"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

230 | Natale 2025

97888948401

Non pianta, non prospetto, né alzato

Il gruppo di ricerca Iuav per UNDP per Gaza

Jacopo Galli, Andrea Fantin, Elisa Vendemini*

English abstract

Il 9 ottobre 2023 l’esercito israeliano (IDF) avvia una massiccia operazione militare nella Striscia di Gaza a seguito degli attentati terroristici compiuti da Hamas due giorni prima. Da allora il conflitto prosegue senza sosta, salvo brevi tregue: la prima dal 24 novembre al 1º dicembre 2023, la seconda dal 19 gennaio al 17 marzo 2025, fino all’ultimo, fragile e traballante cessate il fuoco in vigore dal 10 ottobre 2025. In questi 732 giorni la Striscia ha subito distruzioni difficilmente descrivibili in termini concreti, parafrasando il titolo di uno dei pochissimi reportage indipendenti da Gaza (Filiu 2025): nulla può preparare alla comprensione del livello di devastazione. Occorre nondimeno provare a costruire una raccolta sintetica e organizzata della gigantesca e incessante mole di dati che proviene dalla Striscia, cercando di orientarsi tra operazioni propagandistiche e inevitabili imprecisioni, come punto di partenza imprescindibile per ogni operazione progettuale. Il primo paragrafo, I dati di partenza, oltre ogni complessità, cerca di costruire un quadro conoscitivo condivisibile. La possibilità di progettare in un contesto come Gaza passa necessariamente dalla costruzione di una rete di interlocutori con cui instaurare dialoghi continuativi, che rendano esplicite le finalità delle operazioni e garantiscano un rapporto con la dimensione locale nell’individuazione dei fini e degli strumenti. Il secondo paragrafo, Il sistema di rapporti, la rete operativa, individua gli attori in campo e situa le operazioni progettuali e di ricerca all’interno di un sistema ampio di dialoghi. Una volta identificate le istituzioni coinvolte diventa possibile avviare una riflessione sulle forme di progettualità necessarie al confronto con una condizione in continua e incessante modifica, abbandonando ogni forma di progetto statico a favore di sistemi dinamici e sensibili, alla ricerca di un equilibrio da rinegoziare costantemente. La progettazione di strumenti capaci di governare l’incertezza del processo è imprescindibile, perché consente agli operatori di formulare risposte immediate, consapevoli e adeguatamente informate. Il terzo paragrafo, Il progetto: processo, strumento, innesco, ripercorre il cammino di ricerca affrontato nel progressivo affinamento delle ipotesi e nell’adattamento continuo alle condizioni a contorno.

Ricercare e progettare in un contesto come la Striscia di Gaza significa confrontarsi costantemente con limiti operativi, etici e congiunturali. È uno sforzo che implica una costante ridefinizione delle applicazioni operative in relazione ai repentini mutamenti del quadro locale, regionale e internazionale. Occorre perciò integrare progressivamente nuovi elementi di analisi, rispondere con tempestività alle contingenze e rivedere quotidianamente gli avanzamenti alla luce di un continuo aggiornamento delle basi dati e di una verifica critica permanente dell’efficacia delle azioni intraprese. La conclusione, Mettere in campo i limiti, espone e analizza i punti di debolezza e le contraddizioni insite nell’operato progettuale rendendoli parte integrante della ricerca.

I dati di partenza, oltre ogni complessità

Districarsi tra i numeri provenienti da Gaza è operazione ai limiti dell’impossibilità,: il primo lugubre numero da cui far partire ogni forma di ragionamento è purtroppo quello dei morti e dei feriti, misura di sofferenza collettiva. I dati del Gaza Health Ministry, confermati da diverse istituzioni internazionali (Huynh et al. 2024), aggiornati a ottobre del 2025 parlano di 69.236 Palestinesi uccisi,; uno studio indipendente condotto tramite un modello denominato Gaza Mortality Survey ha stimato 75.200 morti violente al gennaio del 2025 tra cui il 56,2% di donne, bambini o anziani, sono state anche stimate 8.540 morti non violente in eccesso, calcolate come aumento del numero di decessi rispetto alla mortalità normalmente prevista (Spagat et al. 2025, Fieldhouse 2025). La World Health Organization (WHO) calcola 42.000 feriti con danni permanenti su un totale di 167.376 feriti; più di 5.000 persone hanno subito amputazioni, 22.000 ferite gravi agli arti, 2.000 alla spina dorsale, 1.300 danni cerebrali e 3.300 ustioni gravi (WHO 2025a). Secondo l’Integrated Food Security Phase Classification ad agosto 2025 più di 500.000 persone erano in condizioni catastrofiche caratterizzate da fame, miseria e morte, 1.070.000 erano in emergenza e 396.000 in crisi, per una percentuale del 99% della popolazione totale (IPC 2025). Il peggioramento delle condizioni di vita ha portato a un aumento esponenziale di malattie: i casi di diarrea acquosa acuta sono aumentati di 36 volte, la diarrea sanguinolenta di 24 volte e la sindrome da ittero acuto di 384 volte (Paris et al. 2025). L’impatto sulla salute mentale sarà pienamente comprensibile solo nel lungo periodo ma recenti studi del WHO indicano alti tassi di prevalenza del disturbo da stress post-traumatico (PTSD) (54% nei bambini e 40% negli adulti), depressione (41% nei bambini e 45% negli adulti) e ansia (34% nei bambini e 37% negli adulti) (Aqtam 2025; WHO 2024).

Stimare le distruzioni del patrimonio urbano è uno dei compiti più tecnicamente sfidanti,: gli studi attuali, seppur con variazioni minime, testimoniano un livello di distruzione di cui è difficile individuare precedenti storici (Galli 2025). L’interpretazione dei dati satellitari portata avanti da United Nations Satellite Centre (UNOSAT), aggiornati all’ottobre del 2025, dice che l’81% delle strutture sono danneggiate, 123.464 distrutte, 17.116 severamente danneggiate, 33.857 moderatamente danneggiate su un totale di 198.273 strutture con 61.500.000 tonnellate di macerie (UNOSAT 2025). L’analisi delle immagini satellitari SkySat portata avanti tramite intelligenza artificiale da United Nations Development Programme (UNDP) in partnership con Microsoft e Planet Labs nello stesso periodo, parlano del 76% delle strutture danneggiate, 219.000 distrutte, 15.100 severamente danneggiate, 9.400 moderatamente danneggiate su un totale di 260.072 strutture con 66.300.000 tonnellate di macerie (UNDP 2025). Scendendo alla grana più fine secondo WHO con aggiornamento a novembre 2025,18 dei 36 ospedali, 10 dei 16 ospedali da campo, 22 dei 50 centri per ambulanze e 109 dei 348 punti medici sono funzionanti (WHO 2025b). United Nations International Children’s Emergency Fund (UNICEF) riporta che il 97% delle scuole sono state danneggiate o distrutte, 658.000 bambini in età scolare hanno perso due anni di studi e sono definiti come una “generazione perduta” (UNICEF 2025; UN 2024). Nei primi cento giorni di guerra tutte le 12 università hanno interrotto le loro attività, sono stati distrutti 60 edifici universitari, molti tramite demolizioni controllate, e 12 biblioteche incluso l’archivio centrale di Gaza City (LAP 2024). Per quanto riguarda il patrimonio culturale United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization (UNESCO) ha aggiornato all’ottobre 2025 una lista di 114 siti danneggiati: 13 siti religiosi, 81 edifici di interesse storico-artistico, 3 depositi di beni culturali, 9 monumenti, 1 museo e 7 siti archeologici (UNESCO 2025).

1 | Serie storica delle distruzioni per tasselli di dimensione 1250m x 1250m in aree selezionate a North Gaza, Gaza City, Khan Younis e Rafah; per ogni area sono rappresentate, in rosso, le distruzioni in sei intervalli di tempo (15/10/2023, 26/11/2023, 01/04/2024, 06/09/2024, 04/04/2025, 11/10/2025). Il risultato complessivo rende evidente l’aumento continuo delle distruzioni correlato allo sviluppo delle operazioni militari israeliane.

L’impatto ambientale della guerra è un aspetto meno studiato (UNEP 2025) ma le cui conseguenze di breve e lungo periodo potrebbero essere devastanti per ogni serio tentativo di ricostruzione. Anche prima del conflitto le risorse idriche della Striscia erano insufficienti: la produzione totale di acqua per uso domestico era pari a 141,1 litri pro capite/giorno (il minimo fissato da WHO è 150), l’acqua risultava inoltre altamente contaminata, il 97% non raggiungeva gli standard minimi di potabilità (Shomar&Rovira 2023). La guerra ha radicalmente peggiorato la situazione danneggiando tutti i dispositivi di produzione e trattamento delle acque: 130 delle 214 strutture per la desalinizzazione sono distrutte (WASH 2025), 45 dei 54 serbatoi di stoccaggio e impianti di pompaggio non sono più attivi, 15 delle 28 lagune di raccolta delle acque piovane sono in aree inaccessibili (Abdullah et al. 2025) e la stima della distruzione dell’infrastruttura fognaria è del 65% (UNOSAT 2025). La stima dell’attuale fornitura di acqua è di 60 litri pro capite/giorno, con la seria probabilità che la fornitura effettiva sia ancora inferiore. Per quanto riguarda il settore agricolo United Nations Environment Programme (UNEP), con aggiornamento a maggio 2025, riporta che il 97,1% delle colture arboree, 82,4% delle colture annuali, 95,1% degli arbusti e 89% dei terreni incolti sono danneggiati. I dati UNOSAT dell’agosto 2025 mostrano che solo l'8,6% dei terreni coltivabili nella Striscia è ancora accessibile mentre il 12,4% dei terreni non danneggiati è attualmente inaccessibile (Pearce 2025; Abuawad et al. 2025; Hassoun et al. 2025). La capacità di pesca della popolazione si sono è ridottea del 97% e delle 1.500 barche registrate ne rimangono attive solo 47 (FAO 2024). Dall’ottobre del 2023 le due discariche presenti non sono più accessibili, portando alla formazione di 200 discariche informali senza alcuna sigillatura né controllo sanitario e di 12 discariche temporanee con capacità limitata e già oggi al collasso (UNDP PAPP 2024a).

A oggi, i confini stessi della Striscia non sono chiari: la somma delle aree sottoposte a ordini di evacuazione e con ingresso limitato ha raggiunto nell’aprile del 2025 il 70% dell’intera superficie (UNOCHA 2025a; b; c) mentre la yellow line, individuata nell’accordo per il cessate il fuoco e in continuo mutamento sul campo, impedisce il ritorno degli sfollati nel 58% del territorio (Gisha 2025). A partire dal 2015 l’esercito israeliano ha implementato una buffer zone di 300 metri dal confine militarizzato tramite recinzioni, definendo un territorio ad accesso ristretto di 152.845 chilometri quadrati, il 41,8% del totale. L’evoluzione di tale area è oggetto di discussione negli accordi di pace,: lo stato attuale delle bozze prevede l’estensione della buffer zone a 700 metri lungo i confini nord e est, tra i 390 e i 1.000 metri lungo il confine con l’Egitto e il Philadelphi Corridor e a 1.100 metri in cinque punti di ingresso definiti; in totale l’area espansa corrisponde a 61,95 chilometri quadrati, il 17% della superficie totale (Gisha 2025b). L’ultima analisi, necessaria quanto gravosa, è la quantificazione economica dei danni riportati: la World Bank (WB) a febbraio del 2025 quantifica i danni alle infrastrutture fisiche in 29,9 miliardi di dollari e le perdite economiche e sociali causati dal conflitto in 19,1 miliardi di dollari, portando gli effetti totali stimati a 49 miliardi di dollari. In termini di danni fisici, l'edilizia abitativa è stato il settore più colpito, con 15,8 miliardi di dollari (53% dei danni totali), seguito da commercio e industria con 5,9 miliardi di dollari (20%), trasporti con 2,5 miliardi di dollari (8%) e servizi igienico-sanitari con 1,53 miliardi di dollari (5%). La valutazione stima circa 19,1 miliardi di dollari di perdite economiche e sociali subite a causa del conflitto. I settori con le perdite stimate più elevate sono la sanità con 6,3 miliardi di dollari, l’istruzione con 3,2 miliardi di dollari, il commercio e l’industria con 2,2 miliardi di dollari, la protezione sociale con 1,4 miliardi di dollari e l’agricoltura e i sistemi alimentari con 1,3 miliardi di dollari (WB 2025).

Gaza si è trasformata in un luogo dove non è possibile definire qualsiasi forma di realtà: l’esperienza locale non ha gradi di realistica comunicabilità all’esterno e l’incessante flusso di informazioni che giunge sugli schermi di tutto il mondo non riesce minimamente a descrivere il livello di disumanizzazione subito da un popolo inerme massacrato in una gabbia urbana dove si sovrappongono la violenza indiscriminata dell’IDF e l’uso spregiudicato dei civili di Hamas. Ogni forma di progetto in queste condizioni sembra impossibile.

Il sistema di rapporti, la rete operativa

Urbicide Task Force (UTF) dell’Università Iuav di Venezia, formalmente istituito come centro studi nel 2025, porta avanti ricerche e progetti nel campo della ricostruzione da più di dieci anni. La conoscenza di un collega siriano, Wesam Al Asali, porta all’organizzazione della conferenza Urbicide Syria tenutasi a Palazzo Badoer a Venezia il 7 e 8 aprile 2016. La fase istruttoria della conferenza mostra immediatamente un’enorme mancanza tanto nella ricerca storiografica rispetto al tema della distruzione, con particolare focus sulle sconvolgenti conseguenze urbane della guerra, quanto nella formulazione di proposte progettuali per la ricostruzione. Se W.G. Sebald con il seminale Luftkrieg und Literatur (Sebald 1999) aveva portato alla luce la scomparsa del tema della distruzione nel dibattito culturale postbellico tedesco, vedendola come argine a un senso di colpa collettivo o Verdrängung, Anthony Vidler nota come anche guardando alla storia dell’architettura europea, la distruzione rimane un fondale davanti a cui mettere in scena le avventure eroiche della modernità costruttrice, di fatto ignorandone i delitti:

Certainly if we look at the classic accounts of architectural history after 1945 —those of Reyner Banham, Kenneth Frampton, Alan Colquhoun, and Manfredo Tafuri (Leonardo Benevolo’s work being a notable exception), all significantly enough written by those who had served in or at least experienced the war— we find little or no mention of the war years. The only mention of the war as an effect on architecture occurs in the always optimistic phrase “postwar reconstruction”. Indeed, a Sebald of architectural history would be justified in asking many of the same questions of British writers (and also of French, Italian, German, and American writers) as Sebald himself did of his German literary contemporaries (Vidler 2010).

La riflessione progettuale sul tema della ricostruzione è ancora più arretrata rispetto alla ricerca storiografica: si osserva una totale discrasia tra la fase di intervento emergenziale, normata dalle organizzazioni internazionali in numerosi protocolli di intervento aggiornati periodicamente (UNDRR 1994; 2015; 2019), e la ricostruzione in cui è assente ogni sedimentazione del sapere ma soprattutto ogni seria proposta progettuale di carattere strategico. Nel solco della tradizione della scuola veneziana e del dibattito italiano postbellico, UTF ha individuato nella ricostruzione un tema di ricerca capace di aggiornare molteplici considerazioni di disegno urbano. A partire dall’analisi morfologica e tipologica di Saverio Muratori (Muratori 1959) e dalle strutture dello spazio antropico di Gianfranco Caniggia (Caniggia 1975), passando per la modificazione cara a Vittorio Gregotti (Gregotti 1984) e alla metamorfosi della città di Leonardo Benevolo (Benevolo 1995), UTF sta progressivamente definendo un metodo di analisi e progetto operante. La lunga tradizione italiana del disegno urbano deve essere aggiornata alle necessità della contemporaneità, ridefinendone l’importanza, strategica e tattica, nel dibattito sul presente e sul futuro delle città nel paradigma mutevole della società globale del rischio (Beck 2018).

UTF ha quindi costruito in maniera progressiva un sapere via via più strutturato attraverso una serie di episodi, solo apparentemente randomici: dall’organizzazione del workshop WAVE 2017 Syria the Making of the Future (Galli 2018), alla realizzazione di una serie di tesi di laurea intese come esperimenti progettuali in aree significative come Aleppo, Mosul, i villaggi siriani e l’Ucraina (Albrecht, Galli 2019a; b), fino alle numerose tesi di dottorato dedicate a temi apparentemente liminari ma in realtà fondamentali nel processo di progressiva definizione di una strategia progettuale di ricostruzione (Marino 2021; Pappalardo 2022; Piacenti 2022; Semenzin 2022; Fantin 2023; Vendemini 2023). La concettualizzazione delle ricerche avviene nel 2023 con la pubblicazione del libro Cities Under Pressure. A design strategy for urban reconstruction (Albrecht, Galli 2023), che illustra in maniera approfondita un approccio progettuale strutturato e potenzialmente applicabile, tramite adattamenti, in contesti radicalmente differenti.

Un debito profondo allo sviluppo delle idee sulla ricostruzione è quello con le istituzioni transnazionali con cui UTF ha potuto confrontarsi negli anni: prima United Nations Economic and Social Commission for Western Asia (UN-ESCWA) per una consulenza sui temi della ricostruzione in Siria, poi la World Bank per la realizzazione di un position paper propedeutico alla ricerca Building for Peace: Reconstruction for Security, Sustainable Peace, and Equity in the Middle East and North Africa (WB 2020) e infine, dopo i tentativi falliti di collaborazione con UNESCO e UNDP Afghanistan, la firma di un accordo quadro con United Nations Development Programme Regional Bureau for Arab States (UNDP RBAS) arrivata dopo un lungo processo di comprensione delle reciproche necessità e potenzialità di collaborazione. Un accordo quadro tra un’istituzione della famiglia UN e un’università è una rarità: in questo caso il riconoscimento delle capacità di ricerca sviluppate negli anni da UTF è sancito in un documento che consente al gruppo di ricerca di fornire consulenze sui temi dell’emergenza, della ricostruzione, della gestione delle risorse e del patrimonio antropico a tutte le 19 sedi locali in RBAS (Algeria, Bahrain, Egitto, Gibuti, Giordania, Iraq, Kuwait, Libano, Libia, Mauritania, Marocco, Oman, Palestina, Qatar, Arabia Saudita, Siria, Sudan, Tunisia, Yemen). L’accordo è firmato il 3 ottobre 2023, pochi giorni prima dell’attacco di Hamas,; nei giorni immediatamente successivi tutte le discussioni avviate su potenziali temi e luoghi per l’avvio della collaborazione si interrompono, e la richiesta proveniente da UNDP diventa univoca: quali idee si possono mettere in campo per Gaza?

Si tratta di una domanda impossibile, la cui estrema complessità emergerà in maniera sempre più netta negli anni di collaborazione successivi, ma che allo stesso tempo spinge eticamente alla ricerca di una strategia di progetto. La risposta immediata è l’impegno a mettere in campo le proprie conoscenze, orientandole verso proposte concrete e realizzabili: non si tratta di una scelta opzionale ma di un dovere, come professionisti e come cittadini di questo mondo. Parlare di progetto in questo contesto significa innanzitutto muoversi nell’angusto spazio di manovra riservato alla costruzione del futuro in una situazione così drammatica e comporta di abbandonare immediatamente ogni visione puramente oggettuale, velleitaria e irresponsabile. È con questo spirito che l’8 febbraio del 2024 UTF risponde all’invito di UNDP RBAS di presentare una visione strategica per Gaza in un incontro ad Amman. Vengono illustrati i contenuti del libro Cities Under Pressure con alcune prime considerazioni di adattamento alle condizioni urbane della martoriata Striscia di Gaza. La reazione è immediata: l’ufficio palestinese di UNDP, denominato Programme of Assistance to the Palestinian People (PAPP) e attivo dal 1978 nelle tre sedi di Gerusalemme, Ramallah e Gaza, promuove in tempi rapidissimi un accordo attuativo con Iuav e chiede ai ricercatori veneziani di supportare in maniera continuativa le operazioni progettuali a Gaza. I concetti di base che portano PAPP a richiedere la collaborazione con UTF sono tre: la speranza, intesa come ferma convinzione nella possibilità di un intervento progettuale proattivo capace di tenere insieme fase emergenziale, ricostruzione e sviluppo; il modello urbano, una ipotesi cellulare che lavora alla scala del vicinato e rende monitorabili e confrontabili le operazioni nello spazio e nel tempo; e il sistema di coordinamento, uno schema continuamente adattabile in cui le azioni relative ai diversi campi operativi possono essere correlate e organizzate.

Il 18 Aprile del 2024, a soli due mesi dalla presentazione di Amman, Iuav firma l’accordo con PAPP ed entra nel sistema complesso delle operazioni delle UN relative alla Striscia di Gaza. Il ruolo di PAPP nella Striscia è importante: circa 50 dei suoi 160 lavoratori operano nell’area su progetti di riduzione della povertà, sviluppo economico, protezione ambientale, infrastrutture e governance democratica. PAPP non è l’organizzazione designata all’intervento in condizioni emergenziali, un ruolo coperto da United Nations Office for the Coordination of Humanitarian Affairs (OCHA), ma essendo l’organizzazione con il maggior peso all’interno della galassia UN a Gaza ha provato sin da subito a costruire un quadro operativo di supporto alle operazioni di early recovery e sviluppo in rapporto con le istituzioni e le comunità locali, con le altre organizzazioni delle UN e con le ONG operative sul campo (UNDP PAPP 2024b). L’ecosistema di organizzazioni internazionali attive in Palestina contava ben 24 agenzie UN, tra cui lo United Nations Relief and Works Agency for Palestine Refugees in the Near East (UNRWA), che con i suoi 24.000 dipendenti rappresenta una forma di welfare transnazionale della Striscia (UNRWA 2023), e lo United Nations Human Settlements Programme (UN-Habitat), che formalmente sarebbe l’organizzazione dedita ai progetti di sviluppo urbano (UN-Habitat 2022), oltre a una galassia di organizzazioni non governative che contava 3.729 enti regolarmente registrati (2.800 in Cisgiordania e 929 a Gaza) (ICNL 2025). Dopo il 7 ottobre 2023, le severe restrizioni imposte da Israele hanno portato a una drastica riduzione degli attori presenti sul campo mettendo ancora più in evidenza l’importanza dei flussi informativi e delle reti sociali costruite nel tempo dalle agenzie rimaste sul territorio e dai loro operatori locali.

UTF ha progressivamente supportato PAPP nella comprensione delle implicazioni spaziali delle azioni nel medio e lungo periodo, cercando di capire quali processi potevano essere innescati a partire dalle scelte prese nelle fasi iniziali. Il lavoro si è focalizzato sulla progressiva comprensione e messa a fuoco congiunta dello strumento dei transitional neighbourhood approach, una ipotesi progettuale in cui le operazioni di emergenza non generano campi profughi ma piuttosto marcano l’inizio di un processo di progressivo affinamento dello spazio urbano e “indurimento” delle soluzioni tecnologiche. Particolare importanza è data alla localizzazione e alla scala degli interventi che lavorano al livello del vicinato mettendo al centro delle operazioni il place-attachment (Manzo&Devine-Wright 2020; Diener&Hagen 2023) e la preservazione delle strutture sociali, dilaniate dal conflitto ma potenzialmente motore di rinascita. L’approccio per transitional neighbourhoods si adatta in maniera molto efficace al sistema di donors che caratterizza lo sviluppo dei progetti all’interno delle UN perché consente di istituire una connessione diretta tra un progetto e il suo promotore e un controllo più stretto degli impatti e dei benefici locali. Le comunità di Gaza trovano un’organizzazione per quartieri distinti, حي (hy), in cui reti sociali, economie locali e servizi sono strettamente interconnessi (Al-Mashni 2014, Muharramah 2022). Adottare un approccio basato sui quartieri preesistenti nella programmazione del processo di ricostruzione, consente di sviluppare una strategia appoggiandosi alla struttura sociale e spaziale in cui la popolazione locale si riconosce. È un approccio che offre numerosi vantaggi perché permette un’integrazione multisettoriale, coordinando risposta umanitaria, ripresa e ricostruzione all’interno di un’unica unità di pianificazione coerente; in questo modo si facilita la cooperazione tra settori diversi e si garantisce che gli interventi si rafforzino reciprocamente, evitando il più possibile sovrapposizioni e duplicazioni. Gli interventi progettuali possono essere adattati alle caratteristiche fisiche specifiche di ciascun quartiere aumentando efficacia e appropriatezza.

Il lavoro di PAPP e di UTF si inserisce all’interno della Coordination Structure o Cluster System attivato in situazioni emergenziali dalle UN attraverso l’istituzione di undici tavoli di confronto permanente (site management, protection, WASH, nutrition, ETC, education, cash working group, health, food security, shelter, logistics). I cluster si configurano come:

Thematic groups that bring together all stakeholders working within a defined area of expertise, including local authorities, non-governmental organizations and UN agencies, and are the forum for coordination of every aspect of response formulation, including assessments, data management, strategic planning, setting technical standards, monitoring and reporting on the effectiveness of the response and contingency planning. They are also actively engaged in humanitarian advocacy (OCHA 2025b).

Il Cluster System promosso dalle UN non si è dimostrato un sistema veramente capace di organizzare la complessità, in mancanza di una vera istituzione di coordinamento e soprattutto di una spazializzazione continua delle operazioni, limitandosi a consentire un allineamento informativo minimo delle diverse agenzie. Uno dei grandi fattori di debolezza è dovuto alla mancanza di un processo decisionale basato sui dati (Lin et al. 2020. Bittencourt et al. 2024) per mancanza di accesso e di condivisione, di organizzazione dei database o di capacità di lettura, che porta un sistema complesso e talvolta elefantiaco a operare per opportunità o somma di casualità. Si osserva inoltre una costante duplicazione delle attività, prima fra tutte la raccolta dati, e una comunicazione tra le parti eccessivamente burocratica e scarsamente performante.

a sx: Andrea Fantin e Elisa Vendemini, ricercatori UTF, con Wael Zakout (وائل زقوت), ex Ministro della Cooperazione Internazionale e del Planning (MoPIC) palestinese. La fotografia è stata scattata a maggio 2025 negli uffici del ministero dove i due ricercatori hanno lavorato a stretto contatto con tecnici e funzionari.
a dx: sopralluogo in un’area rurale a nord di Ramallah per la visita di alcune abitazioni vernacolari, oggi in stato di abbandono.

Il lavoro di UTF non si è limitato al rapporto con le UN ma, tramite la preziosa mediazione di PAPP, ha interessato l’Autorità Nazionale Palestinese (PA), l’organismo politico di autogoverno palestinese riconosciuto come amministratore di parte della Cisgiordania e (formalmente) della Striscia di Gaza, che possiede un posto di osservatore all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e un seggio permanente nella Lega Araba. Rapportarsi con la PA introduce un ulteriore strato di complessità perché, pur essendo formalmente autorità di governo a Gaza, PA di fatto non dispone di alcuna operatività sul campo e mantiene pochissime connessioni dirette con il territorio,; tuttavia la PA è l’unico interlocutore di rappresentanza palestinese a livello internazionale. Il rapporto con la PA ha permesso di passare progressivamente dalla ricerca di approcci per la ricostruzione richiesta da PAPP a una graduale fase operativa con richieste sempre più specifiche, per rispondere alle contingenze che di volta in volta si manifestavano nella Striscia. È importante sottolineare che solo grazie al lavoro preliminare di stratificazione delle conoscenze e alla redazione della proposta strategica è stato possibile inviare dei ricercatori sul campo, una possibilità rara in un contesto di totale confusione.

UTF ha inviato due suoi ricercatori presso il Ministry of Planning & International Cooperation (MOPIC) della PA a Ramallah per lavorare a stretto contatto con lo staff ministeriale e in dialogo continuo con i colleghi di PAPP. Il progetto è finanziato dalla sede di Gerusalemme dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) e fa parte di un pacchetto di supporto dell’Italia con l’obiettivo di aumentare le capacità tecniche e operative della PA con particolare focus sui temi del progetto urbano. L’inserimento nel sistema complesso della progettualità governativa palestinese ha visto la costruzione di rapporti anche con altri ministeri e in particolare con il Ministry of Public Work and Housing (MPWH), Ministry of Local Government (MoLG), Ministry of Telecommunications and Digital Economy (MTDE) e Ministry of Social Development (MoSD), consentendo di osservare come la debolezza insita nel potere politico palestinese renda i ministeri delle organizzazioni autoreferenziali, ognuno con progetti propri scarsamente interconnessi. La struttura del Gaza Recovery and Reconstruction Portfolio of Programs (PA 2025), costruito in mesi di mediazione tra i ministeri della PA, denuncia a partire dall’indice struttura? una enorme confusione programmatica: si compone di cinque settori (Social, Housing, Infrastructure, Economy, Governance), a loro volta suddivisi in diciotto sub-settori e in ben cinquantasei programmi! È una mole di lavoro che dichiara in maniera immediata la confusione di fondo e lo scarso coordinamento tra le parti.

Sviluppare forme di progettualità all’interno della moltitudine di attori coinvolti, con approcci e obiettivi talvolta radicalmente differenti, aumenta ulteriormente l’enorme complessità delle operazioni. Confrontarsi con tutte le istituzioni è però un atto dovuto: solo la comprensione e il dialogo continuo con il sistema nella sua interezza può consentire lo sviluppo di strategie credibili e con potenzialità trasformativa dello spazio;, nell’ottica di una massimizzazione dell’impatto sociale degli interventi. Solo attraverso il coinvolgimento continuo delle parti diventa possibile mettere a disposizione delle comunità locali degli strumenti operativi efficaci per l’avvio e il monitoraggio continuo del processo di ricostruzione.

Il progetto: strategia, strumento, innesco

La riflessione sul significato, lo spazio di applicazione, le modalità di attuazione e i limiti etici della pratica progettuale in un contesto come la Striscia di Gaza accompagna in maniera continua l’esperienza di collaborazione di UTF con i diversi interlocutori locali. Parlare di progetto in condizioni estreme sposta i limiti del significato generalmente attribuito al termine nella pratica specialistica. In queste pagine, come in tutte le operazioni progettuali portate avanti da UTF, quando parliamo di progetto ci muoviamo a partire dalla rilettura e dall’aggiornamento della definizione di architettura data da William Morris nel discorso The Prospect of Architecture in Civilization nel 1881: 

It is the union of the arts, mutually helpful and harmoniously subordinated one to another, which I have learned to think of as architecture, and when I use the word tonight that is what I shall mean by it and nothing narrower. A great subject truly, for it embraces the consideration of the whole external surroundings of the life of man; we cannot escape from it if we would so long as we are part of civilization, for it means the moulding and altering to human needs of the very face of the earth itself, except in the outermost desert (Morris 1881).

Crediamo che sia necessario allargare lo sguardo a una prospettiva ampia che trascenda le scale e abbracci attività oggi non necessariamente considerate parte della pratica professionale dell’architetto. Non vogliamo intendere le parole di Morris come la spinta a un nuovo individualismo del progettista demiurgo, ma come l’invito alla formazione di un architetto saldamente cosciente del suo ruolo nella comprensione e modifica dello spazio e, allo stesso tempo, capace di sostenere dialoghi e intessere collaborazioni con una moltitudine di saperi.

Nessun modello di progetto contemporaneo che parta da tradizioni consolidate del modernismo occidentale (Giedion 1941) regge al confronto con situazioni come la Striscia di Gaza perché presuppone una condizione di stabilità completamente assente. Allo stesso tempo gli strumenti operativi classici come il progetto esecutivo o il piano urbanistico non riescono a proporre soluzioni credibili costringendo a una afasia progettuale o, peggio ancora, a un velleitarismo sdegnoso. È necessario affermare in maniera limpida l’incapacità degli strumenti attuali del progetto architettonico e urbano di confrontarsi con le condizioni di molte aree del pianeta: la quantità di distruzione; le condizioni politiche e sociali instabili e in continuo mutamento; l’impossibilità di operare in un regime di piena sicurezza; e la compresenza sul campo di attori molteplici; rendono la definizione di un progetto che passi dalle fasi ideative, esecutive e costruttive totalmente irrealistica. La risposta attuale di fronte a questa condizione è di evitamento, rimandando ogni forma di progettualità prospettica a un momento di pacificazione, collocato in un futuro indefinibile, e ritraendosi pavidamente nella discussione astratta o nella depressione improduttiva.

Per riscattare l’architetto da questo forzoso silenzio occorre innanzitutto avviare il faticoso processo di risalita alla radice dei processi decisionali, consentito solo dal confronto con il quadro completo degli attori. Gli architetti sono oggi sempre più spesso chiamati a dar forma a ipotesi sviluppate con logiche diverse da quelle spaziali e urbane, divenendo di fatto gli imbellettatori (Dyckhoff 2017) di scelte puramente economiche (Stein 2019). Occorre invece sviluppare strumenti che possano attualizzare la visione di Morris e abilitare all’operatività, in condizioni estreme, attraverso lo sviluppo di due caratteri fondamentali. Da un lato la capacità di agire come collettore di saperi altri, umanistici e scientifici, traducibili immediatamente in fattori di modifica continua dello spazio e dall’altro la predisposizione ad una visione anticipatoria e prospettica nel tempo (Futuribles 2023), individuando un’idea continuamente rinegoziabile di futuro e i differenti percorsi che possono portare alla sua realizzazione. In questo scenario l’architetto si configura come un anticipatore di spazi cangianti e in continua metamorfosi (Beck 2016) sviluppando sistemi che abbandonano ogni visione statica allo scopo di raggiungere per progressive approssimazioni l’equilibrio dinamico desiderato (Sennet 1970). Il lavoro di UTF si è quindi focalizzato sul cambiamento degli approcci, delle finalità e degli strumenti di progetto, realizzato sia attraverso ipotesi di ricerca che nel confronto con la realtà sul campo, sintetizzabile nell’evoluzione di tre termini che specificano la parola progetto: strategia, strumento e innesco. Ci muoviamo a partire da una sola granitica certezza: la rivendicazione della necessità del progetto contro ogni irresponsabile afasia, il progetto è per UTF un dovere etico di messa a servizio delle proprie conoscenze e capacità.

La proposta operativa per la Striscia di Gaza da parte di UTF è da sempre stata immaginata come una strategia piuttosto che come un piano: è una scelta che va ben al di là delle distinzioni semantiche e che identifica un modus operandi chiaro. UTF ha condotto una attenta analisi di 11 piani presentati da diversi attori per la Striscia, costruendo un sistema di valutazione che prevede 10 categorie di confronto (Pica&Sbalchiero 2025). Le proposte vanno dallo sconvolgente quanto raffazzonato piano Blair (GREAT 2025), fino al Gaza Phoenix promosso tra gli altri dalla Birzeit University (UGSM 2024) passando per le proposte di organizzazioni internazionali (IRDNA 2025; UN-Habitat 2025) e di think tank privati (Culbertson et al. 2025; Al Habtoor 2025). Il lavoro di UTF si inserisce, in maniera totalmente tangenziale,, nel piano sottoscritto ufficialmente da PA e denominato Arab Plan (Arab league 2025): una visione politica che ribadisce alcuni concetti imprescindibili, come la continuità territoriale entro i confini del 1967, il diritto palestinese all'autodeterminazione e il rifiuto dello sfollamento o del reinsediamento; senza offrire alcuna realistica soluzione spaziale e dividendo il territorio in zone funzionali riorganizzate secondo criteri puramente tecnici. L’analisi degli 11 piani fa emergere un unico minimo comune denominatore: nessun piano riesce a indicare in maniera chiara e convincente un percorso che porti alla ricostruzione passando dalle fasi emergenziali intermedie. Nonostante la varietà di attori e la diversità degli approcci, i piani condividono una mancanza di equilibrio tra capacità di integrare le urgenze immediate con una prospettiva di sviluppo duraturo, e una ricorrente mancanza di dettagli sull’implementazione che ne compromettono la reale applicabilità. La disamina condotta mostra come sia proprio lo strumento piano a essere problematico: troppo ambizioso o astratto, poco attento ai bisogni immediati della popolazione e incapace di adattarsi a un contesto politico instabile e mutevole. Se la domanda provocatoria posta a UTF dai colleghi di PAPP è stata: “Se domani ci fosse una tregua avremmo almeno uno strumento pronto per avviare la ricostruzione?” A quasi due mesi dall’ultimo cessate il fuoco la risposta sembra non poter che essere “no”.

L’alternativa al piano è quindi una strategia di lungo periodo che definisca un orizzonte comune in grado di coordinare una moltitudine di azioni potenziali e di attori attivi. Una volta costruito un quadro strategico con un sufficiente livello di chiarezza, e un altrettanto importante spazio di malleabilità, si può procedere per progetti pilota potenzialmente scalabili in interventi di portata maggiore, tattiche momentanee adattabili che identificano parti definite della strategia complessiva e ne testano le possibilità. Strategia e tattica sono diverse e allo stesso tempo complementari: sono entrambe necessarie per raggiungere i propri obiettivi, la strategia è la propria “filosofia”, la tattica la propria “tecnica” per intervenire nella realtà, parafrasando una celebre massima di Sun Tzu: la strategia senza tattica è la via più lenta per la vittoria. La tattica senza strategia è il rumore prima della sconfitta. Applicare il rapporto tra tattica e strategia al progetto della ricostruzione urbana rende evidente un concetto di fondo, che influenza il processo decisionale e gli strumenti da adottare: occorre modificare la natura stessa delle proposte progettuali allontanandosi da ogni fissità pianificatoria, per costruire un flusso continuo dove le decisioni momentanee si inseriscono all’interno di un processo da avviare e accompagnare in maniera continuativa.

Nel suo complesso, il lavoro procede per iterazioni, analisi, condivisione, raccolta di feedback e riformulazione, con l’obiettivo di definire soluzioni e metodi condivisi, sostenuti da tutte le parti coinvolte. Qui si colloca il principale avanzamento della ricerca di UTF: la progettazione di strumenti analitici e computazionali (basati su matrici e algoritmi) pensati per supportare e orientare in tempo reale i processi decisionali attraverso un metodo strutturato e data-driven. È un approccio che utilizza tecnologie geospaziali e modelli per valutare e perfezionare in modo interattivo strategie in ambienti caratterizzati da repentini e consistenti cambiamenti (Batty 2013). Pur non potendo sostituire i rilievi sul campo, le simulazioni forniscono preziose informazioni nelle fasi iniziali di intervento, le più critiche, e offrono un mezzo rapido per supportare processi decisionali complessi. Sono stati progettati e testati due moduli computazionali il cui utilizzo si colloca nell’attuale quadro operativo della risposta emergenziale, ma suggerisce un potenziale di applicabilità anche nelle successive fasi di ricostruzione e sviluppo. I moduli integrano banche dati eterogenee e in continuo aggiornamento, informazioni geolocalizzate, mappe catastali e indagini sociali, tutte da sottoporre a verifica sul campo, a supporto dei processi decisionali.

Il primo modulo, denominato Land Selection Module, è uno strumento analitico di localizzazione e di massimizzazione delle risorse disponibili e potenziali, finalizzato (al momento) all’individuazione delle aree più idonee destinate alle comunità sfollate. Il modulo opera attraverso metriche, intese come misure qualitative e quantitative che integrano informazioni territoriali, fisiche e sociali, includendo relazioni di prossimità e distanza, organizzate in un sistema di pesi confrontabili all’interno della simulazione. Nella configurazione attuale, le sei metriche individuate (Usability, Land Attachment, Ownership, Water Facilities, Education Facilities e Health Facilities) vengono applicate in modo sistemico alla scala della parcella catastale preesistente della Striscia, adottata come unità di riferimento e condivisa con il Ministry of Local Government (MoLG). Tutte le analisi e i dataset sono calcolati su questa unità, garantendo coerenza e comparabilità nel processo analitico. Nello specifico, la metrica Usability valuta l’idoneità di utilizzo effettiva di un’area, analizzando il livello di distruzione degli edifici e calcolando la percentuale di spazio disponibile. Le parcelle caratterizzate da una quota di area libera superiore o uguale all’81% sono oggetto di preferenza, in quanto presentano un maggiore potenziale di utilizzo immediato. Parametro centrale è il Land Attachment, soprattutto nel contesto palestinese, in cui il rapporto con il luogo di origine assume un valore inalienabile minato dalla condizione di costante occupazione. Operativamente, la metrica valuta la prossimità alle aree più densamente popolate, privilegiando quelle più vicine ai luoghi di origine, per favorire il ritorno delle comunità sfollate. In un contesto in cui il 74% delle parcelle è di proprietà privata, la metrica Ownership assume un ruolo chiave nella selezione delle aree, distinguendo tra aree pubbliche, più facilmente utilizzabili in emergenza, e proprietà private, condivise o non registrate, soggette a maggiori complessità procedurali. Il modello include inoltre una valutazione sistematica della prossimità ai servizi essenziali, articolata nelle metriche dedicate alle infrastrutture idriche, sanitarie e scolastiche: Water, Health, Education. Le parcelle sono indicizzate in base alla distanza, all’accessibilità e allo stato di funzionamento delle infrastrutture, modulato in funzione del grado di danno.

Heatmap per l’individuazione delle aree prioritarie per l’accoglienza degli sfollati, risultato finale del processo di analisi e valutazione del Land Selection Module. La Heatmap è il risultato dell'interpolazione di sei metriche, ognuna con un peso percentuale specifico, modificabile ed adattativo. Nel caso illustrato le percentuali sono state decise in maniera condivisa con il Ministry of Public Works and Housing dell’Autorità Nazionale Palestinese.

La stima del danno è stata determinata integrando tre valutazioni indipendenti disponibili per la Striscia di Gaza, UNOSAT, UNDP GeoAI e UNDP Crisis Bureau, con l’obiettivo di normalizzare le classificazioni e ottenere un quadro unico e coerente. Le diverse categorie di danno sono state ricondotte a tre classi comuni: distruzione, danno parziale e assenza di danno, applicate a una base comune. Nel processo di integrazione è stato adottato un criterio conservativo: in presenza di valutazioni discordanti, a ciascun edificio è stata assegnata la classe di danno più severa tra quelle rilevate. In questo modo, il risultato riflette l’unione delle evidenze disponibili piuttosto che una loro media, fondamentale per supportare decisioni operative in contesti di elevata incertezza.

Il Land Selection Module opera attraverso l’assegnazione di uno scoring system che integra le sei metriche descritte, attribuendo a ciascuna un peso differente. Il risultato è una mappa delle priorità, heatmap, in cui ogni parcella riceve un punteggio compreso tra 0 e 10 che sintetizza l’idoneità relativa della parcella. Le metriche, integrate nello scoring system, permettono una valutazione coerente e comparabile delle parcelle, mantenendo il modello reattivo a variazioni rapide delle condizioni al contorno. I pesi, normalizzati su un totale di 100 e definiti in coordinamento con il Ministry of Public works and Housing della AP, costituiscono una prima base operativa solida per l’individuazione e la selezione territoriale delle aree per il collocamento di transitional shelter. Tuttavia, il sistema è progettato per rimanere flessibile e scalabile: l'eventuale aggiunta di nuove metriche consente di affinare progressivamente i risultati e di adattare il modello a contesti informativi più complessi. In prospettiva, l’integrazione di informazioni relative a fattori ambientali e di rischio quali, ad esempio, l’esposizione a fenomeni alluvionali, rischi biologici o livelli di inquinamento permetterebbe di rafforzare ulteriormente l’efficacia del sistema e la qualità delle decisioni supportate.

Il secondo modulo, Simulation Module, interviene nella fase successiva alla selezione delle aree e consente di simulare diverse configurazioni spaziali di transitional sheltering per le comunità sfollate, adattandole alle caratteristiche specifiche di ciascun sito e alle relative condizioni operative. La simulazione rappresenta una fase esplorativa e potenziale del processo: le configurazioni generate automaticamente non sono immediatamente implementabili, ma costituiscono uno strumento di supporto per la valutazione di scenari alternativi. Solamente in una fase successiva, a seguito delle verifiche di fattibilità e sicurezza sul campo, le configurazioni spaziali individuate potranno essere validate, adattate o ulteriormente massimizzate in funzione delle condizioni reali dei siti. Durante i mesi di conflitto il lavoro di rilevamento si è svolto completamente da remoto, costruendo una base operativa per le operazioni conseguenti al cessate il fuoco. Nell’inverno del 2025 le varie agenzie UN, incluso UNDP/PAPP coadiuvato da UTF, hanno organizzato squadre di ingegneri locali per rilevare direttamente sul campo le condizioni dei diversi quartieri confermando o smentendo i dati prodotti tramite remote sensing. A differenza di approcci basati su soluzioni a ‘taglia unica’, il Simulation Module consente di testare una pluralità di tipologie di shelter, tra cui tende, unità prefabbricate (a uno o due piani fuori terra), caravan e soluzioni modulari, valutandone la compatibilità con il sito e i vincoli infrastrutturali delle aree precedentemente selezionate. Per ciascuna configurazione, il modello calcola automaticamente la capacità insediativa (numero di Internally Displaced Persons) e il fabbisogno di servizi essenziali, rendendo possibile un confronto diretto tra scenari alternativi. La comparazione sulla base di criteri operativi quali i costi stimati, la durata di vita degli shelter e i tempi complessivi di installazione permettono l’individuazione di configurazioni spaziali sostenibili e realisticamente implementabili, sia in contesti urbani densamente popolati che in aree rurali. Le Standard Operating Procedures (SOP) per il settore shelter, fornite dal MPWH ad agosto 2025 definiscono le politiche per l’accoglienza temporanea nella Striscia di Gaza, diventando di fatto riferimento tecnico e di standard. Qualora le SOP non dovessero fornire indicazioni dimensionali o quantitative sufficientemente dettagliate, il modello integra standard internazionali riconosciuti (tra cui Sphere Standard, UNHCR Shelter Guidelines, Shelter After Disaster e Palestine Shelter Cluster), garantendo coerenza e completezza nella valutazione.

I due moduli descritti operano come un sistema integrato: costituiscono uno strumento reattivo in grado di supportare e guidare un processo coordinato e sostenibile di ricostruzione. Pur essendo stati applicati inizialmente all’interno del quadro operativo emergenziale, entrambi i moduli sono progettati per essere ulteriormente implementati nelle fasi successive di ricostruzione e sviluppo, adattando progressivamente dati, criteri, pesi e priorità. In questo senso, il sistema integrato può evolvere in uno strumento condiviso di coordinamento tra i diversi attori coinvolti nel processo. Dal punto di vista dello spazio, il funzionamento integrato dei moduli richiede un passaggio di scala: se le parcelle catastali rappresentano l’unità minima di analisi e valutazione, la scala del quartiere o neighbourhood diventa l’unità di intervento operativa. È a questo livello che le valutazioni puntuali vengono ricomposte in configurazioni spaziali coerenti, capaci di mettere in relazione servizi, spazi abitativi e infrastrutture. Transitional Neighbourhood Approach ha l’obiettivo quindi di costruire una continuità tra interventi emergenziali e strategia di sviluppo di lungo periodo, promuovendo una condizione transitoria piuttosto che semplicemente temporanea. Il termine transitional allude ad una fase di passaggio da uno stato all’altro caratterizzata da processi incrementali di adattamento, trasformazione ed evoluzione; temporary invece sottende una soluzione definita e limitata nel tempo. Prediligere la condizione di transitorietà significa individuare delle azioni prioritarie, alle quali a cascata, si collegano in modo consequenziale e interdipendente, interventi settoriali che vedono nella variabile temporale un alleato fedele per l’implementazione di modifiche e l’adattamento alle condizioni operative e alle necessità emergenti.

Profilazione dei quartieri della Striscia di Gaza come analisi preliminare del Transitional Neighborhood Approach, un sistema di pianificazione urbana che consente di valutare in modo integrato gli interventi necessari per il recupero e la ricostruzione. Le mappe identificano i livelli di distruzione degli edifici, delle strade, dei servizi e delle infrastrutture, fornendo una panoramica sulle priorità di intervento. Non è stato possibile includere una legenda completa perché le mappe sono realizzate a partire da informazioni sensibili fornite dai ministeri palestinesi e dalle agenzie UN.
 

La progressiva definizione del progetto e delle sue applicazioni operative in contesti estremi come la Striscia di Gaza culmina nell'innesco: un approccio progettuale che riprende elementi di esperienze passate ma che rappresenta un'apertura audace e speranzosa verso il futuro. L’innesco urbano è da immaginarsi come un sistema di progetto che consente il controllo debole della progressiva definizione del tessuto e dei suoi processi di evoluzione tramite due momenti collegati e complementari: da un lato la definizione di una ossatura di progetto, un principio insediativo (Gregotti 1962) chiaro e contenente precise ipotesi spaziali adattabili e deducibili dal contesto territoriale; dall’altro lato un processo di design indotto attraverso l’individuazione di norme comuni che consentano il massimo grado di libera modifica e adattamento creativo, senza inficiare i caratteri profondi del tessuto urbano.

L’innesco nasce dalla definizione di un’ossatura urbana: una infrastruttura pubblica modellata dai progettisti come un sistema di aggancio, che funge da suggerimento, in grado di definire una gamma aperta di possibilità per la metamorfosi del tessuto urbano, attraverso una miscela fruttuosa di spazi pubblici e privati. Le scelte progettuali non devono essere imposte alle comunità locali, ma definite congiuntamente, attraverso una forma di progetto indotto realizzato tramite l'istituzione e la pratica di laboratori di ricostruzione, che assicurano una presenza costante della popolazione locale nel processo. In questo modo, la comunità, insieme ai progettisti, può tradurre le proprie necessità in spazi costruiti. L'asimmetria nel livello di conoscenza tra esperti e comunità non deve essere vista come un destino inevitabile, ma come un male necessario da accettare sempre con scetticismo (Illich et al. 1977).

L’innesco urbano tratteggia una ipotesi di progetto aperta (Sendra 2020) in cui sono individuati solo alcuni caratteri di base e dove la progressiva configurazione nel tempo del tessuto urbano è demandata al lavoro attento e coordinato di una moltitudine di progettisti diversi tenuti insieme da un laboratorio di ricostruzione dedito al monitoraggio continuo delle operazioni. Non si tratta di una diminuzione di importanza del ruolo del progettista ma al contrario di una ritrovata centralità nell’accompagnamento del processo di metamorfosi urbana. È un’operazione che allontana l’architetto da ogni pretesa di autorialità e lo inserisce in un sistema collettivo, dove il dialogo aperto e costante con tutti gli interlocutori è necessità improrogabile. È un'accettazione permanente della condizione costantemente transitoria delle configurazioni spaziali, in cui il progettista accetta di perdere il controllo completo delle forme in favore di una condizione adattativa di trasformazione e personalizzazione degli spazi da parte di chi li vive.

Mettere in campo i limiti

Dopo più di due anni di ricerca e progetto nel contesto della Striscia di Gaza, emergono più interrogativi che certezze, più considerazioni critiche che punti di arrivo. Il primo limite al progetto a Gaza e in Palestina è esplicito: la condizione di occupazione prolungata da parte di Israele, e il complesso sistema di interessi globali, rendono le scelte progettuali e operative limitate per i palestinesi e per i gazawi. È una condizione ormai prolungata nel tempo e che ha la sua origine nella Nakba del 1948 e i nodi nella guerra dei sei giorni del 1967, negli accordi di Oslo del 1994 e, più recentemente, nel ritiro dei coloni del 2005 (Filiu 2023). Le operazioni militari del 2005, 2008, 2012, 2014 e 2021 (Hasian 2016) sono solo variazioni di intensità di una condizione di subalternità e controllo (Loewenstein 2024) estesa all’intera esistenza dei palestinesi a Gerusalemme come in Cisgiordania e a Gaza. I limiti politici influenzano ogni operazione proiettata verso il futuro: dalla necessità di ragionare su risorse energetiche e idriche accuratamente centellinate da Israele fino alla configurazione finale del territorio della Striscia al termine dei faticosi e continui colloqui di pace. Tutto è legato a decisioni che non tengono conto della distribuzione e dell’organizzazione dello spazio.

Non meno importante è l’impossibilità della Palestina di organizzarsi come stato sovrano che comporta effetti strutturali sul piano giuridico, politico e territoriale. L’opposizione di Israele, unita al sostegno di alleati strategici come gli Stati Uniti e altri paesi occidentali, ha di fatto impedito il riconoscimento multilaterale della Palestina limitandone la capacità di esercitare una rappresentanza nei consessi globali, di stipulare accordi e rivendicare diritti territoriali. La condizione di eterna emergenza impone una governance frammentata, nella quale le scelte e le decisioni vengono mediate da attori esterni e l’autonomia di pianificazione spaziale, e quindi di ricostruzione, è compromessa.

Uno degli aspetti che più direttamente influenza ogni ragionamento spaziale è costituito dal controllo totale che l’esercito israeliano impone su ogni bene e materiale che entra nella Striscia attraverso il Coordinator of Government Activities in the Territories (COGAT). I progetti sviluppati da UTF alla scala costruttiva, come le prime ipotesi progettuali di transitional neighbourhood, e i materiali da impiegare, sono sottoposti da UNDP al parere di COGAT che indirizza l’avanzamento delle operazioni. La motivazione addotta da COGAT è quella di impedire l’ingresso di materiali dual-use potenzialmente sfruttabili per fini bellici; ma in realtà il livello di controllo è tale per cui ogni fase progettuale deve essere di fatto analizzata e validata. Si tratta di una limitazione molto forte considerando che COGAT non è obbligato a fornire motivazioni formali alle proprie scelte. Tutte le organizzazioni internazionali e le ONG operanti a Gaza lavorano sostanzialmente in uno stato di sovranità limitata in cui Israele si riserva il diritto di indirizzare le scelte progettuali e operative.

Un’ulteriore limitazione di tipo politico è data dalla legittimità degli interlocutori: la popolazione della Striscia di Gaza non ha né rappresentanza a livello amministrativo locale né, come precedentemente descritto, una voce sul palcoscenico globale. Le interlocuzioni progettuali avvengono in maniera indiretta e mediata da UNDP, una condizione obbligata in un contesto drammatico ma che contiene un certo grado di contraddizione. Il ripensamento degli assetti territoriali, per essere veramente credibile, non può non essere accompagnato da un processo parallelo di rappresentatività politica. La disgregazione, spaziale ma soprattutto sociale, che caratterizza la Striscia di Gaza richiederà, nella delicata fase di emergenza, un periodo di governo tecnocratico (Mac Ginty 2012), ma non si deve tradurre in una sospensione indefinita della responsabilità politica. Al contrario, si deve prevedere un passaggio concreto verso una rappresentanza locale, legittima e responsabile, in grado di orientare il processo di ricostruzione verso una piena autodeterminazione. Per evitare che il processo si trasformi in una gestione eterodiretta, gli strumenti decisionali dovranno essere collocati nelle mani di soggetti con piena legittimità politica che possano utilizzarli in modo trasparente e responsabile.

L’accesso alle informazioni mostra grandi limiti: i dati provengono da una pluralità di fonti eterogenee spesso contrastanti tra loro e sono rilevati e aggiornati con metodi differenti. Si occupano di rilevazione dati enti statistici ufficiali (PCBS - Palestinian Central Bureau of Statistics e i ministeri della PA), organismi internazionali (FAO, UNICEF, UNDP, UNOSAT, ESA, NASA, ecc..) istituzioni scientifiche, enti privati e organizzazioni non governative. Indipendentemente dall’origine, i dati possiedono un valore intrinsecamente limitato se considerati isolatamente, acquisiscono reale significato progettuale solo quando vengono organizzati, messi in relazione e tradotti in informazioni capaci di orientare le scelte (Malczewski, 1999). L’interpretazione dei dati non rappresenta un mero strumento di ottimizzazione gestionale, ma costituisce uno strumento di supporto alle decisioni strategiche. L’esperienza maturata nel corso della ricerca ha evidenziato come né le agenzie delle UN, né i ministeri palestinesi competenti abbiano finora sviluppato strumenti adeguati alla gestione dei dati privilegiando approcci orientati alla sola quantificazione, visualizzazione e in parte localizzazione, senza riuscire a esprimere il potenziale progettuale. I moduli elaborati e presentati nel paragrafo precedente tentano di colmare una lacuna informativa e operativa attraverso la definizione di un approccio utile nella fase di prima risposta emergenziale, ma che per svilupparsi deve essere integrato da rilievi sul campo e dalla raccolta diretta delle istanze delle comunità locali. Ne deriva la consapevolezza che strumenti analitici, basati su algoritmi e matrici, seppur sofisticati, non sono in grado di risolvere la complessità del contesto di Gaza se ridotti a numeri o indici. Se non condotte con attenzione, le operazioni di selezione dei dati, di individuazione delle unità minime di riferimento e di normalizzazione e categorizzazione possono generare risposte fuorvianti, semplificazioni eccessive o risultati parziali. Sono criticità insite nel punto di vista dall’alto perché la mappa è una proiezione che interpone una distanza (De Certeau 2012) che consente sì, una lettura dei fenomeni e dei dati, ma che al contempo tende ad appiattire e a trascurare le esperienze individuali e le pratiche di vita quotidiana.

Un ultimo appunto deve essere dedicato al concetto stesso di ricostruzione, una parola oggi ostaggio di pratiche operative che spesso non considerano alcuna dimensione spaziale ma si limitano a indicare processi finalizzati a gigantesche speculazioni finanziarie. Occorre invece ritornare al significato profondo del termine ricostruzione attraverso la definizione di pratiche che riconoscano lo spazio come luogo vissuto e condiviso, capace di restituire speranza e dignità alle popolazioni coinvolte in drammi inimmaginabili. Nonostante tutti i limiti evidenziati, il lavoro svolto da UTF suggerisce che sia possibile combinare ipotesi concettuali strategiche e strumenti operativi data-driven in modo da generare risultati progettuali significativi e rafforzare processi decisionali. Senza la costruzione di strumenti adeguati, ogni forma di intervento realmente partecipato risulta impossibile. È il progetto di un processo capace di aprire spazi di azione che permettano di guardare al futuro con speranza anche quando appare incerto, perfino inimmaginabile.

 

*Questo articolo è da intendersi come il lavoro collettivo degli autori: il paragrafo I dati di partenza, oltre ogni complessità è stato sviluppato da Andrea Fantin; il paragrafo Il sistema di rapporti, la rete operativa è stato sviluppato da Elisa Vendemini; il paragrafo Il progetto: strategia, strumento, innesco è stato sviluppato da Jacopo Galli. La conclusione, Mettere in campo i limiti, così come l’introduzione, sono opera congiunta dei tre autori.

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English abstract

The paper presents the research and operational collaboration between Iuav’s Urbicide Task Force and UNDP-PAPP, conducted during the ongoing conflict, and focused on defining intervention strategies for the Gaza Strip. It illustrates the challenges of producing reliable data in a devastated and rapidly changing urban environment and highlights the need to construct a shared knowledge framework as a basis for any design action. The paper discusses the establishment of a multilevel network connecting UN agencies, Palestinian ministries, and local communities with the research team and introduces an adaptive design approach based on the transitional neighbourhood approach. Through analytical and computational tools, the research proposes methods to guide decision-making and spatial planning under conditions of extreme uncertainty. The conclusion reflects on the political, ethical, and methodological limits of design tools for urban reconstruction, reaffirming the necessity of design as an evolving, strategic, and participatory process.

keywords | Gaza; Reconstruction; Transitional neighbourhoods approach; Data-driven design. 

questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e all'international advisory board della rivista

Per citare questo articolo / To cite this article: J. Galli, A. Fantin, E. Vendemini, Non pianta, non prospetto, né alzato. Il gruppo di ricerca Iuav per UNDP per Gaza, “La Rivista di Engramma” n. 230, Natale 2025.