"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

230 | Natale 2025

97888948401

Gaza. Materiali per una tavola warburghiana 

a cura del Seminario Mnemosyne, coordinato da Monica Centanni e Giulia Zanon

English abstract

§ Dioniso Technoraver. Il rave come inizio
§ Cartografia distopica
§ Stranamore. Soldati israeliani su Tinder
§ Horcynus Orca a Gaza
§ Ninfa con armi improprie

Metodo e significato di una tavola warburghiana per Gaza

Ogni guerra è anche una guerra di immagini. La guerra ridisegna di continuo la soglia di ciò che può essere mostrato e di ciò che non è dato mostrare: sovraccarica, svuota o riorienta il senso del simbolo, modula il grado di investimento patetico che un’immagine è in grado di suscitare, ne determina il tasso di interesse. È quando c’è guerra che le immagini entrano prepotentemente in gioco: lo sa bene Aby Warburg, che allo scoppio della Prima guerra mondiale precipita in uno stato di acuta agitazione: “Come un sismografo, i suoi nervi sensibilissimi avevano registrato le scosse sotterranee già quando gli altri non percepivano nulla” (così Ernst Gombrich). In quei mesi, in cui scrive di sentirsi come una Cassandra, comincia a collezionare sistematicamente immagini, ritagli di giornale, schemi e grafici, nella convinzione – ingenuamente erronea – che, una volta entrata in un nuovo regime di visibilità, la guerra, con le sue forme e le sue ignominie, non potesse più essere tollerata né tantomeno perorata dagli interventisti. Fra l’estate del 1914 e il gennaio del 1915, Warburg promuove addirittura una rivista con lo scopo di scongiurare la guerra grazie alla ricerca e all’informazione per immagini poiché: “Parole e immagini diffuse attraverso la stampa sono da interpretare proprio come le vere armi per il combattimento in quella guerra civile dell’intelletto” (si vedano, a tal proposito, i contributi in Engramma 127, Figli di Marte. Warburg, Jünger, Brecht).

Dieci anni più tardi – dopo gli anni del ricovero a Kreuzlingen, dove aveva scontato le conseguenze del profondo disagio psichico inflitto dalla tragedia collettiva del conflitto mondiale – Warburg inizia a lavorare all’ambizioso tentativo di pubblicare una cartografia della storia culturale europea, il Bilderatlas Mnemosyne. Nell’Atlante dispone, in montaggi serrati, riproduzioni fotografiche di opere d’arte, pagine di libri, ritagli di giornale: l’esito finale di questa operazione è la messa in scena di un campo tensivo che simula il funzionamento della memoria dove le immagini scelte, disposte sulle grandi tavole ricoperte di tela nera, sono presentate come espressioni di latenze e metamorfosi nel basso continuo della storia. Con Mnemosyne, Warburg propone il modello di un’epistemologia per polarità che dà forma a un peculiare modo di interrogare la “storia psicologica” della nostra cultura: una storia priva di centro unico, animata dai propri desideri e dalle proprie asincronie, capace di suscitare interrogativi nell’osservatore senza mai chiudersi in risposte univoche.

Mettere oggi alla prova quel metodo significa, in fondo, continuare ad affidarsi alle immagini per comprendere il modo in cui si configura la memoria. In questo senso, assumere l’Atlante come modello per il lavoro iconografico che si è sviluppato a latere di questo numero di Engramma, serve a delineare una prima traccia per interrogare le immagini del nostro presente a partire dal loro impatto mnestico. Mnemosyne funziona come macchina energetica che riattiva il gioco del tempo e fa riaffiorare immagini, anche producendo effetti di anacronismo e polarizzazione. Il lavoro che qui presentiamo va letto come un primo esercizio in questa direzione. Guardare a Gaza – a partire dalle ferite che il suo dramma incide sul presente e dalle trasformazioni che questo impone al nostro pensiero – non significa allora applicare un freddo filtro analitico alle rappresentazioni che la riguardano, ma provare a esercitare un lavoro di setaccio per misurare la caratura che queste immagini hanno e come fanno segno sulla nostra memoria. In questa prospettiva, il nostro compito è sperimentale e si traduce nel ‘giocare a Mnemosyne’: disporre su un tavolo una serie di immagini, esporle insieme in un campo agonale e osservare come, per via del tutto induttiva, emergano nuclei di senso capaci di entrare in attrito con l’immaginario attuale, e di restituirne, per via figurale, la carica energetica storica e politica. Si tratta, insomma, di adottare il metodo-Mnemosyne, non di evocare una inesistente tavola dell’Atlante.

Abbiamo messo alla prova il metodo Mnemosyne per verificare se potesse consentirci di sviluppare alcune tracce di ricerca. L’obiettivo, che è andato progressivamente delineandosi, è stato quello di produrre una serie di tagli, di linee di frattura capaci di fendere il cosmo saturo di immagini che ci circonda e davanti al quale spesso non riusciamo a prendere parola. All’interno di questo quadro metodologico abbiamo proceduto per tentativi, sperimentando costruzioni ancora tutte aperte. Dal lavoro collettivo sulle immagini stampate in modo approssimativo, ritagliate e rese maneggiabili come figurine, dal loro montaggio sul tavolo e dalla discussione che ne è scaturita, si sono catalizzati alcuni nuclei tematici relativi a Gaza e, insieme e soprattutto, a ciò che Gaza mette in questione in noi.

Nei tre mesi di lavoro del Seminario Mnemosyne con studenti del corso di Iconologia dell’Università Iuav di Venezia i nuclei emersi sono stati molti; qui ne presentiamo cinque: Dioniso Technoraver. Il rave come inizioCartografia distopicaHorcynus Orca a Gaza; Stranamore. Soldati israeliani su TinderNinfa con armi improprie

La posta in gioco, per citare Giordano Bruno, è cercare costellazioni di immagini abbastanza potenti da bussare alla porta di Mnemosyne e far sì che la Memoria apra le sue porte: è il tentativo – insieme superbo e sperimentale – di misurarci con il potenziale immaginario condensato ed evocato dalle molte orrifiche immagini che ci hanno bombardato negli ultimi due anni. Una per tutte, l’immagine icastica della riviera Trump Gaza.

Dioniso technoraver. Il rave come inizio

Andreas Arias Pineda, Brenno Damian

– Fotografia scattata durante un festival techno.
– Fotografia scattata durante un festival techno.
– Francis Bacon, Study for a Head, olio su tela, 1952.
– Aiace e Cassandra, bassorilievo ellenistico, fine sec. IV a.C. Roma, Villa Borghese.

– Fotografia scattata durante un festival techno.
– Rilievo con menade danzante, dettaglio, sarcofago proveniente da Villa Medici, I sec. a.C., Firenze, Gallerie degli Uffizi.
– Fermoimmagine di un video dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023.
– Fotografia scattata durante un festival techno.
– Menade danzante, skyphos a figure rosse, 330-320 a.C., London, The British Museum.
– Fotografia scattata durante un rave.

L’ultimo atto della guerra – e la fase terminale del genocidio – è cominciato con un rave. Il 7 ottobre 2023, uno degli obiettivi dell’attacco di Hamas, e di altre formazioni militari attive in area istraeliano-palestinese, è stato il Supernova Festival, che si stava tenendo a pochi metri di distanza dal confine con la striscia di Gaza. A quanto è possibile ricostruire, nell’opacità delle notizie circolanti intorno all’evento, l’assalto specifico al rave non sarebbe stato previsto nel piano operativo: i miliziani presenti nell’area avrebbero intercettato l’esistenza della festa, mentre l’operazione Diluvio al-Aqṣā era già in corso e avrebbero deciso in diretta di far convergere sulla massa dei partecipanti al rave il loro attacco. Questa interpretazione si basa su elementi investigativi – l’assenza del festival fra gli obiettivi segnati nelle mappe attribuite al piano offensivo e la traiettoria d’arrivo dei miliziani, che non proveniva dalle vie più vicine al confine ma da una arteria stradale principale. Una deviazione in corso d’opera, dunque – un cambio di mira dettato da una fortuita circostanza: quale obiettivo migliore da colpire esemplarmente di una massa consistente di israeliani in festa?

Ma, proprio in forza di questa probabile casualità, un interrogativo ci si impone: sulla potenza simbolica nel rave, sulla sua funzione di catalizzatore energetico e sull’ambiguità iscritta da sempre nella festa. Festa è, per definizione, la sospensione del regime ordinario del limite: un dispositivo sperimentale di perdita di misura, di sconfinamento della temporalità. Da sempre oscillanti tra estasi e terrore, i riti dionisiaci celebrano l’abbassamento della coscienza, il disarticolarsi di una percezione rigida del sé.

Attaccare il nemico durante una festa significa allora colpire il punto esposto e sensibile, significa lacerare e invertire lo spazio in cui chi partecipa al rito fa i conti con la perdita del limite. Un attacco tanto potente perché il rovesciamento – entusiasmo ed estasi, contro delirio e annientamento – è già iscritto nella festa stessa. Il principium individuationis si infrange: la festa è carica energeticamente perché è la forma culturale che eccede la timé apollinea che segna il profilo e serra la persona nei confini contornati e precisi dell’individualità e, insieme, funziona come velame e trasfigurazione della dimensione orrorifica, un limite che si rivela come attraversabile. Il carattere dionisiaco di un rave condensa e rileva la cruciale ambiguità tra culmine orgiastico e terrore divino, tra abbandono estatico e panico. Dioniso è il rave: i tributi a Dioniso implicano una complessa relazione con il confine, individuale o culturale. L’estasi può condurre a una perdita di sé totale che sprofonda e si rovescia nell’angoscia. Se la festa non è condotta in un safe space, si rischia il bad trip:

Stare sottocassa, abbandonarsi alla musica, fondersi nel magma dei corpi e, in ambienti bui, recuperare l’antica intimità che unisce i piedi alla terra. Poca luce, diffusa nella bruma secreta da questo grande corpo danzante che è il rave. In questa notte fulgida e brillante vorrei che questa sensazione di piacere non finisse più, e stringo la mia bottiglietta lisergica brindando al compagno che accanto a me mi sorride. Ma se mi volto a tutto questo, subito scivolo al suo polo opposto e adesso sono tra le fila della trincea, all’inferno: attorno a me corpi espropriati dall’orrore, satiri e visi vuoti, sguardi persi nel labirinto mentale del trip. C’è chi si accascia nella polvere e chi inciampa e va perduto. Altri, forse un poco discosti, si rendono membra impudiche, colti nell’oscenità del proprio sollazzo. E questo caos ampio e frastornante si è preso ciò che rimane di me e, come un guscio vuoto, ricompongo la mia fuga.

In questo senso, chi entra in un rave senza la strumentazione necessaria ad attraversare il rito – dispositivi psichici e psicotropi in primis, ma anche fisici, vestiari, culturali – rischierà di sprofondare in uno stato di smarrimento, disorientamento, angoscia: la trance collettiva può presentarsi come minaccia psichica e fisica al limite letale. E l’immersione nello spossessamento di sé è molto prossima all’immersione nella follia, alle tempeste d’acciaio di uno scenario di guerra. La festa – la festa dionisiaca – altro non è che una declinazione, non sempre sublimata, della guerra.

L’attentato al rave del 7 ottobre 2023 realizza l’attacco bellico nella sua più nuda letteralità: colpire il nemico nel punto di massima vulnerabilità ed esposizione, là dove una comunità occasionalmente riunita per far festa si espone deliberatamente oltre il limite. L’attacco al rave rende visibile – con violenza – la natura duplice del rito. Il festival musicale Supernova, pubblicizzato come “un viaggio di unità e amore”, si trasforma in massacro. Il genocidio a Gaza inizia con un’inversione energetica: nelle rarefatte testimonianze audio dell’evento, il ritmo della musica che esce dalle casse si frappone al fragore delle armi dell’assalto; la caduta, lo slancio della menade danzante, si inverte nella caduta delle vittime delle mitragliatici – le braccia alzate, esaltate dall’estasi della musica, si convertono in gesti di supplizio e di implorazione.

Cartografia distopica

Simone Benedetto Fraschini, Carolina Tascione

La mappa come dispositivo violento. Rappresentazione immaginaria – coloniale o liberata - della Palestina

1 | Immagine fornita da Maxar Technologies dove vengono mostrati i danni agli edifici e alle infrastrutture dopo il bombardamento a Beit Hanoun, nel Nord della Striscia di Gaza, 2023.
2 | Fotografia del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu durante l’ottantesima sessione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, 2025. 
3 | Mappa della Palestina antica del Touring Club Italiano, 1928-1949.
4 | Palestina libera: dal fiume al mare, Acquarello di Ahmet Faruk in vendita sulla piattaforma Etsy. Veduta simbolica della Palestina prima dell’occupazione, costruita attraverso elementi iconici delle sue principali città: al-Quds, Nablus, Akka, Asqalan, Nasirah, Gaza e Bi’r al-Saba’. Al centro emergono le moschee monumentali di Quds, la Cupola della Roccia (Al-Sakhra) e la Masjid al-Qibli. La mappa è incorniciata da quattro frutti mediterranei – olive, uva, fichi e melograni – emblemi di fertilità, ricchezza della terra e patrimonio culturale, 2022. 
5 | Elaborazione grafica di Forensic Architecture che rappresenta (in blu) le aree di danno e distruzione nella Striscia di Gaza tra il 15 ottobre 2023 e il 6 luglio 2024.

Mappare significa esercitare controllo. La mappa, prima di essere una forma di rappresentazione dello spazio, è un dispositivo che produce conoscenza funzionale al controllo di un territorio. Basta scorrere i sette metri della Tabula Peutingeriana, copia di una carta stradale romana, e osservare come lo spazio si comprime in un fitto elenco di città e stazioni controllate dall’Impero romano, divise da un’esile serie di strisce blu che rappresentano il Mar Mediterraneo, come oggi avviene in una carta della metropolitana. La fermata di Gaza è segnata nella Tabula, a circa un terzo della mappa, uno dei tanti punti di sosta fra Antiochia e Alessandria.

James C. Scott ha dimostrato come lo Stato moderno operi attraverso processi di semplificazione volti a rendere il territorio ‘leggibile’, sacrificando la complessità delle pratiche locali, dei saperi situati e delle relazioni sociali in favore di schemi astratti, standardizzati e amministrabili. In questa prospettiva, la mappa geografica si configura come uno strumento di razionalizzazione che riduce lo spazio vissuto a superficie misurabile, a casella catastale, cancellando memorie, esperienze e forme di vita non immediatamente traducibili in dati grafici. Tale riduzione non è priva di conseguenze politiche: ciò che non viene mappato tende a non esistere sul piano del riconoscimento istituzionale e giuridico.

Anche oggi, osservando un mappamondo, si notano le linee rette ferocemente ortogonali tracciate dalle potenze coloniali europee fra il XVIII e il XX secolo, che dividono artificialmente i confini degli stati dell’Africa e del Medio Oriente. Due di queste linee formano un angolo acuto che si insinua fra Siria e Egitto e perimetrano la Palestina, con la stessa semplificazione con la quale i Romani definivano i territori delle loro provincie. Su questa forma astratta si sono prese decisioni economiche e politiche, si sono tenute contrattazioni fra le potenze mondiali. La mappa della Palestina si configura pertanto come una manifestazione topografica delle ferite prodotte dalla storia coloniale e postcoloniale: non si tratta soltanto di uno spazio frammentato dal punto di vista geografico, ma di un territorio disegnato a tavolino sul quale sono ricaduti, con particolare violenza dopo la Seconda guerra mondiale, processi di espropriazione, controllo e segregazione.

Già Michel de Certeau, in L’invenzione del quotidiano (1980), metteva in evidenza come la mappa geografica tenda a cancellare il racconto, l’esperienza e la temporalità dell’abitare, sostituendoli con una rappresentazione stabile, astratta e apparentemente oggettiva. Applicata al contesto palestinese, questa distinzione permette di rileggere la frattura profonda tra la mappa politica – prodotta da attori statali o sovrastatali – e lo spazio quotidiano vissuto dalla popolazione palestinese, fatto di percorsi interrotti, confini mobili, zone proibite e accessi condizionati.

Edward Said in Orientalismo (1978), osserva che la rappresentazione dello spazio ‘altro’ è parte integrante del progetto coloniale: nominare, disegnare e delimitare equivale a esercitare dominio. La cartografia diventa quindi una tecnologia di potere che contribuisce alla costruzione di una “geografia dell’esclusione”. Nell’intervento di Benjamin Netanyahu durante l’ottantesima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, tenutasi a New York nel settembre 2025, in cui il leader di Israele ha recisamente contrastato il riconoscimento di uno Stato palestinese, è significativo che la mappa che stava alle sue spalle durante l’intervento fosse stampata su un supporto rigido di piccole dimensioni, facilmente maneggevole, ed estremamente semplificata nella grafica: tre colori, i confini politici fra paesi, senza territori, fiumi o città, e la prepotente campitura rossa a indicare “il nemico” [Fig. 2]: una potente metafora della violenza simbolica e materiale tradotta in termini di semplificazione cartografica.

In anni recenti, la mappa è sempre di più uno strumento di controllo in tempo reale del territorio, alimentata da un flusso costante di dati in tempo reale. Come l’aquila, la mappa satellitare vede tutto e tutti. E proiettando segni artatamente obiettivi, sorveglia e punisce. Le immagini dall’alto, da satelliti o droni, sono le più frequentemente usate oggi nei media per rappresentare le azioni di guerra. Ma gli stessi strumenti usati per guidare le armi, possono essere impiegati per forme di contro-sorveglianza, di denuncia di crimini di guerra, come nelle mappe prodotte da Forensic Architecture (vedi in questo stesso numero di Engramma i contributi sul tema [Fig. 5]), nella speranza che la raccolta di informazioni, storie, e dati sia utile a formare una nuova geografia.

In assenza di una mappa di una Palestina libera, si tenta di immaginarla, anche traendo spunto dalla cartografia del recente passato, in cui il 1948 si pone, in termini assoluti, come la cesura che segna il ‘prima’ e il ‘dopo’ [Fig. 3] (si veda a tal proposito il sito Gaza Historical Database che raccoglie tra l’altro le mappe cartografiche di Gaza ). Alcune pratiche artistiche e culturali hanno costruito contro-narrazioni cartografiche, opponendosi alle mappe imposte dall’alto, attraverso forme di rappresentazione radicate nella memoria politica e culturale del paese, ma anche nell’uso quotidiano del territorio e nelle pratiche di vita [Figg. 4, 5]. Da strumento di dominio e di sovrascrittura violenta della realtà, la mappa può diventare un dispositivo critico, che lavora su una proiezione dell’immaginario del tutto anticoloniale, capace di restituire visibilità e ‘disegno’ a un territorio e a una soggettività storicamente negati.

In vacanza a Gaza. Miti, potere e immagini dall’Occidente: Un confronto tra Trump-Gaza e la Costa Smeralda

6 | Screenshot del video generato con l’AI pubblicato sull’account del social Truth dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, statua d’oro di Trump, 2025.
7 | Karim Aga Khan IV davanti al plastico di porto cervo.
8| Il marchio del consorzio Costa Smeralda inciso sulla pietra. Sullo sfondo il cantiere dell’hotel Cala di Volpe. Foto scattate tra anni Sessanta e Settanta.
9 | Screenshot del video generato con l’AI pubblicato sull’account del social Truth dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, grattacieli immaginati sulla costa di Gaza, 2025.

10 | Fotografia del porto di Gaza e dintorni, 1911.
11 | Fotografia di una riunione del Consiglio di Amministrazione tenuta dal giovane Aga Khan, con André Ardoin alla sua sinistra, mentre parla al sindaco di Arzachena. In fondo, Paolo Riccardi e Felix Bigio con gli occhiali scuri. 
12 | Immagine di soldati israeliani in vacanza in Gallura generata con l’AI, prompt dell’artista Eman Rus, 2025.

“Donald Trump will set you free, bringing the life for all to see, no more tunnels, no more fear, Trump’s Gaza is finally here, Trump’s Gaza is shining bright, golden future, a brand-new life!”. ♪♪ Comincia così il jingle della clip pubblicata a febbraio del 2025 da Donald Trump. Realizzato con l’AI, il video raffigura le coste della Striscia di Gaza completamente reinventate in una nuova versione, aggiornata e ulteriormente plastificata, di Sharm el-Sheikh [Fig. 8]. Nella tempesta delle immagini di distruzione e di morte che ci accompagnano dall’inizio dell’ultimo capitolo del genocidio umano, culturale, politico, della Palestina, questa – che rappresenta un luogo di vacanze accessibile e alla moda, con i Palestinesi sorridenti che servono come camerieri nei resort di lusso – è una delle immagini più forti e sconvolgenti. Cava il fiato, mancano le parole: che cosa stiamo guardando? E un diabolico pensiero agita la nostra sensibilità e alimenta il nostro sgomento: siamo sicuri che quel che a noi fa orrore, e per noi fa scandalo sia così orrorifico e scandaloso per tutti i Palestinesi?

Per tentare una risposta, è necessario spostarsi altrove, cercare un testo a fronte, un microcosmo già esperito in cui una simile operazione immaginativa abbia trovato forma e legittimazione. Abbiamo, proprio in Italia, un esperimento prodromico: un progetto nato oltre cinquant’anni fa che consente di leggere con maggiore chiarezza il piano del presente. “Costa Smeralda” è un neologismo, ma anche uno dei più riusciti dispositivi imprenditoriali e simbolici del Novecento europeo. La Costa Smeralda fu pensata, inventata e fondata dal Principe Karim Aga Khan IV negli anni Sessanta. Sembra l’inizio di una favola: un principe arriva in Sardegna da molto, molto lontano, a cavallo del suo yacht, guarda il mare meraviglioso e vede qualcosa che prima non c’era: a seguire, con la forza dei suoi ingenti mezzi e della sua fantasia visionaria, aiutata dai potentati finanziari regionali e nazionali, spezza la maledizione dei Monti di Mola e dei suoi abitanti, e fa del luogo che era abitato da oscuri pastori una perla del turismo di lusso internazionale [Fig. 9]. 

Nelle letture critiche che da decenni accompagnano il progetto della Costa Smeralda non emerge mai un’interpretazione univoca, e proprio l’oscillazione dei giudizi ci rivela la struttura e l’essenza profonda del progetto. Il marchio “Costa Smeralda” [Fig. 10] è uno scarto, puntuale e preciso, tra ordini di realtà, e segna la distanza fra il mondo (che era) reale e il mondo promesso. Nel ‘testo a fronte’ della riviera Trump-Gaza, colpiscono non tanto le statue d’oro che elevano Trump a divinità onnipotente, quanto la produzione di immagini che, fino a quel momento, nessuno aveva osato immaginare [Fig. 11]. In Sardegna, per un miracolo che ha a che fare con la dimensione fiabesca del potere della finanza e del capitale, l’Aga Khan individua un punto di fragilità culturale, di afasia autocertificativa, e riesce a spazzare via dalla realtà viva di quella terra e dei suoi abitanti la realtà precedente, sovrimponendo i suoi segni e i suoi simboli [Figg. 12-13]. E lo fa in un batter d’occhio, con l’efficacia performativa di un colpo di bacchetta magica turbocapitalista. Lo iato tra la fisicità del territorio e l’“exclusive paradise” immaginato è recuperabile soltanto mediante un, difficile, esercizio di rammemorazione. Il marchio “Costa Smeralda”, di vacuo ma efficace suono commerciale, apposto sulla toponomastica e sulla realtà storica e culturale precedente, non neutralizza la contraddizione, non risolve il problema dell’origine: si presenta come cifra di una tensione che, per ora, è ancora latentemente viva. Si è trattato di una vera rifondazione simbolica, non apertamente feroce e cruenta, ma radicale: in questo, la Costa e il suo potentissimo esercizio immaginativo, la sua utopia univoca e degenerata, è la stessa che ritroviamo con tutt’altra violenza sanguinaria nella figura discorsiva di Trump-Gaza.

Un ulteriore paradosso che apparenta l’esperimento “Costa Smeralda” alla Trump-riviera di Gaza emerge da quella che, in analisi sociologiche recenti viene denominata “comunità ombra”, ovvero la popolazione residente. Sulla smaragdinamente ‘fortunata’ costa della Sardegna la popolazione locale è avvolta da un velo di opacità culturale e prima ancora espressiva, che nel sistema risulta del tutto funzionale all’allestimento e al mantenimento dell’universo ludico; ma nel contempo, mentre è cortesemente invitata a scomparire come realtà culturale radicata, è anche chiamata a travestirsi – a vivere mimeticamente ‘in costume’, per evocare le antiche tradizioni del territorio che servono come orpello folklorico al marketing, perché il lusso prevede, tra gli optional non secondari, anche una certa dose di ‘autenticità’. Per ora, nel primo concept del progetto Trump-Gaza, questa variabile pare obliterata o, quanto meno, trascurata (ma siamo solo al primo step del progetto!). I Palestinesi sono raffigurati come i camerieri a servizio degli hotel extra-lusso; il fastidio per la loro incongrua presenza è risolto nella logica speculativa e produttiva che anima la visione: c’è ben bisogno di schiavi, magari anche sorridenti perché ben pagati, nei resort del turismo di lusso! Poi si vedrà: magari anche in quel caso farà gioco richiamare qualche dettaglio folkloristico della realtà culturale preesistente per rendere più esotico il soggiorno nella nuova Gaza. Emerge, del tutto priva di pudore e di qualsiasi forma di mediazione, la logica coloniale che si impone, in modo acritico e soggettivamente ‘innocente’, sui corpi, sui territori, sulla cultura: noi portiamo il benessere e il progresso – questa è la linea! Ed è proprio la paradossale banalità di questo bene esibito in totale trasparenza, che destabilizza e fa vacillare i nostri criteri di giudizio. Il mito attivato ritorna: il colonizzatore porta ordine e ricchezza, la promessa di una facile e immediata prosperità – come non pensarci prima con quel mare? – un locus amoenus intelligentemente artificiale che presto si trasformerà in realtà. Rifiorisce nel contesto del luogo di vacanze il mito di Narciso: il luogo non più pensato e progettato da chi lo abita, ma la località turistica che riflette lo sguardo di chi la immagina commisurandola sui propri cliché culturali. A Gaza il potere occidentale si autorappresenta immaginando un’altra spiaggia attrezzata per le proprie vacanze. Che è la vacanza dall’idea di Occidente – e forse la liquidazione finale del concetto stesso di Occidente.

Stranamore. Soldati israeliani su Tinder

Marco Lanzerotti, Giulia Zanon

Un cecchino tiene il suo fucile in grembo. Più in basso, la didascalia “voglio dei figli”. Alle sue spalle, tutt’attorno, solo rovine e distruzione. I suoi piedi poggiano su un cumulo di macerie; sotto di lui, ovunque, i corpi dei figli degli altri, quelli già nati e quelli in potenza, giacciono fra i detriti.

Pose machiste – preferibilmente a petto nudo – con armi sempre in primo piano, un fucile d’assalto per mano, carri armati e caterpillar blindati (i bulldozer tanto cari a esercito e privati operanti a Gaza), macerie, fuoco e fiamme, esplosioni sullo sfondo: un immaginario debitore tanto al cinema d’azione degli anni Ottanta e Novanta quanto alla cultura di quel cosiddetto “Giudaismo muscolare” teorizzato da Max Nordau che, rovesciando la figura dell’ebreo fragile e diasporico – il giovane ed esile pastore David – promuove un culto della forza fisica e armata, ulteriormente amplificata e rilanciata dalle pose e dalle retoriche dei military influencers sionisti.

Soldati seduti, in posa composta e tronfia, oppure stravaccati sui divani delle case profanate dei gazawi: case bombardate, bucate, penetrate, spogliate, ribaltate. Le poltrone diventano troni usurpati, i letti e i sofà sono i talami violati, dissacrati. Gli spazi domestici devastati sono convertiti in assurdi teatri di morte. È un capitolo diverso ma parallelo della pratica della profanazione che caratterizza ogni conflitto, resa esplicita dal tristemente noto caso delle fotografie pubblicate sui social dagli stessi soldati israeliani con indosso biancheria intima femminile. Sono i soldati israeliani che rappresentano trionfalmente se stessi in atti di dominio, tutte funzioni della messa in scena di trofei di guerra.

C’è chi si identifica attraverso romantici tramonti su paesaggi svuotati. C’è chi si identifica esclusivamente con la distruzione – nessun soggetto, fotografie vuote, macerie, apocalisse. È così che scelgono di rappresentarsi i soldati dell’Idf su Tinder. A raccoglierne una selezione è il fotografo Federico Vespignani, che in un periodo di ricerca compreso tra maggio e settembre 2024, ha censito la presenza di almeno tremila profili riconducibili a militari geolocalizzati nell’area della Striscia di Gaza – quasi un terzo di circa diecimila soldati schierati da Israele – archiviandoli sotto forma di screenshot e pubblicandoli in forma di un progetto e di un volume dal titolo Short term, but long term. A rendere il materiale raccolto da Vespignani particolarmente perturbante è la destinazione per la quale questo è originariamente pensato: Tinder, popolare app di incontri, utilizzata per l’esposizione del sé e per la ricerca, erotica e/o sentimentale, di un partner attraverso qualche fotografia e poche righe di testo.

I protagonisti di questi annunci sono quasi esclusivamente riservisti, richiamati per turni di servizio di circa quattro mesi. In qualche caso, invece, i profili rivendicano l’appartenenza a reparti d’élite, talvolta con esperienza in altri teatri di guerra, incluso quello ucraino. In un conflitto che non è più (o non è mai stato) una guerra asimmetrica, ma un’occupazione e un massacro, è possibile anche geolocalizzarsi impunemente, senza timore di ripercussioni, né immediate – come sarebbe invece impensabile in un conflitto convenzionale, dove fornire coordinate al nemico equivarrebbe a un rischio oggettivo – né differite, sul piano della responsabilità. L’assenza di cautela sembra presupporre una sorta di immunità – percepita o garantita – rispetto a possibili rivalse future (da parte del nemico) o a procedimenti giudiziari, interni o internazionali.

All’alba della Prima guerra mondiale si poteva pensare che la fotografia, grazie alla sua diffusione tramite i giornali, avrebbe reso la guerra, se non impossibile, almeno indifendibile poiché ogni nefandezza, ogni falsificazione, ogni crimine sarebbero stati registrati e consegnati allo sguardo di tutti. Oggi siamo davanti al paradossale rovesciamento di quella tendenza: sono spesso i combattenti stessi a produrre e diffondere online, quasi sempre attraverso i propri social network, materiale di involontaria autodenuncia. Sebbene non sia la prima volta che i social network vengono “arruolati” in guerra (come ci ha mostrato il conflitto in Ucraina) e nonostante sia ormai consueto ricevere immagini direttamente dal campo di battaglia, è senz’altro la prima volta in cui tali piattaforme assumono un ruolo egemone nella fuoriuscita e nella circolazione delle informazioni da Gaza e su Gaza. Via obbligata in ragione dei divieti imposti da Israele all’accesso della stampa internazionale, nonché delle persecuzioni inflitte ai giornalisti (a oggi sono 249 le vittime di categoria, secondo il Committee to Protect Journalists). Se dal punto di vista degli oppressori questi dati grezzi possono rappresentare una autodenuncia involontaria di crimini di guerra, dall’altro lato, quello degli oppressi, soprattutto quando opportunamente trattati da aggregatori di dati OSINT, Open Source Intelligence (come il gruppo di giornalismo investigativo Bellingcat o dai ricercatori di Forensic Architecture) costituiscono l’unica possibilità di indagine attuale o futura, come abbiamo appreso dall’ormai tristemente nota inchiesta sulla morte di Hind Rajab. Un altro importante spunto di riflessione riguarda lo screenshot come forma di memoria, come metodo di preservazione dall’oblio. Se il medium è il social network, l’archivio è diffuso ma instabile, condizionato da direttive mutevoli e opache. Il caso del giornalista Saleh al-Jafarawi aggiunge un ulteriore livello di fragilità: qualche giorno dopo la sua morte, il suo profilo Instagram – seguito da quattro milioni e mezzo di persone – è stato rimosso da Meta e le sue tracce definitivamente obliate anche dagli archivi digitali di Wayback Machine.

Negli screenshot da Tinder la censura sui volti dei soldati, operata da Vespignani per ragioni di privacy, apre inoltre a una interessante interpretazione teorica: l’oscuramento non produce empatia né protezione, ma opera spersonalizzazione. L’altro lato della medaglia è che i soggetti diventano figure seriali, intercambiabili, corpi-funzione di un apparato militare che invade lo spazio sociale, impendendo la demonizzazione individuale e focalizzando l’attenzione esclusivamente sulle condizioni strutturali che rendono possibile la violenza. 

Long-term / Short term è un progetto sulla banalità del male: non il male come eccezione mostruosa ma come pratica ordinaria, inframezzata dai gesti quotidiani come i momenti ludici, di gioco infantile, nelle pause dalla guerra. In questo senso, lo scarto tra le immagini e le didascalie è sconcertante. Le brevi note che accompagnano i profili esplicitano sogni, ambizioni, progetti, gusti: si legge di un culto per le attività sportive, di un discrasico amore per gli animali, di pratiche osservanza religiosa (l’adesione alla dieta kosher, l’osservanza dello Shabbat), di cogenti desideri sessuali, di aspirazioni a stabilità, famiglia e relazioni “a lungo termine”. È in questa frizione che la militarizzazione della società israeliana – visibile anche nella centralità dell’esperienza di leva per entrambi i sessi e nella pervasività dell’istituzione e della propaganda militare e militarista – si manifesta nella sua forma più evidente: la violenza appare come valore incorporato nella società, compatibile con il linguaggio dell’intimità e implicitamente convertibile in attrattiva. Non si tratta soltanto di feticizzazione della violenza militarizzata – del kink verso l’uniforme; è piuttosto la violenza a farsi, nei codici della piattaforma, un tratto spendibile nella costruzione del “buon partner”: buon militare, buon patriota, buon amante, buon padre. La ricerca dell’amore in guerra e la guerra come garanzia di successo in amore. Più che Marte che cerca Venere, Eros che trova Thanatos.

Horcynus Orca a Gaza

Barbara Biscotti, Monica Centanni, Giorgiomaria Cornelio

“Un pacifico squalo balena è entrato nelle acque israeliane. Lo abbiamo protetto. Gli abbiamo aperto una via. Lo abbiamo scortato verso sud. Poi, ha raggiunto Gaza. Lo hanno ucciso. Lo hanno fatto a pezzi. Lo hanno mangiato. Questa non è una cosa che riguarda solo lo squalo. È uno specchio. Due mondi. Due universi di valori. Uno preserva la vita. Uno la distrugge”.

Un ragazzone dal forte accento israeliano passeggia lungo una spiaggia, raccontando in inglese con queste parole per l’emittente TBN Israeli (rete locale israeliana del Trinity Broadcasting Network, il maggior network televisivo cristiano statunitense) ciò che è accaduto tra settembre e ottobre 2025, quando un esemplare di squalo balena, un pacifico gigante mangiatore di plancton, viene avvistato – fatto assai raro nel Mediterraneo – nelle acque israeliane. Immediatamente, le associazioni ambientaliste e animaliste segnalano l’eccezionalità dell’evento e mettono sotto osservazione lo squalo cui viene persino dato un nome “Ofek”, mentre l’opinione pubblica del paese ne segue emozionata e trepidante i movimenti. Poi, la tragedia: verso la metà di ottobre vengono diffuse le immagini del corpo di Ofek sulla spiaggia di Khan Younis, nei pressi di Gaza, attorniato da una folla che procede a spartirsene le carni.

Alcune fonti attestano, senza avanzare alcun dubbio, che sono stati i pescatori di Gaza a dargli la caccia e ucciderlo. Altre sembrano lasciare aperta l’ipotesi che si trattasse di un animale malato, e perciò così prossimo alla riva. Altre, ancora, titolano esplicitamente: “Solo un altro esempio della brutalità di Hamas”. In ogni caso, la stampa reperibile in rete, pur con toni diversi, è unanime nello stabilire l’assioma: gli abitanti di Gaza sono feroci, primitivi e disumani, gli israeliani sono civili, evoluti e animalisti.

Ora, se lo squalo balena è stato deliberatamente ucciso, non vi è dubbio che si tratti di un’azione che scuote la sensibilità di quanti hanno a cuore il mare, la biodiversità, la bellezza delle profondità e delle creature che le abitano. Ma non è questo il punto. Ciò che appare interessante, infatti, è come i reportage televisivi e gli articoli, insieme agli innumerevoli commenti che essi hanno suscitato, compongano un caso-studio decisamente significativo per chi si interessi del tema, quanto mai attuale, della costruzione del nemico come corroborante di una qualche propria identità. Si va dai (quasi) innocui “Dio benedica tutti voi, fratelli e sorelle israeliani!” alle più rabbiose invettive. E quando una voce isolata prova a scrivere “Avete dimenticato di dire che stanno morendo di fame”, gli improperi e le accuse iniziano a scorrere sulla pagina come una cascata.

Ma chissà che cosa è passato nella mente di quegli uomini che, su una spiaggia di Gaza, affamati, bloccati, la vita appesa a un filo, hanno visto apparire quella creatura enorme e misteriosa, quel pesce più grande di tutti gli altri mai visti sino ad allora? Si saranno interrogati fra di loro, come fanno di fronte all’“orcaferone”, nell’inverno del ’43, i pescatori di Cariddi di quel romanzo di guerra, di morte e di splendore che è Horcynus Orca? Nella loro personale fine del mondo, nella loro quotidiana discesa agli inferi, avranno pensato anche loro che, come scrive Stefano D’Arrigo, “la guerra è come la peste, passa quando passa il focolaio del contagio, e sarebbe a dire, quando passano quelli che ce l’hanno nel sangue e la gettano fuori come un pus che infetta ogni gente”? E guardando l’orcaferone Ofek, affamati come i cariddoti in quel duro inverno, forse si saranno detti anche loro: “Rimeniamoci, diamoci da fare, pensiamo, sperimentiamo qualche riparo, perché, dico io, Dio avrà le sue ottimissime ragioni per mandarci a noi sto colossone pestifero, ma qualche ragione, discreta perlomeno, l’abbiamo pure noi per non farci impestare...”?

Si tratta, dunque, anche qui, di non cedere subito all’immagine immediata di una brutalità ‘barbarica’ data per scontata. Il colosso della guerra è una “bestia” di dimensioni troppo grandi per costringerlo in reti di facili catture, tanto più che, come ricorda altrove Donna Haraway rispetto alla questione della caccia quando inserita in una ritualità, uccidere non è uguale a uccidere una relazione. Non sappiamo tracciare con certezza bollettini della ferocia, smembrare ulteriormente la cronaca per cavarne un racconto convincente, un’accusa o un’apologia. Le immagini in guerra sono ambigue anche nel loro tragico gigantismo. Una cosa sola è certa: la terra di Gaza è, come la Sicilia del ’43, una nave abbonacciata in un mare mortifero: ogni nostos è impossibile per chi non è mai partito, e anche per chi se ne è andato. Ulisse si è perso. Omero non naviga più il nostro mare. E le carni dell’orcaferone app(r)estano un banchetto immondo a un popolo di “spiaggiatori” vestiti di cenci, anime morte condannate ad andare su e giù lungo un lembo di terra, a mangiare ciò che il mare porta loro, a giacere in buche scavate nella sabbia, in attesa di un altro giorno che forse non sorgerà.

Ninfa con armi improprie

Monica Centanni, Clara Conturso, Gaia Molin Pradel, Giulia Zanon

1 | Domenico Ghirlandaio, La Nascita di Giovanni Battista, dettaglio, affresco, 1487, Firenze, Santa Maria Novella, Cappella Tornabuoni.
2 | Filippo Lippi, Salomè danza per Erode, dettaglio, affresco, 1464 ca., Prato, Duomo, parete sud del coro.
3 | Micheline Awad, cristiana palestinese, lancia una scarpa contro i soldati israeliani durante l’ingresso dell’esercito a Beit Sahur, in Cisgiordania, nel corso della Prima Intifada, 1988.
4 | La Beauté est dans la rue, manifesto, maggio 1968, Francia; da Seminario Mnemosyne, Mnemosyne 1968 – Mnemosyne 2008.
5 | Ragazzo lancia un sanpietrino durante le manifestazioni in piazza per la Palestina a Milano, 2025.
6 | Donna lancia pietre contro i soldati israeliani durante una protesta contro l’espropriazione di terre palestinesi nel villaggio di Nabi Saleh, vicino Ramallah, 2015.

7 | Sandro Botticelli, Giuditta torna dall'accampamento con il capo di Oloferne, tempera su tavola, 1470 ca., Firenze, Galleria degli Uffizi.
8 | Manifestante con fionda durante gli scontri di Betlemme, 2015.
9 | Donatello, Giuditta e Oloferne, statua in bronzo, 1446-1460, Firenze, Piazza della Signoria.

Aby Warburg vede la Ninfa come la figura di una formula di pathos antica e la sua incarnazione nella contemporaneità: un corpo attraversato da un’energia che lo spinge fuori asse rispetto all’ordine della rappresentazione. La Ninfa è fuori da ogni accomodamento, decorazione, illustrazione. La Ninfa interrompe. Senza bisogno di attributi, la sua presenza si misura per dinamica: gesto, ritmo, passo, postura. È una figura che incide sul tempo prima ancora che sullo spazio. “Da quale origine proviene quella figura? […] Perché il presto di quel passo così ‘dissonante’ con il tempo delle altre figure?” – troviamo l’eco di ciò che Massimo Cacciari scrive in Dell’Inizio (1990), osservando la Ninfa nella Nascita di Giovanni Battista del Ghirlandaio che avanza con passo rapido, portando sul capo frutta, fiori e doni variopinti, come un demone dell’Antico improvvisamente invitato all’interno di una scena domestica [Fig. 1].

Ma quell’incedere, troppo veloce nell’equilibrio della rappresentazione, conserva l’impronta di un’eccedenza. La Ninfa attraversa una soglia e introduce uno scarto temporale: il suo passo dissonante non appartiene interamente al tempo che la scena rappresenta. Porta nel quadro il vento dell’Antico, una memoria che non si deposita, ma irrompe. E l’irruzione non è mai neutra: la sua potenza è declinabile nel senso della grazia ma anche in direzione di un atto violento. Ed è precisamente lo scarto del passo della Ninfa a rendere possibile la sua metamorfosi. È certo l’ancella graziosa, che porta il vento leggero della giovinezza dell’Antico nel quadro delle convenzioni borghesi (della Firenze del Quattrocento ma non solo), dove le signore per bene rivolgono sguardi e parole “solo alle persone a cui sono state presentate” (così Warburg). La Ninfa è la ragazza fiorentina che nel giorno dedicato a San Giovanni scioglie i capelli e va alla festa dell’estate con le vesti trasparenti che ha visto nelle sculture antiche (sull’analogia con le Ninfe del ’68, si veda in Engramma il saggio Tavola ’68. Mnemosyne 1968 – Mnemosyne 2008). Ma è anche Salomè che con la sua danza seduce Erode e conquista la testa – di Giovanni – come trofeo. Proprio il passo di Salomè – che danza insieme grazia seduttiva e desiderio di morte – appare nelle prime rappresentazioni della Ninfa antica nella pittura del Quattrocento fiorentino (FIg. 2]. Ed è anche Giuditta che dentro il canestro non porta più fiori ma la testa recisa di Oloferne, il cruento tiranno che minacciava la libertà del popolo d’Israele. Ancella-Salomè-Giuditta: non si tratta di una inversione energetica di carattere morale, e neppure di una diversa declinazione iconografica di un modello potente, fungibile per contesti e significati diversi. La Ninfa, con tutto il suo carico di grazia seducente e di violenza omicida, si muove in una torsione del tempo. La Giuditta (fiorentina) che impugna la spada e decapita Oloferne non è l’opposto dell’ancella: ne è l’esito latente. In entrambi i casi ciò che conta non è l’oggetto portato, ma il passo che porta il corpo fuori dall’ordine dato. La lama, come i fiori, è un evento, non un attributo.

La potenza della rabbia è l’arma fondamentale della Ninfa. Non è una rabbia cieca: la Ninfa non modera la potenza energetica della rabbia – sua e delle imprese per cui si muove o per cui combatte – ma quella rabbia dosa, a quella rabbia dà forma. Come ci suggerisce Didi-Huberman, per Pier Paolo Pasolini l’“arrabbiato” non coincide con la figura del “rivoluzionario”, ma ne è piuttosto la fase primaria – precedente e necessaria. Il soggetto mosso dalla rabbia per l’ingiustizia che offende lui stesso, il suo popolo, la sua classe, dà corpo e voce a un impulso incontenibile: è la forza che non smette di urtare le sbarre del sistema. Il rivoluzionario traduce la rabbia primaria operando “sul piano del reale”: mentre la rabbia non conosce alcun contenimento né alcuna negoziazione con il reale, l’impeto rivoluzionario mira invece a incidere sul reale, e proprio per questo rischia, sempre, l’evanescenza della sua energia nella mediazione, e la deriva neutralizzante delle nuove formalizzazioni, sempre in agguato, del conformismo. La Ninfa – figura graziosa e addomesticabile, ma anche potenzialmente assassina – è la cifra di questa polarità che gioca la sua oscillazione tra la rabbia distruttrice e la forza creativa e rivoluzionaria. È in questa frizione che la rabbia diventa poetica: non rassegnazione, ma disperata vitalità, capace di restare conflitto senza farsi apparato. La Ninfa sceglie il conflitto – ma non lo assolutizza. Qui riemerge una frizione, destinata a farsi frattura, già evidente nel 1968, in cui l’antropologia della ribellione si divide fra una deriva edenica – Peace and Love come promessa di neutralizzazione del conflitto – e una tensione rivoluzionaria che modifica radicalmente gli immaginari. La pace, quando diventa parola d’ordine assoluta, funziona come dispositivo di disinnesco: non risolve il conflitto, lo rende impensabile. La Ninfa, invece, lo mantiene aperto: lo modula senza sintetizzare alcuna soluzione definitiva.

Lo abbiamo visto nelle manifestazioni del ’68: lo rivediamo ora nelle manifestazioni proPal [Figg. 3-4-5-6]. Il passo della Ninfa è decisivo. Non è sincrono: la Ninfa non marcia in falange, non sfila in parata, non obbedisce a un ordine pilotato. È un passo discronico, il suo, che eccede in contrappunto il ritmo del corteo: accelera, devia, si stacca, avanza di lato. È questo passo disallineato a generare un elemento produttivo di disturbo, a innescare un movimento che prima non c’era. La postura della Ninfa invoca – ed evoca con aggraziata prepotenza – una tensione, uno stato di sbilanciamento permanente. La Ninfa non è mai eretta secondo l’asse verticale, stabile e centrato, del canone classico. Il suo corpo è inclinato, sbilanciato in avanti, indietro o di lato. È un corpo che sta per fare qualcosa: correre, scattare, colpire, gridare [Figg. 3-6]. Grazie allo sguardo acuto di Warburg riusciamo a scorgere un corpo attraversato da una forza che lo disloca dall’equilibrio schematico e che si propone come un’antica e insieme nuovissima, iconografia. Il busto precede le gambe, il gesto anticipa l’azione. Non occupa lo spazio: lo fende. È una postura di urgenza: anche quando la Ninfa è ferma, il corpo sembra già in movimento. Non c’è simmetria né frontalità. 

L’asimmetria della Ninfa armata è segno visibile della sua non-militarizzazione: non è addestrata, non è standardizzata, non è replicabile. La sua violenza non coincide con quella dell’autorità militaresca. Non è l’icona del soldato, ma del guerrigliero. Non è l’agghiacciante violenza della visione delle soldatesse in divisa e in parata – tutte uguali, allineate, corpi femminili mascolinizzati da un’uniforme mai pensata per corpo di donna: corpi resi intercambiabili rispetto alla funzione. Sorvegliare e punire. È la veste, sì, l’‘uniforme’ da intendere in senso strettamente etimologico – che opera una cancellazione delle differenze: la ‘divisa’ – emblema di appartenenza al potere – nasconde il corpo e lo sottrae alla contingenza del tempo. La Ninfa, al contrario, è eterogenea: i suoi abiti sono diversi, mai standardizzati rispetto a qualsiasi uniforme – difforme, dissonante, porta il passo del proprio tempo. 

La Ninfa nella sua reincarnazione vitale – νύμφη è in greco il termine che indica la piena fioritura della bellezza e della grazia femmile – non conosce distinzione di genere. La Ninfa contemporanea può incarnarsi in corpi femminili o maschili [Figg. 4 e 5]. Refrattaria a qualsiasi etichettatura identitaria prescinde anche dal genere: è figura di un movimento che alimenta l’immaginario e spezza il tessuto del tempo per aprire un interstizio che è quello dell’immediatezza. Ed è precisamente in questo spazio interstiziale – così profondamente, ontologicamente, diverso dall’andamento lineare, apparentemente ineludibile, dello sviluppo storico – che si afferma la sua potenza. Che è potenza di vita all’acme della sua pienezza.

La Ninfa che riappare a manifestare oggi nelle strade e nei cortei pro Palestina, non è una soldatessa, è una menade. Può impugnare armi, ma non sono armi proprie. Non indossa una divisa, non appartiene a un apparato, non dispone di un arsenale: è un corpo attraversato da una pulsione capace di farsi gesto. La Ninfa contemporanea si iscrive in questa genealogia come figura di una violenza situata, che usa non già armi di dotazione, ma un’armatura d’occasione. Come Giuditta, non possiede un’arma propria: la raccoglie. La spada non è sua – come non lo sono, nelle piazze delle manifestazioni dell’autunno-inverno 2025, il sanpietrino, la fionda, l’estintore, il megafono. Sono armi improprie: strumenti contingenti, situati, offerti dal contesto. E le armi improprie non sono né le armi in dotazione alle polizie del potere, né le armi progettualmente mortifere dei terroristi di ogni stagione: sono armi di tutti, che tutti possono prendere e impugnare. La pistola è un’arma seriale, conservabile, astratta dal contesto e deputata a una funzione progettualmente e simbolicamente assassina; il sanpietrino no. Esiste solo nella situazione che lo attiva, prende il segno della strada da cui proviene, si consuma nel gesto che lo lancia. La sua forza non risiede nella capacità distruttiva, ma nella sua esposizione: rende visibile una rabbia indispensabile, popolare, che brucia dal basso e che non può essere delegata. Anche il megafono, in questo senso, è al tempo stesso arma letteralmente impropria e segno distintivo. Convoca senza uccidere, amplifica l’urlo menadico, lo rende contagioso. La Ninfa non parla a nome di un’istituzione, ma alza una voce che eccede l’ordine del discorso. Il riferimento alla tragedia greca è inevitabile. Le menadi non vincono con armi proprie, ma con il tirso: materia vegetale, rituale, strumentalmente improvvisata. In Ecuba di Euripide, la violenza materna che fa a pezzi il figlio del nemico riecheggia i versi delle Baccanti: stessa lingua, stessa furia. La Ninfa compie così la sua giustizia. 

English abstract

Every war is also a war of images, continually redefining what can be shown and how symbols shape collective affect and memory. Drawing on Aby Warburg and his Bilderatlas Mnemosyne, this text proposes an experimental method of working with images through montage, polarity, and anachronism in order to grasp the “psychological history” of culture beyond linear narratives. Adopting Mnemosyne as a model, a collective workshop on images of Gaza “plays at Mnemosyne” by assembling and confronting visual materials so as to let meanings emerge inductively, tracing how such images configure memory and political imagination.These 'Materials for a Warburgian Panel’ are divided into five sections: Dionysus the Technoraver; The Rave as Origin; Dystopian Cartography; Strangelove; Israeli Soldiers on Tinder; Horcynus Orca in Gaza; and Nymph with Improvised Weapons.

keywords | Warburgian methodology; Mnemosyne Atlas; Dionysian rave; Cartography; Strangelove; Tinder; Horcinus Orca; Nymph.

Per citare questo articolo / To cite this article: Seminario Mnemosyne (a cura di), Gaza. Materiali per una tavola warburghiana, “La Rivista di Engramma” n. 230, Natale 2025.