Scheda mitologica e iconografica di Ebe
Claudia Solacini
(ristampa da "La Rivista di Engramma" n. 34, giugno-luglio 2004)
Figura mitologica e insieme personificazione di un concetto, Ebe, Hebe, 'Giovinezza', è presente già a partire dalle fonti letterarie più antiche: secondo Omero ed Esiodo è figlia di Zeus ed Era (Hes. Theog. 921-23; 950-53; Hom. Od. XI, 604). Omero la descrive come ancella di Era (Il. V, 722-723); come premurosa sorella che lava e riveste il fratello Ares reduce dalla battaglia (Il. IV, 905), come compagna di Afrodite nella danza (Hymn. ad Aph. 194-96).
Nata secondo Pindaro dallo splendore dell'oro (P. IX, 109-111) Ebe non lascia mai l'Olimpo, dove, in accordo con fonti più tarde (Schol. ad Hom. Il. XX, 234c Erbse; Luc. D. deor. 5, 2; Nonn., Dion. V, 669; XIV, 430-33; XIX, 215-18), svolge la funzione, precedendo Ganimede in questo compito o assieme a lui, di coppiera degli dei: distribuendo nettare e ambrosia, Ebe garantisce l'immortalità agli Olimpi.
Ebe-Giovinezza è dunque figlia, compagna e servitrice degli dei: il suo 'nome parlante' la situa in quel terreno liminare del linguaggio metaforico per cui la personificazione è da un lato mero artificio letterario e poetico, dall'altro è una figura mitologica che, pur non avendo una personalità ben individuata, è in grado di svolgere una funzione specifica (tanto da essere degna di ottenere culti religiosi), pur in posizione attributiva rispetto alle divinità maggiori. Infatti, come sorella di Ares, Giovinezza è associata all'impeto della guerra, mentre come ancella di Era e di Afrodite entra nelle timài femminili della bellezza, del desiderio amoroso e del matrimonio.
Oltre al suo ruolo funzionale nei confronti degli altri dei, Ebe non ha una storia mitica propria. L'unico episodio che le conferisce un certo spessore mitico, ma non un'autonomia individuale, riguarda il suo matrimonio con un eroe che ha invece una notevole importanza nel sistema politeistico greco. Le fonti (Hom. Od. XI, 602-03; Hes. Theog., 950-55; N. I, 70-72; X, 32-34; Eur. Her., 910-918; Theocr. XVII, 46; Diod. IV, 39, 2-3) sono infatti concordi nel fare di Ebe la sposa di Eracle: l'eroe, assunto al cielo alla fine delle sue fatiche, insieme all'immortalità conquistata, ricevette in premio la dea. Questo matrimonio è simbolo dell'accesso da parte dell'eroe – unico brotòs giunto a condividere con gli altri dei la caratteristica loro peculiare, l'immortalità – anche all'eterna giovinezza (a differenza di quanto accadde a Titone, sposo di Eos-Aurora, immortale ma destinato a invecchiare eternamente).
In connessione con il nucleo mitico delle vicende di Eracle, Ebe possiede secondo alcune fonti anche il potere di ridare la giovinezza ai mortali (Eur. Her., 843-866; Ov. Met., IX, 397-401): la dea riesce a ringiovanire il vecchio Iolao, gemello dell'eroe, e a donargli anche la forza necessaria per combattere contro Euristeo.
La fonte principale che riporta informazioni riguardanti le attestazioni di culto attribuite alla dea è costituita dalla Guida della Grecia di Pausania: l'autore ci informa della presenza di un santuario "di epoca antica" costruito sull'acropoli di Fliunte (II, 12, 4) dedicato a Ebe o Ganimeda, come la chiamavano i Fliasii (II, 13, 3). Con l'appellativo di 'Dia' inoltre, Ebe era adorata anche a Sicione (Strab. VIII, 6, 24). Pausania parla anche del santuario dell'Heraion di Argo, presso Micene, dove la statua crisoelefantina di Ebe, opera di Naucide, era posta accanto a quella di Era (II, 17, 5). Inoltre, in un luogo sacro ad Eracle, l'Herakleion di Cinosarge, sorgevano due statue di Eracle ed Ebe (I, 19, 3). Un'altra statua di Ebe appariva vicino a quella di Era: era opera di Prassitele ed era conservata nel santuario di Mantinea (VIII, 9, 3). I reperti epigrafici permettono infine di ricostruire la presenza del culto di Ebe anche a Egina e sull'Imetto.
Nelle testimonianze vascolari più antiche a noi giunte, Ebe è rappresentata su un carro durante il matrimonio con Eracle (hydria ionica, Roma, Museo di Villa Giulia): il tema del carro come veicolo dell'apoteosi dell'eroe resterà frequente anche durante tutta l'età classica. Gli attributi iconografici della dea, a partire dal VI secolo a.C., quando Ebe comincia a svincolarsi dalla figura di Eracle, sono l'ampolla e il calice: nelle immagini la sua funzione di coppiera risulta dunque diffusa prima dell'attestazione di questo ruolo nelle fonti letterarie. A volte porta sul capo una corona di fiori o viticci, o un cesto di frutta. Per lo più pudica in Grecia, Ebe è parzialmente o totalmente denudata nelle rappresentazioni italiote e in Etruria. L'iconografia generica di questa figura, assimilabile alla forma archetipica della kore, ne rende spesso difficile il riconoscimento e l'identificazione.
Nelle rappresentazioni vascolari solitamente Ebe è presente alle feste degli dèi e alle assemblee divine (cratere a colonnette, 460 a.C., New York, collezione Woodner). Raramente è raffigurata da sola, e quando questo accade è spesso accompagnata da un'iscrizione che la identifica. Dalla metà del V secolo Ebe è a volte raffigurata con le ali, e allora si confonde con Nike o con Iris, che appare spesso vicino a Era e Zeus come loro messaggera. Spesso anche Ebe è raffigurata vicino a Era, o a Zeus che appare anche sotto le sembianze di un'aquila: l'uccello sacro a Zeus si appresta ad abbeverarsi dalle mani di Ebe, ma a volte l'aquila è rappresentata nell'atto di sollevare la fanciulla da terra, similmente alle raffigurazioni più diffuse di Ganimede: così è ad esempio nelle colonne provenienti dalle tombe di Taranto (capitello in calcare, 430-380 a.C., Amburgo).
A volte Ebe assiste anche alla nascita di Atena assieme alla sorella Ilizia (anfora, 570 a.C., Parigi, Louvre) e al giuramento di Paride (cratere, 420-410 a.C., Leningrado, Ermitage), o è raffigurata nel contesto del ritorno di Efesto (cratere a volute, 420 a.C., Ferrara, Museo Nazionale) e della gara di Marsia (cratere attico, 420 a.C., Ruvo, Museo Jatta). Ebe appare anche al fianco di Ares (bassorilievo attico in marmo, 425-420 a.C., Atene, Museo Nazionale), di Dioniso (vaso attico, 580 a.C., Londra, British Museum), e nel circolo di Afrodite (epinetron, 425 a.C., Atene, Museo Nazionale).
A Roma il culto di Ebe, identificata con la indigena Juventas, fu introdotto assai precocemente: la prima raffigurazione conosciuta risale al III secolo a.C. Rispetto al mito greco, a Roma viene ulteriormente accentuato il suo significato allegorico, in senso politico e istituzionale. Juventas ebbe due luoghi di culto: il primo era una cappella situata nel tempio capitolino, all'ingresso della cella di Minerva. Una leggenda narrava che tutte le divinità del Campidoglio si ritirarono per far costruire sul colle un tempio dedicato a Giove, tranne Terminus e Juventas, ai quali dovettero quindi essere conservate due cappelle nel nuovo edificio (Liv. V, 54, 7; Gell., Noc. Att. XII, 4). Il secondo santuario romano si trovava nelle vicinanze del Circo Massimo: il tempio lì situato era stato promesso nel 207 a.C. dal console Livio Salinatore, poiché pare che durante la battaglia del Metauro il console, già uomo di una certa età, avesse ricevuto da Juventas la forza della gioventù (Liv. XXXVI, 36, 5-6).
Secondo le scadenze del calendario religioso romano, agli adulescentes che entravano nella classe degli uomini adulti, veniva imposto di lasciare una moneta come offerta di devozione alla dea della giovinezza, e anche da parte dello Stato, all'inizio di ogni anno, venivano offerti dei sacrifici alla dea (Dion. Hal., Ant. IV, 15). Juventas era patrona della stessa forza vitale che gli iuvenes portavano con sé, e la potenza di Roma dipendeva proprio dagli iuvenes, che la mantenevano sempre giovane. Nel periodo imperiale, Juventas mantenne il suo significato politico-militare, ma nonostante il contesto marziale la troviamo raffigurata nella maggior parte dei casi con una veste lunga, anche se a volte appare come un'amazzone, molto simile alla figura di Virtus, con la quale può essere confusa.
Per citare questo articolo: Scheda mitologica e iconografica di Ebe, a cura di C. Solacini, “La Rivista di Engramma” n. 104, marzo 2013, pp. 37-39 | PDF dell’articolo