era alto 4 metri e 20.
Siamo arrivati tardi a Gerusalemme, alle tre e mezzo del mattino. Trovarmi per la prima volta in quel luogo mitico, vorrai mica andare a dormire? Andiamo al Muro del Pianto. Gerusalemme vecchia è deserta, solo soldati che bevono e dormicchiano agli angoli con l’M16 in grembo. Per entrare al Muro del Pianto devi passare un metal detector, come in banca. E lì, di notte, ci sono solo ebrei fondamentalisti con i cappelloni neri e le basette ricciolute. Fanno avanti e indietro ossessivamente davanti al muro, voltando le spalle al mondo. Insomma, tra armi, muri, metal detector, ho avuto immediatamente un’impressione di follia e di violenza, più che di spiritualità.
Katia Ippaso, nel nostro colloquio, mi chiede se e come il teatro può aiutarci a costruire o a ricostruire un immaginario diverso, tracciando il filo di affabulazioni nuove, che possono arrivare se non a contraddire almeno a compensare quello che ci è arrivato fino a ora: le informazioni luttuose, i messaggi di morte.
“La scuola che abbiamo fondato”, le rispondo, “dovrebbe riuscire a mettere in collegamento gli attori palestinesi con attori italiani. Loro sono attori magnifici. Hanno una presenza straordinaria. Non si tratta di andare a insegnare. Ci scambiamo delle esperienze”. Faccio un esempio. Negli ultimi vent’anni, insieme ad altri amici, mi sono occupato di un teatro che recupera il racconto, la narrazione. In Palestina c’è una tradizione narrativa millenaria. Loro hanno molto da insegnare a noi. Io sto lavorando da tempo su un metodo che chiamo “La Schiera”. Gli attori palestinesi hanno proposto dei loro esercizi, delle loro improvvisazioni. Naturalmente sono molto diverse da quelle che propongo io, ma sono riconducibili a un unico atteggiamento di fondo: l’ascolto. In questo tempo di comunicazione mediata, in cui chi parla non vede e non sente chi lo sta ascoltando, il teatro offre una possibilità: chi parla può ascoltare chi ascolta. Incontrare qualcuno che, venendo così da lontano, per cultura ed esperienza, cerca quello che cerco io è stato molto bello.
A distanza di anni da quel colloquio posso dire che i risultati, in questo senso, sono stati sorprendenti. Avevo chiamato, per esempio, a tenere un seminario a Gerusalemme Marco Paolini. Dalle relazioni che ne erano nate, otto anni dopo, nel 2016, cinque attori palestinesi, cresciuti alla nostra scuola di El-Hakawati, sono venuti in Italia e abbiamo fatto Amleto a Gerusalemme, uno spettacolo che li vedeva in scena insieme, appunto, a Marco Paolini e ad altrettanti giovani attori italiani. Lo spettacolo riscosse molti consensi di pubblico e di critica.
Ma, prima di tornare all’intervista di Katia Ippaso, a distanza di tanto tempo è interessante riportare la reazione del sito informazionecorretta.com. Come i media italiani presentano Israele, il mondo islamico, terrorismo. Il 23 settembre 2015 esce infatti un articolo riferito all’annuncio dello spettacolo da parte del Teatro Stabile di Torino:
Il Teatro Stabile di Torino ha deciso di produrre, per la prossima stagione teatrale, lo spettacolo "Amleto a Gerusalemme", firmato da Gabriele Vacis e Marco Paolini. Il debutto è previsto il 29 marzo 2016 alle Fonderie Limone di Moncalieri (TO). Si tratta di un'opera che non vuole rendere ragione alcuna alla complessità della capitale di Israele, portando in scena esclusivamente la lettura palestinese dell'attualità della regione. Ma soprattutto, è un'opera che porta in scena la domanda di Amleto, "Essere o non essere?", e la riferisce agli arabi palestinesi di oggi. Una scelta vergognosa, perché sarà Israele a essere incolpato della condizione degli arabi palestinesi, una condizione di cui gli arabi palestinesi dovrebbero attribuire responsabilità soltanto a se stessi, ai loro leader, al largo sostegno al terrorismo, all'antisemitismo ufficioso e ufficiale, alla debordante corruzione, al familismo di stampo mafioso, al parassitismo nei confronti degli ingenti aiuti internazionali.
Sembra la recensione di un critico che ha visto lo spettacolo. Ma lo spettacolo debuttò solo sette mesi dopo, e posso assicurare che in quel settembre avevo, certo, qualche idea, ma non sapevo assolutamente come sarebbe stato lo spettacolo. Il paradosso che si vive in terra santa, te lo porti dietro sempre e comunque. Ma torniamo all’intervista del 2008:
Katia Ippaso | Parlando di linguaggio, ho la sensazione che questo teatro di cui stiamo facendo esperienza ci possa aiutare a scartavetrare anche la retorica che si portano dietro certe parole: guerra, pace, amore, odio possono non significare niente perché se ne abusa quotidianamente, per via mediatica. Attraverso questo tuo metodo, e con questo scavare in questi giorni nei loro vissuti, in una maniera talvolta anche conflittuale, possiamo capire per via emotiva, teatrale, che la pace non è data. La pace si conquista…
Gabriele Vacis | La pace è difficile, è una cosa che probabilmente in natura non si dà. Sì, la pace è una conquista. Non è data a priori. In questi giorni di lavoro a Gerusalemme mi sono reso conto di come le posizioni di queste persone sono tutte molto diverse l’una dall’altra. Prima di cominciare a lavorare a questo progetto, io credevo che esistessero i palestinesi e gli israeliani. Invece no, invece esistono persone che sono nate lì, persone che sono immigrate in quel luogo, persone che provengono magari dall’ex Unione Sovietica ma sono israeliane da tre generazioni. Tra le persone che sono nate a Gerusalemme Est, tu incontri individui molto diversi. In qualcuno, ho riscontrato una forte carica ideologica. Un attore all’inizio mi disse che avremmo dovuto fare uno spettacolo che fosse utile alla causa palestinese, che raccontasse l’oppressione. Erano le cose che io mi aspettavo di sentire da tutti. Ma non è stato così. Altri mi hanno detto che non ne potevano più di questi discorsi. I più giovani hanno cominciato a chiedersi, a chiedermi: che cosa ci aspetta? Perché non andiamo via? E se volessimo andarcene, abbiamo veramente la possibilità di farlo? La realtà contemporanea è di una complessità straordinaria. Allora, l’unica possibilità che abbiamo è di comprendere questa complessità. Io ho anche un desiderio segreto: spero che questo progetto abbia un seguito. Sarebbe bello mettere insieme attori palestinesi e attori israeliani.
Bianco e nero non ci sono, ci sono solo infinite sfumature di grigio. Tutto quello che possiamo fare è cercare di comprendere. Nel 2008 si parlava molto di società liquida. Cominciavamo a fare surfing sulla realtà. Viaggiavamo dappertutto con grande libertà, rispetto a oggi, navigavamo in Internet con stupore e speranza. Da Gerusalemme mi si chiariva che se avessimo continuato a pensare che la liquidità fosse la nostra vera realtà, ci saremmo sbagliati di grosso. A Gerusalemme si comprendeva bene un altro paradosso: abbiamo sempre meno frontiere, ma è anche vero che crescono i Muri di separazione fisica. Da un lato il mondo è regolato da Internet, dall’altro si fa un Muro di 500 km in un posto sperduto della terra. Come facciamo a capire la complessità di questa realtà, se continuiamo a pensare per contrapposizioni? Quando riusciremo a superare la contrapposizione come metodo di analisi del mondo, allora avremo fatto qualche progresso. Ecco perché sono contento di trovarmi con un gruppo di attori palestinesi non a preparare Brecht, che magari ti dice che gli oppressi si devono liberare, ma a lavorare su Amleto, che è il dubbio per antonomasia.
Mi è venuto in mente Amleto quando ho visto che loro sono pieni di dubbi, più di me. Hanno amici israeliani, ma poi subiscono quotidianamente soprusi insopportabili. Allora magari con i loro amici israeliani ci bisticciano, per un po’ non si parlano, poi tornano a sentirsi… È la vita: una possibilità di affrontarne la complessità è prendere un filo, srotolarlo con pazienza e cominciare a raccontare. Il racconto è molto diverso dall’informazione. Noi ormai abbiamo degli impermeabili di plastica robustissima che ci fanno scivolare addosso la pioggia dell’informazione. L’immagine di Blade Runner, di una città futura in cui piove sempre, è una metafora azzeccata. La pioggia che cos’è se non il continuo caderci addosso delle informazioni? Ma noi abbiamo l’impermeabile e cerchiamo di ripararci. Il racconto è una cosa diversa. Chi fa informazione deve sempre prendere una posizione, assumere un unico punto di vista. Il racconto, specie se è racconto teatrale, moltiplica i punti di vista. L’informazione è sempre dalla parte di qualcuno, il teatro no. Shakespeare riesce persino a mettersi dalla parte di Macbeth (a tal proposito, si veda l’intervista a Mario Martone pubblicata in questo numero di Engramma). Mettersi dalla parte di Macbeth non significa giustificarlo, ma cercare di comprendere anche le sue ragioni. Isolare Macbeth significa non uscire dalla morsa di Macbeth, che è quella di tenerci fuori dal suo cervello.
Amleto a un certo punto accede alla verità, in qualche modo è ‘chiamato’. Il padre lo chiama e Amleto accede alla verità. Riceve un’investitura formale, qualcosa di simile alla Cresima, che assomiglia al Bar Mitzvah ebraico. Al Catechismo mi insegnavano che con la Cresima diventiamo guerrieri di Dio. Ecco, Amleto dopo l’incontro con il padre diventa Guerriero di Dio. Ha parlato con lo spettro, ha ascoltato la confessione di Claudio. È sicuro di conoscere la verità: da questo punto in poi è una strage. Perché, quando c’è qualcuno convinto di possedere la verità, incominciano i cadaveri. L’Eletto è giudice ingiudicabile. È questa la storia di Amleto ed è sovrapponibile alle storie che si vivono oggi in Palestina. Nel 2008 avevo detto così: è questa la storia di Amleto ed è sovrapponibile alle storie che si vivono oggi in Palestina, dove tanta gente è convinta di avere la verità in tasca. Oggi non direi più Palestina, direi Israele. Nel 2008 in Palestina per fortuna c’era tanta gente che aveva un sacco di dubbi, che si faceva domande: cosa diavolo possiamo fare? Oggi le domande che possono farsi i palestinesi sono sepolte sotto le macerie delle certezze di Israele. E sempre nel 2008 concludevo il pensiero così: io non so se alla fine del nostro lavoro teatrale troveremo delle risposte a questa domanda. Ma domandarci “cosa diavolo possiamo fare?” mi sembra l’unica possibilità. A questo punto Katia mi chiedeva:
KI | Odio e vendetta sono parole-miccia, specialmente nel contesto che accoglierà il progetto. Come pensi di affrontare la tentazione, che sicuramente ci sarà, di un’interpretazione univoca della faccenda, la possibilità di leggere la storia di Amleto come la storia di un’usurpazione e di una guerra di liberazione dall’oppressore israeliano?
GV | Andando a scavare nelle vicende personali. Io credo che l’unico antidoto all’ideologia siano le storie; non “la” storia, “le” storie. Da un certo momento in avanti non ci sarà più bisogno di discutere nei nostri incontri se i palestinesi sono un popolo oppresso e in lotta (anche perché è vero: i palestinesi sono un popolo oppresso e in lotta per la propria libertà), non parleremo più di questo. O almeno, ne parleremo, ma attraverso storie minute. Le storie liberano dalla contrapposizione ideologica. Le storie sono precise, esatte. Una possibilità è lavorare con precisione, con esattezza. La prima cosa da cercare, con gli allievi attori di Gerusalemme è il rigore della presenza: i ragazzi imparano ad avere consapevolezza del proprio corpo e dello spazio. Però stiamo parlando di ragazzi. Amleto era un ragazzo. Ci vuole anche lo scatenamento. Amleto è una tragedia di giovani, del passaggio all’età adulta. Il momento in cui abbiamo bisogno di scatenarci. Riuscire a scatenarci senza far danni, senza farsi male e senza far male a nessuno è l’obiettivo. Ci vuole rigore per esserne consapevoli.
Nell’intervista di diciassette anni fa Katia Ippaso mi proponeva un’altra serie di importanti considerazioni, poi l’intervista si concludeva con una storia con cui concludo anche questo articolo: eravamo stati a Betlemme a cenare, sotto la Basilica della Natività c’è un posto che si chiama “La tenda beduina”. Insomma, avevamo fatto tardi e stavamo tornando da Betlemme a Gerusalemme. C’è un tratto di strada che non sembra molto raccomandabile, un tratto un po’ deserto. Foriamo una gomma. Improvvisamente si materializza nella notte un ragazzo che in arabo mi dice qualcosa che non capisco, ma che sembrava un’offerta d’aiuto. Io ero molto agitato: chi era questo qui? Mi sono agitato ancora di più, quando si è fermata accanto alla nostra un’altra macchina bianca e lunga con tre ragazzi dentro. Questi cominciano a scambiarsi, in arabo ovviamente, delle battute con il ragazzo che si era avvicinato a me. Avevo la mano sulla chiave inglese, non so cosa ci avrei fatto, figuriamoci. Ma ho avuto paura. L’automobile bianca se n’è andata. Il ragazzo ha tranquillamente finito di aiutarci a cambiare la nostra gomma, poi se n’è andato salutandoci in italiano. Siamo risaliti in macchina e ho chiesto al funzionario dell’ambasciata che ci stava accompagnando: “Cosa voleva quello lì? Gli ha dato dei soldi?”. Lui mi ha risposto che quel ragazzo non voleva niente, che i palestinesi sono così. Se qualcuno è in panne lo aiutano. Viviana Simonelli, la funzionaria dell’Ente Teatrale Italiano che era in macchina con noi, e che ha seguito tutto il lavoro, dice: “Ma l’avete visto? Era bellissimo, sembrava un angelo”. Io veramente, spaventato com’ero, non avevo proprio pensato di guardarlo. Però, effettivamente, se non è tra Betlemme e Gerusalemme che un angelo, di notte, appare nel buio e ti aiuta a cambiare una gomma, dove sono gli angeli?
Appendice | Polinice, Eteocle, Antigone nelle piazze proPal
Erica Nava, Lorenzo Tombesi, Nicolò Vinetti
Il regista e drammaturgo Gabriele Vacis, con Roberto Tarasco e la compagnia teatrale PoEM, Potenziali Evocati Multimediali, dal 2023 mettono in scena in vari teatri italiani “Trilogia della Guerra” – due adattamenti di Eschilo con Prometeo e Sette a Tebe, e un adattamento da Sofocle, con Antigone e i suoi fratelli. Con questo progetto riflettono su come “dispiegare in modo appassionante le leggi della convivenza civile, così come i limiti” e pongono lo spettatore davanti la realtà di un “terribile amore per la guerra”, costringendolo a ‘stare’ con la battaglia, a immaginare e comprendere – senza cadere in facili illusioni di speranza – scuotendo le corde della nostra memoria culturale e mettendola al vaglio delle catastrofi del presente. Pubbliciamo qui alcune riflessioni rapsodiche del gruppo PoEM sul conflitto, scaturite dalla loro esperienza comune e dalle suggestioni delle piazze occupate per la Palestina.

Graffito a Venezia.
Dalle prove di Sette a Tebe. Fotografia di Eduardo De Matteis.
Bambini durante una protesta sulla Striscia di Gaza, 1993.
Stazione di Torino Porta Susa durante le manifestazioni per la Palestina, 2025.
La sfinge all’ingresso di Torino durante le manifestazioni per la Palestina, 2025.
Sette a Tebe ha debuttato a ottobre 2023 al Teatro Olimpico di Vicenza. Nel tempo è cambiato molto, adesso comincia così:
Alle manifestazioni ho incontrato amici che non vedevo da tempo perché “il lavoro”, “l’Università”. Ho visto ragazzi piangere perché voltandosi si sono resi conto di non essere soli. Ci avete tenuti a bada con la vostra televisione, con le vostre merendine, con il mito della sicurezza, ma non è più possibile. La solitudine a cui sembravamo condannati non è reale: la campana di vetro si è incrinata. Noi, la mia generazione e quella che segue, abbiamo una grande occasione: smantellare un sistema economico e politico che non è più sostenibile. Grandi! Fate largo: siamo gli ingenui, i facinorosi. Siamo i bambini che gridano “il re è nudo”. Che è finito il tempo di “re” e “regine”. Non c’è ruolo che regga. Non c’è istituzione che regga: scuole, parlamenti, tribunali, caserme, sono parole che non significano più niente. I tempi che abitiamo sono straordinari, bisogna penetrare lo squarcio. Accelerare il fallimento. Forzare il collasso. Occupare. Bloccare tutto. Come? Abbiamo detto “no” alla violenza dei potenti, perché noi non ne siamo capaci. Ma non possiamo più stare ad aspettare un qualche “piano di pace” o il martirio. Che cosa ce ne facciamo di un posto in paradiso?
Nella parte centrale di Sette a Tebe il messaggero riporta a Eteocle quello che ha osservato fuori dalle mura, quali armi il nemico ha schierato. Lo fa raccontando cosa c’è disegnato sugli scudi dei guerrieri: è una guerra di immagini, di simboli.
Messaggero | Sulla facciata dello scudo, è scolpito l’emblema della sua arroganza: un cielo fiammeggiante di stelle e nel mezzo una luna piena: l’occhio della notte che su tutto si staglia.
Eteocle | E l’occhio della notte sarà un presagio di morte per lui stesso: morirà, e la notte cadrà sopra ai suoi occhi.
Messaggero | Chi gli opporrai? Chi credi che possa resistergli?
Ci siamo domandati a lungo cosa potessero significare per noi oggi, immagini di questo tipo. Alla fine è venuta fuori una lingua che parla di me, di noi, di quando eravamo adolescenti e giocavamo a fare i maschi: AK-47 è un fucile d’assalto, per gli amici Kalašnikov dal nome del militare che se l’è inventato. La Russia l’ha sparso in tutto il terzo mondo ed è diventato un simbolo d’indipendenza e libertà, perfino nelle mani di Al Qaida.
*
C’è chi ci legge ipocrisia: le guerre, d’altronde, sono tante. Sì, è vero, le guerre sono tante. E non sempre vale il principio dell’universalità della lotta, perlomeno non fino in fondo. Le distinzioni si accumulano, la complessità va preservata, non bisogna fare di ogni erba un fascio – sia mai, ché di ‘fasci’ in giro ce ne sono fin troppi. Eppure tutto è connesso con tutto: una singola causa può incarnare dinamiche universali di oppressione, ingiustizia, violenza o resistenza – mi sembra scontato. E questo a prescindere dalle contraddizioni, o forse proprio grazie a esse. Per molte persone si tratta di un’esperienza nuova; prima loro in piazza non c’erano. È ipocrisia? No, è cambiamento, e menomale. Dopotutto, sebbene non sia l’inizio, abbiamo solo cominciato. Correggendo Rimbaud: e all’aurora, armati di una rabbia ardente, noi bloccheremo le splendide città.
Ieri (data) c’è stata la manifestazione contro gli Stati Generali della Casa organizzati da Forza Italia. Le forze dell’ordine hanno esercitato una violenza immotivata sui manifestanti. Andrea ha cercato di dialogare con i poliziotti, ma è stato subito liquidato da uno di loro, che lo ha definito “psicopatico”:
“No. Sono un attore”.
“Allora vai a recitare da un’altra parte”.
“Preferisco stare qui a dire la verità”.
La lista di quello che si rischia è piuttosto lunga – e non solo in linea teorica: affrontare controlli, denunce, sanzioni o limitazioni alla libertà di espressione; essere sottoposto a sorveglianza; ricevere un foglio di via, un divieto di manifestare o il confino; subire la detenzione, l’esilio, la tortura. E, dato quel che succede quotidianamente nelle carceri italiane, essere esposti a un reale e imminente rischio di morte. Fino a che punto riuscirei a spingermi? Nonostante quello che scrivono i giornali, strumentalizzando le notizie senza spiegarle e senza fare le dovute distinzioni, è questo che c'è in ballo: la verità dei corpi. Il mio corpo. I nostri. I loro. I corpi lontani. I corpi morti. E, no, non sono tutti uguali. Io ero e sono tutt’ora in una posizione comoda, ho il lusso di potermi porre queste domande. Quindi, di nuovo: fino a che punto riuscirei a spingermi?
English abstract
Director and playwright Gabriele Vacis recounts his experience of working on the foundation of a theater school at El-Hakawati, the Palestinian National Theatre, in East Jerusalem in 2008. He recalls an interview he did with journalist Katia Ippaso at the time, and recounts how that experience led to the creation of Amleto a Gerusalemme, a play featuring Palestinian actors and actresses that premiered in 2016. An appendix broadens this reflection on conflict through the perspective of PoEM—the theatre company with which Vacis has staged the Trilogia della guerra—developing the dialogue with contemporary images and protests in solidarity with Palestine.
keywords | Gabriele Vacis; PoEM; Palestina; Hamlet; Jerusalem; Seven against Thebes
questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e all'international advisory board della rivista
Per citare questo articolo / To cite this article: Gabriele Vacis, Amleto a Gerusalemme. Gli angeli sopra la città. In Appendice: Erica Nava, Lorenzo Tombesi, Nicolò Vinetti, Polinice, Eteocle, Antigone nelle piazze proPal, “La Rivista di Engramma” n. 230, Natale 2025.