"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

111 | novembre 2013

9788898260560

Venezia e l’urbanistica napoleonica: confisca e riuso degli edifici ecclesiastici tra il 1805 e il 1807

Emma Filipponi

English abstract

Il 2 dicembre 1805 la terza coalizione antinapoleonica fu definitivamente sconfitta dalle truppe francesi nella battaglia di Austerlitz. Poco tempo dopo, il giorno 26 dello stesso mese, Napoleone e l’imperatore Francesco I d’Austria firmarono la Pace di Presburgo: rientrando nell’orbita francese, Venezia e il Veneto diventarono parte integrante del Regno d’Italia. Sotto la potestà del vicerè Eugenio di Beauharnais, Venezia si apprestava così ad affrontare uno dei periodi chiave della propria storia politica e urbana: contraltare dinamico dell’immobilismo austriaco degli anni precedenti, l’arrivo dei francesi scosse nel profondo il clima di torpore che avvolgeva la città. Per la prima volta dalla caduta della Serenissima, Venezia si accingeva a confrontarsi con il resto dell’Italia e dell’Europa e a far dialogare la propria peculiare struttura con la razionalità operativa delle nuove istituzioni. Con la sua posizione invidiabile – e militarmente utile – e con l’enorme carico di storia e di arte che possedeva, la città lagunare divenne, infatti, uno dei fulcri sui quali si impostò l’attività riformatrice francese. Assunta al ruolo di moderno centro europeo, l’antica città lagunare non sarebbe riuscita ad evitare di confrontarsi con il cambiamento, nonostante fosse, per sua stessa natura, assolutamente unica nel suo genere.

Dagli anni Settanta del Settecento in poi, Venezia aveva affrontato, con modalità discontinua, il problema delle soppressioni degli ordini ecclesiastici e del riuso delle loro pertinenze immobiliari come ‘contenitori’ di attrezzature pubbliche. Queste azioni si erano articolate in maniera isolata e, tendenzialmente, non organica: proprio questo aspetto aveva spinto il clero veneziano a sperare sempre nella reversibilità di gran parte degli interventi operati dalla Repubblica e dagli otto anni di Casa d’Austria. Il 19 gennaio 1806, però, nonostante la consueta accoglienza riverente e ossequiosa rivolta dai cittadini e dal clero stesso (Bertoli 2001, 35), l’arrivo dei Francesi in città fece temere il peggio alla Chiesa veneziana. La polemica illuminista aveva generato un grande moto riformatore che aveva sortito effetti irreversibili: oramai in tutta Italia si avvertivano gli impulsi provenienti da Portogallo, Spagna e Francia, dove le azioni di rinnovamento sociale diventavano sempre più incisive e le lotte anticuriali sempre più numerose e importanti.

Nel 1805, con decreto dell’8 giugno (ASV, Bollettino delle leggi del Regno d’Italia, b. 27, 1805, P. I, 123-140, Decreto n. 45), Napoleone aveva già disposto nelle città che allora facevano parte del Regno d’Italia, e in particolare a Milano, un’ampia ondata di confische di conventi e monasteri, l’incameramento di gran parte dei loro beni e, a conforto di religiosi e religiose, l’assegnazione di una pensione per il loro mantenimento, anche nel caso di un loro rientro nella società civile. A differenza delle esperienze passate di fine Settecento, le misure francesi articolavano i provvedimenti con maggiore organicità: la concentrazione e la confisca, infatti, non erano più solo metodi rapidi ed efficaci per garantire la creazione di spazi utili e di rendite importanti, ma diventavano veri e propri strumenti amministrativi di riappropriazione della città. L’arrivo di Bonaparte sembrava quindi destinato a segnare un passaggio fondamentale nell’esperienza delle soppressioni: la strategia sarebbe diventata sempre più articolata, fino ad assumere i contorni di un vero e proprio disegno per la ri-funzionalizzazione della compagine urbana, che avrebbe ridefinito completamente il “rapporto tra religione e città” (Concina 1995, 297).

In un clima di profonda diffidenza verso quelli che erano considerati gli ‘invasori d’Oltralpe’, le operazioni francesi di confisca degli edifici ecclesiastici veneziani furono pianificate – ma solo parzialmente attuate – in due momenti chiave: nel 1806 – con l’acquartieramento delle truppe e dei servizi militari – e nel 1807 – con la stesura di quello che è considerato il primo ‘piano regolatore generale’ per la città.

1806. L’acquartieramento delle truppe e dei servizi militari

Dopo il passaggio al Demanio, il 30 marzo 1806 (Bertoli 2002, 30), della proprietà di tutti i beni appartenenti ai regolari di entrambi i sessi, il Regno emanò il primo vero decreto di confisca per la città di Venezia: il 28 luglio 1806 il viceré Eugenio dispose la soppressione e la concentrazione di diversi monasteri e conventi nei territori dei dipartimenti veneti riuniti nel Regno (ASV, Bollettino delle leggi del Regno d’Italia, b. 27, 1806, P. II, 809-820, Decreto n.160). Il decreto affrontava unicamente il problema delle corporazioni religiose: si intendeva così concentrare ordini regolari sia maschili che femminili in determinati edifici, lasciandone liberi altri e definendo per ogni struttura soppressa la proprietà alla quale erano destinate le proprie pertinenze, se civile o militare (per l’elenco delle attribuzioni civili o militari degli edifici soppressi dal decreto si è fatto riferimento a Romanelli 1988, 112, n. 11).

Il meccanismo della soppressione e della concentrazione, di per sé, non dovette apparire di certo come una novità, né agli occhi dei cittadini né tantomeno a quelli della chiesa veneziana, temprati ormai dalle, seppur meno incisive, esperienze repubblicane e austriache. Ciò che invece segnò la svolta fondamentale nel sistema delle soppressioni ottocentesche, fu la metodicità con la quale il governo compose la ‘mappa’ delle concentrazioni: la politica francese infatti non faceva distinzioni tra ordini religiosi o chiesa centralizzata, nè tra le diverse pertinenze patriarcali o marciane. Ma trattava il sistema delle strutture ecclesiastiche come un unicum, suddiviso capillarmente poi su tutte le aree della città con una caratterizzazione quasi urbanistica: un tessuto regolare di edifici religiosi che si impostava sui livelli, a loro volta sovrapposti, delle insulae, dei canali, dei campi e delle calli.

In seno al decreto del luglio 1806, in laguna si dispose la soppressione di diciotto monasteri (più quello delle Grazie a Mestre) e quindici conventi e, ad eccezione di due soli casi, la confisca comprese anche la chiesa. Si comprende chiaramente che tipo di impatto urbano avesse potuto generare questa requisizione: la densità di edifici ecclesiastici in città era altissima già nel Settecento e alla caduta della Repubblica si contavano circa trenta conventi e quarantaquattro monasteri nella diocesi di Venezia e tre conventi e quindici monasteri in quella di Torcello (Bertoli 2002, 83-86; Manzelli 1991a, Indice degli stabilimenti religiosi 1797). Circa un terzo di questo patrimonio passava quindi alla proprietà pubblica: il governo si riappropriava di spazi spesso scarsamente utilizzati dal clero, che diventavano in questo modo possibili sedi di nuove funzioni per la cittadinanza. Soprattutto in relazione al ruolo che conventi e monasteri rivestivano a Venezia, in questa prima grande ondata di confische si può leggere non solo un differente approccio amministrativo e organizzativo alla questione, ma anche il prologo alla nascita di un nuovo rapporto con la città, con i suoi spazi e con le relative destinazioni d’uso.

In questa prima fase furono definitivamente smantellati, in particolare, molti degli edifici religiosi delle isole maggiori di Murano (San Pietro Martire, San Mattia, San Bernardo), Burano (San Mauro), Mazzorbo (Santa Caterina, San Matteo), Pellestrina (Santa Maria del Mare), Malamocco (Santa Maria dell’Orazione) e di quelle minori, come nel caso di San Cristoforo, San Secondo, San Francesco del Deserto e San Giorgio in Alga. In città si ordinò la soppressione degli ordini di San Nicoletto dei Frari e di Santa Chiara della “Girada” a Santa Croce, di quelli di San Domenico, di San Francesco di Paola, di San Daniele, delle Vergini e di Sant’Anna a Castello, di quello di Santa Caterina a Cannaregio, di quello del Santo Sepolcro a San Marco, di quello del Santissimo Spirito, dei Carmini, di Santa Maria del Rosario, di Santa Maria dell’Umiltà e di Ognissanti a Dorsoduro, di quello di San Giacomo, Santa Croce, Santi Cosma e Damiano alla Giudecca, di quello di San Giorgio Maggiore nell’isola di San Giorgio e di quello Sant’Elena all’isola di Sant'Elena. Dunque, alla fine di del mese di ottobre del 1806 risultavano soppressi nelle diocesi di Venezia, in quella di Torcello e nelle isole di Malamocco e Pellestrina diciotto monasteri e tredici conventi.

Si può notare come la maggior parte degli edifici espropriati fossero localizzati nelle isole della laguna nord (Murano, Burano, Mazzorbo, San Cristoforo, San Secondo, San Francesco nel Deserto), nelle isole con accesso dal mare aperto (Pellestrina e Malamocco) e nell’area attorno all’Arsenale (Castello e Sant’Elena). La preferenza netta di queste zone per la dislocazione di servizi prevalentemente militari potrebbe denotare la volontà del governo francese di sistemare in tempi brevi l’‘ingombrante’ presenza dell’esercito, operando un acquartieramento delle truppe in aree strategiche. È il caso appunto delle isole a nord della Laguna – lontane dalla città e sicure come depositi di armi e soprattutto polveriere – ma anche di quelle poste all’imbocco delle bocche di porto – per controllare gli accessi dal mare – e delle zone limitrofe all’Arsenale. In questo modo, nella fase di assestamento del nuovo dominio, sarebbe stata assicurata alla città un’equilibrata distribuzione delle truppe e dei servizi ad esse legate, come, appunto, depositi e grandi caserme, costruendo allo stesso tempo la struttura di un'efficiente cortina difensiva ‘esterna’.

Gli edifici requisiti nelle altre zone della città, invece, costituirono il sistema di ospedali, case di correzione e piccole caserme cittadine, come gli spazi di Santa Chiara della “Girada”, del Santo Sepolcro, dello Spirito Santo e degli edifici più isolati della Giudecca. Particolari furono però i casi del convento di San Giorgio Maggiore, di Ognissanti a Dorsoduro e del monastero di Santa Caterina a Cannaregio, nei quali il governo istituì i primi tre importanti stabilimenti pubblici: il primo, per metà militare e per metà di proprietà del demanio civile, costituì la base del futuro snodo principale della Dogana da Mar – dove, come in un moderno terminal marittimo, si sarebbero smistate grandi quantità di merci e di persone; il secondo diventò una casa di educazione femminile; il terzo, fuori da ogni zona strategica, fu scelto per ospitare una nuova scuola secondaria, sul modello francese del Lycée National: venne costituita l’anno successivo con il nome di “Liceo Convitto Santa Caterina” (oggi “Liceo Ginnasio Marco Foscarini”).

Le conseguenze dell’effettiva applicazione del decreto del luglio del 1806 si intrecciarono, il 28 novembre dello stesso anno, con quelle di un’altra misura soppressiva (ASV, Direzione dipartimentale del Demanio, Atti) che ampliò e perfezionò la precedente e attraverso la quale furono concentrati – e contestualmente adibiti ad esclusivo uso militare per le truppe di terra e di mare – gli immobili di Santa Maria Maggiore e San Stae a Santa Croce, di San Francesco della Vigna, Ospizio dei Mendicanti, Santi Giovanni e Paolo, San Martino, San Nicolò, Seminario ducale e Sant’Antonio a Castello, di Santa Marta a Dorsoduro, dei Gesuiti e della Scuola grande della Misericordia a Cannaregio, di San Salvatore e Santo Stefano a San Marco, di San Biagio e Cataldo e delle Convertite di Santa Maddalena Giudecca, delle Cappuccine di Mazzorbo; furono requisite inoltre le strutture religiose delle isole di Santa Maria delle Grazie, Santo Spirito, Lazzaretto nuovo, la Certosa e San Michele.

Rispetto a quelli confiscati con il decreto di luglio si trattava, dunque, di edifici del centro che, ad esclusione delle isole e dei casi di San Salvatore, San Stae e Santo Stefano, risultavano localizzati, comunque, sui margini esterni della città. L’acquartieramento delle truppe di terra e di mare in questi fabbricati farebbe pensare dunque alla predisposizione di un filtro militare sulla corona esterna del centro, a segnare il passaggio dalla vera e propria cortina difensiva delle isole alle funzionalità civili e di pubblica sicurezza del ‘cuore’ della città.

1807. La stesura del ‘piano regolatore’ e il caso di Santa Maria della Carità

Alla fine del 1806, stabilita la localizzazione esterna dell’appendice militare del dominio, il governo francese si ‘aprì’ dunque gradualmente alla città, cominciando a tracciare le linee per un rinnovo radicale di forme e funzioni.

Già all’inizio del 1807, il 9 gennaio si istituiva a Venezia – e contemporaneamente anche a Milano – un’unità operativa del tutto nuova: la Commissione all’Ornato. Composta da cinque personalità scelte tra i professori e i cittadini “intelligenti di architettura, ed arti analoghe” (ASV, Bollettino delle leggi del Regno d’Italia, b. 28, 1807, P. I, p. 9, Decreto n. 5) e tra i membri dell’Accademia di Belle Arti, la Commissione doveva occuparsi di tutto ciò che riguardava l’edilizia e la forma urbana. Con il suo incarico di monitoraggio e regolamentazione, la Commissione all’Ornato configurò una nuova modalità di approccio all’intervento urbano, che diventava in questo modo, un procedimento in grado di controllare sia l’aspetto tecnico e formale, sia quello economico e sociale delle operazioni, la cui messa in atto rappresentava il passaggio all’“Età moderna” dei processi di trasformazione urbana (Romanelli 1988, 115).

I membri della Commissione erano stati individuati dal prefetto Serbelloni e dal governo milanese, non senza qualche variazione in corso d’opera, nelle persone di Diedo, Facchina, Garofoli, Mezzani e Selva: proprio l’architetto veneziano avrà un ruolo essenziale nel piano di riorganizzazione urbana. La concezione della città come insieme di forme e funzioni era alla base del lavoro della Commissione stessa, che avrebbe dovuto mettere a punto un programma di interventi, carichi di principi teorici universali per l’approccio alle questioni urbane. Questo lavoro avrebbe contribuito a rendere più rapido il passaggio – più fluido il salto – dall’approccio empirico della Serenissima e della prima dominazione asburgica all’organizzazione razionale e metodica della Francia postrivoluzionaria.

L’attività di monitoraggio della Commissione, che avrebbe prodotto una dettagliata panoramica sullo stato della città, costituì la base per la redazione del decreto del 7 dicembre 1807, che avrebbe compreso, ovviamente, anche ciò che riguardava la questione della riduzione delle parrocchie e del riuso delle pertinenze di conventi e monasteri. Si cominciò, però, a percepire più chiaramente la vastità del disegno urbano di riorganizzazione degli edifici ecclesiastici quando, il 26 maggio 1807 (ASV, Bollettino delle leggi del Regno d’Italia, b. 28, 1807, P. I, 281-283, Decreto n. 89) il vicerè abolì tutte le confraternite e chiuse tutte le scuole grandi e piccole della città. Meno di un mese dopo, il 18 giugno (ASV, Bollettino delle leggi del Regno d’Italia, b. 38, 1807, P. I, 308-313), fu inoltre emanato un decreto che riprogrammava l’amministrazione degli ospedali e delle organizzazioni di pubblica beneficienza.

Il governo diede quindi corso a un sostanziale allargamento dello strumento soppressivo, che venne ampliato fino al coinvolgimento di enti sino a quel momento preservati dalle concentrazioni e spesso localizzati nelle aree più centrali della città. Segnando un ampliamento e uno spostamento del raggio d’azione, questi ultimi due decreti furono la conseguenza di considerazioni, studi e indagini della Commissione, messi a punto mano a mano che si procedeva nell’analisi della città, che se ne percepivano punti di forza e criticità e che si cercava di acquisire tutto quello che sarebbe stato indispensabile per mettere in atto una grande riorganizzazione della compagine urbana.

Ludovico Ughi, Iconografica rappresentatione della Inclita Città di Venezia, incisione, Venezia, 1729, Venezia, Biblioteca del Civico Museo Correr
Ludovico Ughi, Iconografica rappresentatione della Inclita Città di Venezia, versione a colori, incisione, Venezia, 1807-1808, Venezia, Biblioteca del Civico Museo Correr

Il decreto di dicembre è infatti assimilabile, oggi, ad un vero e proprio Piano regolatore generale della città ed è probabile che le sue linee guida fossero già state tracciate nell’estate del 1807. Insieme a Diedo, Selva ne fu il redattore principale: nel mese di luglio aveva richiesto al Podestà l’aiuto di un assistente che avrebbe dovuto occuparsi di riordinare e ridisegnare gli studi sul caso, già abbozzati e colorati dall’architetto su una pianta della città. Precedentemente Selva si era già fatto autorizzare dal Podestà (che ricopriva anche la carica di Presidente dell’Ornato) l’acquisto di due piante di Venezia per potervi, appunto, disegnare sopra (Mezzalira 2009, 76). È molto probabile che si trattasse di riproduzioni dell’Iconografica rappresentatione della Inclita Città di Venezia redatta da Ludovico Ughi nel 1729 (Romanelli 1977, 113; Mezzalira 2009, 80). È plausibile quindi che la stesura degli schizzi cui l’architetto fa riferimento coincida con la copia colorata della pianta di Ughi conservata oggi al Museo Correr (Romanelli 1988, 48-49): sulla mappa sono segnate in rosso le parrocchie confermate, con il tracciato dei nuovi confini, e in blu quelle da concentrare (ho affrontato il tema del ruolo delle rappresentazioni cartografiche in epoca napoleonica e asburgica in Filipponi 2013).

Fu probabilmente proprio con questa pianta colorata e ‘schizzata’ di suo pugno che Selva discusse i provvedimenti direttamente con l’Imperatore, durante la visita di quest’ultimo a Venezia dal 29 novembre all’8 dicembre 1807. Ansioso di avallare personalmente le decisioni più importanti, Napoleone arrivò a Venezia con il suo pomposo seguito la sera del 29 novembre, affrontando una violenta tempesta autunnale: era deciso a fornire il proprio contributo diretto alle questioni di riorganizzazione della città che l’Ornato e la Municipalità si apprestavano ad affrontare.

Da mesi ormai la Commissione studiava la città, mettendone in luce problemi da risolvere e opportunità da sfruttare, tracciando idee e proposte per le politiche di riassetto urbano generale: di certo trasformazioni così rilevanti avrebbero dovuto superare il vaglio dell’approvazione imperiale, che, proprio con Venezia, aveva l’opportunità di sperimentare in maniera sistematica nuovi metodi di pianificazione urbana.

Napoleone firmò di suo pugno il decreto il 7 dicembre, ma è molto probabile che ci fosse stato almeno un confronto diretto tra l’Imperatore, il Ministro Aldini e Gian Antonio Selva prima della stesura definitiva dei provvedimenti (Romanelli 1977, 113; Mezzalira 2009, 80). Insieme all’Ornato, Bonaparte aveva infatti tracciato i capisaldi dei vari provvedimenti di riorganizzazione, che il 7 Dicembre vennero emanati sotto forma di decreto (ASV, Bollettino delle leggi del Regno d’Italia, b. 28, 1807, P. III, 1188-1203, Decreto n. 261). Questo conteneva una serie di provvedimenti da applicare alla città, non solo per quel che riguardava l’aspetto urbano, ma anche quello amministrativo, economico, assistenziale, commerciale ed ecclesiastico.

La particolarità del centro lagunare aveva reso necessario ripensarne l’organizzazione: con il decreto di dicembre furono tracciate le linee guida di quella che Giandomenico Romanelli ha definito una vera e propria “legge speciale” (Romanelli 1977, 44) per la città. L’organicità della sua struttura rese questo provvedimento assolutamente unico all’interno del corpus delle leggi e dei piani napoleonici: il decreto costruì una rete di scenari, da attuare non tutti immediatamente, ma da affrontare in piccole tappe negli anni successivi; queste linee guida accordarono, per la prima volta, ciò che riguardava il necessario rilancio economico della città – come la creazione del Porto Franco, lo snellimento dell’apparato amministrativo e assistenziale, la riorganizzazione del Dipartimento dell’Adriatico – con la nuova pianificazione urbana, comprendendo anche la previsione di interventi a scala territoriale.

Il decreto, così costruito, si proponeva quindi di dare delle indicazioni di massima sui lavori e sulle trasformazioni da eseguire, lasciando poi all’Ornato – e nella fattispecie a Selva – il compito di redigere i progetti specifici. Concepiti a partire dai mesi successivi alla sua emanazione, tali progetti costituirono l’insieme degli interventi più importanti e riguardarono in particolare: lo spostamento del cimitero cittadino nell’isola di San Cristoforo, il cui convento era stato già soppresso dal decreto del 28 luglio 1806 per usi militari; la trasformazione dell’intera isola di San Giorgio Maggiore in punto franco; l’interramento del rio di Sant’Anna a Castello, finalizzato al prolungamento della Riva degli Schiavoni e alla creazione di una nuova arteria, la Via Eugenia; la nascita dei Giardini Reali, annessi all’omonimo Palazzo; la pianificazione di nuovi, grandi giardini a Castello; la realizzazione di “un’altra grandiosa passeggiata alla Giudecca” (ASV, Bollettino delle leggi del Regno d’Italia, b. 28, 1807, P. III, 1188-1203).

Il titolo del decerto relativo ai progetti era seguíto immediatamente dalle disposizioni in merito alle parrocchie: il decreto si proponeva di concentrare ben trentuno parrocchie, lasciandone vivere circa quaranta, modificandone i confini. Rispetto ai decreti precedenti l’operazione spostava completamente l’area di interesse, orientandosi verso gli edifici ecclesiastici nel cuore della città. Questo significava mettere in atto delle trasformazioni radicali in una città che aveva da sempre impostato gran parte della sua organizzazione insulare sulla rete delle strutture ecclesiastiche. Il decreto prevedeva di concentrare le parrocchie di San Geminiano (la cui chiesa fu demolita per far posto alla nuova ala delle Procuratie, l’Ala Napoleonica), San Paterniano, San Luca, San Provolo, San Maurizio, San Vidal, San Giuliano e San Benedetto nel sestiere di San Marco, quelle di San Biagio, Santa Giustina, San Severo e Santa Marina a Castello, quelle di San Ubaldo, San Tommaso, Sant'Agostino, San Matteo e San Giovanni Elemosinario a San Polo, quelle di San Simeon Grande, Santa Maria Mater Domini e San Giovanni Decollato a Santa Croce, quelle di San Leonardo, Santa Lucia, Santa Maria Maddalena, San Felice, Santa Maria de’Gesuiti e Santa Maria Nova a Cannaregio e quelle di San Basilio, San Vito e San Gregorio nel sestiere di Dorsoduro. Bisogna ricordare, però, che quasi tutti gli interventi d’Ornato stabiliti dal decreto interessavano edifici espropriati dai precedenti decreti del 1806, e dunque, di fatto, già a disposizione del governo.

Si può dedurre quindi che il processo di concentrazione del 1807, incentrato sui sestieri più centrali della città, fosse preliminare a qualcosa che doveva, probabilmente, essere in fase di realizzazione o che sarebbe stato progettato successivamente: uno schema, forse, già incluso nelle linee guida del piano e tra le idee dell’Imperatore e di Selva. L’ipotesi è plausibile, poiché il riuso delle pertinenze ecclesiastiche e la riorganizzazione delle parrocchie furono fenomeni che si protrassero per molti anni, passando poi in eredità alla Seconda dominazione asburgica e proseguendo addirittura oltre la parentesi dei moti del 1848. Tenendo conto anche del precedente del 1806, si può affermare che le soppressioni e le demolizioni erano diventate, quindi, strumenti necessari per la pianificazione dell’evoluzione della città, rendendo possibile la progressiva creazione di una rete di nuove funzioni, che spaziavano dall’amministrazione, all’istruzione, alla sanità, alla sicurezza, alle attività di svago.

Canaletto, Il Fonteghetto della Farina, olio su tela, Venezia, 1730-1740, Venezia, Collezione privata

Vale la pena di ricordare anche la nascita, nell’ambito di questi interventi urbani, della nuova direttrice che si sarebbe generata prolungando, come da indicazioni del decreto, la riva degli Schiavoni e che avrebbe rafforzato il ruolo commerciale, amministrativo e celebrativo dell’area marciana. Questo asse, che già di per sé costituiva un segno molto forte nella gerarchia urbana degli spazi, sarebbe sconfinato ad ovest, con l’interramento del Rio di Sant’Anna e la creazione della Via Eugenia (l’attuale Via Garibaldi), culminando poi nel ‘polmone verde’ dei nuovi Giardini; dal lato opposto, la stessa riva, tangente Piazza San Marco, sarebbe passata davanti la Zecca, avrebbe attraversato i nuovi Giardini del Palazzo Reale (ottenuti demolendo gli ex Granai cittadini) e sarebbe arrivata fino all’edificio del Magistrato alla Sanità, spostato nel Fonteghetto della Farina, a sua volta ex sede del Collegio dei Pittori e dell’Accademia delle Belle Arti.

Proprio le complesse vicende legate all’istituzione della nuova Accademia di Belle Arti e al suo spostamento dal Fonteghetto della Farina a San Marco nel complesso di Santa Maria della Carità a Dorsoduro, possono essere considerate emblematiche per le modalità d’intervento adottate in occasione di questa generale riorganizzazione urbana.

Ludovico Ughi, Iconografica rappresentatione della Inclita Città di Venezia, incisione, Venezia, 1729, Venezia, Biblioteca del Civico Museo Correr, Localizzazione dell’area di Santa Maria della Carità
Ludovico Ughi, Iconografica rappresentatione della Inclita Città di Venezia, particolare, incisione, Venezia, 1729, Venezia, Biblioteca del Civico Museo Correr, Articolazione del complesso di Santa Maria della Carità con Chiesa, Convento, Scuola Grande

La chiesa, il convento e la Scuola grande della Carità – che erano tra le strutture ecclesiastiche più antiche e importanti della città (Bassi 1971, 1978; Modesti 2005a) – erano localizzate nell’ansa affacciata sul Canal Grande di uno dei sestieri più poveri e periferici di Venezia, quello  – de ultra canalem – di Dorsoduro. L’area faceva parte, da sempre, del sistema di margini periferici urbani che fin dal Cinquecento – insieme alle porzioni delle contrade di Cannaregio e Castello bagnate dalle acque della laguna nord, dei margini occidentali di Santa Croce e Dorsoduro, della fascia insediativa di Dorsoduro affacciata sul Canale della Giudecca e del nucleo di Sant’Eufemia in Isola – avevano costituito i “terreni vacui” della città (Concina 1989, 53).

Canaletto, La chiesa e la Scuola grande della Carità dal laboratorio dei marmi di San Vidal, olio su tela, Venezia, 1725 circa, Londra, National Gallery
Canaletto, Il Canal Grande da Santa Maria della Carità verso il bacino di San Marco, olio su tela, Venezia, 1726, Torino, Fondazione Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli

Dopo il grande incendio del 1630 e il crollo del campanile nel 1744, la chiesa e il convento, occupati dall’ordine dei canonici Lateranensi, erano stati svuotati verso fine del Settecento, quando cioè nel sestiere furono registrate la più bassa rendita e la meno elevata densità di stabili della città (Concina 1989, 203). La Scuola grande, invece, fondata dalla Scuola dei Battuti nel 1344, fu oggetto di avocazione al Demanio nel 1806: da quel momento in poi, tutti i precari spazi della Carità, lontani dai luoghi chiave della vita della città, furono usati come caserma di passaggio.

Fu nel 1807, nel pieno del fermento riformista francese, che fu riscoperto il valore del complesso: pianificandone e attuandone il riutilizzo come nuova sede dell’Accademia delle Belle Arti, l’amministrazione francese innescò un processo trasformativo senza precedenti. Lo spostamento di una scuola d’eccellenza come l’Accademia e di uno dei maggiori poli culturali della città come la Pinacoteca in una zona così marginale del centro contribuì a riqualificare l’area di Dorsoduro: fu un atto che consentì di riattivare una sezione urbana dimenticata e che tracciò i capisaldi per lo sviluppo di un nuovo polo di funzionalità a sud-est della città.

Il caso della Carità fu l’emblema dell’azione di ri-funzionalizzazione degli spazi urbani, della creazione di servizi anche laddove non era possibile ospitare le nuove funzioni in edifici costruiti ad hoc, accelerando quel processo di compattazione urbana delle insulae che avrebbe garantito la quasi totale ri-semantizzazione della città in età contemporanea.

Le immagini provenienti dall'Archivio Fotografico della Fondazione Musei Civici Venezia sono state riprodotte previa autorizzazione alla pubblicazione senza scopo di lucro. Di tutti i diritti di riproduzione e pubblicazione è titolare la Fondazione Musei Civici Venezia.

English abstract

Since the mid-eighteenth century, Venice had desultorily faced the problem of the suppression of ecclesiastical orders and the ensuing conversion of their properties into sites for community facilities. In 1805 Napoleon ordered the confiscation of convents, monasteries and of their property in the cities that were part of the Kingdom of Italy. French measures appeared to be more articulated in the transformation of urban structures. Hence the arrival of Bonaparte in Venice was to have a crucial role in town planning. The strategy would become more and more complex, until it assumed the contours of a proper plan for the transformation of the urban structure.

 

keywords | Art; War; Venice; Napoleon; Urban planning; Reuse; Ecclesiastical buildings.

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  • Romanelli 1977
    G. Romanelli, Venezia Ottocento. Materiali per una storia architettonica e urbanistica della città nel secolo XIX, Roma 1977.
  • Romanelli 1988
    G. Romanelli, Venezia Ottocento. L’architettura, l’urbanistica, Venezia 1988.
  • Zorzi 1977
    A. Zorzi, Venezia scomparsa, Milano 1977.

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2013.111.0004