"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

89 | aprile 2011

9788898260348


Sulla via di quel che ha da venire
Presentazione di C. G. Jung, Il Libro rosso, Bollati Boringhieri, Torino, 2010

Daniela Sacco
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And what is the use of a book - thought Alice - without pictures or conversation?
Lewis Carroll

Ci sono libri la cui pubblicazione è resa possibile dalla maturità dei tempi, e ci sono pensatori che nella comprensione dei mutamenti epocali precorrono i tempi. Das rote Buch (Il Libro rosso) o, come è anche titolato, il Liber novus e il suo autore, lo psicoanalista Carl Gustav Jung, ne sono un esempio eclatante.   

Il libro viene alla luce, letteralmente e metaforicamente, dal buio del caveau di una banca svizzera in cui era chiuso dall’83, anno in cui gli eredi detentori dei diritti d’autore si resero conto del suo valore, dopo che era stato per più di vent'anni presso lo studio di Jung, dal momento della sua morte, avvenuta oramai mezzo secolo fa. La pubblicazione italiana da parte della casa editrice artefice della fortuna di Jung in Italia, la Bollati Boringhieri, segue di un anno alle edizioni tedesca (Das Rote Buch: Liber novus, Stiftung der Werke von C.G. Jung, Zürich, 2009) e inglese (pubblicata in America dall’editore W. W. Norton & Company) e apre al cinquantenario della morte dello psicoanalista svizzero. Negli States l’edizione è stata accolta con una mostra dal significativo titolo The Red Book of C.G. Jung. Creation of a New Cosmology, realizzata al Rubin Museum of Art di New York in cui è stato esposto l’originale (esposto poi anche in California e a Zurigo): si tratta infatti di un libro che non è solo da leggere, ma anche da vedere e da sfogliare.

La recente pubblicazione di Bollati Boringhieri assieme alla traduzione del testo e a un'ampia introduzione e commento comprende la riproduzione in facsimile dell'originale con 212 tavole a colori: un volume in folio rilegato in pelle rossa dalle stesse mani dell’autore – da cui il nome – dalla foggia e le dimensioni di un manoscritto miniato medievale: con le pagine vergate in scrittura calligrafica gotica, i capolettera dei paragrafi istoriati, e un corredo di immagini tanto fantastiche quanto complesse e articolate, disegnate e dipinte da Jung. Testi e immagini del Libro rosso sono la riproduzione dettagliata di quanto lo psicoanalista svizzero visualizzava nella sua mente, in forma di sogni, fantasie, visioni a cui aveva deciso di abbandonarsi, fiducioso di poterne poi carpire un significato.

Un libro dunque così prezioso da giustificare la sua segreta custodia nel caveau di una banca, e ‘prezioso’, ‘ovvero con un suo prezzo’, come ne scrive Jung, perché la sua stesura, durata ben sedici anni – dal 1913 al 1930 – costò all'autore sforzi mentali e fisici non indifferenti, segnandone profondamente il destino intellettuale e la vita intera. Il libro fino a oggi era stato considerato dagli eredi un documento privato e per questo non destinato alla pubblicazione, poiché le ultime volontà di Jung in merito non erano mai state chiare ed esplicite; risulta infatti che egli non escluse una eventuale pubblicazione del Libro ma lasciò aperta la questione. Certo è che, da sempre impegnato a difendere il suo lavoro dalle accuse di non scientificità, è comprensibile una qualche difficoltà sulla destinazione di un 'libro', così difficilmente classificabile anche quanto al genere nel corpus delle sue opere.

È soprattutto merito del curatore dell’edizione Sonu Shamdasani, storico di psichiatria e psicologia, averne favorito oggi la pubblicazione, giustificando la collocazione dell'opera in un nuovo orizzonte storico, in cui più che in passato è possibile recepirne e veicolarne il valore scientifico anche in virtù della conoscenza più matura e diffusa delle opere di Jung. È comunque lungo la sottile linea che congiunge il privato con il pubblico, l’individuale e il collettivo, che si può leggere tutto il valore dell’opera. Lungo questo confine Il Libro rosso segna il costruirsi dell’identità personale di Jung attraverso la consapevolezza di una nuova visione del mondo; la sua vicenda personale è profondamente iscritta nella temperie dei nuovi mutamenti epocali a cui si affaccia agli albori del XX secolo. La restituzione al collettivo delle fantasie di Jung scritte e rappresentate nell’opera permette di svincolarle dalla prospettiva personale in cui, isolate, correvano il rischio di risultare insignificanti o, nella peggiore delle ipotesi, deliranti.

La pubblicazione, svelando quanto fino ad ora non era mai stato disponibile alla lettura e allo sguardo, stimola alcune riflessioni oltre che sul contenuto, anche sul possibile significato dell’aspetto formale con cui si presenta l’opera, per lo stile di scrittura oltre che di illustrazione. Del contenuto dell'opera, prima della pubblicazione, si è saputo a sufficienza a partire dall’importante capitolo VI dell’autobiografia Ricordi sogni riflessioni, titolato significativamente ‘A confronto con l’inconscio’. Perché di questo essenzialmente Il Libro rosso tratta: un drammatico dialogo con l’inconscio avvenuto in un periodo di grande isolamento, anche rispetto a impegni istituzionali, in cui Jung si trova coinvolto dopo la rottura con il suo maestro e predecessore Sigmund Freud, contemporaneamente allo scoppio della prima guerra mondiale. In questi due versanti si gioca il doppio registro personale e collettivo di cui è rivelativo il Liber novus: nell’emancipazione da Freud e dalle sue concezioni legate a una visione del mondo passata, da cui prende il via lo sviluppo dell’identità autonoma di Jung, e nella percezione del mutamento epocale segnato tragicamente dalla guerra mondiale che annuncia l'incalzare del cambiamento. Il conflitto con Freud sta tutto nella capacità di Jung di vedere, diversamente e oltre rispetto al maestro, il nuovo che avanza. Il Liber novus annuncia infatti la "via di quel che ha da venire’ come recita il sottotitolo del Liber primus, primo capitolo che, assieme al Liber secundus e le Prove, - che contengono i Septem Sermones ad mortuos – unica parte del Libro già precedentemente pubblicata  – strutturano l’opera. A oggi, nell’interpretazione di questa fase della vita di Jung, è prevalsa una lettura personale delle cause che hanno portato il pensatore al confronto con l’inconscio, ossia la lettura che privilegia l’analisi dello scontro con Freud come volontà di affermazione di un pensiero originale rispetto a quello del maestro, e probabilmente questa diagnosi dipende dal vizio congenito della disciplina psicoanalitica che, a torto o a ragione, si è sempre arrogata l’esclusività dell’interpretazione del pensiero dei suoi padri fondatori.

In realtà, la distanza dal maestro si era già in larga misura consumata nella stesura di Wandlungen und Symbole der Libido (Trasformazioni e simboli della libido, tradotto in italiano nel 1970 come Simboli della trasformazione), la sua prima opera del 1912, e quindi il periodo di ‘confronto con l’inconscio’ inaugura, a tutti gli effetti, una nuova fase. Nell'interpretazione del distacco è infatti passato probabilmente in secondo piano, o non sufficientemente compreso rispetto alla lettura personale, il significato culturale dell’impatto violento con il mutamento della psiche collettiva che lo psicoanalista svizzero ha introiettato drammaticamente e poi elaborato. A Jung calzerebbe a pennello la bella immagine che Aby Warburg, in un curioso gioco di riflessi speculari, ha attribuito alle figure di Burckhardt e Nietzsche (cfr. A. Warburg, Burckhardt e Nietzsche [1927], tradotto in italiano a cura di M. Ghelardi in Jacob Burckhardt, Friedrich W. Nietzsche, Carteggio, Aragno 2002): quello di ‘sismografo sensibilissimo’. Anche Jung, come i due grandi pensatori della generazione precedente, è stato un "sismografo sensibilissimo",  "captatore dell’onda mnemica" che, raccolta dalla "regione del passato", dà il dono della "veggenza", e come Burckhardt diversamente da Nietzsche, non ne è stato travolto, perché ha saputo difendersene col dono della sua sophrosyne. Tra l’altro anche Jung, come i due predecessori, era figlio di un pastore protestante, su cui incombeva la difficile eredità paterna della questione del "senso di Dio nel mondo" (per un'analisi del rapporto tra il pensiero di Jung e Warburg rimando a Le trame intrecciate di Mnemosyne. Aby Warburg e C. G. Jung a confronto, in “Rivista di Engramma” n.16 maggio/giugno 2002) Anche per questa sua valenza 'storica', di pensiero 'epocale', la portata culturale delle speculazioni di Jung andrebbe valorizzata più di quanto non sia già stato fatto, corrodendo ulteriormente i limiti degli angusti confini disciplinari entro i quali è stata spesso costretta.

Il terremoto di cui Jung da 'buon sismografo' capta dapprima la minaccia è lo scoppio della prima guerra mondiale. Sonu Shamdasani nel bel saggio che introduce la pubblicazione, giustamente scrive che "non è esagerato affermare che, se la guerra non fosse stata dichiarata, con ogni probabilità il Liber novus non avrebbe preso forma" (p. 202). Lo scoppio della guerra mondiale, avvenuto nel giugno del 1914 con l’uccisione dell’arciduca erede al trono d’Austria Francesco Ferdinando, e successivamente nell’agosto con la mobilitazione delle forze tedesche contro la Russia e la Francia, chiarifica improvvisamente sogni e visioni che lo psicoanalista aveva avuto nei mesi immediatamente precedenti e che aveva da principio erroneamente interpretato come una personale minaccia di schizofrenia. Nell’ottobre del 1913 Jung fu colpito dalla prima di una serie di visioni: si trattava di una spaventosa alluvione che dilagava in Europa, da nord a sud, tra il Mare del Nord e le Alpi, provocando migliaia di morti.

Al precipitare degli eventi, Jung comprese che le sue non erano fantasie personali, private, ma espressioni dell’inconscio collettivo che riflettevano e anticipavano lo sviluppo degli eventi reali; questo lo sollevò dal timore di poter sprofondare nel delirio e lo legittimò a prestare seria attenzione e registrare le fantasie che facevano irruzione dall’inconscio, con l’intenzione di capire cosa fosse accaduto e quanto la sua esperienza personale coincidesse con la 'memoria sociale' del suo tempo, e con quella dell’umanità in generale. Ciò che contava non era certo il valore di premonizione che le fantasie potevano avere, quanto l’intima connessione tra psiche individuale e psiche collettiva di cui erano rivelatrici. E proprio lo studio di questa connessione sarà la missione dell’intera vita di Jung. Da questo momento in poi, segnato significativamente dallo scoppiare del conflitto mondiale, Jung si apprestò a dare ascolto alle sue fantasie, e ciò scatenò nel tempo un flusso incessante di irruzioni fantastiche a cui poteva dare contenimento solo mediante una loro riproduzione; e quindi traducendo le emozioni che provava in immagini che realizzava disegnando, dipingendo, scrivendo, insomma 'trascrivendo' in modo più possibile 'fedele' le fantasie in figure e in parole che, nella forma testuale, adottavano, come lo definisce Jung, il "linguaggio elevato" degli archetipi, uno stile "patetico e persino ampolloso". Così, nell’insieme, il Libro rosso si presenta come un magma caotico composto di testi per lo più dialogati e immagini tanto suggestive quanto indecifrabili al punto che, come ebbe a dire lo stesso autore, all’osservatore superficiale si presentavano come delle assurdità. Ma quelle che a uno sguardo poco allenato potevano risultare appunto assurdità, si sono rivelate invece i contenuti in nuce, i nuclei di senso, le pietre miliari, che segnano la topografia di quella che sarà poi tutta la ricchissima successiva produzione teorica di Jung.

 

                   

Che la Grande Guerra abbia rappresentato uno spartiacque nel mondo contemporaneo, e che abbia inaugurato il Novecento, provocando una frattura nel corso storico, implicando con questo la profonda trasformazione del paesaggio mentale, è una riflessione oramai matura, soprattutto nel contesto specifico dell’indagine storiografica. Una ricerca interessante a questo proposito è stata condotta da Antonio Gibelli (Antonio Gibelli, L’officina della guerra. La grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri [1991] 1998) che, anche a partire dalle testimonianze di medici, psichiatri e psicologi, ha studiato la trasformazione delle strutture mentali lungo il versante delle conseguenze e degli effetti traumatici della devastazione provocata dal fenomeno della guerra nelle esperienze di chi l’ha vissuta. Gibelli osserva come il vissuto della guerra ha l’effetto di provocare, attraverso l’esperienza percettiva disgregata e scomposta, la moltiplicazione e la frammentazione delle immagini visive e sonore del mondo: la guerra "dilata fino alla rottura le possibilità di esperire il mondo, dissocia violentemente gli elementi di una esperienza che costituivano, nella loro combinazione, un universo ordinato e, come tale, percepibile". Ne consegue che l’esperienza della discontinuità, oltre che della dissociazione, sia stato un tratto caratteristico che ha lasciato in questo frangente un segno indelebile nel rapportarsi dell’uomo alla realtà. E questo è avvenuto con il concorso dello sviluppo della tecnologia che ha creato nuove forme di comunicazione e rappresentazione, nuove forme di riproduzione e manipolazione delle immagini, assunte poi dalle correnti artistiche dell’avanguardia, dalla pubblicità e in generale nella comunicazione sociale. Gibelli, da storico, spiega le caratteristiche di questo nuovo paesaggio mentale e le riconduce agli effetti sulla psiche collettiva causati dal conflitto mondiale, direttamente esperito o indirettamente veicolato dai media. Da un punto di vista filosofico e psicologico l’osservazione del fenomeno richiede un cambio di prospettiva, altrettanto legittimo, rispetto allo sguardo storico, e pone una interrogazione che sospende la dinamica causa-effetti, messa in luce dalle più attente indagini storiografiche: se non sia stata l’ineluttabilità del mutamento d’orizzonte mentale a concorrere alla genesi del conflitto, e quindi se la guerra non sia da leggere più come un sintomo, che come la causa delle trasformazioni psico-culturali in corso.

In questa prospettiva si colloca Jung che, agli albori del conflitto, può solo presagire quello che avverrà di lì a poco, ma i segni che capta prefigurano in immagini e visioni la realtà della psiche delle generazioni a venire. In quanto sismografo della psiche collettiva, consapevole dell’imprescindibilità dell’orizzonte mitico entro cui l’umano da sempre vive, riconosce i simboli della sua trasformazione: coglie nel segno l’elemento peculiare del darsi fenomenico del mito, ossia la metamorfosi dei suoi contenuti e delle sue forme, e legge il conflitto mondiale come crisi causata dalla sua mutazione in atto; quindi sperimenta e legge il caos provocato inevitabilmente dal sovvertimento del vecchio ordine di senso – un ordine condiviso e fino ad allora indiscusso, ma oramai non più efficace.

Jung, convinto che la "psicologia del singolo corrisponda alla psicologia delle nazioni", legge nei processi psicologici che accompagnano il conflitto mondiale "il problema dell’inconscio caotico, che sonnecchia inquieto sotto l’ordinato mondo della coscienza" (Die Psychologie der unbewujìten Prozesse, 1917, traduzione italiana Psicologia dell’inconscio, Bollati Boringhieri, 1973). Ed è proprio una trasformazione della coscienza e dei suoi labili confini con l’inconscio che Jung monitora nel corso di tutta sua produzione scientifica. In Ricordi, sogni, riflessioni (l'autobiografia pubblicata postuma) Jung riflette sul traguardo giunto con la pubblicazione di Trasformazioni e simboli della libido: il possesso della "chiave per la mitologia’" la spiegazione dei "miti dei popoli del passato", del mito dell’eroe nel quale l’uomo è vissuto da tempo immemorabile", e dichiara che giunto a quel punto, la domanda che si è posto nel momento in cui sentiva di aver raggiunto il limite, prima di abbandonarsi al confronto con l’inconscio, è stata: "Ma qual è il mito nel quale gli uomini vivono oggi? La risposta poteva essere: ‘Nel mito cristiano’. ‘Vivi tu in esso?’ mi chiedevo. ‘Se devo essere sincero, no! Non è il mito in cui vivo'. Allora, non abbiamo più alcun mito? 'No, evidentemente non ne abbiamo più nessuno'. Ma allora qual è il tuo mito? Il mito nel quale vivi?" (Ricordi Sogni Riflessioni, p. 213). Quanto realizzerà da questo momento in poi sarà il tentativo di rispondere a questa domanda; la risposta è tutta contenuta in nuce nel Libro rosso nella forma peculiare del testo dialogato e dell’immagine, e successivamente è dispiegata in analisi teoretica nella ricerca scientifica che perseguirà fino alla morte.

La capacità di tenere ben saldo l’obiettivo di trovare una risposta a questa domanda gli permetterà di non essere travolto dall’impresa a cui si accinge; il Doppelgang da temere è Nietzsche che, come ben aveva visto anche Warburg, fu travolto dall’"onda mnemica". Quella del filosofo tedesco fu una vera e propria apocalisse psicopatologica, emblematica della fine della modernità: Nietzsche si offrì come capro espiatorio di un passaggio epocale e l'annuncio della morte di Dio si compie al prezzo della sua identificazione con lo stesso Dio detronizzato. Accenti, toni, immagini, figure che appaiono nel Libro rosso riecheggiano il Così parlò Zarathustra, ma Jung riuscirà a prendere le distanze dal suo doppio grazie a un’analisi rigorosa dell’opera maggiore del filosofo tedesco, di cui riesce a cogliere e a custodire il "tesoro portato dall’onda dell’inconscio": nell'arco di cinque anni, dal 1934 al 1939, a Yale, Jung darà vita al Seminar on Nietzsche’s Zarathustra, i cui ricchi materiali già pubblicati negli USA (Nietzsche’s Zarathustra: Notes of the Seminar given in 1934-1939 by C. G. Jung, ed. by James Larrett, Princeton University Press, 1988) costituiscono un’altra opera che attende oramai da troppo tempo la pubblicazione in Italia.

Jung quindi si confronta con il mondo delle immagini dell’inconscio e affonda nella matrice dell’immaginazione mitopoietica che è stata rimossa dalla civiltà razionalistica, messa al bando perché temuta, e di conseguenza relegata nei patimenti degli inferi della follia – è di Jung la fondamentale affermazione per cui "gli dei sono diventati malattie" (l'espressione si ritrova in Studi sull’Alchimia, volume XIII dell'edizione italiana dell'opera di Jung, che raccoglie saggi dal 1929 al 1957) – e infatti quanto sperimenta e testimonia nel Libro rosso è la classica nekyia, il viaggio nell’Ade, la discesa negli inferi. Questo viaggio è stato associato alla discesa nell’inferno di Virgilio nella Divina Commedia, anche in virtù del dato che attesta la lettura dell’opera di Dante da parte di Jung proprio in questo periodo (Introduzione, Il Libro rosso, p. 203) e l'associazione è indubbia, anche se - e non si tratta di un dettaglio secondario - gli inferi in cui Jung compie la sua katabasis non sono l'inferno cristiano, pur nella visione dantesca, ma il mondo infero della tradizione classica, che meglio rappresenta la complessità della psiche nella profondità della sua natura mitologica.

                               

Lungo questo viaggio Jung incontra una carrellata di personaggi che entrano in dialogo con lui fungendo, ciascuno in forma diversa, da psicopompo. La matrice dell’immaginazione mitopoietica si presenta dunque, in prima istanza, nella sua essenza drammatica, è nella sua natura teatro, drama: i personaggi che le danno forma, i suoi protagonisti sono, come nella tradizione dell’arte della memoria, imagines agentes immagini attive e personae dramatis, che dialogano e agiscono trovando ciascuna una propria collocazione e un proprio ruolo nel teatro mentale. Una delle principali acquisizioni teoriche che Jung ricaverà da questa esperienza sarà proprio quella dell’"immaginazione attiva", una tecnica volta a utilizzare la potenzialità delle imagines agentes: la capacità, in stato di veglia, di intervenire direttamente nelle fantasie inconsce, in modo tale che coscienza e inconscio entrino in dialogo relativizzandosi reciprocamente. E Jung qui non inventa nulla di nuovo, ma reinventa e mette in pratica, ricontestualizzandole storicamente, tecniche già sperimentate con altri fini da tradizioni antiche; un precedente è, certo, l’arte della memoria, così come, nel cuore della religiosità del Medioevo lo è la pratica degli esercizi spirituali di Ignazio di Loyola, volti, attraverso la reviviscenza emotiva, a creare una realtà scenica, una vera e propria 'drammaturgia' dei sentimenti e delle passioni, intesa a trasformare l’emozione scaturita dalle immagini in azione, debitamente trattenuta e sublimata nell'interiorità, al fine di raggiungere l’estasi mistica. E non è un caso che tali pratiche siano state in buona parte sfruttate anche dal teatro, sia in contesti religiosi, come ad esempio nelle sacre rappresentazioni o, sempre in epoca medievale, nei Morality Plays, che, in epoca più recente nei metodi di recitazione per gli attori, quindi sottratte definitivamente alla dimensione religiosa, basti accennare ad esempio alle tecniche di K. S. Stanislavskij.

Lungo il percorso di questa discesa agli inferi Jung incontra via via il profeta Elia, Salomè, il Cavaliere Rosso, il Diavolo, l’Anacoreta, la Morte, Ammonio, Izdubar, un Bibliotecario, Ezechiele, un Professore, Filemone, i Cabiri, il Sepente, un Uccello, un Corvo, un Figlio, alcune anime dannate di morti, e assieme a questi torna più volte, anche in diversi sembianti femminili, la figura di Anima che rappresenta il personaggio più importante e la chiave per intendere l’opera. Perché ciò che Jung 'mette in scena’ è la crisi dell’idea di Dio della cristianità – corrispondente all’annuncio nietzschiano della morte di Dio – e la trasformazione che avviene con la sua rinascita psicologica nell’anima come imago Dei in homine. Nel Liber primus si legge:

Tutto ciò che troppo invecchia diventa un male, dunque lo diventa anche il vostro Essere supremo. Dalle sofferenze del Dio crocifisso imparate che un Dio si può anche tradire e crocifiggere, in specie il Dio dell’anno vecchio. Allorché un Dio cessa di essere la via della vita, deve segretamente cadere. Il Dio si ammala quando supera il culmine dello zenith. Perciò fui afferrato dallo spirito del profondo dopo che lo spirito di questo tempo mi aveva condotto fino alle vette.

E, di seguito:

Gli antichi ci hanno già descritto ogni cosa. È da loro che possiamo imparare. Aprite i vecchi libri e imparate ciò che verrà a voi nella solitudine. Vi sarà donato tutto, e nulla risparmiato: sia la grazia che il tormento.

La trasformazione dell’idea di Dio passa attraverso la messa in discussione del modello eroico dell’imitatio Christi, a cui è profondamente connessa e che costituisce ormai da tempi immemorabili il compito esemplare assunto più o meno inconsapevolmente da ciascun uomo e donna. La messa in crisi del modello dell’imitatio Christi è variamente espressa nel dialogo con i personaggi incontrati da Jung, ed è anche simbolicamente letta come uccisione dell’eroe nell’evento scatenante la guerra mondiale: l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando, l’erede al trono austro-ungarico, avvenuto il 28 giugno 1914 per mano di Gavrilo Princip, diciannovenne studente serbo.

                                      

Jung nelle opere successive chiamerà la rinascita di Dio nell’anima, ossia l’imago Dei in homine, con il termine di Sé – la totalità della psiche nelle sue componenti consce e inconsce – che può essere a tutti gli effetti considerata la cifra del mito da lui incarnato e quindi la risposta alla domanda su quale fosse il mito in cui viveva e in cui l'umanità viveva.
Il presupposto di fondo, in realtà ancora molto legato a una concezione evoluzionistica dello sviluppo dell’umano, è quanto Jung teorizzerà più tardi, ossia che "al posto di una visione religiosa perduta subentra una costruzione simbolica più antica e arcaica, e che questa sostituzione non è soltanto ‘meccanica’, ma ha un significato anche in riferimento agli eventi dell'epoca" (C. G. Jung, Psicologia e Religione [1938/1940], Bollati Boringhieri 1992, p.113); in una fase di crisi epocale vengono accolti contenuti, forme e visioni del mondo appartenuti ad altre culture, o alla memoria remota della propria cultura, per riadattarle al contesto storico contemporaneo. Il Sè quindi rappresenta una trasformazione in seno al vissuto del monoteismo della cristianità; l''eresia' che Jung afferma rispetto alla visione cristiana dell'individuo e del mondo, consiste  nel riconoscimento, che avviene attraverso la consapevolezza dell'autonomia della psiche, della sua complessità irriducibile, comprensiva delle funzioni consce e inconsce. E' quella complessità che troverà articolazione nella teoria degli archetipi dell’inconscio collettivo, rivelativa di un volto più complesso del divino, comprensivo di tutto ciò che il cristianesimo, nella sua riduzione del pantheon antico al monoteismo, aveva rimosso. L’anima, come appare nelle personificazioni raccontate nel Libro rosso, è il canale che permette l’accoglimento di questo variegato rimosso, l'organo di ricezione di tutto quanto è andato perduto e che Jung definirà anche come il "quarto mancante" – il tassello che porterebbe al completamento simbolico dell’immagine della trinità cristiana.

La figura di Cristo, considerata da Jung nella prospettiva psicologica manca della "metà oscura della totalità umana", personificata dall'Anticristo, e questo come effetto del dualismo metafisico implicito nella visione cristiana per cui il male non può essere altro che una privatio boni, rispetto al  summum bonum.
Si legge nel Liber primus:

Ho compreso che il Dio che cerchiamo nell’assoluto, non può trovarsi in ciò che è assolutamente bello, buono, serio, elevato, umano o addirittura divino. Un tempo lì si trovava il Dio. Ho compreso che il nuovo Dio sta in ciò che è relativo. Se Dio fosse assoluta bellezza e bontà, come potrebbe racchiudere la pienezza della vita che è allo stesso tempo brutta e bella, cattiva e buona, ridicola e seria, umana e non umana? Come può l’essere umano vivere nel grembo della divinità se la divinità si interessa solo a una sua metà?

Il concetto psicologico del Sé invece "non può trascurare l'ombra che appartiene alla figura di luce" (C. G. Jung, Aion, ricerche sul simbolismo del Sé [1951], Bollati Boringhieri 1997, p.41), e si prospetta come un completamento psichico della stessa immagine di Cristo, che quindi rispetto al Sé risulta inadeguato. Il Sé potrebbe di conseguenza completarlo implicando inevitabilmente una integrazione del male, e questo è quello che Jung prospetta alle generazioni successive riferendosi al superamento dell'"età dell'Acquario'. Se la venuta della figura di Cristo si è accompagnata al segno astrologico dei Pesci, ossia, al "motivo archetipico dei fratelli nemici", – il problema del dualismo -, l'epoca successiva, che per Jung corrisponde alla realizzazione del Sé, ha come simbolo il segno astrologico dell'Acquario, ossia, il "problema dell'unione degli opposti", - la coincidentia oppositorum - in cui non sarebbe più "accettabile la vanificazione del male in quanto mera privatio boni: la sua reale esistenza deve ben essere riconosciuta" (C. G. Jung, Aion, ricerche sul simbolismo del Sé  p. 81).

La consapevolezza di questo però non porta Jung al rifiuto assoluto del modello cristiano, ma piuttosto, a una sua 'eresia': all'attesa del compimento ed esaurimento, appunto, della figura del Cristo attraverso il Sé. Anche perché, riferendosi alla società in cui vive Jung ritiene che questa non sia assolutamente pronta a "rinunciare all'imitazione di Cristo" in quanto "non ha addirittura cominciato a guardare l'ombra in faccia" (C. G. Jung, Sul problema del simbolo di Cristo [1953], Bollati Boringhieri, 1970, p.483). Il Sé, in questa declinazione, appare decisamente come un simbolo 'eretico' cristiano che completa l'incarnazione di Cristo. 

                                                

Introducendo per mezzo della psicologia questo concetto, Jung ha avuto l'enorme merito di aver ridefinito, di pari passo alla percezione dei mutamenti culturali in atto nel suo tempo, l'evoluzione dei rapporti tra conscio e inconscio, e di riflesso, anche le relazioni tra umano e divino, che attraverso la scoperta della complessità della psiche si sono sicuramente ravvicinati, ma proprio per questo anche più differenziati. Il Sé infatti riequilibra la distanza che si era creata tra l'Io, – la coscienza razionale occidentale giunta all’apice del suo sviluppo – e Dio, una distanza che nascondeva però, come insegna la vicenda di Nietzsche, il rovescio di una folle identità. Il divino che viene recuperato attraverso la speculazione di Jung, a partire dalla complessità della psiche, ha i molti volti della mitologia e riflette il politeismo della cultura antica. Sarà poi James Hillman, a un’ulteriore distanza epocale dal maestro, ad accogliere l’eredità 'pagana 'di Jung  e a mettere a frutto ermeneutico il suo lascito, spingendosi oltre il fronte dell''eresia' nei confronti del cristianesimo, nella direzione di una rivendicazione piena della tradizione classica. Hillman registrerà un nuovo stadio di trasformazione della coscienza che, sottratta definitivamente alla costellazione dell'Io (con cui l'Occidente l'ha a lungo identificata, avendo come modello il filosofico ego cogito cartesiano), è ricondotta infine alla variegata costellazione dell'anima politeista; l'effetto gnoseologico di questa ulteriore riflessione è l'assunzione ancora più forte nel pensiero contemporaneo dell'eredità e del valore della cultura 'pagana', capace di ricomprendere in sé (più ancora di quanto non abbia fatto il Sé junghiano) la pluralità dei volti del divino che il cristianesimo aveva rimosso.

I contenuti del Libro rosso possono essere analizzati, dunque, soprattutto alla luce degli sviluppi che le intuizioni di Jung avrebbero avuto nella successiva teorizzazione filosofica e scientifica. Ma merita considerazione anche l’aspetto formale dell’opera, in particolare la sua realizzazione a somiglianza di un manoscritto medievale. Un parallelo, contemporaneo e significativo, conforta l'ipotesi di una precisa scelta di significato della forma che Jung decise di dare al suo Liber novus: si tratta di un altro, più celebre, manoscritto che ha avuto un’importanza simbolica determinante nell’opera di un autore contemporaneo di Jung, e come Jung grande 'poeta' del suo tempo.  Il manoscritto in questione è il Libro di Kells in relazione all'opera di James Joyce.

Lo scrittore irlandese conosceva molto bene il manoscritto redatto in Irlanda tra la fine del VI secolo e l’inizio del IX; secondo Richard Ellmann (R. Ellmann, James Joyce, 1959), è lo stesso Joyce a dichiarare l’affinità tra la sua scrittura e le intricate miniature del manoscritto di cui portava spesso con sé una riproduzione per studiarne la tecnica. Come osserva Umberto Eco (U. Eco, Le poetiche di Joyce, 1962) il Libro di Kells è probabilmente "l’esempio più sconvolgente dell’arte irlandese medioevale che ancora oggi colpisce per la fantasia distorta e sfrenata, per il gusto labirintico dell’astrazione, per la paradossalità dell’invenzione", reso tutto dalle forme riprodotte nelle sue pagine: un groviglio di figure in cui i confini tra animale, vegetale, geometrico si perdono in spirali ed entrelacs, una indefinitezza proteiforme da cui emergono storie insieme 'vere' e quanto mai irreali ed astratte. Il Libro di Kells, assieme ad altri manoscritti dello stesso periodo, rappresenta un'alta prova del genio irlandese che reagisce ai sommovimenti culturali del tempo: i poeti e miniatori, isolati ai confini della civiltà, nella fase critica di passaggio da un'epoca a un'altra, da una cultura a un’altra, componevano la loro opera in piena solitudine e ritiro, in qualche modo rispondendo a "un processo di disgregazione che tutta la cultura occidentale, tra la morte di Boezio (già testimone di un mondo in declino) e la rinascenza carolingia, stava da tempo soffrendo in ogni sua manifestazione" (U. Eco, Le poetiche di Joyce, p. 146). Il rapporto tra caos, reso artisticamente con la scomposizione e riassestamento del linguaggio parlato e delle forme figurative – una "composizione erudita e fantastica, folle e lucidissima, civilissima e barbarica insieme" – Medioevo e raccoglimento si dispiega, nelle pagine del manoscritto miniato amato da Joyce, nella fase critica di passaggio da una cultura a un’altra. Il caos è quanto accompagna inevitabilmente la mutazione di un ordine, perché esprime la distruzione di una forma e la sua frammentazione, al fine di ristabilire una nuova forma, un nuovo ordine e una imprevista visione del mondo.

Allo stesso modo, nell’opera di Joyce tanto nella forma quanto nel contenuto, si riverbera la nascita di un nuovo cosmo. Mentre Jung, da una prospettiva psicologica, registrava la trasformazione della psiche individuale e della coscienza collettiva, Joyce, come ha ben visto Edmund Wilson (E. Wilson, Axel’s Castle, 1931), si imponeva come il poeta di una nuova fase dell’umana coscienza. La distruzione della visione del vecchio mondo che Joyce si lascia alle spalle, va di pari passo con la riproduzione del caos e, insieme, con il tentativo di trovare nel caos un nuovo principio d’ordine; da Ulysses al Finnegans Wake, seguendo l’indagine condotta da Eco, è possibile registrare nelle metamorfosi del linguaggio le fasi della progressiva presa di distanza del poeta dal vecchio ordine e la volontà di rappresentare il nuovo mondo e l'avvento di un'altra  cosmologia. L'immagine che emerge fa piazza pulita della precedente visione del mondo liberandosi del dualismo che la caratterizzava: "scompare l’astratta distinzione di interiorità esteriorità, spirito e materia, bene e male, idea e natura" (U. Eco, Le poetiche di Joyce, p. 109) e appare il molteplice proteiforme, che rispetto alla nettezza dell'ordine dualistico non può che essere percepito come caos. Il molteplice proteiforme è quanto vivono e testimoniano i protagonisti dei romanzi di Joyce, che esperiscono costantemente una messa in crisi delle nozioni di tempo, identità e connessione causale: il nuovo mondo è un orizzonte di eventi insignificanti, collegati tra loro in fragili costellazioni. Ciascuno, indifferentemente centro e periferia, causa prima ed effetto ultimo di una catena di vicende, è un orizzonte di coscienze multiple celate in un turbinio di metamorfosi continue: e questa visione è resa potentemente da Joyce grazie alla plasticità  di una nuova lingua, in cui  prevale il flusso delle parole e dei pensieri, e il gioco delle rifrazioni semantiche, acustiche, l'intreccio inaudito dei diversi registri tonali. Se un'intenzione di Jung nel comporre il Libro rosso era quella di scoprire 'il mito in cui viviamo', negli stessi anni Joyce riferendosi al metodo di costruzione dell’Ulysses, afferma: "nella concezione e nella tecnica ho cercato di raffigurare la terra, che è pre-umana, e presumibilmente post-umana" spiegando poi che l’intenzione di fondo era quella di "trasportare il mito sub specie temporis nostri" (Letters of J. Joyce, 1957). Il mondo dischiuso dal mito sembra allora essere il modello di riferimento più adatto a puntellare, così come sembra fare la titolazione cifrata dei capitoli dell’Ulysses dedicati ciascuno a una tappa, o meglio a un’immagine tratta dall’Odissea di Omero, la nuova cosmologia che Joyce intende rappresentare, nella sua dimensione di caos e di nuovo cosmo. Eliot nel 1923 (Thomas Eliot, Ulysses, ordine e mito, 1923) definisce l’Ulysses "l’espressione più importante della nostra epoca" e rinviene nell'opera dell'amico l’invenzione di un nuovo metodo che definisce 'mitico' distinguendolo, in una riflessione sulla fine del romanzo come genere appartenuto all’epoca passata, da quello 'narrativo': "usando il mito, e operando un continuo parallelo tra contemporaneità e antichità, Joyce instaura un metodo che altri potranno utilizzare dopo di lui", e lo stesso Eliot attribuisce a questo metodo "l’importanza di una scoperta scientifica".

La forma medioevale del manoscritto appare quindi simbolicamente l’oscura fucina creativa in cui si raffigura e mette in opera la distruzione di un mondo, e in cui si manifestano in nuce gli elementi costitutivi dell’ordine successivo. Una sorta di alambicco in cui si distillano alchemicamente gli elementi che daranno poi vita a nuovi elementi, a nuove forme. E infatti Jung afferma che sarà l’interesse per l’alchimia a distoglierlo dal lavoro sul Libro rosso, a fornirgli nuovo materiale in cui trovare conferme e appigli per le sue ricerche. L’aspetto formale del manoscritto però, nel caso specifico del Liber, non risponde ad alcuna velleità 'artistica'; Jung infatti si rifiutò di considerare le immagini che realizzava nel Libro rosso alla stregua di prodotti artistici, e ponendo un netto aut aut tra arte ed etica, affermò il valore della seconda in riferimento a quello che andava creando, perché il suo fine non era produrre delle forme che avessero una rilevanza e una fruizione estetica, ma comprendere la sua attività, pena il rischio di perdersi nel delirio delle immagini. Significativo è che, nel tentativo di comprendere quello che creava, avendo escluso che si trattasse di scienza, si sia dibattuto nella questione se si trattasse allora di natura o di arte, perché è proprio nell’ampio spettro tra queste due polarità che ha dimora il mito.

Riferimenti bibliografici
J. Joyce, Letters, Faber and Faber, Londra 1957
U. Eco, Le poetiche di Joyce, (1962), Bompiani, Milano 1983
T. Eliot, Ulysses, ordine e mito, (1923), Opere 1904-1939, a cura di Roberto Sanesi, Bompiani, Milano 2001
R. Ellmann, James Joyce (1959), Feltrinelli, Milano 1982
A. Gibelli, L’officina della guerra. La grande guerra e le trasformazioni del mondo mentale, Bollati Boringhieri, Torino 1991
C. G. Jung, Simboli della trasformazione (1912/1952), in Opere, vol.5, Bollati Boringhieri, Torino 1992
C. G. Jung, Psicologia dell’inconscio, (1917), in Opere, vol. 7, Bollati Boringhieri, Torino 1973
C. G. Jung, Studi sull’Alchimia, (1929/50), in Opere, vol. 13, Bollati Boringhieri 1989
C. G. Jung, Psicologia e Religione (1938/1940), in Opere, vol. 11, Bollati Boringhieri, Torino 1992
C. G. Jung, Aion, ricerche sul simbolismo del Sé (1951), in Opere, vol. 9, Bollati Boringhieri, Torino 1997
C. G. Jung, Sul problema del simbolo di Cristo (1953), in Opere, vol. 11, Bollati Boringhieri, Torino 1970
C. G. Jung, Ricordi sogni e riflessioni di C. G. Jung, (1961), a cura di Aniela Jaffé RCS, Milano 1978 
C. G. Jung, Nietzsche’s Zarathustra: notes of the seminar given in 1934-1939 by C. G. Jung, Princenton University Press 1988
A. Warburg, Burckhardt e Nietzsche (1927), Aut Aut, 199/200, gennaio-aprile, 1984
E. Wilson, Il castello di Axel: studio sugli sviluppi del simbolismo tra il 1870 e il 1930 (1931), Il Saggiatore, Milano 1965 

  

Daniela Sacco
On the path of what it is to come
An introduction to
The Red Book by C. G. Jung, Bollati Boringhieri 2010

In 2010, one year after the publication by W. W. Norton & Company, the Italian publisher Bollati Boringhieri released The Red Book by C. G. Jung, the manuscript written and illustrated by Swiss psychiatrist between approximately 1914 and 1930. The book represents, both in calligraphic text and many illustrations, Jung’s experience of “confrontation with the unconscious”, started in a difficult period of his life, after a breaking-off with his Master Sigmund Freud. The publication of The Red Book – which existence has been known for more than eighty years, though it spent the last quarter of the last century secreted away in a bank vault in Switzerland because of his preciousness and the prohibition of publication by Jung’s heirs – is a full facsimile edition with contextual essay and notes. Its release opens the possibility of a deeper understanding of Jung’s theory, thanks to the analysis of both its contents and form. In this work it is possible to recognize the basic elements of Jung’s later theory, here expressed in the shape of a text with dialogues and images. The Red Book reveals Jung’s original thought compared to that of Freud, as a reflection capable to understand the epochal changes significantly studded by the First World War. Jung can be considered a spokesman of the transformation of conscience and of the new boundaries between conscience and unconscious; his book is revealing of the mutated mythical horizon in contemporary Western culture which is no more Christian but – through the acquisition of knowledge of the objective or autonomous psyche and the archetype of ‘Selbst’ – it is inclusive of pagan and polytheistic elements derived from the classical tradition. We can draw a comparison between The Red Book and manuscripts of the Middle Ages, particularly The Book of Kells, which had a strong impact in the creative imagination of James Joyce. The complexity of the patterns in the Book of Kells and in The Red Book represent in Joyce’s as well as in Jung’s thought the expression of chaos, or the destruction of an old world in sight of a new cosmos.