Case, rovine, memoria, futuro
Oracoli dal libro di Amos, oracoli dai film di Gitai, oracoli su Gaza
Carmelo Marabello
English abstract

Fotogramma da Amos Gitai, House, 1980.
Se tu non vuoi più credere alla verità, nessuno vorrà più credere a te.
Zelman Lewental, iscrizione firmata presso il forno crematorio di Auschwitz, 1944
Non mi annovero fra coloro che hanno il culto delle tombe, no. Ossa secche e cave – no. Ma i ricordi,
i ricordi sì, stanno impressi, radicati: difficile portarli via di qui. Solo qualche breve scappata in posti
lontani, per poi tornare qui. Noi, forse, non abbiamo nessun altrove. Ma l’inquietudine mi rode: che
sarà di voi giovani, sangue del nostro sangue, noi sognatori di un sogno deluso. Saprete vincere la
tenebra che ci avvolge?
Lettera a Amos Gitai dalla madre Efratia, Storia di una famiglia ebrea, Efratia Gitai, 2012
Ogni casa che gli israeliani distruggono, ogni vita che quotidianamente uccidono e persino ogni
giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi della Palestina, va perduta una parte dell’immenso
deposito di verità e sapienza che, nella e per la cultura dell’Occidente, è stato accumulato dalle
generazioni della Diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle
persecuzioni antiche e recenti.
Franco Lattes Fortini, I cani del Sinai, 1967
I. Oracoli al Collège de France, responsi in forma di lezione. La forma del medium: verso un tempo vissuto di immagini
I.1
Il 16 ottobre 2018 Amos Gitai interviene al Collège de France come professore invitato. La cattedra di Creazione artistica lo vedrà protagonista di una serie di lezioni, di future parole date, per ritornare a Claude Lévi-Strauss, che così avrebbe intitolato l’edizione delle sue lezioni presso la prestigiosa e peculiare istituzione francese. Queste lezioni, registrate, sono integralmente visibili su YouTube. La prima, inaugurale, ha la seguente intestazione: La caméra est une sorte de fétiche – Filmer au Moyen- Orient. Gitai, sin dalle prime battute, ci avvisa e avverte che il tracciato e il sentiero, da lui immaginato e disegnato, intreccerà la memoria e i luoghi di Israele alla sua biografia intellettuale, interrogando il suo processo creativo alla luce di una semplice e radicale considerazione: il filmmaker, l’artista agisce nel segno della domanda; l’esito, l’opera, è una forma di cittadinanza, una traiettoria di responsabilità civile nei confronti dell’ebraismo e della Storia. Il lavoro intellettuale ha la natura dell’interrogazione, l’ebraismo stesso si può leggere come dialettica di pensiero e ricerca, il posizionamento può assumere, quando necessario, persino la necessità di una negazione, o di temporanea interdizione. Nella laica Francia, al Collège de France, l’ebreo secolarizzato Gitai esplicita, dinanzi al pubblico, quanto richiesto alle istituzioni: nessun invito all’ambasciatore di Israele al ciclo di lezioni e così nessun invito alla Filarmonica di Parigi allo spettacolo che in quei giorni vedeva Jeanne Moreau diretta da Gitai in un reading delle lettere di sua madre Efratia Gitai, da una delle quali, l’ultima a lui inviata, è tratto il secondo esergo. La volontà di questa azione è puntuale: nessun disamore verso Israele, ma un dissidio politico profondo con chi quel paese governa, assumendo per sé la cifra evidente della parresia, il diritto-dovere di dire la verità, la volontà di affermare e confermare pubblicamente la propria posizione, per distinguersi da chi, in nome del lavoro dell’arte, del lavoro intellettuale, si conforma al linguaggio del potere. Gitai, icasticamente, conclude la sua introduzione, al minuto ottavo della registrazione, dicendo: “ci sono linee che non possono essere superate”.
I.2
Jeanne Moreau è minuta, filmata in campo lungo, la giacca bianca ritaglia, dal nero, il suo corpo: seduta dietro una scrivania legge l’ultima lettera inviata al figlio: evoca il destino delle vite di chi è nato in Palestina, ai piedi del Monte Carmelo agli inizi del secolo, di chi è stato sionista inquieto negli anni Trenta, di chi interroga un futuro probabilmente avvolto di tenebre e segnato dal sangue. La sequenza restituisce un frammento del reading al teatro Odeon di Parigi: la biografia di Efratia Gitai assume, nella voce di Moreau, la forma della testimonianza, la vita possibile della parola epistolare, la pronuncia, la lingua francese, di ciò che era destinato a rimanere una lettura privata, un dialogo in ebraico tra una madre e un figlio. Eppure qualunque parola privata può illuminarsi di un valore pubblico, se il contesto e la cura di chi le pronuncia o le pubblica lo consentono, se la parola si fa prise de parole come già diceva Maurice Blanchot della “parola pubblica” del ’68, come accadeva tra studenti e operai, tra passanti e profughi dei campi nell’estate di Chronique d’un été, il film di Morin e Rouch dove lo sfondo della violenza della guerra algerina riverberava nel tempo dei protagonisti, nella vita francese all’inizio degli anni Sessanta. Tra quei corpi parola, quei corpi gesto, Marceline Loridan, sopravvissuta ai campi, futura moglie di Ivens e futura attrice, in età avanzata, di Gitai, prendeva la parola. La sequenza presentata da Gitai nella lezione inaugurale ha la forma di un racconto ma anche di un raccordo: esplora la possibilità di una biografia come stratigrafia di una vocazione quasi casuale, della vita stessa come matrice di casi: una madre nata lo stesso anno della fondazione di Tel Aviv che, sul finire degli anni Venti viaggia, ventenne, verso Vienna, per incontrare Freud; un padre architetto, già studente del Bauhaus, sfuggito alla persecuzione nazista e rifugiato in Palestina negli anni Trenta, la vita sul Monte Carmelo coi genitori negli anni Cinquanta. Tutto ciò per parlare di Goebbels e del Bauhaus, per ricordare come la guerra all’architettura modernista e minimale di Gropius e Van der Rohe fu un elemento essenziale della guerra ideologica nazista, nel consolidarsi dell’estetica di potenza del regime tedesco.
I.3
All’età di dieci anni, per ragioni di lavoro, i genitori di Gitai lasciano il figlio, per qualche tempo, in un kibbutz. Gitai rievoca quell’esperienza come l’esperienza di uno straniero nella società chiusa, seppur nobile del kibbutz, di chi viene respinto dai coloni, visto e vissuto come alieno seppur israeliano. Questo episodio, retroattivamente, diventa la chiave di un posizionamento futuro a favore di chi è migrante, deportato, perseguitato: “Così come non riesco a sopportare i gruppi chiusi, seppur consensuali, così non posso tollerare che si autorizzi il fuoco di cecchini, a Gaza, contro manifestanti pacifici e disarmati”. Questo è detto, letteralmente, al minuto venti della lezione. Come filmare e lavorare in Israele, quindi, come raccontare e descrivere il proprio lavoro al Collège de France, in una cattedra intitolata alla creazione al lavoro artistico? Biografia e vocazione si sovrappongono: il regalo di una camera super8 dopo il servizio militare, in servizio dal 1968 al 1971, la frequentazione del Politecnico di Haifa e degli studi di architettura sono l’occasione per sperimentazioni formali, prima del richiamo alle armi nel 1973, nel corso della guerra del Kippur. L’uso della camera come forma di accostamento e presa di distanza dalla realtà diventa per Gitai una forma di posizionamento, il terribile incidente in elicottero, a cui sopravvive, una sorta di involontario rito di passaggio: “Durante la guerra del Kippur, il mio elicottero fu colpito. Il mio compagno che era seduto come stiamo noi due adesso, a circa un metro e mezzo da me, fu decapitato da un missile siriano che penetrò il nostro elicottero. Mi venne detto nel linguaggio molto asciutto dell’esercito che, statisticamente, il fatto che fossi vivo era considerato un’eccezione. Allora decisi di sfruttare questo errore statistico e di dire un paio di cose che avevo dentro e che mi turbavano”(Curti [1986] 2006). Nella prima lezione al Collège la riflessione si drammatizza: Gitai puntualizza che la distanza fisica tra la prima fila dei docenti del Collège de France e la distanza, nel 1973, tra lui e il primo pilota sono simili. Due temporalità e due mondi di immagine si sovrappongono e si fanno scena della parola e dell’argomentazione. La potenza platonica della parola viva si fa spazio: l’esperienza della morte quasi vissuta consente di assumere la necessità della verità come istanza. Filmare nelle operazioni di soccorso per Gitai era filtrare gli eventi, l’ordinario mondo del presente storico bellico: essere nel cuore del tempo e fare di quel tempo un cristallo, far distanza come istanza di vita, vivendo, attraverso la camera, il vissuto come futuropassato puntuativo, vivendo così nel fermoimmagine, nell’immagine tra prelievo del presente e rilievo del passato.
I.4
Un lungo piano sequenza, filmato da un elicottero, di un terreno di guerra, di carri armati in movimento, offre al pubblico della lezione inaugurale ancora un raccordo storico-visivo: la contemplazione della geo-grafia, la dimensione plastica del rilievo, l’immagine-sintesi del paesaggio bellico si mostrano come elementi del discorso. Sono immagini di Kippur, un film del 2000. Questa sequenza muove Gitai verso un punto cruciale della memoria storica di Israele, la guerra del 1967, raccontata come prova di forza, dimostrazione di potenza nei confronti dei paesi arabi circostanti, come tempo risonante con l’attualità israeliana del 2018. La guerra dei sei giorni con l’occupazione di Gerusalemme est e delle alture del Golan e la guerra dello Yom Kippur diventano un ciclo, una trama di eventi bellici, culturali, politici, retrospettivamente il disegno della forma attuale di Israele. Nel racconto lezione di Gitai la guerra dello Yom Kippur e l’incidente in elicottero diventano così la ragione biografica dell’emigrazione temporanea, per motivi di studio, a Berkeley dove completa gli studi di architettura e consegue il dottorato. Tuttavia gli anni di Berkeley dal 1973 al 1980 sono anche gli anni dell’incontro col pensiero della scuola di Francoforte, della frequenza ai corsi di Feyerabend. Deviando da una potenziale carriera accademica, Gitai fa ritorno in Israele e realizza il suo primo film Bayit/House, di cui, nella lezione inaugurale al Collège de France, è presentata la sequenza iniziale come sorta di trailer della seconda lezione. La sequenza mostra degli operai palestinesi, tagliatori e cavatori di pietre, costretti, per ragioni di sicurezza, a lavorare senza l’uso di esplosivi. Il film verrà censurato dalla televisione e sarà la ragione di una scelta: la difesa del film indirizzerà Gitai definitivamente verso il cinema, allontanandolo dal lavoro di architetto. Nell’andamento della lezione la sequenza si presenta come un flash forward di un discorso a venire, al tempo stesso come un misterioso cristallo temporale in bianco e nero. Con una virata improvvisa, Gitai abbandona il film e traccia invece le ragioni del titolo stesso della lezione. Se le immagini e le sequenze sin lì utilizzate compongono il controcampo della biografia personale e familiare, la parola-discorso diventa necessariamente campo, si produce come traiettoria estetica e poetica, strategia narrativa. La trilogia – strategia prediletta da Gitai – si presenta così come azione capace di modulare i diversi punti di vista, di lasciare aperta la vita stessa della contraddizione, di offrirla invece che risolverla, producendo il reale come campo invece che indice, come tensione e processo invece che manifesto, ideologia. La memoria è il terreno di elezione e di azione: il film lavora la memoria, la produce come possibilità, la presenta come materia sovversiva, come materia capace di farsi vita nella lunga durata dei processi. La talpa della storia, nel suo moto cieco, si incarna talvolta nelle storie, si impiglia persino nelle biografie: i film sono la stella polare della redenzione dell’ordinario, il riscatto del quotidiano tra sublime e catastrofe, tra simbolico e diabolico, in senso letterale. Tutto ciò in un luogo fisico, la terra di Israele-Palestina, dove simbolico, politico, diabolico, si nutrono reciprocamente di azioni, lavorano la memoria geografica, reinventano archeologicamente il paesaggio come traccia di antichi regni, dove il Sinai nuovamente egiziano dopo gli accordi di pace del 2005, è pur sempre la terra in cui Mosè riceve i Dieci Comandamenti. Se infatti per Adorno la poesia poteva sopravvivere come residuo, come “storiografia inconscia” (Adorno [1970, 1973] 2009, 307) che registra i segni degli eventi ‘rimossi’, il cinema, nella forma film, traccia e abilita il rimosso delle memorie, lo individua, almeno sintomaticamente, come emergenza, lavorando al setaccio il flusso continuo e liquido delle immagini, alla ricerca di deleuziani cristalli temporali. Alla ricerca dei geroglifici del tempo, disposto, anti-hegelianamente, a perdersi nel pozzo delle immagini. Per interrogarsi, appunto, attraverso le immagini-tempo, le immagini-movimento. Nel racconto come forma-memoria.
I.5
Filmare per Gitai è dare tempo al tempo, filmare è fare spazio con lo spazio, immaginando il piano sequenza come un valore d’uso capace di ri-immaginare l’esperienza dello spettatore, offrendo radicamenti possibili sia all’alea che all’immanenza di quanto accade sullo schermo. Nel piano sequenza il tempo non si condensa nella misura del montaggio ma si addensa come esperienza dei corpi, dei suoni, dello spazio, nel movimento continuo di un tempo redento ed esaltato, dello Jetztzeit come qui e ora puntuale, per un verso, ma anche come figura essenziale dell’anacronismo, capace di sussumere e mostrare la temporalità plurale degli eventi, di de-costruire il tempo delle cronologie. Così la lezione inaugurale del 18 ottobre 2018 si conclude con la visione integrale di The Book of Amos, un episodio del film collettivo Words of Gods, 2014. Il film di 11 minuti è appunto un piano sequenza: in una città segnata da manifestazioni e rivolte, da ingombri e fuochi accesi, da auto parcheggiate in fiamme, da soldati armati e pronti alla battaglia che sparano raffiche – sembra – di avvertimento, la potenza della parola biblica si incarna nei corpi di attori e attrici ebrei e palestinesi mentre la violenza li circonda. In abiti arcaici o in abiti moderni i corpi si muovono disegnando una coreografia di gesti-eventi, incontrando la macchina da presa in una presa di contatto col mondo e l’esterno, inventano una trama di sguardi in macchina, una messa in scena della città stessa come teatro. Risuonano così i versi drammatici del libro biblico di Amos, già presenti ne La terra di Israele, il reportage del 1983 che Amos Oz dedicava agli insediamenti dei coloni nelle terre sacre. Risuonano gli oracoli del terremoto che distruggerà Gerusalemme, gli oracoli dell’Eterno contro i popoli della Palestina, contro Damasco e i Filistei, contro Samaria, contro Tiro, Edom. Risuonano gli oracoli contro Israele che reprime i poveri e pecca di idolatria, sino alla distruzione del tempio e del regno del Nord, sino alla rinascita nel giorno in cui chi miete incontrerà chi ara e le vigne torneranno a fiorire. Così parla Adonai, nel Libro di Amos e nel film di Gitai, così parla il Signore nella forma verbale del perfetto ebraico – qatal – a indicare l’azione compiuta dichiarata: il presente ha un valore conclusivo, il piano sequenza che incarna le parole in donne e uomini trasforma in coro la parola divina, organizza la litania monodica in una coralità di voci. Le strade, tra Goffmann e Lefebvre, non possono che essere un palco, un palco rasoterra dove le liminalità si congiungono, dove i codici dei corpi in moto si interrogano, mescolandosi. Gitai riusa così il verso biblico in senso civile, legge la profezia come forma del presente politico: nella lezione rievoca Pasolini e si interroga sulla necessità di ripensare la Bibbia ricostruendo il senso del messaggio stesso e del dettato del testo monoteista. La vicenda di Nathan e David diventa così agli occhi di Gitai esemplare dei processi di definizione della memoria e dei suoi possibili usi e riusi: Nathan, il profeta, denuncia il gran re e lo addita come uomo immorale perché, desiderando Betsabea, ha mandato a morire in guerra il marito di lei. La Bibbia registra l’atto, lo annuncia e denuncia, non evita ai potenti il destino e, in questo caso, l’onta della verità rivelata. Il piano sequenza del Libro di Amos si offre così come un apologo: il frammento arcaico produce nel presente un effetto di memoria, un cristallo temporale dove la forma del presente storico si presenta come doppio del passato biblico, dove il passato, in forma di profezia possibile, prova a offrire comunque la traccia dell’avvenire, dopo il castigo di Israele. Se infatti la condanna è manifesta, il destino di Palestina e Israele, si intreccia comunque, come in House.
II. Attraversare le frontiere, murare i mondi, deportare i corpi, abitare nel tempo, filmare. Oracoli discorsivi. Potenza della legge e della parola
L’Apostolo ci dice che in principio era il Verbo. Non ci dice nulla per quanto riguarda la fine.
George Steiner, La fuga dalla parola, [1967] 1972
Mentre prepari la colazione, pensa agli altri (non dimenticare il mangime per i piccioni).
Mentre guidi l’auto, pensa agli altri (non dimenticare coloro che cercano la pace).
Mentre paghi la bolletta dell’acqua, pensa agli altri (coloro che si abbeverano dalle nuvole).
Mentre ritorni a casa, a casa tua, pensa agli altri (non dimenticare coloro che vivono accampati).
Mentre dormi e conti le stelle, pensa agli altri (coloro che non hanno dove dormire).
Mentre ti liberi con una metafora, pensa agli altri (coloro che hanno perso il diritto alla parola).
Mentre pensi agli altri lontani, pensa a te stesso (Di’: “Se potessi essere una candela nel buio”).
Mahmoud Darwish, Pensa agli altri
The State of Israel is not moving forward in time almost, but is rather trapped in an
eternal vicious circle, in which it is doomed to repeat the same mistakes again and
again, experience the same disasters again and again.
David Grossmann, in Amos Oz, Po va-sham be-eretz Israel: Be-stav, 1982
II.1

Fotogramma da Amos Gitai, A House in Jerusalem, 1998.
Il 23 ottobre del 2018 Amos Gitai è di nuovo al Collège de France. Traverser le frontières è il titolo della lezione, House, il film di cui principalmente discute e di cui presenta diversi estratti. Tra il 1980 e il 2005 Gitai filma la casa, il suo trasformarsi, la vita dello spazio abitato, la memoria di chi la abita o di chi ha dovuto lasciarla: il film è una trilogia, un trittico, un’azione nel corso del tempo. La parola di Gitai accompagna le immagini presentandole, commentandole: ritorno al passato, alle frontiere attraversate, al senso del racconto diffuso dalle voci dei protagonisti. Tuttavia la parola di Gitai va preceduta dalla parola della legge, per comprendere meglio l’accaduto, l’accadere stesso del film, le condizioni materiali che generano l’ordine stesso dei discorsi. La Legge sulle Proprietà degli Assenti fu creata ad hoc al fine di acquisire la proprietà su beni e proprietà delle migliaia di profughi palestinesi che furono espulsi dalle forze ebraiche verso i Paesi arabi confinanti. Fu elaborata nel 1948 per essere emanata nel 1950. Questa legge è il primo cardine della politica spaziale e governamentale di Israele, la pietra angolare dello “spaziocidio” per usare le parole di Eyal Weizman (2007). La “proprietà degli assenti” definisce il quadro giuridico del possesso, le proprietà degli assenti rimangono silenti, nella cornice dell’umano che il giuridico di volta in volta misconosce o riconosce, e che tocca alla memoria ricostituire, per quanto è possibile. Nel presentare il film Gitai lo introduce in modo piano e netto:
En 1980, House montrait les strates de l’histoire conflictuelle de mon pays telles qu’elles existent dans une maison à Jérusalem. Jusqu’en 1948, cette maison appartient à un médecin palestinien, obligé de la quitter pendant la guerre. Ensuite, le gouvernement israélien y installe des juifs de condition très modeste, venus de Colomb-Béchar en Algérie ; puis, après la guerre des Six Jours, en 1967, la maison est achetée par un économiste israélien, qui décide de convertir cette maison d’un étage en une villa de trois étages. Pour construire la villa, il fait venir des ouvriers palestiniens des camps de réfugiés et des pierres des montagnes d’Hébron. Ce microcosme montre, de façon assez lucide et calme, comment le conflit est construit et comment la société est structurée : il fait entendre la parole de membres de chaque catégorie ou classe sociale – le grand professeur d’économie, les juifs d’Algérie, les Palestiniens. Le film a été censuré par la télévision israélienne qui l’avait commandé. Il n’a pas été diffusé. Cet événement a joué un rôle important dans le fait que je suis devenu cinéaste. J’aurais pu rester architecte, mais comme j’ai décidé de défendre le film, je suis devenu cinéaste.
La casa si presenta come un teatro, una scena, come scriveva Serge Daney il primo marzo del 1982 su “Libération” recensendo il film:
Gitai veut que cette maison soit à la fois un symbole et quelque chose de très concret ; il veut qu’elle devienne un personnage à part entière. Il réussit l’une des plus belles choses qu’une caméra puisse enregistrer “ en direct ”, pour ainsi dire : des personnes qui regardent la même chose mais y voient des choses différentes – et qui sont émues par cette vision. Dans cette maison en ruine, de véritables hallucinations commencent à prendre forme. L’idée centrale du film est simple et le film possède simplement la force de cette idée, ni plus, ni moins (Daney 1982).
II.2
Un palinsesto di pietra e muri si offre agli occhi dello spettatore, un palinsesto di vite e fantasmi, un palinsesto di voci. Nella lingua ebraica, come in sanscrito e in greco antico, diversi termini definiscono i muri domestici differenziandoli da quelli dei recinti, delle fortezze, della città murata; nella lingua araba questa differenza è meno netta. Nelle immagini del lavoro dei tagliatori di Hebron, già presentate nella lezione inaugurale, e riproposte il martedì 23 ottobre, si traccia tuttavia qualcosa di non immediatamente leggibile: la pietra come strumento ideologico, il rivestimento delle case di Gerusalemme in pietra codificato da interventi di decoro urbano, da azioni di pianificazione del gusto e del progetto nel segno vernacolare dell’origine. La pietra diventa un dispositivo, un indice qui contrapposto al modernismo dell’architettura israeliana del primo dopoguerra, al razionalismo, all’uso del calcestruzzo e del cemento di architetti come Munio Weinraub Gitai, il padre del regista. Se l’architettura come strumento di controllo spaziale e militare è oggetto di una vasta letteratura, l’uso del decoro come strumento di addomesticamento visivo e rielaborazione della storia è più sottile, diversamente pervasivo. Una battaglia di materiali, tra memoria e ideologia. Dopo l’Intifada, tuttavia, guerriglia di pietre versus armi automatiche, le questioni acquistano una diversa rilevanza. Mentre i muri rivestiti di pietra generano dibattiti, l’uso militare dei muri di contenimento e definizione dello spazio e dei percorsi produce effetti traumatici e tragici. Se infatti i muri spaziano il territorio di Gerusalemme e dei territori occupati, producendo avventure di tragitti dove il filo di Arianna dei percorsi di vita si fa labirintico, e il minotauro si incarna nei corpi addestrati dei tecno-guerrieri dell’Idf, l’identità diventa sempre più una nuvola di dati. L’algoritmo identitario, calcolato etnicamente, controllabile e scrutinabile dal satellite, diventa la via di uscita o di ingresso nelle porzioni dei territori. L’altissima risoluzione satellitare dei pixel, la cui definizione risiede nelle mani del complesso militare industriale di Israele, il tecno-controllo quasi granulare del territorio rilevato dai satelliti, produce l’eventuale riconoscimento di un diritto, o la potenza dell’interdetto (Weizman 2017, 34-48). Sul terreno poi, ben prima dei droni, le azioni e situazioni sono dettate dallo stress ordinario della differenza di ruoli e potere, della realtà dei rapporti servo-padrone, su terre divenute un enorme campo di controllo di massa etnicamente orientato.
II.3
Il lavoro di House, di questo trittico di Gitai, è un lavoro di scavo di storie, di ricerca di voci capaci di narrarle. Ritornando nel corso della lezione sulla forma di questo film, Gitai osserva come la retorica identitaria sia un elemento fondante e tuttavia deviante del suo paese. La destoricizzazione della presenza palestinese, la riduzione del paesaggio agricolo a velo di terra che occulta il passato glorioso di pietra e civiltà delle tribù e dei regni di Abramo, sono i tratti di un discorso ideologico capace di produrre senso comune. Le parole del cavatore di pietra raccontano, in forma umile, la storia sperimentale della distruzione di case familiari e terreni come arma di confinamento di massa, le cui radici possono certo essere ritrovate nella violenza antica degli eventi biblici e nella successiva storia romana, ma che negli anni recenti, dalla guerra del 1967 in avanti, assumono le forme di bulldozer e macchine di demolizione, o di notifiche di espropriazione. Gitai osserva come la lingua semplice del tagliatore di pietra palestinese sia ricca e raffinata almeno quanto quella dell’economista consigliere della Banca d’Israele: il rancore dell’occupazione, la coscienza di lavorare in un quartiere arabo, nella casa che un tempo fu del medico Dejani, la necessità del lavoro come strumento di sopravvivenza sono la trama delle sue risposte. E la visita del dr. Dejani, a quella che fu la sua casa, nel finale del film del 1980, tratteggia, nel dialogo col regista con la camera, la natura storica del disincanto arabo palestinese, la sconfitta storica della sua borghesia: la dissoluzione del quartiere arabo e la formazione di un quartiere dell’alta borghesia israeliana, che acquista e ristruttura le case prima assegnate agli immigrati ebrei degli anni Sessanta, si manifestano come l’emergenza di un processo storico puntuale. Dejani vede con chiarezza come le pratiche politiche di espulsione dalla città della presenza araba nella cornice di leggi urbanistiche e fiscali che agiscono in questo senso disegnino un futuro misero per la minoranza palestinese: un futuro iscritto negli atti giuridici e non soltanto nelle forme più esplicite di violenza territoriale, nell’abuso da parte di esercito e poliziotti di forme asfissianti di controllo. Il diritto certifica soltanto rapporti di forza: la violenza spaziale insita negli atti di trascrizione di proprietà, nel conferimento delle licenze di fabbricazione inversamente proporzionali ai bisogni demografici dei due popoli. La coppia di ebrei algerini dislocati in periferia, il lavoro degli operai dei campi profughi, la trasformazione in villa a più piani della casa originale appartenuta per secoli alla famiglia Dejani, prima della confisca, disegna la storia di un processo economico. Il coro di sommersi e salvati pronuncia i propri lamenti o avvista un auspicato futuro: sulla scacchiera le pedine si muovono secondo leggi e regole che assumono, di volta in volta, la forma del dominio politico, economico, etnico. La vita degli abitanti, come quella dei lavoratori, è una condizione accessoria, i diritti diventano una forma tattica, addirittura strategica, di controllo. La stessa legge sui proprietari assenti sembra il frutto paradossale, una perversione della lettura de Il processo di Kafka, le cui vittime diventano gli abitanti non ebrei di Palestina.
II.4
Dopo la visione del film originario del 1980, il primo nucleo del trittico, Gitai racconta con A House in Jerusalem il suo ritorno nel 1998 alla casa, la scelta di osservare in “forma orizzontale e verticale”, usando la sua espressione, quel luogo e filmarlo. Il fuoco muta: Gerusalemme diventa lo spazio da indagare, la condizione araba è mutata dopo dieci anni di Intifada, i palestinesi sono privi di qualunque documento formale di cittadinanza, apolidi nella terra di nascita. I quartieri si modificano, la città storica è attraversata dalla presenza di nuovi flussi migratori provenienti dalla dissoluzione del blocco sovietico. Nella lezione al Collège nessun estratto del film è presente, perché è il terzo capitolo (News from Home/News from House, 2005) della trilogia che prende il sopravvento, filmato un quarto di secolo dopo, a venticinque anni di distanza. La scena commentata da Gitai ci fa ritrovare, invecchiato, il tagliatore di pietre, filmato nella sua modesta abitazione. L’uomo racconta poeticamente gli anni trascorsi, si offre alla camera, riporta alla mente, nelle sue parole, il suo corpo al lavoro coperto di polvere, si scopre il capo, descrive la vita dei campi e la confronta alla dura realtà della disoccupazione, alle terre confiscate, a chi ha perduto tutto, e tuttavia sopravvive. Sin dalle prime inquadrature della versione del 2005 il progetto di Gitai è enunciato dalla sua stessa voce: seguire le vite dei suoi protagonisti, scoprire la diaspora palestinese fatta di migrazioni oltre oceano e nei paesi vicini, scoprire la diaspora dei migranti israeliani degli anni Sessanta i cui figli si sono trasferiti in Europa o negli Stati Uniti. Il cinema documentario si produce così come un delicato scavo archeologico: il sito da esplorare è l’umano delle vite, gli strati delle esistenze che si intrecciano o si riducono a sottilissime tracce, resti di memoria da elicitare nel dialogo. Mentre il cinema di finzione si apparenta al gesto architettonico, muovendo dalla narrativa da costruire – dal montaggio come pratica del progetto, dal linguaggio come ingaggio formale con lo spazio e coi corpi degli interpreti – il documentario asseconda i luoghi e gli incontri, assume i viventi come terreno e lo scavo come cura. Il viaggio ad Amman presso i Dejani segna profondamente il film stesso: confrontarsi coi sopravvissuti di una famiglia vissuta settecento anni a Gerusalemme significa vivere, nell’incontro, la diaspora incarnata di un popolo, confrontarsi con la questione delle migrazioni planetarie di cui la fotografia, cinema e i film sono, a ben vedere sin dalle origini, testimoni, di cui i conflitti e le guerre sono agenti catalizzatori, come raccontavano già gli Archives de la planète di Albert Kahn, di cui il cinema e i film sono, a ben vedere sin dalle origini, testimoni. L’etnocentrismo israeliano diventa così visibile: le ragioni dell’identità si confondono e assumono la forma drammatica del nazionalismo su base etnica, dei nazionalismi che tragicamente hanno alimentato il Novecento europeo e che ritornano oggi in forma – per un verso – nuova, alimentati dalle polarizzazioni tecno-mediali, peraltro riprendendo schemi ideologici e geo-identitari del secolo trascorso. Il sangue e la terra sono messi a valore, mentre la linea del colore e la differenza religiosa, generano, attraverso leggi, nuovi protocolli di esclusione.

Fotogramma da Amos Gitai, News from Home/News from House, 2005.
II.5
Nel settembre 2018 la Mostra cinematografica di Venezia presenta, fuori concorso, due film di Amos Gitai, A Tramway in Jerusalem, e Letter to a Friend in Gaza. Il secondo film, ancora un cortometraggio, è brevemente citato nella lezione parigina del 23 ottobre, così come Field Diary, del 1982. In entrambi i film Gaza è traccia e segno, paesaggio e coscienza. Nel film del 1982 Gitai viaggia lungo la striscia di Gaza fino a Ramallah per poi avventurarsi nel sud del Libano appena prima dell’attacco di Israele. Il denso caos dei territori occupati è filmato in cinquanta piani sequenza, con una 16mm, nella forma apparente di cinema-verità. Militari occupanti, palestinesi dei territori, sono prigionieri dei rispettivi ruoli, meglio delle posizioni in quella terra, delle vite imprigionate nella militarizzazione del tempo e dello spazio, nella militarizzazione di pensieri, atti, linguaggio. Diario di campo, gesto di antropologia visuale, in un certo senso, il film restituisce il tempo del conflitto, il conflitto tra i tempi di vita di quelle aree. I palestinesi guardano in macchina mentre i soldati sfuggono la cinepresa quando possibile. Il contatto visivo è complesso, il paesaggio è filmato dall’auto, in un road movie di atmosfere, dove scorrono lacerti di cielo e arbusti, colline, segni di culture e colture agricole. Il film è un diario situato: l’azione filmata ci indirizza verso punti di spazi, dove chi controlla e chi è controllato disegnano un reticolo di micro-eventi, dove il disegno viene evidenziato dalla giustapposizione visiva di interviste e pause ambientali; dove i gesti dei militari codificano la forza, al limite della violenza, mentre i civili raccontano piuttosto l’impotenza. Il film compone e scompone questa dinamica, mostra e interroga nel viaggio uno spazio talvolta liscio, in termini deleuziani, e tuttavia striato dal reticolo dei posti di blocco, ancora lontano dalla striatura digitale dello spazio israeliano contemporaneo. Il film, questo film, censurato per anni in quel paese, sarà viatico della futura permanenza parigina, dell’autoesilio necessario di Gitai. Nel 2017 Gitai ritornerà nei territori occupati filmando le associazioni che lavorano per una convivenza civile tra ebrei e palestinesi, documentando le criticità crescenti e irrisolte dell’occupazione stessa. Ancora una volta l’azione civile del filmare assume la scena come forma di dialogo: l’incontro con un gruppo di donne, le attiviste di B’Tselem, che educano altre donne palestinesi all’uso del video come testimonianza e autodifesa dai possibili crimini degli occupanti, restituisce una precisa volontà di contro-appropriazione del linguaggio filmico come atto di misura invece che propaganda, una rosselliniana e godardiana lezione delle cose. Nessuno è angelico, né la posizione di Gitai si manifesta come semplicemente irenica: denuncia le contraddizioni, lavora alla messa in luce di queste, lavora perché il cinema produca memoria buona, consapevole che nel flusso delle immagini di rete, come accadrà dopo il 7 ottobre, nell’orrore delle immagini dei massacri nei kibbutz, la moneta cattiva scaccia la buona. Quanto distingue un film dalle immagini di flusso è l’idea stessa di una possibile forma, la storia di un tentativo di linguaggio di farsi forma, al di qua della norma: perché è la forma stessa a manifestarsi in quanto traccia di un piccolo logos assolto, in forma di racconto, sulla scena del logos dissolto delle epifanie continue delle immagini sulla rete. Se il Talmud afferma che “Dio conta le lacrime delle donne”, dalle donne che hanno avuto la forza e la necessità di piangere forse può generarsi uno sguardo futuro possibile, dal flou inevitabile delle lacrime capace di accomodare e accostare una risoluzione diversa delle cose-mondo, delle case dove si comincia a far mondo.
II.6

Muro di divisione tra Israele e Cisgiordania, fotografia di Jacopo Galli.
Sono i versi di Mahmoud Darwish a segnare l’incipit di Letter to a friend in Gaza, un film del 2018, scritto e ideato ben prima del 7 ottobre e della successiva distruzione della striscia. Darwish, bambino palestinese di sette anni, aveva vissuto la distruzione del suo villaggio nel 1948, ed era fuggito in Libano con la sua famiglia per rientrare l’anno seguente: senza patria né nazione Darwish era un alieno nella sua terra, un poeta civile e un politico che avrebbe redatto la dichiarazione d’indipendenza dello stato palestinese nel 1988. Gitai ci consegna, nell’esordio del film, l’inquadratura del muro divisorio di Gerusalemme in un piano sequenza di avvicinamento, per puntare poi l’obiettivo sul muro stesso cercando, senza riuscirci, di scalarlo, di andare verso il cielo delle nuvole che abbeverano, come recitano i versi del poeta palestinese. I testi convocati restituiscono, diversamente, la testimonianza tragica della parola, la coscienza come linguaggio, il tentativo di nominare i fatti e le cose, di avvisare l’altro offrendo non parole di salvezza ma aggettivi di consapevolezza, i verbi necessari per sfidare l’acquiescenza, la passività, per snidare persino il dolore delle storie di ciascuno nel flusso di quella Storia che si fa carne nel lembo di terra più guerreggiato del pianeta. Quel lembo dove i grandi monoteismi sembrano impotenti dinanzi al mondo dei fatti e dei simboli continuamente traditi, sovvertiti. Gitai affida ad attori e attrici palestinesi e israeliani il dovere della voce: i testi si fanno corpi, i libri, i frammenti, sono lo sguardo, la modulazione di un respiro, la pausa che incarna il punto o la virgola. Affida alla parola il destino politico del dire, il dover risuonare di essa nello spazio delle comunità, nell’aperto del dibattito, nello spazio incomprimibile dell’aria che si respira.
‘Come avete potuto?’ Questa è la domanda evocata da Amira Hass, attivista, giornalista, scrittrice, arrestata perché la legge di Israele non consente di vivere in un paese nemico, ovvero la striscia di Gaza. Le parole della Hass sono una disperata ma necessaria perorazione:
Sprofondiamo nella scelta di andare con il gregge, malvagia e gradevole di per sé? Quale abisso dobbiamo raggiungere prima che i giovani restino scioccati dalle azioni dei genitori e dei nonni e smettano di imitarli, un’emulazione che è anche un miglioramento in qualche modo. Concediamoci un minuto di ottimismo e immaginiamo che questa domanda venga posta prima che sia troppo tardi.
“Come avete potuto?” la stessa domanda risuonerà in una sequenza di Shikun 2024 di Gitai, recitata dalla figlia del regista, nel garage di un claustrofobico condominio, dove il paese intero sembra collassare tra corridoi attraversati da ebrei ortodossi e strane presenze mutanti, mentre l’esterno si fa minaccioso, e nuovi insediamenti sembrano manifestarsi nei discorsi di speculatori, in un film concepito prima del 7 ottobre. Letter to my friend assume davvero la parola, la possibilità e il dovere della verità come testimonianza: Gitai stesso, in scena, nell’anti-finale, prima della sequenza di fotografie dai territori, legge Camus, cui il film, già nel titolo è evidentemente ispirato, legge un frammento di un testo scritto nel 1943 da un francese e rivolto a un corrispondente tedesco, per riannodare i fili di una possibile convivenza dopo la guerra:
Rivedo ora il suo sorriso. Lei ha sempre diffidato delle parole. Anch’io, ma diffidavo ancor più di me stesso. Lei tentava di spingermi sulla via sulla quale ormai si era impegnato e dove l’intelligenza ha vergogna dell’intelligenza. Perciò fin da allora non ero d’accordo con lei. Ma oggi le mie risposte sarebbero più decise. Che cos’è la verità, mi diceva? D’accordo, ma noi almeno sappiamo cos’è la menzogna: è precisamente quello che voi ci avete insegnato. Cos’è lo spirito? Conosciamo il suo contrario, ed è l’assassinio. Cos’è l’uomo? Ma qui la fermo, perché noi lo sappiamo. È questa forza che finisce sempre per scuotere i tiranni e gli dei. È la forza dell’evidenza. L’evidenza umana è proprio ciò che dobbiamo proteggere e la nostra sicurezza, adesso, sorge dal fatto che il suo destino e quello del nostro paese sono legati l’un l’altro. Se nulla avesse un senso, voi sareste nel vero. Ma esiste pure qualcosa che conserva un senso.
II.7

Dall’omonimo adattamento teatrale della trilogia di House, regia di Amos Gitai, House, 2024/2025.
Home, ruins, memory, future è il titolo dell’installazione multimediale che Amos Gitai realizza per la Biennale Architettura 2023. L’installazione riprende e spazializza la trilogia di House. Nelle sale dell’Arsenale, il carico politico ed emotivo del progetto narrativo si fa luogo mentre, negli stessi mesi, House diventa un lavoro teatrale presentato nei maggiori teatri europei. Se il film rivendicava la presenza e la voce del regista, se nel film la forma intervista inscenava comunque l’istanza del dialogo, il lavoro teatrale si articola come una sequenza di presa di parola, di monologhi tesi, volti a segnare lo spazio della memoria come forma di un luogo, la casa come àncora e traccia mnestica. Nello spazio della Biennale Architettura 2023 il cui titolo era The Laboratory of the Future, House si squadernava su pareti di proiezioni, diventando un bozzolo multimediale volto a generare la sovrimpressione di tempi e spazi, di layer e storie, mentre una serie di foto scattate nel 2023 registrava ulteriormente un altro stato della casa reale della trilogia. La vita di House si metamorfizza così come oggetto multimediale, attraversa quarant’anni di vita di Israele e dell’autore, si disloca nel farsi esibizione, si ricolloca negli spazi del teatro, tracciando e trasportando la proiezione fisica delle immagini, la proiezione culturale e politica della sua storia – la rimozione del film in Israele, la censura televisiva di cui queste immagini sono state oggetto. L’installazione vive il suo tempo nella cadenza della Biennale Architettura nella cifra di un titolo, la cui economia produce uno slittamento di senso ulteriore nella storia del film. House diventa home, ruins e future si accoppiano, quasi benjaminiamente, come se Israele si incarnasse nell’angelo della storia per contemplare un paesaggio di rovine – le sue rovine – trascinato, spalle al futuro, verso un incerto avvenire. House a teatro, invece, si incarna nuovamente in corpi viventi, si fa ground nell’azione degli attori e delle attrici, diventa memoria viva nel gesto di chi racconta e raccoglie le molteplici voci e le molteplici storie che i muri di qualunque casa accolgono. Il viaggio ubiquitario dello spettatore cinematografico accosta qui l’idea stessa del luogo: lo spazio è il vissuto di chi è stato abitante interprete di quella casa, ma anche di quanti vi hanno lavorato, di chi ne ha incontrato la memoria attraverso i congiunti e i conoscenti. Il teatro di House è il teatro della convivenza, della compresenza di sguardi e voci che prendono la parola e si fanno campo, espressione, azione. Come vivere oggi in Medioriente? Ecco la domanda. Come vivere il tempo che ci è dato dinanzi a ciò che vediamo e viviamo? Come vivere infine, la propria geo-grafia e la propria bio-grafia?

Amos Gitai, Home, ruins, memory, future, Arsenale, Biennale Architettura, Venezia 2023.
III. Minima muraria, maxima muraria
III.1
Allora non si trovava un fabbro in tutto il paese d’Israele: “Perché – dicevano i Filistei - gli Ebrei non fabbrichino spade o lance”.
Così gli Israeliti dovevano sempre scendere dai Filistei per affilare chi il vomere, chi la zappa, chi la scure o la falce.
L’affilatura costava due terzi di siclo per i vomeri e le zappe e un terzo l’affilatura delle scuri e dei pungoli.
1 Samuele 13:19-21
Nella terra di Canaan, tra Gaza e Tel Aviv, i Filistei giunsero nel 1200 a.C., secondo il calendario gregoriano. Di origine cretese, rappresentati con elmi e scudi achei, guerreggiarono con le popolazioni israelite sfruttando la superiorità metallurgica che li rendeva capaci di produrre armi in ferro oltre che in bronzo. Seppur successivamente sconfitti dalle popolazioni israelitiche, dominarono la costa fondando città e unendosi ai Cananei, di cui adottarono il pantheon. Tra gli dei Cananei, Baal, il Signore della Soglia, divenne, grazie a uno sprezzante gioco di parole ebraico, Ba’al Zebul, il signore delle mosche, il futuro Belzebù.
Le armi e il demonico sembrano così attestarsi nelle aree costiere di Palestina: nulla di profetico, piuttosto l’evidenza di una memoria storica, di radici capaci di generare mitologie e mitografie possibili, forme del romanzesco. A partire dagli inferi e dai mondi ctoni, dal sottosuolo. Quasi a conclusione di Hollow Land, nel 2007 Weizman dedicava illuminanti osservazioni sulla guerra nel sottosuolo. Nella rioccupazione di Gaza del 2006 la rappresaglia asimmetrica segnava già quel conflitto in modi radicali. All’uccisione di un soldato israeliano l’Idf aveva risposto con l’uccisione di 500 palestinesi di cui 88 minori, il ferimento di 2700 civili, la distruzione di infrastrutture civili e abitazioni residenziali per un valore di decine di milioni di dollari. La logica dei numeri si presenta come un sistema di dati, la logistica modellizza il bellico, lo plasma. A fronte del controllo dei cieli la guerra del sottosuolo prende corpo, tunnel e depositi crivellano la terra di Gaza nella forma di laboratori per la produzione di armi, ripari di materiale e mezzi, avamposti segreti per il contrattacco. I civili, già nel 2006-7, erano schiacciati tra il cielo dell’aviazione israeliana, e il cavo del mondo di sotto di Hamas, il mondo degli inferi nel quadro del conflitto, dal punto di vista di Israele. La guerra asimmetrica, seppur corroborata da mezzi di indagine elettronica sempre più sofisticata, dalla capacità israeliana di usare satelliti ad alta risoluzione e immagini termografiche avvista ancora il suo punto cieco nel sottosuolo infrastrutturato, nell’incapacità di colpire dall’aria pozzi profondi e protetti, come gli attacchi recenti ai laboratori di sviluppo per le armi atomiche iraniane hanno mostrato. Davide sembra così aver assunto la forma di un eroe ctonio, corsaro del sottosuolo, guerriero del rizoma, nelle forme, come il 7 ottobre drammaticamente configura, delle violenze dei film della serie di Mad Max. Ma qui non si tratta di una guerra di immagini e immaginari, che certo contribuiscono alle definizione del campo, ma si tratta di una questione storica di convivenza tra popoli e religioni, sistemi di interesse territoriale. Qui si incontra l’idea di una guerra permanente, a relativamente bassa risoluzione, come diversione dalla politica e dalla demografia, dalla sopravvivenza possibile in un lembo di terra, non particolarmente ricca di risorse, se non di milioni di umani. Come avvertiva Weizman nel testo citato, a proposito di quanto era accaduto nel 2006, se in termini militari gli scavatori di Gaza potevano aver sconfitto i costruttori di mura e i controllori dei cieli, la sottile crosta di terra dove i civili vivevano si andava facendo sempre più pericolosamente sottile, vulnerabile. Non era una profezia, ma un’analisi. Riconfermata dalle ricerche di Forensic Architecture sulla guerra di Gaza del 2014. I fatti di questi ultimi due anni ne sono la verifica ulteriore, la conferma tragicamente indotta dalle premesse, dalle forme stesse dell’asimmetria bellica permanente. Il corpo di Gaza sventrato e illuminato dalle nuvole di esplosioni ha prodotto una nefologia nuova. Lo spettacolo della catastrofe, come mostrano le postazioni di visione sulle colline intorno a Gaza ha attratto coloni intenti a vivere la diretta della morte, della sconfitta, del videogioco live su larga scala e sulla pelle dei viventi. Un nuvolario di morte ha costellato i cieli di Gaza per mesi. I ludi tecnologici si sono celebrati in uno stadio di edifici e macerie, di resti a venire e scheletri di cemento e pilastri, impastati di materiale biologico, di InChi chimici di esplosivi. Il dark tourism conseguente è tuttavia estremo: se Ground Zero si manifestava come specchio della tragedia occidentale tout court, il dark tourism nella striscia ha carattere etnico e razzista ancora più evidente. La marca della disumanizzazione etnica non ha più bisogno di insegne né di numeri di matricola incisi sugli avambracci. Il campo attivo delle tecnologie disponibili e la mediatizzazione polarizzata degli eventi produce terrorismo e assuefazione alla violenza spettacolarizzata, fruita su schermi sicuri e lontani dal teatro degli eventi: il dato è il tratto.
III.2 diaspora–archivio–venezia
Nel novembre del 2023 Amos Gitai, di cui sono amico, mi chiama e mi chiede se posso aver cura della sua installazione Home, ruins, memory, future, se posso trovare un riparo ai materiali di questo progetto-opera. Alla chiusura dell’edizione, il materiale, i pannelli, le foto, diventano un volume, due grandi parallelepipedi, custoditi a San Servolo, a Venezia, dove hanno trovato casa, come memoria, come rovina, come futuro, in attesa di ridiventare presente. Nella voce di Gitai la richiesta premurosa di una casa per questa sua casa di fogli e pannelli aveva un che di gentilmente urgente: come molti ebrei, Amos lascia tracce in diversi luoghi e persino il suo archivio è disseminato nel mondo tra università, musei, istituzioni. L’archivio stesso di Amos si fa diaspora, Venezia ne conserva traccia.
Bibliografia
Riferimenti bibliografici
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Filmografia
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English abstract
Carmelo Marabello, in his contribution, starts from Amos Gitai’s 2018 Collège de France lectures to read them as acts of civic truth-telling in which cinema weaves together biography, memory, and political responsibility. Focusing on the House trilogy (1980-2005), he interprets a single Jerusalem home as a microcosm of Israel/Palestine—marked by confiscation, labor, class, and displacement under legal and border regimes. The long take emerges as a form that generates deleuzian “time-crystals”, bringing biblical prophecy, historical violence, and the present into a shared temporal field, later extended through Gitai’s installations and theatrical works.
keywords | Amos Gitai; House; A House in Jerusalem; News from Home/News from House; Home, ruins, memory, future; Collège de France; Biennale Architettura.
questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e all’international advisory board della rivista
Per citare questo articolo / To cite this article: C. Marabello, Case, rovine, memoria, futuro. Oracoli dal libro di Amos, oracoli dai film di Gitai, oracoli su Gaza, “La Rivista di Engramma” n. 230, Natale 2025.