"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

92 | agosto 2011

9788898260379

Silvia Urbini
ABRACADABRA
Lettura della tavola 23a di Mnemosyne

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Sistemi combinatori e divinatori per la conoscenza

Hermann Hesse, Magister Ludi, recently published as the Glass Bead Game, copertina dell'edizione New York, Frederick Ungar 1978

L’ultimo romanzo scritto da Hermann Hesse si intitola Il gioco delle perle di vetro. Il titolo si riferisce a una speciale esercitazione combinatoria che, nell’invenzione di Hesse, fu ideata dai musicologi. Si trattava, in concreto, di un telaio con alcune dozzine di fili tesi sui quali si allineavano perle di vetro di diversa grandezza, forma e colore. I fili corrispondevano al rigo musicale, le perle alle note. Così, con le perle di vetro, lo studioso formava citazioni musicali o temi inventati, li modificava, li trasponeva, li sviluppava, li modulava o vi contrapponeva altri temi (Hesse [1943] 1978, p. 28). Il gioco passò dai seminari di studi musicali a quelli matematico-astronomici e fu poi applicato a tutte le scienze. Il gioco coinvolge tutti i valori e i contenuti della civiltà, così come un pittore gioca con i colori della tavolozza. Era sovrinteso dal magister ludi, e nelle sue versioni più evolute era una pratica per iniziati. Hesse ci spiega che il gioco delle perle di vetro è sempre esistito: tutte le culture che hanno perseguito il confronto fra scienza, arte e religione – come i circoli gnostico-alessandrini, di cui parleremo – hanno praticato una sorta di gioco delle perle di vetro. Anche Nicolò Cusano con i suoi giochi di pensiero deve essere considerato un importante precursore di questa pratica combinatoria. Il gioco filosofico d’impronta platonica De ludo globi, ideato da Nicolò da Cusa intorno al 1460, prevede il lancio di una sfera scavata su un lato verso un bersaglio circondato da nove cerchi concentrici. I globi scavati presentano quindi un’imperfezione, come i corpi reali. Il loro lancio e la loro traiettoria, così come le nostre azioni, possono essere indirizzati, ma sono soggetti all’imprevedibilità della Fortuna. L’imperfezione degli esseri finiti è confortata dalla perfezione delle idee e dalla tensione dell’essere verso Dio. La struttura del gioco, così come sarà per quello pensato da Hesse, è anche un sistema per dare un ordine razionale all’esistente. Intorno alla sfera, ai nove cerchi e al bersaglio, Cusano costruisce simbologie matematiche, cosmologiche, gnoseologiche, teologiche (Röd 2000, pp. 209-213).

Al tempo di Hesse, che è anche, in gran parte, quello di Warburg, "si era diffusa la tendenza a 'giocare' con tutti i valori della nostra cultura. Il giuoco consisteva nella padronanza e nello sfruttamento dell’intero patrimonio culturale, in funzione non di sistemi definitivi, ma di sofisticate e disimpegnate costruzioni, analoghe a quelle di magistrali partite a scacchi" (Pannwitz 1957). E se "le più importanti creazioni letterarie della tarda età borghese presentano tutte le caratteristiche di un gioco di perle di vetro – e il libro in cui le troviamo allo stato più puro è forse l’Ulisse di James Joyce" (Mayer in Hesse [1943] 1978, p. XXXV), anche il progetto dell’Atlante della memoria di Aby Warburg può essere considerato come un gioco delle perle di vetro, dove alle pietre sono sostituite le immagini. Contemporaneamente i comuni mortali, stregati dalle promesse di conoscenza dei feuilleton e delle terze pagine dei giornali, si dedicavano anch’essi a intrecciare i saperi "e come in sogno si dedicavano a risolvere parole incrociate, perché erano quasi inermi di fronte alla morte, alla paura, al dolore […] le Chiese non davano loro alcuna consolazione, lo spirito non li consigliava più" (Hesse [1943] 1978).

Il gioco delle perle di vetro oltre a essere un metodo di combinazione delle tradizioni culturali, richiama alla nostra mente un altro tentativo utilizzato dagli uomini per dare un ordine al caos: la divinazione geomantica, tema al quale Warburg dedica la tavola 23a dell’Atlante della Memoria.

Aby Warburg, Mnemosyne, tavola 23a

La tavola 23a di Mnemosyne

Scendiamo con Warburg nelle “oscure regioni della superstizione tardo-antica” (Warburg [1923-1925, 2007] 2009, p. 51). Dobbiamo conoscere la pratica magico-ellenistica per spezzarne l’incantesimo e permettere la liberazione della personalità moderna. Nel 1908, leggendo Sphaera di Franz Boll, Warburg fu incuriosito da un’immagine del libro: si tratta di un icosaedro costituito da 20 triangoli equilateri dove sono incise lettere e immagini zodiacali.

Franz Boll, Sphaera, Leipzig,  B. G. Teubner 1903, p. 470

Boll riteneva che fosse un amuleto: “un piccolo monumento”. Warburg però, grazie agli studi sui libri di sorte, capì che si trattava di un dado a fini oracolari. Il dado è un oggetto di estremo interesse per Warburg: “il simbolo più raffinato dell’illuminismo cosmologico, uno dei cinque corpi matematici regolari […] diventa uno strumento di divinazione della più casuale arbitrarietà” (Warburg [1923-1925, 2007] 2009, pp. 54-55). Il superstizioso si impadronisce della razionalità matematica; la componente ludica e la pratica manipolante hanno un potere più forte del pensiero razionale.

La tavola 23a è dedicata alle tecniche di predizione del futuro tramite i dadi, la geomanzia e i libri di sorte. Vengono cioè considerati alcuni metodi cleromantici di divinazione, ossia metodi per predire il futuro tramite oggetti (appunto solidi geometrici, poliedri di varie formi e materiali) la cui disposizione nello spazio non è ritenuta casuale ma rivelatrice. Warburg per costruire la tavola sceglie libri che hanno in comune la presenza e l’utilizzo di solidi geometrici in funzione magica: Abraxas, seu Apistopistus; quae est antiquaria de gemmis Basilidianis disquisitio, pubblicato ad Anversa da Plantin nel 1657 (il testo è presente nel catalogo della KBW e si può leggere on line); Jean de Meung, Le plaisant ieu du dodechedron de fortune, non moins recreatif, que subtil & ingenieux, renouuelle & change de sa premiere edition (Paris, Vincent Sertenas, 1560; il testo è presente nel catalogo della KBW); due edizioni del Libro delle Sorti di Lorenzo Spirito Gualtieri (Perugia 1482).

Abraxas, dodecaedri e libri di sorte

L’antichità ci ha lasciato – accanto a splendide e preziose pietre incise, quelle che per primi catalogarono Goorle, Maffei e Mariette – un gran numero di pietre semi-preziose (e anche di nessun valore), dove sono intagliate spesso grossolanamente figure mostruose accompagnate da scritte misteriose. I primi a studiare questi materiali, insieme parerga e potenti indicatori culturali, furono due eruditi del XVII secolo, Macarius e Chiflet, curatori del volume Abraxas scelto da Warburg per la tavola 23a.

Abraxas "anguipede alectorcéphale" (Delatte, Derchain 1964, pp. 23-25) inciso su eliotropo ovale, troncoconico piano, III secolo d.C.,
Bologna, Museo Civico Archeologico

Per lungo tempo si pensò che i culti legati a queste pietre avessero avuto origine all’interno della setta gnostica di Basilide nata ad Alessandria d’Egitto nel II secolo d.C. e diffusasi in tutto il Mediterraneo. In un certo numero di esemplari si trova il termine 'Abraxas' iscritto sulla gemma, accanto all’immagine di una creatura ibrida, con testa di gallo, corpo di uomo e due serpenti al posto delle gambe (Mandrioli Bizzarri 1987).

Secondo la gnosi basilidiana il responsabile della creazione è un demiurgo che siede sul trono più alto dei 365 cieli che sovrastano il mondo. Il suo nome è Abraxas e l’uomo deve tendere a lui, liberando lo spirito dalla materia attraverso la conoscenza. Secondo il sistema di numerazione ionico (alfa=1, beta=2, rho=100, alfa=1, xi=60, alfa=1, sigma=200) al termine 'Abraxas' corrisponde il numero 365. Il termine 'abracadabra', utilizzato anche in aramaico, arabo ed ebraico, sembra che per la prima volta occorra come formula magica nel Liber medicinalis dell'erudito medico Quinto Sereno Sammonico. Questa fonte scritta testimonierebbe dunque per la prima volta, mediante la formula magica, un culto di Abraxas:

LI Hemitritaeo depellendo

[...] inscribes chartae quod dicitur abracadabra
 saepius et subter repetes, sed detrahe summam
 et magis atque magis desint elementa figuris
 singula, quae semper rapies, et cetera figes,
 donec in angustum redigatur littera conum:
 his lino nexis collum redimire memento.

 

A B R A C A D A B R A
  A B R A C A D A B R
   A B R A C A D A B
    A B R A C A D A
     A B R A C A D
       A B R A C A
        A B R A C
          A B R A
           A B R
            A B
              A

 

Intagli magici, da Delatte, Derchain 1964

All’inizio del XX secolo, confrontando le pietre incise conservate in varie collezioni con le descrizioni e i disegni in alcuni papiri magici egiziani e greci, si chiarì che, sia o meno dimostrabile il riferimento a Basilide, questi oggetti sono amuleti e talismani. È verosimile che il maggior centro di produzione sia stato proprio Alessandria d’Egitto, città che era la capitale di quel melange di cultura greca, romana, egiziana, ebraica che caratterizza le immagini e le parole incise sugli amuleti. Alessandria era inoltre un importante centro artistico per la lavorazione delle pietre e del vetro.

Il libro che prende in considerazione Warburg nella tavola 23a – Abraxas, seu Apistopistus; quae est antiquaria de gemmis Basilidianis disquisitio – è un affascinante esempio di collaborazione fra studiosi ed appassionati di antiquaria. Si tratta di un’opera corale molto ricca, sia dal punto di vista testuale che da quello iconografico, uscita per la più celebre officina tipografica del Seicento, Plantin.

Jean Chiflet, nato a Besançon e vescovo di Tournai in Belgio, il curatore dell’opera, possedeva uno dei più celebri medaglieri del suo tempo. Suo fratello Henry Thomas, anche lui un religioso, fu antiquario e numismatico al servizio di Cristina di Svezia. Nel libro, con zelo metodologico, sono innanzitutto elencate le fonti che citano gli Abraxas (termine che definiva in generale tutte le tipologie di amuleti magici): come Cesare Baronio, che nei suoi Annali ecclesiatici racconta di quando a Roma fu trovato un Abraxas in ametista, opportunamente riprodotto nella pagina, accompagnato dal commento di Fulvio Orsini che ne riconobbe l’origine. Un’altra fonte molto ultizzata è il De gnostici et eorum magia amuletaria di Athanasius Kircher.

Segue poi l’elenco degli Abraxas rappresentati nelle tavole, l’individuazione delle pietre di cui sono costituiti e i possessori. Fra questi, ad esempio, Lorenzo Pignorius, filosofo italiano; Albert Rubens, figlio del pittore Peter Paul; Claudio Salmasio, l’erudito che scoprì l’Antologia Palatina; Leopoldo d’Asburgo, arcivescovo d’Austria e governatore dei Paesi Bassi, grande collezionista anche di dipinti; lo stesso Fulvio Orsini precedentemente citato. Il cuore del volume è poi dedicato alla lettura dettagliata delle singole tavole, con l’analisi dei materiali e dell’iconografia delle gemme.

Nell’Ottocento questi talismani tornarono alla ribalta. All’inizio del secolo comparvero sul mercato antiquario una serie di papiri provenienti dall’Egitto: contengono formule e rituali magici e, in alcuni esemplari, riproducono le figure presenti anche negli amuleti. Il materiale raccolto va dal II secolo a.C. al V secolo d.C. I papiri furono poi smembrati e venduti a varie istituzioni europee. Nella biblioteca del Warburg Institute, oltre al volume del Seicento curato da Chiflet esposto nella tavola 23a, è presente una pubblicazione di Albrecht Dieterich del 1891 su un esemplare di questi codici, conservato ora a Leida.

La storia di Abraxas uscì poi dallo stretto ambito archeologico. Ne I sette sermoni dei morti, composti da Jung nel 1916, tra sogno lucido e scrittura automatica, l’autore si identificava con il sacerdote Basilide dando vita al super-dio che contiene tutti gli opposti Abraxas. Hermann Hesse – ancora lui – ne parlò nel romanzo Demian, pubblicato nel 1919 dopo una profonda crisi interiore coincidente con il primo conflitto mondiale. Abraxas è il simbolo della rinascita dell’uomo che si libera dalle pulsioni distruttive del mondo e dell’umanità: "L'uccello combatte per uscire dall'uovo. L'uovo è il mondo. Chi vuole nascere deve distruggere il mondo. L'uccello vola a dio. Il nome del dio è Abraxas" (Hesse [1919] 2007, p. 71).

Nel 1932 anche Jorge Luis Borges ripercorrerà l'eresia di Basilide in uno di quelli che egli stesso definisce "rassegnati esercizi di anacronismo", divagazioni che operano con il passato: si tratta del testo Una rivendicazione del falso Basilide, pubblicato nella raccolta Discussione (trad. it. in Opere, I, Mondadori, 1984, p. 335). In età contemporanea il termine 'Abraxas' troverà una particolare fortuna, mediata con tutta probabilità dallo stesso testo di Hesse, anche nella cultura popolare. Il nome 'Abraxas', pur non essendo più specificamente legato a una formula magica, richiama immediatamente l'ambito della magia, dell'esoterismo e delle scienze alternative: dal celeberrimo album omonimo di Carlos Santana del 1970 che contiene il brano Black Magic Woman (e in cui esplicita è, in copertina, la citazione di Hesse); agli Abraxas di Basilide evocati da Hugo Pratt in una storia di Corto Maltese, ambientata in una Venezia magica e onirica (Favola di Venezia, 1977); alla saga del maghetto Harry Potter (Harry Potter and the Half-Blood Prince, 2005: Abraxas è il nome del padre di Lucius Malfoy). La fortuna di 'Abraxas', d'altro canto, non era mai del tutto venuta meno, se si pensa che il termine (ma senza la -s finale) fu impiegato, in ambito filosofico, anche da Thomas More, come nome originario dell'immaginario, 'platonico', Stato di Utopia, prima che il suo territorio divenisse l'isola che dà il nome all'opera del pensatore inglese (Libro II, 1515).

Per tornare all'Atlante Mnemosyne, Warburg non avrà scelto a caso le illustrazioni – tavole nella tavola – dal libro di Chiflet. L’interesse di Warburg nei confronti dell’immagine XII del libro di Chiflet mi sembra sia motivato dalla presenza del poliedro. Abbiamo visto infatti che il solido geometrico è la costante che accomuna i tre libri rappresentati nella 23a: Abraxas, il gioco del dodecaedro e il libro delle sorti. Ecco quindi una trottola di calcedonio "cum imagine cinocefali isiaci". Nel testo di accompagnamento alla tavola sono elencate le caratteristiche del calcedonio come evoluzione del cristallo, secondo le interpretazioni che dà Andrea Cesalpino nel De Metallica. Alcuni scrittori antichi (Orazio, Marziale) testimoniano come queste trottole, chiamate anche turbinis, fossero usate sia per riti magici che come gemmam lusoriam. Nel terzo amuleto è incisa l’immagine di Anubi seduto, adorato da un uomo nudo e prostrato "interposto fulmine trifulco, et supposito cancro" (Macarius, Chifletius 1657 p. 98).


  Tavola XII e XVIII da Abraxas, seu Apistopistus, Anversa 1657

Nell’immagine XVIII sono invece raffigurati amuleti che dovettero interessare Warburg in relazione alle ricerche sul culto del serpente, animale dal potente e ambiguo potere evocativo, curatore e assassino, “bacchetta magica semantica” (Cestelli Guidi, Mann 1998): per ventisette anni, a partire dal viaggio in Arizona fino all’esposizione del 1923 dal titolo Immagini della regione degli indiani Pueblo nel Nord-America, uno degli argomenti di riflessione di Warburg.

Una fase del rituale del serpente presso la tribù indiana Hopi, 1896 (fototeca Warburg Institute)

Nel testo di accompagnamento alla tavola, Chiflet spiega che questi amuleti sono da riferire alle sette gnostiche adoratrici del serpente corruttore di Adamo ed Eva, gli Ofiti (ὄφις=serpente). Il serpente è depositario di conoscenze superiori alle quali il Dio del Vecchio Testamento, inferiore ad Abraxas, non voleva che gli uomini avessero accesso. Gli Ofiti, impadronendosi di una tradizione precedente, allevavano i serpenti tra il pane e le ostie nella cysta mistica. Durante le cerimonie i fedeli dovevano baciare i serpenti, una pratica rituale che rivivrà nella fase culminante della danza del serpente presso la tribù indiana Hopi, descritta da Warburg, dove era prevista l’unione fisica, attraverso la bocca, fra l’uomo e il rettile.

Warburg riteneva che il poliedro pubblicato da Chiflet nella tavola XII fosse un dado gnostico da utilizzare anche con funzioni oracolari. Era il precursore dei dadi che corredano il gioco del dodecaedro e il libro delle sorti. Scrive Warburg:

Quale fosse l‘aspetto di tali oracoli per via di dadi nel tardo Medioevo ce lo mostra il Jeu de dodechedron di Jean de Meung, ed. 1577, in cui il dodecaedro viene utilizzato come dado della sorte, che conduce l’interrogante, mediante una sfera stellata del cosmo, fino alla risposta stampata alla sua domanda, che egli può porre secondo uno schema prefissato di 16 domande (Warburg [1923-1925, 2007] 2009, p. 56).

Jacopo de' Barbari (attr.), Ritratto di fra' Luca Pacioli
con un allievo, 1495 ca., Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte

Secondo l’erudito François Gruget, curatore dell’edizione cinquecentesca del gioco divinatorio, il dodecaedro è la forma più perfetta, una sorta di micro-rappresentazione del globo terrestre, anche perché contiene nel proprio numero i dodici segni zodiacali che percorrono la circonferenza del cielo. I poliedri del resto già dal XV secolo erano fra gli argomenti eccellenti dell’umanesimo matematico (Field 1997, pp. 241-289). Anche Luca Pacioli aveva voluto un dodecaedro nel suo celebre ritratto con allievo, attribuito a Jacopo de’ Barbari e conservato presso il Museo Nazionale di Capodimonte. Il dodecaedro poggia su un libro chiuso, il suo Summa de arithmetica. Dal soffitto pende invece un rombicubottaedro di cristallo trasparente riempito per metà d’acqua. Questa figura geometrica è uno dei poliedri archimedei, così come il dodecaedro è un solido platonico, analizzato da Pacioli sia nella Summa de arithmetica che nel Divina proporzione (Baldasso 2010, pp. 83-102).

L’edizione cinquecentesca del gioco considerato da Warburg vanta nobili origini. L’inventore sarebbe infatti Jean de Meung, l’autore del Roman de la Rose. Se la paternità al poeta dell’opera è stata confutata, è comunque vera l’origine francese e medievale del testo. Gianfranco Contini rintracciò un manoscritto dal titolo Dodechedron alla Biblioteca Nazionale di Parigi (Français 14771) pubblicandolo come “trattatello astrologico provenzale” (Contini 1938, pp. 186-203). Era di proprietà di Etienne Charmoy, l’apotecario di Luigi XI. Fu poi Adolfo Tura a riallacciare i fili fra l’evoluzione rinascimentale del gioco e la sua origine trecentesca (Tura 2001, pp. 119-121).

Warburg espone infine nella tavola 23a sei illustrazioni tratte da un manoscritto e da due edizioni del Libro delle sorti di Lorenzo Spirito Gualtieri. Secondo le didascalie pubblicate nell’edizione di Mnemosyne del 2002 (Warburg [1929] 2002) le edizioni a stampa sarebbero quelle di Perugia 1482 e Milano 1500.

 
Saturno, da Lorenzo Spirito Gualtieri, Libro delle Sorti, Biblioteca Nazionale Marciana, It. IX, 87 (=6226)
Saturno, da Lorenzo Spirito Gualtieri, Libro delle Sorti, Perugia, Stephan Arndes 1482

La Biblioteca del Warburg Institute possiede due rarissimi incunaboli delle Sorti: Brescia 1483, Vicenza 1485; possiede inoltre un’edizione definita mantovana (non presente in ICCU e Edit 16) e tre edizioni francesi. Per la tavola 23a Warburg sceglie: la pagina con Saturno dal codice della Biblioteca Nazionale Marciana; quella con il leopardo dall’incunabolo milanese; la pagina introduttiva, la ruota della fortuna, la pagina con Saturno e quella con i quattro re del vecchio Testamento dall’edizione Perugia, Stephan Arndes 1482. Come di consueto Warburg intende segnalare sia la varietà dei soggetti che la loro diffusione.

 
  Ruota della Fortuna, da Lorenzo Spirito Gualtieri, Libro delle Sorti, Perugia, Stephan Arndes 1482
Pa
gina dei Re, da Lorenzo Spirito Gualtieri, Libro delle Sorti, Perugia, Stephan Arndes 1482

Il mondo della divinazione e del gioco era centrale nella vita sociale e artistica degli uomini del Rinascimento. Nella civiltà delle corti, che aveva tempi lunghi e lenti da riempire, i poeti e gli artisti al servizio dei signori inventarono il libro delle sorti, un libro-gioco figurato, amato e divulgato quasi quanto i tarocchi e i cosiddetti mazzi fantastici. Grazie agli studi di Eugenio Garin, di Albano Biondi e di Paola Zambelli, e a quelli sulla letteratura in volgare di Carlo Dionisotti, sappiamo che la divinazione è una questione centrale nella vita degli uomini del tempo (Garin 1976, Zambelli 1980, Biondi 1983, Dionisotti 1995). Questi temi, i maghi e i loro strumenti, erano del resto stati studiati dal punto di vista sociale già a partire dal XIX secolo. Ma solo Warburg si mostra interessato ai libri di sorte come sistema complesso, considerandone anche i fondamentali apparati figurativi.

La pratica di “tirare le sorti” è molto antica e variegata. In epoca romana si diffusero le sortes vere e proprie, tavolette di legno o di bronzo oblunghe e piatte, dove erano incisi i responsi divinatori. Il consultante estraeva queste tessere – come si farà poi con i tarocchi – e l’oracolante le metteva in sequenza interpretandole (Guarducci 1983). Durante il Medioevo le sortes si arricchirono di immagini, fino a diventare veri e propri libri caratterizzati da uno speciale sincretismo storico-astrologico-cristiano che comprende tutto il sapere universale (sui libri di sorte nel Medioevo, si veda Iafrate 2011).

L’inventore delle sorti nella variante rinascimentale è Lorenzo Gualtieri detto Spirito (1422-1496). Era ironico e sferzante come Boccaccio (fu scomunicato per vilipendio nei confronti del clero), mentre cantava il suo amore per Fenice alla maniera di Petrarca. Non disdegnava i classici, fu infatti il secondo traduttore in volgare di Ovidio, ed era anche un miniatore. Scritto e firmato nel 1482, il manoscritto conservato alla Biblioteca Nazionale Marciana (It. IX, 87 (=6226)) e pubblicato per la prima volta da Warburg in tavola 23a, dovette riposare nei recessi di una biblioteca signorile centro-italiana (forse nella Perugia dei Baglioni?) per quasi vent’anni prima di essere illustrato. La carta d’identità storico-artistica del codice risiede nello stile delle miniature. L’anonimo autore delle miniature va ancorato a un ambito strettamente peruginesco e a un artista che conobbe molto da vicino il giovane Raffaello, all’inizio del Cinquecento.

Il codice marciano (e le sue edizioni a stampa) è diviso in cinque sezioni nelle quali si avanza tirando il dado, e si ottiene da un profeta la risposta alla domanda che scegliamo fra quelle scritte all’inizio del percorso, intorno alla ruota della fortuna. Il percorso che dobbiamo seguire per ottenere la risposta al nostro quesito è anche un’escalation dall’umano al divino. Ovvero, nel libro delle sorti, sia il mondo terreno che quello ultraterreno, pagano e cristiano, lavorano insieme per noi: una consuetudine, tipicamente medievale, di mettere sullo stesso piano la sapienza pagana e quella biblica, che fu sicuramente uno dei motivi della fascinazione di Warburg nei confronti di questi album ludico-magici (Urbini 2006).

Ma c’è di più. Sfogliare le tre varianti fondamentali dei libri di sorte – pubblicate fra il 1482 e il 1540 – è come scorrere altrettanti manuali degli stili artistici e iconografici e della letteratura volgare del Rinascimento. Le sorti di Lorenzo Spirito sono un frutto serotino dell’iconografia medievale e della civiltà delle corti; il Triompho di Fortuna di Sigismondo Fanti del 1527 è un manifesto della 'maniera moderna' tosco-romana e di Baldassarre Peruzzi; appartiene infine all’editoriale manieristica degli anni Quaranta del Cinquecento il Giardino di pensieri del forlivese-veneziano Francesco Marcolini (Procaccioli 2007).

Grazie ai ricchi corredi figurativi di questi libri, Warburg poteva misurare con precisione le variazioni iconografiche di un tema. Ad esempio, proprio nella tavola 23a troviamo espressi per figuras gli interrogativi: quando Saturno si spogliò dei panni medievali per tornare adessere un dio orgoglioso della sua nudità? E quando e perché alla ruota della fortuna si preferì una fanciulla marina? È per inseguire questo tema che i libri di sorte torneranno nella tavola 48 di Mnemosyne. Rappresentano infatti tappe obbligate, tra iconografia e invocazione magica, della storia iconografica di Fortuna (si veda la lettura di tavola 48 pubblicata in questo stesso numero di "Engramma"). Nella tavola 48 Warburg sceglie la pagina introduttiva, quella con la dichiarazione d’intenti, dal Libro delle Sorti di Spirito del 1482, e la pagina della Sezione dei Venti dal Triompho di Fortuna di Sigismondo Fanti. In quella sezione del gioco divinatorio dodici fanciulle nude dai lunghi capelli fluttuanti surfano su delfini, cigni, conchiglie, sospinte da una vela gonfia di vento.

Il libro di Fanti è contaminato in tutte le sue parti da riferimenti figurativi all’astrologia, alla divinazione e ai repertori di Fortuna. Si consideri ad esempio il magnifico frontespizio disegnato da Peruzzi. Agli estremi delle quattro braccia di una croce immaginaria, stanno i simboli della transitorietà: un gigantesco dado, l’astrolabio, l’orologio e un globo con i segni zodiacali, erede della medievale ruota della fortuna. Vi è seduto in equilibrio precario Clemente VII, arrivato, nel 1527, l’anno della pubblicazione del Triompho di Fortuna, all’appuntamento col destino. Il suo mondo, sorretto da Atlante e manovrato da un lato da un angelo e da Virtus, e dall’altro da un diavolo e da Voluptas, sta per precipitare sotto la furia lanzichenecca (Rossi, Rossoni, Urbini 2010). E poi, con la Controriforma, tutti smisero di giocare.


  Sigismondo Fanti, Triompho di Fortuna, Venezia, Giunta 1527. Frontespizio su disegno di Baldassarre Peruzzi.


Desidero ringraziare il Dr. Maarten Raven, Curator Egyptian department, National Museum of Antiquities, Leiden e la dott.ssa Laura Minarini, Museo Civico Archeologico di Bologna.

 

Riferimenti bibliografici

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Torino 1996

SIZOO 1957
A. Sizoo, Abracadabra, in "Hermeneus", XXVIII, 1957, pp. 171-173

TURA 2001
Adolfo Tura, Libri che non si leggono, in “L’Erasmo”, II (2001)

URBINI 2006
Silvia Urbini, Il Libro delle Sorti di Lorenzo Spirito Gualtieri. Con una nota di Susy Marcon,
Franco Cosimo Panini, Modena 2006

WARBURG [1923] 2008
Aby Warburg, Il rituale del serpente, Milano, Adelphi 1988

WARBURG [1923-1925, 2007] 2009
Aby Warburg, Per monstra ad sphaeram, Milano, Abscondita 2009

WARBURG [1929] 2002
A. Warburg, Opere. Mnemosyne. L’Atlante delle immagini, a cura di M. Ghelardi, Nino Aragno Editore, Torino 2002

ZAMBELLI 1980
P. Zambelli (a cura di), Editoria e società. Astrologia, magia e alchimia nel Rinascimento fiorentino ed europeo, in Firenze e la Toscana dei Medici nell'Europa del '500, vol. VI, Olschki, Firenze 1980, pp. 309-429

 

Fonti

Manoscritti

DODECHEDRON
Anonimo, Dodechedron, Parigi, Biblioteca Nazionale, XIV secolo, cod. Français 14771

GUALTIERI 1482
Lorenzo Spirito Gualtieri, Le sorti, Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, 1482, It. IX, 87 (=6226)


Opere a stampa

MACARIUS, CHIFLETIUS 1657
Abraxas, seu Apistopistus; quae est antiquaria de gemmis Basilidianis disquisitio, a cura di Johannes Macarius e Jean Chiflet, Plantin,
Anversa 1657

GOORLE1695
Abraham van Goorle, Dactyliothecae, Lione, Pieter Vander AA 1695

DE ROSSI 1707-1709
Gemme antiche figurate date in luce da Domenico de’ Rossi colle sposizioni di Paolo Alessandro Maffei, 4 voll., Stamperia della Pace,
Roma 1707-1709

DODECHEDRON 1650, 1577
Le plaisant jeu du dodechedron de fortune, non moins recreatif, que subtil & ingenieux, renouuelle & change de sa premiere edition, a Paris, pour Vincent Sertenas 1560 e 1577

FANTI [1527] 1983
Sigismondo Fanti, Triompho di Fortuna, Venezia, Giunta 1527, ora Sigismondo Fanti, Triompho di Fortuna, introduzione di A. Biondi, Edizioni Aldine, Modena 1983

GUALTIERI 1482 (1)
Lorenzo Spirito Gualtieri, Libro delle Sorti, Stephan Arndes
, Perugia 1482

MAFFEI

Paolo Alessandro Maffei, Gemme antiche figurate date in luce da Domenico de' Rossi colle sposizioni di Paolo Alessandro Maffei, Roma 1707-1708

MARCOLINI [1540] 2007
Francesco Marcolini, Le sorti intitolate giardino d’i pensieri, ristampa anastatica dell’edizione 1540 con una nota di Paolo Procaccioli, Fondazione Benetton Studi e Ricerche, Treviso-Roma 2007

MARIETTE 1750
Pierre-Jean Mariette, Traité des pierres gravées, de l’Imprimerie de l’auteur,
Paris 1750

 

 

 

English abstract

Silvia Urbini
ABRACADABRA. A reading of
Mnemosyne's plate 23a

At the beginning of the 20th century, the interest for the ancient gnostic cult of Abraxas and for amulets representing the magical monster-god finds its way beyond the strict framework of archaeological disciplines: in The seven sermons of the dead, composed by Carl Gustav Jung in 1916, the author identifies himself with the priest Basilides, giving life to a super-god that contains all the opposites of Abraxas; in 1917 Hermann Hesse quotes Abraxas in his novel Demian. A few years later, Aby Warburg devotes to Hellenistic and Renaissance practices of divination the plate 23a of his Bilderatlas. Table 23a deals with cleromantic methods of divination, i.e. using objects (geometric solids, polyhedrons of various forms and materials) whose arrangement in space is not considered a random result but revealing of fate. In plate 23a Warburg chooses as images pages of books that have in common the presence and use of geometric solids in magic function, such as amulets or dices: Abraxas edited by Jean Chiflet (Antwerp 1657); Jean de Meung, Plaisant jehu du dodechedron (Paris 1560); two editions of the Libro delle Sorti (Book of Fate) by Lorenzo Spirito Gualtieri (Perugia 1482, Milan 1500). Not far from these issues, Hermann Hesse himself, in his last novel of 1943 The glass-beads game, describes a combinatorial practice that can be considered an example – such as Warburg's Bilderatlas and the Renaissance work De ludo globi by Nicolò Cusano – for 'serio ludere', for learning and gaining a rational order to existence through playing.