Arte è cicatrice
Alberto Burri, Anselm Kiefer, Ariane Littman, Emily Jacir
Elea Mitrano
English abstract

1 | Alberto Burri, Gibellina, Grande Cretto (1968).
Ogni guerra produce una frattura ontologica che eccede la semplice sequenza degli eventi. Il tempo si incrina, sospeso tra la fine di un ordine precedente e l’indeterminatezza di un assetto futuro ancora inabitabile. In questo intervallo città e paesaggi, depositari di stratificazioni materiali e simboliche, divengono le superfici sensibili della lacerazione, registrando ciò che il linguaggio fatica a nominare. La fine delle ostilità non coincide mai con un semplice ritorno all’ordine precedente; al contrario, implica sempre una presa di posizione sulla memoria e l’identità collettiva. In questo senso ogni ricostruzione seleziona ciò che può restare visibile e ciò che, pur riedificando, verrà definitivamente cancellato (Centanni 2011).
La Seconda guerra mondiale impose una cesura netta, non solo nella storia dei conflitti, ma nel modo in cui la guerra si iscrive materialmente nei territori. Da quel momento, intere città assunsero il volto di topografie ferite: la distruzione non era più un semplice effetto collaterale, ma entrava nel progetto stesso del conflitto, lo strutturava e lo definiva. Ed è proprio questo salto di scala, questa mutazione della guerra in fenomeno territoriale totale, a rendere il Dopoguerra un laboratorio inedito sul visibile e sul vivibile (Gribaudi 2005).
In Italia, il Dopoguerra si configurò come un tempo di ricomposizione urgente più che di reale elaborazione del trauma. La ricostruzione divenne immediata necessità e assunse spesso la forma di un ritorno formale all’identico: il principio del “com’era e dov’era”, nato come risposta alla paura della perdita e come gesto di continuità con un passato spezzato, finì per trasformarsi in paradigma generale. Il restauro storicista non si pose come spazio di interrogazione del trauma, ma come pratica di ricomposizione che ne aggirava il nucleo, mettendo in contatto esigenze differenti e talvolta contrapposte: il bisogno delle popolazioni colpite di sottrarsi a un’esposizione costante della perdita e l’urgenza di nuovi e vecchi assetti egemonici di chiudere rapidamente i conti con un passato compromettente. In tale processo, la nozione stessa di patrimonio ‘integro’, in larga parte elaborata e tradotta in forme monumentali durante l'epoca fascista, fu adottata come modello da recuperare, più che come possibilità di rielaborazione e messa in discussione critica. Vittime e vincitori, pur per ragioni diverse, finirono così per convergere in una medesima economia della rimozione. La ferita venne neutralizzata attraverso la restituzione di ciò che era stato distrutto nella forma di ciò che sembrava sempre esserci stato. In questo processo, le macerie furono rapidamente assorbite, e il corpo urbano suturato e ricondotto a superficie coerente, apparentemente integra (Centanni 2011).
Proprio contro questa strategia di rimozione, tanto più efficace quanto meno dichiarata, alcune pratiche artistiche del secondo Novecento iniziarono a intervenire, spostando il problema dal che cosa ricordare al come rendere visibile ciò che non può essere pacificato. In un contesto in cui la ricostruzione aveva ricucito troppo in fretta per restituire continuità là dove si era prodotta una frattura storica e simbolica, l’arte comincia a lavorare sulla persistenza della ferita, abbandonando ogni forzata immagine di unità. In questo orizzonte si colloca ad esempio il lavoro di Alberto Burri. A partire dall’esperienza diretta della guerra e della prigionia, l’artista italiano fa della materia il luogo di un cedimento irreversibile. Nei cretti, nelle combustioni, nelle superfici lacerate, la materia non viene restaurata né sublimata, ma spinta fino ad un punto di incrinatura. Non più accidente da correggere, la crepa diviene il luogo stesso in cui l’opera accade. Questa logica raggiunge una forma paradigmatica nel Cretto di Gibellina [Fig. 1], realizzato sul sito della città distrutta dal terremoto del Belice del 1968: qui la ricostruzione non assume la forma di un ritorno all’identico, né di una rifondazione simbolica dell’abitato, ma di una monumentalizzazione del vuoto. La pianta urbana viene sigillata sotto una colata bianca che fissa la distruzione, rendendola di fatto ineludibile. Abbandonata ogni forma di nostalgia, la memoria passa attraverso una discontinuità̀ spaziale che obbliga a fare i conti con ciò che non può essere restituito.
Il Cretto si inserisce in una più ampia stagione in cui arte e architettura vengono chiamate a rispondere alle catastrofi ( dal Belice al Friuli, fino all’Irpinia ) come dispositivi di rifondazione non solo urbana, ma simbolica e comunitaria. Nel segno di questa stagione comincia ad imporsi una questione specifica: è possibile trattare allo stesso modo le distruzioni prodotte da eventi naturali e quelle generate dalla violenza storica e politica? O esiste una differenza ontologica che impone modalità radicalmente diverse di risposta? La tensione tra risarcimento pubblico del dolore e rischio di neutralizzazione simbolica attraversa molte di queste esperienze, mostrando come l’investimento artistico possa tanto riattivare un senso di comunità quanto produrre città-fantasma, luoghi abitati da una memoria non elaborata (De Maio 2018).
Un interrogativo analogo, seppure inscritto in un’altra genealogia storica, attraversa il lavoro di Anselm Kiefer, nato nel 1945 e formatosi nel contesto di una Germania chiamata, non senza difficoltà, a confrontarsi con l’eredità del nazismo. Nei suoi paesaggi bruciati e nei campi devastati, la storia riemerge come sedimentazione materiale: come un campo di forze che continua ad agire nel presente e che non vuole e non può ricomporre alcuna presunta identità nazionale.

2 | Anselm Kiefer, Waterloo, et la terre tremble encore d’avoir vu la fuite des géants, olio, argilla, terracotta, sabbia e altri materiali granulari applicati su tela, 1982.
Paglia, piombo, cenere, terra cruda sono materiali instabili e corrosi, che impediscono qualsiasi pacificazione estetica del trauma e sottraggono lo spazio alla neutralità del paesaggio. Nel 1982, all’indomani del sisma dell’Irpinia, Kiefer prende parte al progetto Terrae Motus promosso dal gallerista napoletano Lucio Amelio, realizzando Waterloo, Waterloo, et la terre tremble encore d’avoir vu la fuite des géants [Fig. 2]. Qui la superficie dell’opera non allude a una scena storica riconoscibile, né a un evento figurativamente rappresentato; è piuttosto l’iscrizione testuale, posta sul margine superiore della tela, a localizzare il lavoro e a trasformare una terra indifferenziata in un luogo storicamente determinato. Citando e riattivando Victor Hugo, Kiefer afferma la persistenza della battaglia come atto non concluso: la terra “trema ancora”, perché la storia non smette di depositarsi nei nomi, nei luoghi, nella materia stessa del paesaggio. La topografia qui è data dal linguaggio: è il nome di Waterloo, con la sua aura sedimentata di distruzione e morte, a caricare la terra di una memoria che non può essere cancellata. Kiefer non lavora dunque sulla colpa come categoria morale, ma sulla sua durata materiale e simbolica, mostrando come la rimozione produca superfici apparentemente compatte sotto cui continuano ad agire forze irrisolte.
In questo senso, tanto in Burri quanto in Kiefer, la ferita diviene condizione strutturale di un presente rimesso a contatto con il proprio invisibile e problematico campo di forze. L’arte non si sostituisce all’architettura né alla storiografia, ma interviene laddove queste hanno spesso fallito: nel mantenere aperta la possibilità che lo spazio continui a testimoniare. Contro la logica del risanamento e del restauro pacificante, Burri e Kiefer inaugurano con le rispettive pratiche una contro-pedagogia dello sguardo, dove ciò che è spezzato non viene nascosto né simbolicamente risolto, ma assunto come forma attiva di conoscenza.
A partire da questa linea interpretativa diviene possibile leggere alcune ricerche artistiche contemporanee come tentativi di un'incipiente messa in rilievo della cicatrice. Non come residuo di un passato ormai chiuso e risolto, ma come metodo critico per interrogare il presente. Parlare oggi di una genealogia della cicatrice diviene particolarmente urgente di fronte alla proliferazione di discorsi e progetti sulla cosiddetta “ricostruzione” di Gaza, elaborati in larga parte da attori occidentali mentre la devastazione è ancora in atto. In queste proposte, spesso tanto scollegate dalla realtà materiale quanto inquietanti per la loro disinvoltura, si manifesta una pretesa specifica: quella di anticipare un ‘dopo’ senza prima essere riusciti a misurarsi con il presente, di immaginare una forma di futuro mentre le condizioni stesse della sopravvivenza restano sistematicamente negate. È proprio perché inscritti in una lunga storia di rimozioni e ricostruzioni forzate che interventi come quelli promossi dal presidente americano Donald Trump risultano oggi perturbanti. Lungi dal costituirsi quali semplici esercizi retorici, divengono proposte che, mentre colonizzano l’immaginario, si appoggiano a condizioni politiche e materiali che ne rendono effettivamente possibile la realizzazione. Il rischio non è soltanto quello di una rinnovata violenza fisica, ma di una violenza simbolica più sottile: la produzione di un racconto che sostituisce l’esperienza della distruzione con la sua proiezione amministrativa, che rimuove la ferita trasformandola in problema tecnico e in superficie da ripristinare. In questo slittamento, la ricostruzione cessa di essere una questione di responsabilità storica e diventa un dispositivo di cancellazione preventiva, capace di recidere ogni possibilità di elaborazione collettiva.
In questo contesto parlare ‘di’ o ‘per’ la Palestina si rivela non solo insufficiente, ma profondamente problematico. Piuttosto che rivendicare una parola sostitutiva, diventa necessario tracciare narrazioni oblique, capaci di rendere visibili i processi di devastazione e di cancellazione senza appropriarsene, senza occupare lo spazio di chi ne è direttamente colpito. Non si tratta di rinunciare a prendere di parola, ma di interrogare le condizioni di possibilità stesse di un discorso, mettendo al contempo in gioco la propria identità: si tratta di spostare l'orientamento della propria postura da una pretesa rappresentativa a un'assunzione di responsabilità.

3 | Ariane Littman, Erasure, performance al Bloomfield Science Museum di Gerusalemme, 2006 © Oded Antman.
È a partire da questa prospettiva laterale ma coinvolta, che non parla ‘al posto di’, ma si espone ‘davanti a’, a partire da una storia, da un corpo e da una collocazione precisa, che il lavoro di Arianne Littman acquista una rilevanza particolare. Artista nata in Svizzera, da genitori ebrei, Littman sceglie di lavorare sul concetto di ferita a partire da quelle fattuali che attraversano il suo stesso corpo e la sua storia. In questo senso, la sua pratica non cerca assoluzioni né produce equivalenze per innestare scorciatoie empatiche, ma si assume il compito più scomodo di sostare là dove il privilegio rischierebbe altrimenti di tradursi in silenzio, afasia o rimozione. In opere come Erasure [Fig. 3], performance realizzata presso il Bloomfield Science Museum di Gerusalemme, non vi è intenzione di rappresentare un territorio ferito, ma di esporsi alla ferita come condizione. La mappa smette di essere un dispositivo neutro di orientamento e diventa materia vulnerabile. Allo stesso tempo il corpo proprio perde ogni pretesa di integrità simbolica e si lascia attraversare dalle stesse linee di frattura. Terra e corpo non sono messi in analogia ma coincidono, si contaminano e si implicano a vicenda.

4 | Arianne Littman, Grafted Land (2016-17), tessuto, garza, mappa, gesso, pigmenti e filo, 2016-17.
Nelle Wounded Maps (dal 2009) e in particolare in Grafted Land (2016-17) [Fig. 4] la cicatrice smette di funzionare come semplice metafora e si impone nella sua materialità concreta. Garze, suture e innesti non sono qui elementi simbolici aggiunti a posteriori, ma il risultato di un’operazione reale compiuta su mappe già segnate dalla violenza amministrativa e militare. Le opere nascono infatti dal riuso delle Closure Maps di Gerusalemme prodotte dall’OCHA durante la seconda Intifada: documenti tecnici pensati per registrare posti di blocco, barriere e reti stradali, che Littman taglia e ricuce come si farebbe con un corpo lacerato. La medicazione non promette di restituire integrità, e tantomeno guarigione, espone piuttosto la fragilità di ogni gesto di cura di fronte a una ferita che continua a prodursi. In Grafted Land questo lavoro si radicalizza ulteriormente. Littman sceglie di intervenire su una mappa palestinese (The Holy Land, Palestine and Israel) venduta come oggetto turistico nella Città Vecchia di Gerusalemme. Le aree contese vengono staccate dalla carne della mappa, coperte di garza sterile e ricucite con filo verde, lasciando affiorare macchie rosse, cicatrici, segni di innesto che non si lasciano normalizzare. In questo processo, la Cisgiordania assume la forma ambigua di un embrione: una presenza sospesa, priva di nome e di statuto politico definito, congelata in un tempo che non evolve. Nelle opere successive, quell’embrione verrà addirittura asportato, trasformandosi in un frammento orfano, senza una madrepatria a cui potersi ricongiungere (Littman 2020). La cicatrice, in queste mappe, non serve dunque a ricomporre un’unità perduta; al contrario, rende visibile l’operazione stessa della cura come gesto sempre parziale, sempre insufficiente. In questo gesto di esposizione la mappa smette di funzionare come strumento di orientamento e diventa superficie sensibile di una storia ancora aperta. Nell’impossibilità di ritornare a qualunque integrità, si produce una superficie nuova e instabile, in cui la divisione resta leggibile. La ferita non è ciò che precede la cura, ma ciò che la cura produce come sapere.
In Erasure/Mehika (2006), questo sapere prende la forma di un gesto ripetitivo e senza catarsi. Cancellare le linee di una mappa, strofinarle fino a trasferirle sul proprio corpo e sul pavimento, non significa eliminare ciò che è stato, ma farne riemergere il peso. Il nome scomparso di Esh Sheikh Badr non viene semplicemente recuperato, viene riattraversato e riscritto come traccia corporea. La cancellazione, qui, esula dal significato comune di rimozione per farsi piuttosto atto di scavo di ciò che è stato precedentemente coperto. Una pratica di riesumazione che rende evidente come ogni mappa sia il risultato di una violenza, sedimentata e normalizzata. In questo costante slittamento, tra suturare e cancellare, tra curare e riaprire, il lavoro di Littman si sottrae tanto alla logica della denuncia quanto a quella della riparazione simbolica. La cicatrice non viene risolta, né tantomeno estetizzata; si dà piuttosto come forma di pensiero. Non promette guarigione, ma impone una sosta davanti a ciò che “ancora brucia” sotto gli strati inerti, materiali e simbolici: un confronto con ciò che, dal fondo, non ha mai smesso di gridare, di persistere come immagine ardente (Didi-Huberman 2005).

5 | Emily Jacir, Material for a Film, installazione dell’opera nella mostra Material for an Exhibition, Fondazione Brescia Musei © Alberto Mancini.
Se nel lavoro di Arianne Littman la cancellazione è un gesto che scava per dissotterrare ciò che è stato obliterato per sovrapposizione, nell’opera dell’artista palestinese Emily Jacir questo stesso atto assume una gravità ulteriore. Qui la ferita non è soltanto amministrata o suturata, ma inferta deliberatamente come atto di eliminazione politica e simbolica. E tuttavia, anche in Jacir, la cancellazione non coincide mai con l’annientamento definitivo. Al contrario, è proprio nel punto in cui si tenta di cancellare che qualcosa resiste, e riemergendo si moltiplica.
Il libro de Le mille e una notte attraversato dal proiettile che uccise Wael Zuaiter nel 1972, intellettuale, poeta e traduttore palestinese assassinato a Roma dal Mossad, diventa così, nel lavoro di Jacir, un oggetto-soglia. Il proiettile attraversa il libro come ha attraversato il corpo di Zuaiter, ma non riesce a interrompere il lavoro che quel corpo portava con sé, ovvero le quattromila pagine fotocopiate durante il tentativo, rimasto incompiuto, di tradurre direttamente dall’arabo all’italiano Le mille e una notte. Un gesto di mediazione culturale che si configura, retrospettivamente, come una forma di resistenza alla cancellazione. In Material for a Film (dal 2005) e nelle installazioni successive, Jacir insiste su questa ferita attraverso la ripetizione. Mille libri bianchi perforati da colpi di pistola dello stesso calibro usato per l’omicidio di Zuaiter vengono disposti come una biblioteca apparentemente neutra, attraversata però da fori sempre diversi, sempre singolari. Ogni perforazione è un atto di violenza reiterato, ma anche una denuncia della sua sistematicità [Fig. 5]. Qui la cancellazione non è nascosta: è resa visibile, quasi didattica, costringendo il pubblico a farsi testimone di una ferita che continua a riverberarsi nel presente (Alberani 2025).

6 | Emily Jacir, Memorial to 418 Palestinian Villages Which Were Destroyed, Depopulated and Occupied by Israel in 1948, tenda da ricamo, filo da ricamo, tessuto, libro di registro/documentazione, 2001.
Questa stessa logica attraversa Memorial to 418 Palestinian Villages Which Were Destroyed, Depopulated and Occupied by Israel in 1948 (2001), dove la cancellazione cartografica viene contrastata da un gesto collettivo e corporeo: il ricamo dei nomi dei villaggi distrutti su una tenda per rifugiati [Fig. 6]. Qui la memoria non è affidata alla monumentalità, ma al piano reiterarsi di un gesto, all'annodatura paziente quanto è stato annientato. Ogni nome ricamato non restituisce il villaggio perduto, ma ne impedisce la scomparsa simbolica, ponendo la memoria come “fondamento del diritto al ritorno nelle proprie case” (Alberani 2025). Anche in Jacir il filo e l’ago diventano strumenti politici; ma mentre in Littman la sutura espone l’insufficienza della cura come punto da cui ripartire, in Jacir il ricamo agisce come atto di insistenza: una memoria che si rifiuta di essere archiviata. Laddove la rimozione sta ancora operando per cancellazione materiale, simbolica e territoriale, Jacir insiste sul segno come forma di resistenza, trasformando la ferita in archivio, il foro in prova e la ripetizione in atto politico.
Il passaggio da Littman a Jacir segna così uno spostamento decisivo. Se la prima lavora sul rischio che la rimozione produca superfici pacificate, la seconda opera all’interno di una storia in cui la cancellazione è esplicita, sistematica e reiterata. E tuttavia, ciò che emerge con più forza nella pratica di entrambe le artiste non è la pretesa di chiudere la ferita, né semplicemente quella di mantenerla esposta, ma l’urgenza di portarla a leggibilità (Benjamin [1982] 2000, 517-18). Ogni presente, scriveva Benjamin nei Passages di Parigi, “è determinato da quelle immagini che gli sono sincrone: ogni adesso è l’adesso di una determinata conoscibilità”, in cui “la verità è carica di tempo fino a frantumarsi [...]". Nelle opere di Litman e Jacir "quel che è stato" – ovvero il non elaborato del passato – si unisce "fulmineamente" con l’adesso in una costellazione lacerata, capace di mettere in circolo i momenti disgregati di una storia mai raccontata. La cancellazione, quando viene assunta come gesto critico, smette di essere un atto di espunzione e diventa un luogo di riapparizione. In tale riapparizione l’immagine pervenuta a leggibilità mostra la sua pregnanza quale “impronta di questo momento critico e pericoloso che sta alla base di ogni lettura” (Benjamin 2000, 517-18). È solo in questo spazio fragile, instabile, pericoloso, che la memoria può aprirsi una strada verso un'autentica condizione di ‘storicità’: sottrarsi, vale a dire, tanto all’oblio quanto alla pacificazione.
Continuare a seguire la genealogia appena tracciata, e di cui sono state qui evidenziate solo alcune linee costituive, significa dunque sottrarre la ferita alla logica dell’evento e restituirle una funzione conoscitiva. Dalla rimozione postbellica alle pratiche di Littman e Jacir, passando per Kiefer e Burri, la cicatrice emerge come un dispositivo critico per leggere lo spazio contemporaneo. Nel monumento levigato, nella crepa, nella nuda terra e nella garza che sutura senza guarire, la ferita non viene superata ma mantenuta in tensione, chiamando in causa il presente come campo di responsabilità. In tale orizzonte il lavoro di Emily Jacir si colloca come radicalizzazione di questa stessa postura. La ferita non è ciò che resta di un passato concluso, ma ciò che continua ad agire, a dislocare, ad interrompere ogni narrazione pacificata, rendendo visibile l’irrisolto come condizione stessa del nostro rapporto con lo spazio, la storia e le forme della convivenza.
Riferimenti bibliografici
- Alberani 2025
S. Alberani, Material for an exhibition: storie, memorie e lotte dalla Palestina e dal Mediterraneo, Milano 2025. - Benjamin [1982] 2000
W. Benjamin, I “passages” di Parigi [Das Passagen-Werk, in Gesammelte Schriften, hrsg. von R. Tiedemann, H. Schweppenhäuser vol. V, tomo 1, Berlin 1982],, ed. it. a cura di E. Ganni, H. Riediger, Opere complete di Walter Benjamin, vol. IX, Torino 2000. - Centanni 2011
M. Centanni, Italia anno zero: lacerazioni e plastificazioni della memoria, “Opus Incertum: 6-7. Costruzioni e ricostruzioni dell’identità italiana” (2011), 19-29. - De Maio 2018
F. De Maio, Architettura e arte nei fragili territori italiani, “Ricostruzioni: architettura , città, paesaggio nell’epoca delle distruzioni” (2018), 198-202. - Didi-Huberman 2009
G. Didi-Huberman, L’immagine brucia [L’image brûle, “Penser par les images: Autour des travaux de Georges Didi-Huberman”, 2006], in Pinotti, Somaini (ed.), Teorie dell’immagine. Il dibattito contemporaneo, Milano 2009, 241-268. - Littman 2020
A. Littman, presentazione di Grafted Land 2016-2017 sul sito dell’artista: https://ariane-littman.com/2017/08/grafted-land-2016-2017/, Febbraio 2020.
English abstract
The essay outlines a genealogy of the wound as a critical framework for examining the relation between space, memory, and historical violence, challenging the pacifying narratives that often accompany reconstruction. Focusing on the Italian postwar context, urban and symbolic recomposition is interpreted as a strategy of erasure, in which restoration and the return to formal sameness diminish the legibility of war’s rupture. Against this logic, late twentieth-century artistic practices – exemplified by Alberto Burri and Anselm Kiefer – treat the wound as a structural condition of the present, where fractured matter becomes a site of historical inscription resisting aesthetic resolution and identitarian closure. This framework is extended to contemporary discourses on the “reconstruction” of Gaza, increasingly articulated while destruction is still ongoing. In narratives often produced by Western actors external to the context, reconstruction functions as an anticipatory gesture that displaces an unresolved present, transforming the wound into a technical problem and neutralizing its political and historical dimensions. The article then examines contemporary artistic practices that mobilize the wound as an operative method, focusing on the work of Arianne Littman and Emily Jacir. In both cases, the scar is not the remainder of a concluded past but an active device for reading the present. Against the rhetoric of repair and reconstruction, art sustains the presence of the unresolved, insisting on a confrontation with what cannot be pacified or restored to integrity.
keywords | Wound; Memory; Alberto Burri; Anselm Kiefer; Ariane Littman, Emily Jacir.
questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e all'international advisory board della rivista
Per citare questo articolo / To cite this article: Elea Mitrano, Arte è cicatrice. Alberto Burri, Anselm Kiefer, Ariane Littman, Emily Jacir, “La Rivista di Engramma” n. 230, Natale 2025.