"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

116 | maggio 2014

9788898260614

Aby M. Warburg

(“Rivista storica italiana” LXXII, 1960, 110-113)

Gertrud Bing

English version

Il 31 ottobre 1958, in occasione dello scoprimento del busto di Aby Warburg e della sua collocazione nella Kunsthalle di Amburgo, Gertrud Bing, che era stata la più stretta collaboratrice di Warburg, tenne una conferenza commemorativa. Nelle sue parole il tono ufficiale si mescola al ricordo di episodi divertenti e di aspetti inediti della vita dello studioso, restituendo un ritratto a tutto tondo dell’uomo e del Maestro. Il testo di Bing venne pubblicato in una edizione italiana nel 1960. Il 31 ottobre 1958, in occasione dello scoprimento del busto di Aby Warburg e della sua collocazione nella Kunsthalle di Amburgo, Gertrud Bing, che era stata la più stretta collaboratrice di Warburg, tenne una conferenza commemorativa. Nelle sue parole il tono ufficiale si mescola al ricordo di episodi divertenti e di aspetti inediti della vita dello studioso, restituendo un ritratto a tutto tondo dell’uomo e del Maestro. Il testo di Bing venne pubblicato in traduzione italiana nel 1960, su proposta di Arnaldo Momigliano e Delio Cantimori (“Rivista storica italiana” LXXII, 1960, pp. 100-113).

Nell’ottobre prossimo si compiranno i trenta anni dalla morte di Aby Warburg, e sono dodici mesi che il suo busto, esiliato nei magazzini della galleria sin dal principio dell’era hitleriana, ha ritrovato un posto degno e congeniale nella Kunsthalle della sua natia Amburgo, per le cure affettuose dei suoi amici e l’aiuto sollecito delle autorità municipali. A proposito di questo busto, modesto benché dignitoso, che ora fa parte di un gruppo di ritratti delle notabilità della sua città, vorrei rammentare uno di quei detti allegri, del Warburg, spesso ironici verso se stesso, che facevano della sua compagnia una esperienza così incantevole. Il busto fu modellato soltanto dopo la sua morte perché la moglie, benché scultrice esperta, non era mai riuscita a indurlo a posare. Tutt’al più, soleva dire il Warburg, vi si sarebbe adattato se ella avesse voluto fargli un monumento equestre, di grandezza naturale.

Dopo tanti anni tali ricordi fanno emergere la figura del Warburg nella memoria di quelli che lo conobbero di persona, come se egli vivesse ancora; ma come evocarla alla mente di tutti coloro per cui lo stesso nome non è più che un qualcosa del quale si è vagamente sentito parlare? Com’è possibile disegnare in pochi tratti la figura di un uomo che in ogni sua manifestazione recava in modo così notevole l’impronta dell’inconsueto? Se si chiede di lui a coloro che lo hanno ancora conosciuto, la risposta sarà probabilmente tutt’altro che chiara. Alcuni – forse addirittura la maggioranza – parleranno del suo spirito effervescente e citeranno qualche sua parola di scherzo improvvisato con insuperabile, brillante e precisa fantasia linguistica. Qualcuno metterà in rilievo il rigore con il quale la sua vita si conformava alle leggi di condotta che egli si era scelto, che sempre lo sospingevano nella direzione dell’assoluto. Altri ancora ricorderà come potevano essere scomodi i suoi tentativi di rendere accettabili queste leggi ad un ambiente che non era affatto sempre disposto a porgergli ascolto. Nemmeno gli scolari o amici pei quali la sua conversazione scientifica è rimasta indimenticabile, saranno sempre in grado di dire in che cosa consistesse l’importanza di quei colloqui e che cosa li rendesse così straordinariamente efficaci. Il Warburg stesso soleva dire di sé ch’egli era “proprio l’uomo fatto per creare un bel ricordo”. In questa ironica formulazione si trova al tempo stesso un riflesso della sua tragica consapevolezza che non gli era concesso vivere in una imperturbata armonia con se stesso o con le persone a lui vicine. Ma di fatto queste sue parole gli hanno dato ragione: il Warburg è diventato quasi una figura mitica.

Non diversamente sono andate le cose per la sua personalità scientifica. La raccolta dei suoi scritti pubblicati comprende solo due volumi. I risultati e le argomentazioni che gli hanno assicurato un posto particolare tra i grandi storici dell’arte della sua generazione, emergono da cinque o sei saggi ­capolavori di acribia storica, di sensibilità psicologica e di geniale padronanza del materiale, che però non sono di facile lettura. E anche questi saggi danno solo una parte di quanto la sua opera e la sua personalità abbiano significato per la ricerca scientifica. Per averne un quadro completo, bisognerebbe aggiungere a quei saggi i numerosi frammenti, i richiami, appunti e abbozzi che si trovano nelle carte da lui lasciate, e in formulazioni sempre rifatte e sempre di nuovo respinte. Bisognerebbe poter ricostruire le conferenze che egli teneva senza manoscritto, per le quali abbiamo solo schemi e notizie, e bisognerebbe rifare le molte conversazioni familiari in cui non si stancava mai di parlare di quel che muoveva il suo interesse scientifico. Bisognerebbe soprattutto aggiungere i lavori usciti da trentasei anni a questa parte a cura dell’Istituto che porta il suo nome. Penso che in quasi ognuno di essi si potrebbe individuare quello che nel contenuto o nel metodo risale a lui; e mi sembra perfino che ora, in uno sguardo retrospettivo, la sua figura scientifica potrebbe essere enucleata da questi lavori meglio di quanto sarebbe stato possibile in base ai soli suoi scritti, mentre egli era ancora in vita.

Per questo, oggi l’unica cosa possibile mi pare sia questa: far emergere dai miei ricordi alcuni tratti, per me caratteristici, della sua figura e coglierne l’occasione per narrare del suo lavoro quel tanto che impedisca che la nostra commemorazione appaia soltanto una faccenda di patriottismo locale.

Una cosa vorrei mettere in rilievo subito: il Warburg non è stato uno studioso estraneo alle cose del mondo. Suo fratello Max soleva raccontare un aneddoto d’infanzia: egli e Aby, ragazzi di dodici e tredici anni, si erano un giorno divisi l’eredità. A Max e non ad Aby sarebbe passata la banca paterna, ma in cambio Max doveva promettere di comprare al fratello maggiore tutti i libri dei quali questi avrebbe avuto bisogno per i suoi studi. Quando poi Max Warburg aggiungeva che quella promessa era stata la più grossa cambiale in bianco da lui mai firmata in vita sua, il patto suonava come episodio tipico della fanciullezza d’un grande studioso che nella mente non ha null’altro che libri. E nel caso di uno studioso privato che ha coerentemente declinato tutte le chiamate universitarie che gli sono pervenute, non riesce difficile rimaner fermi a quest’idea. Ma se si pensa che il Warburg ha realmente creato una biblioteca scientifica che alla sua morte constava di circa 65.000 volumi e che ora ne conta circa 140.000, neppure in quell’aneddoto della fanciullezza si può disconoscere un certo istinto del meccanismo pratico della vita. Max Warburg stesso conosceva bene questa capacità del fratello, e ha sempre rilevato con quanta vivacità questi si interessasse delle faccende della banca e con quanta saggezza le giudicasse; soleva dire: “Mio fratello sarebbe diventato un ottimo banchiere”. In particolare, il professore aveva fiuto per l’atmosfera delle crisi di Borsa, e quando egli si presentava inatteso dai fratelli, nel loro ufficio, dicendo: “Sento frusciare le ali dell’avvoltoio del fallimento”, spesso aveva ragione. Il Warburg ha considerato la creazione della sua biblioteca né più né meno che una vocazione e una professione; e, per anni è stato l’unico bibliotecario di se stesso. Non molti saranno stati gli studiosi che avevano familiare come lui il mercato librario internazionale e che come lui strappavano alla stanchezza le tarde ore della serata per sfogliare giorno per giorno i cataloghi delle librerie antiquarie.

Egli applicava la stessa serietà alle cose della vita pubblica, e quando si riferivano all’arte o alla scienza subito ne faceva una causa sua. Anche in questi casi, egli non era mai disposto a venire a patti con la mediocrità, e non era davvero nelle sue abitudini di porsi sul “terreno dei fatti”, come si suol dire con una certa bella frase. Ma forse più sorprendente apparirà un altro tratto della sua figura, specialmente nella luce esoterica che ora circonda il Warburg per le generazioni più giovani: la preoccupazione per l’istruzione degli adulti. L’insegnamento serale allora non era ancora al centro di un interesse generale come di questi giorni; ma per lui costituiva il presupposto indispensabile di ogni vita scientifica feconda. Le sue lezioni al Volksheim ch’egli aveva aiutato a fondare non avevano nulla da invidiare per serietà scientifica a un corso di lezioni universitarie. In quelle conferenze, sia su Leonardo o su Dürer, o sul Primo Rinascimento fiorentino, ci sono molti particolari che sicuramente devono aver superato la capacità di comprensione dei suoi uditori. Ma questo non significava nulla: il suo segreto stava nel saper render accessibile a tutti, a giovani e vecchi, alle persone colte o ai semplici dilettanti, e perfino ai fanciulli, le cose alle quali teneva.

Il Warburg non era un pioniere accecato dall’idea che Amburgo dovesse avere una sua università. Qualche sua osservazione fa pensare che gli sembrasse più importante dischiudere anzitutto a una più larga cerchia di dilettanti interessati le biblioteche già esistenti, la Stadtbibliothek e la Commerzbibliothek, “indicare”, come egli diceva, “a quei lettori potenziali la via del libro”. Ma quando, una volta fondata l’Università, vi fu il pericolo che Ernst Cassirer venisse tolto alla sua cattedra di Amburgo da una chiamata a Francoforte, il Warburg non disdegnò di entrare nella lizza della polemica quotidiana. Fece pubblicare nello “Hamburger Fremdenblatt” il suo articolo “Perché Amburgo non deve perdere il filosofo Cassirer”, perché fermamente convinto che il largo pubblico avesse il diritto di sapere che cosa fosse veramente in giuoco in simili questioni di chiamate accademiche. Qui si deve ricordare anche l’esposizione da lui progettata per il planetario di Amburgo, la cui attuazione egli non riuscì più a vedere. Essa consisteva in riproduzioni e modelli che illustravano la storia dell’astronomia e dell’astrologia, ed era il risultato di lunghi anni di ricerca erudita. Ma il fine ch’egli si era posto era quello di destare nel pubblico una coscienza storica. Non gli sembrava sufficiente che i visitatori si trovassero dinanzi agli occhi lo spettacolo del moto delle stelle come risultato bell’e pronto; essi dovevano trovare l’indicazione della storia che ha condotto alla nostra odierna immagine dell’universo.

A queste cose pensava, quando diceva di esser sempre tornato ad assicurare ai suoi concittadini: “La cultura non fa mai male”. Ma sapeva prendere ben altro tono quando il suo senso d’integrità artistica e intellettuale veniva offeso da coloro che erano chiamati a sapere di che si trattava. Quando avvertiva questo pericolo – e per queste cose aveva orecchio finissimo – non vi era possibilità di compromesso e non c’era alcun riguardo per la persona o per la sua posizione sociale; senza clemenza per coloro che egli riteneva responsabili del malfatto, ma anche senza considerare se così si rendesse inviso, egli si gettava nella battaglia con tutte le armi della sua penna e del suo spirito tagliente. Qualcuno ricorderà forse la sua lotta contro gli affreschi di Hugo Vogel nella Sala Grande del Municipio di Amburgo e l’articolo molto bellicoso che scrisse allora. Quando, molti anni dopo, durante la prima guerra mondiale, seppe che Hugo Vogel era stato chiamato nel Gran Quartier Generale per dipingere il ritratto ufficiale di Hindenburg, Warburg disse: “Ormai è certo che perderemo la guerra”. Ed era tutt’altro che una battuta di spirito. Per lui, in queste cose, non esisteva nessuna zona di indifferenza e nemmeno di minore importanza. Così, egli protestò anche contro l’arredamento dei vapori della Hapag in stile Luigi XIV. Quella illusione di falso splendore non sarebbe servita che a far dimenticare ai passeggeri di essere esposti all’arbitrio di una forza naturale incalcolabile. Questa diffidenza del Warburg non aveva nulla a che fare coi rischi che in quell’epoca si correvano nell’attraversare i mari, rischi dei quali l’affondamento del Titanic è rimasto memento minaccioso. Era per lui una questione di principio: non tollerare un ottimismo di lega scadente e non abbandonarsi a un altezzoso senso di sicurezza mentre in ogni evento l’uomo deve dirsi fortunato pel solo fatto che se la cavi senza danni. Vi sono anche storielle di questo tipo meno serie: quando un giorno fu chiamato come perito davanti a una commissione che doveva deliberare se chiudere o continuare la collezione di calchi in gesso nella Kunsthalle, rispose al consueto riferimento burocratico ai precedenti e alle forti spese, con l’obiezione che la natura elargisce il gesso in quantità illimitate. Il termine “precedente” era per lui un panno rosso: coi precedenti si poteva uccidere ogni iniziativa. Mi ha fatto piacere sentire che la collezione dei calchi esiste tuttora.

Ma questa immagine di un Warburg militante ha bisogno di una integrazione. Non esisteva amico più fedele di lui. Quando sentiva che poteva tributare il proprio riconoscimento, lo faceva senza riserve, e la sua sacra insoddisfazione ammutoliva.

Questo senso di responsabilità nei confronti della cosa pubblica fa parte integrante della levatura morale del Warburg, e si sarebbe manifestato dovunque egli fosse vissuto. Ma Amburgo occupava pur sempre in lui un posto a parte. Con tutta la dovuta cautela, credo di poter dire che proprio nei suoi lavori scientifici fa capolino un pezzetto di Amburgo. Mi riferisco ai suoi contributi alla storia dell’arte e della civiltà di Firenze.

Ai nostri giorni la predilezione per l’arte fiorentina del Quattrocento è un po’ passata di moda; ai tempi del Warburg era generale. Per opera di August Schmarsow il Warburg è andato a Firenze per la prima volta, come studente, e Schmarsow è stato il fondatore dell’Istituto tedesco per la storia dell’arte in quella città. Adolf Hildebrand, l’estetica del quale ebbe un forte influsso sul Warburg, viveva a Firenze. E Jacob Burckhardt, la cui trattazione domina ancora oggi la nostra immagine del Rinascimento, aveva attinto sostanzialmente a fonti e a documenti fiorentini. I lavori del Warburg si ricollegano al Burckhardt, e nessun apprendista può essere stato più chiaramente consapevole del suo debito di riconoscenza verso il maestro della propria arte di quel che sia stato Warburg nella sua ammirazione per Burckhardt. Ciò nonostante oggi possiamo dire che l’immagine del Rinascimento tracciata dal Warburg supera in molti punti quella del Burckhardt.

Il Warburg è vissuto a Firenze circa dieci anni nei primi tempi del suo matrimonio e lì è nata la sua figlia maggiore. Forse non sarebbe ritornato ad Amburgo se non avesse sentito che doveva allontanarsi dalla ricchezza di materiale che gli affluiva dall’archivio, dalle raccolte e dai tesori delle chiese, per poterlo elaborare e ripensare. Ogni parola da lui scritta su Firenze porta l’impronta di un rapporto personalissimo come non si incontra spesso in lavori scientifici. Si potrebbe quasi dire che con i suoi lavori su Firenze il Warburg ha scritto i suoi Buddenbrooks. Ancora nei suoi ultimi anni di vita, la sua lingua, la sua gesticolazione, tutto il suo atteggiamento lo facevano credere fiorentino a Firenze, e con la sua corporatura sottile e la sua testa scura ed espressiva, anche come fisionomia, a Firenze egli si staccava meno dall’altra gente che ad Amburgo. Non posso fare a meno di narrare qui una storia che non rientrerebbe affatto nel nostro discorso, se non fosse che ci mostra il Warburg fiorentino in azione. Un’estate circolavano voci di una epidemia di tifo, ed il Warburg correva da un ufficio all’altro per indurre le autorità a prendere disposizioni precauzionali ragionevoli. Ma l’esistenza del pericolo fu negata finché alla fine nell’acquedotto che da Fiesole portava l’acqua potabile a Firenze fu trovata la carcassa di un asino. Quando a questa notizia il Warburg si ripresentò negli uffici con amaro trionfo e con l’intenzione di elevare una vivace protesta, si ebbe la risposta: “Ma che! Era un asino così piccino!”. È uno dei pochi casi di questo tipo che io conosca in cui perfino il Warburg si dichiarasse vinto.

Ma per intendere la sua affinità elettiva con la Firenze del Quattrocento, divenuta così importante dal punto di vista scientifico, bisogna ricordare che la Firenze di allora era una città-stato, e precisamente, in contrasto con gli altri Stati del Rinascimento – eccettuata Venezia – una repubblica; e che la funzione dirigente in seno a questa comunità era esercitata da un patriziato borghese mercantile. Credo che ci sia lecito supporre che nelle esperienze amburghesi del Warburg vi siano stati elementi che potevano trasformarsi senz’altro in una comprensione istintiva dei fiorentini nell’età medicea. Il Warburg era partito da ricerche sul cambiamento dello stile artistico nella seconda metà del Quattrocento, dunque da un problema formale familiare ad ogni storico dell’arte del suo tempo; e nel suo primo scritto aveva trattato dei dipinti mitologici del Botticelli, la Nascita di Venere e la cosiddetta Primavera alla quale avrebbe preferito dare il nome di Regno di Venere. In questo scritto si trova la osservazione che le caratteristiche stilistiche del Botticelli, chioma svolazzante e vesti mosse, si possono ritrovare anche nella poesia e teoria dell’arte di quell’epoca, e che dappertutto esse costituiscono indizi di una nascente predilezione per i modelli classici. Ma quest’osservazione non fu per lui più di un punto di partenza.

Cioè, gli anni dal 1450 al 1490 circa, dei quali egli s’interessava in particolare, erano l’epoca in cui in Firenze s’iniziava una trasformazione dell’intero stile di vita: e il Warburg si rese conto del fatto che i cambiamenti stilistici nell’arte monumentale ne costituivano solo una parte, poiché quella trasformazione si estese anche a tutti gli accessori della vita pratica; cominciò dunque di conseguenza a includere nelle sue considerazioni gli oggetti del fabbisogno quotidiano, e fece ricorso non solo alle grandi testimonianze letterarie, ma anche, anzi, prima d’ogni altra cosa, ai documenti privati. A questo modo creò per la storia dell’arte quello che nell’archeologia classica designiamo col termine di Realienkunde. Oggi possiamo riconoscere che era un’eredità del positivismo storico; al tempo del Warburg nessuno storico dell’arte si sarebbe interessato dei contratti d’affari dei Medici o del testamento di un loro socio nel quale non si parlasse d’arte, o delle lettere dei loro rappresentanti d’Oltralpe che lamentano i cattivi affari; cose del genere erano lasciate agli storici dell’economia politica. Gli oggetti d’arredamento delle case rientravano, secondo l’opinione di allora, nell’artigianato, e le loro decorazioni sembravano troppo lontane per stile e per contenuto dai prodotti della cosiddetta arte libera per poter essere prese in considerazione o perché ci si potesse porre il problema che si poneva il Warburg: se in entrambi i casi la scelta del contenuto figurativo non fosse stata determinata anche dall’uso al quale quegli oggetti erano destinati.

Porterò solo un esempio delle argomentazioni del Warburg. Dal carteggio dei Medici con i loro rappresentanti di Bruges risulta che essi si facevano spedire dalle Fiandre arazzi a metraggio. Queste stoffe preziose servivano per l’arredamento delle stanze, come rivestimenti delle pareti o come tendaggi da letto, e di preferenza rappresentavano, in grandi figurazioni, scene di storia antica. Se gli arazzi fossero stati alla corte di Carlo il Temerario, non ci meraviglieremmo a vedervi costumi borgognoni. Però Warburg fu colpito dal fatto che i Medici raccomandavano ai loro agenti, anch’essi italiani, di badare molto che sugli arazzi preparati per loro le figure fossero rappresentate “nella foggia di qua [sic!]”: dunque avevano una predilezione così forte per lo stile delle Fiandre da accettare con piacere le figure eroiche dei greci e dei romani nei costumi dei paladini di Borgogna. A questo modo perdeva ogni nebulosità quell’elemento che fino ad allora era stato designato, piuttosto vagamente, come influsso fiammingo sull’arte fiorentina, e che ora si presentava come il prodotto di una scelta consapevole le cui origini si potevano seguire; e le vie per le quali giunse a Firenze risultavano essere quelle del traffico normale e della mercatura.

Il modo tenuto dal Warburg, per delineare, servendosi di simili analisi dei particolari, la sua immagine della mentalità della borghesia fiorentina nel Quattrocento, è inimitabile; l’insegnamento che ne abbiamo avuto è che si possono far sentire voci umane articolate anche da documenti di scarsa importanza. Ma, dopo che il Warburg si fu reso conto che c’era un carico forte di tendenze di gusto preesistenti e di esigenze della vita pratica prima che la fioritura dello stile ideale potesse emergere vittoriosa, lo sviluppo dello stile anticheggiante del Pieno Rinascimento apparve molto più differenziato di prima. Lo svolgimento fiorentino di questo stile divenne la testimonianza principale del come la tradizione antica venne accolta nel Rinascimento e della parte che in questo fatto ebbe l’imitazione di esemplari dell’arte classica.

Si dovrebbe pensare che agli italiani sarebbe bastato guardarsi attorno nel proprio paese per riconoscere le testimonianze autentiche del passato greco-romano. Ma per giungere a questo punto ci volle parecchio tempo. Dapprima, come in tutta l’Europa medievale, così in Italia, l’antichità fu accolta in una forma modificata che aveva la sua origine nella tarda antichità. In questi ultimi decenni, le ricerche si sono concentrate sempre più proprio su questo processo medievale di trasmissione, e oggi ne sappiamo di più e possiamo seguire il fenomeno meglio e in più campi di quanto fosse possibile ai tempi del Warburg.

Ma non è un caso che questa direzione delle ricerche risalga a uno storico dell’arte. Infatti le figure della mitologia antica erano sopravvissute nel ricordo da molto tempo prima che le testimonianze della letteratura e filosofia antica fossero riscoperte e divenute comprensibili. Esse erano anche rimaste, fino a un certo punto, sempre comprensibili; e questo perché erano tramandate in immagini – in immagini che si erano conservate su pietra, in argilla, su metalli o su gemme. Si trattava solo di un numero esiguo di forme figurative che furono accolte dalle generazioni posteriori: ma queste poche forme tornarono sempre ad esser copiate. “L’uomo”, soleva dire il Warburg, “vien lavorato con poca spesa”.

Naturalmente si conoscevano già nel Quattrocento imitazioni singole dell’arte antica. Vi è un libro di schizzi che copiano sculture antiche, attribuito al Ghirlandaio, e al quale potrebbero aver attinto pittori e scultori del suo tempo per procurarsi i modelli. I rilievi tondi decorativi del cortile di Palazzo Medici sono imitazioni di gemme antiche i cui originali si trovavano in possesso di Lorenzo. Ma ci si era arrestati a constatazioni come queste; nessuno si era posto il problema delle intenzioni che determinavano la scelta entro il tesoro plastico antico. Si presupponeva che gli artisti del Quattrocento fossero animati da quella medesima venerazione per tutta l’antichità classica che era diventata la regola ovvia per ogni persona colta a partire dal Settecento. Anche il Warburg era partito in un primo tempo da imitazioni singole di quel tipo. Di questo tipo era la sua scoperta che Botticelli aveva attinto alla plastica neo-attica i modelli delle sue figure in movimento o librate in aria, quasi volanti. In un disegno che risale alla scuola del Botticelli, un gruppo di tre figure era stato copiato da un sarcofago antico che in quel tempo era murato nella scala di Aracoeli in Roma. Ma la svolta nuova che il Warburg ha impresso alla storia della tradizione non consiste nel chiedersi che cosa si fosse imitato, o da quale modello si fosse fatta l’imitazione: consiste invece nell’indagare il perché dell’imitazione data. Egli poté così constatare che gli artisti o i loro committenti e dotti consiglieri, quando sceglievano i loro modelli, non si preoccupavano in prima linea del contenuto delle opere antiche, ma del loro linguaggio mimico. Da modello del rapido movimento e della mimica nervosa delle figure del Botticelli fa l’atteggiamento della menade classica. Il gruppo di Apollo e Dafne in cui il dio cercava di afferrare l’amata, divenne il prototipo dell’inseguimento amoroso. E quando nel rilievo di una tomba a Santa Trinita in Firenze si dovette raffigurare il pianto funebre per il defunto ivi sepolto, si scelse come modello un sarcofago antico sul quale figure luttuose circondavano coi classici gesti del lamento funebre la salma di Meleagro.

Quando al Warburg si fu dischiuso questo significato degli antichi gesti espressivi, si poterono identificare numerosi esempi di questo tipo. Gli artisti del Quattrocento si servivano della mimica classica quando per essi si trattava di raffigurare momenti di massima commozione: lotta, trionfo, rapina [sic!], disperazione o lamentazione.

Il Warburg era scolaro di Hermann Usener, e quindi le ricerche sui miti gli erano state familiari fin dalla giovinezza. Ma egli non si è posto il problema del significato dei miti che nei tempi antichi avevano ispirato quelle raffigurazioni. Per lui queste ultime erano testimonianze di stati d’animo divenuti immagini. Per lui Medea non costituisce l’esempio di un archetipo, come sostiene C. G. Jung; la sua immagine non trascende la figura che le ha conferito il mito: essa si presenta come moglie gelosa o infanticida. Così, per l’espressione figurativa è indifferente che Proserpina rappresenti la morte e il risveglio della vegetazione o no; nella immagine che ci è stata tramandata Proserpina è diventata il prototipo del ratto violento. Tutte queste figure sono, come dice il Warburg, formule del pathos coniate nell’antichità. Le generazioni posteriori, scegliendo queste espressioni come modello, vi cercavano le tracce permanenti delle commozioni più profonde dell’esistenza umana per far propri i mezzi classici per esprimere queste esperienze elementari. Infatti le forme figurative già coniate serbano in sé il ricordo dei miti tragici dei Greci e riportano in tal modo al campo della religiosità.

Questo senso della origine della forma plasmata, questo senso che attraverso essa si comunichi la comprensione intuitiva di un contenuto psicologico e religioso, compenetra di sé tutta l’opera di ricerca del Warburg. Questo rapporto conferisce al suo linguaggio quel peculiare senso d’urgenza, benché esso non si scosti mai dal caso storico singolo che interessa la indagine del momento. Vi sono dei miti di cui egli non ha mai parlato perché lo colpivano troppo forte. Uno di questi è la storia di Edipo: e non credo che questa ritrosia sia spiegabile in modo esauriente con elementi psicoanalitici. Tuttavia il Warburg ha osato inoltrarsi in un campo nel quale le figure classiche si presentavano non come formule del pathos, ma palesemente come demoni. Intendo riferirmi ai suoi studi sull’astrologia.

Non è difficile tracciare il ponte ideale che conduce dalle formule del pathos all’astrologia nei lavori del Warburg. Anche l’astrologia è una porzione di tradizione figurativa che si può seguire dalla tarda antichità fino al Rinascimento. I nomi e le figure dei pianeti e le figure dello zodiaco sono tuttora testimoni della fantasia mitopoietica che animava i Greci. Ma le immagini hanno subìto qui una trasformazione più allarmante che nelle formule espressive artistiche; esse sono passate attraverso le speculazioni cosmologiche di autori della tarda antichità, alessandrini, e nella astrologia medievale queste figure appaiono come demoni astrali, i quali influiscono sulla sorte di ogni singolo uomo secondo la casualità della loro posizione in cielo e l’arbitrio della loro natura antropomorfica: la prassi astrologica rappresenta un tentativo di stabilire e di prevenire le loro intenzioni osservando e calcolando i loro movimenti nel cielo.

Queste idee hanno avuto, come si sa, una funzione importante nella storia. Il Warburg ebbe ragione di occuparsene come storico, e il suo studio sull’astrologia e sulla credenza nel vaticinio dei mostri entro l’ambiente di Lutero e di Melantone, è un esempio complicato, ma in fondo sobrio, del suo metodo di comprendere una situazione storica in base a fonti figurative e documentarie. In questo studio egli ha emancipato quei resti di una fede pagana fatalistica dall’odiosità della mera superstizione e ha chiarito che la loro origine risale a idee religiose.

Ma in ultima analisi per il Warburg non si trattava di constatazioni di nessi storici di questo tipo. L’astrologia aveva per lui un significato che ci riguarda tutti: in essa si riflette la consapevolezza di quanto sia inadeguata l’esistenza umana. Inerme dinanzi al destino, l’uomo si rifugia nella magia; egli comincia a manipolare le immagini ­a suo danno. È vero che nell’idea che il malvagio Saturno possa contrariare la buona influenza del pianeta Giove vive ancora il ricordo della lotta fra Cronos e Zeus. Ma le raffigurazioni del mito qui non hanno più, come l’avevano nell’arte, la funzione di esemplari: sono diventati idoli che tengono l’uomo avvinto nella paura e nel terrore.

Però, nell’astrologia vi sono anche elementi più confortanti. Accanto al timore dei demoni vi si trovano gli avanzi di una spiegazione razionale del cosmo, anch’essa retaggio dei Greci. Il tentativo degli astrologi di seguire i moti di questi corpi celesti in forma di demoni ha costituito, ancora nel Cinquecento, il punto di partenza delle osservazioni scientifiche di Tycho Brahe e di Kepler. Ma una volta calcolate le orbite dei pianeti sulla base della risorta logica scientifica dei Greci, la consapevolezza del rapporto fra universo e creatura umana non poteva non modificarsi fondamentalmente. Al posto della vicinanza tangibile degli astri che minacciavano di attaccare direttamente l’uomo, subentrò, per dirlo con le parole del Warburg, “lo spazio ideale della riflessione”. Con questo non è detto che così l’umanità fosse stata emancipata una volta per sempre dal timore dei demoni e dalla credenza nel potere degli astri. Noi stessi abbiamo fatto l’esperienza che tali timori e credenze tornano sempre a ricomparire ogni qualvolta gli animi siano presi dall’inquietudine. Non abbiamo dimenticato ancora il profluvio di pronostici e di notizie della nascita di creature mostruose che si ebbero al momento della presa del potere di Hitler. E dappertutto i giornali danno oroscopi, e i piccoli settimanali di astrologia vengono letti con grande interesse. Il Warburg stesso raccontava come, dopo qualche conferenza in cui egli intendeva mettere alla berlina i pericoli della astrologia così com’è esercitata oggi, venisse gente da lui per dire: “Se un uomo dotto come Lei se ne occupa tanto, qualcosa di vero deve pur esserci”.

Magia e logica, il volto bifronte dell’antichità che è divenuto il destino fatale della civiltà europea, sono anche i due poli fra i quali oscilla il pendolo della coscienza individuale. Il fatto che l’uomo torni sempre a ricadere nella magia non lo esime dal dovere di ritornare sempre a tentare di emanciparsi dalla sua tutela facendo ricorso al proprio pensiero. Con le parole del Warburg: “Bisogna sempre di nuovo liberare Atene dai ceppi di Alessandria”.

Il Warburg credeva nel potere della ragione; era illuminista proprio perché conosceva tanto bene l’eredità dell’antichità demoniaca. Il Laocoonte di Lessing era stato l’influsso più forte che avesse sperimentato in gioventù: ed egli si sentiva obbligato all’insegnamento dell’illuminismo tedesco del Settecento. Per le stesse ragioni egli si sentiva altrettanto vicino a un’altra figura della storia tedesca, che si trova al centro della sua esposizione della fede demoniaca della Riforma: Martin Lutero. Il dover constatare perfino in Lutero una confusa fede nelle comete, nei mostri e nelle meteore inviate dal cielo come segnali d’allarme, faceva parte per il Warburg di quell’ambivalenza che egli ammetteva in ogni fenomeno storico. Tuttavia, e ciò nonostante, egli ha visto nella Riforma tedesca uno dei grandi movimenti europei che hanno sgombrato la via al pensiero indipendente e che hanno condotto al riconoscimento del diritto che ha ogni singolo individuo di prendere le proprie decisioni in campo religioso e morale. La Riforma era stata per lui una forza progressiva.

Eccomi all’ultimo punto del pensiero di Warburg, che vorrei qui rendere ben presente. Egli proveniva da una casa paterna che teneva fermo alla tradizione dell’ebraismo ortodosso. Il Warburg compì il suo primo atto illuministico verso se stesso quando andò all’Università a Bonn; allora dichiarò ai genitori che da quel momento non avrebbe più osservato le leggi ebraiche sui cibi. Certo, avrebbe potuto farlo anche senza informarne i genitori, ma questa non sarebbe stata per lui una vera emancipazione; così si era aperta la via sulla quale poi doveva tanto procedere. Le condizioni generali degli anni delle grandi speculazioni dopo l’unità tedesca erano favorevoli all’assimilazione degli ebrei; ad Amburgo suo fratello Max e il Ballin, direttore della Hapag e amico di Max, si trovavano in posizioni influenti senz’altro riconosciute. Il Warburg stesso ha adempiuto il suo obbligo militare con una gioia e una coscienziosità addirittura commoventi. Egli non ha mai dimenticato che la Germania dell’Impero ha trattato bene gli ebrei, e anche in seguito non ascoltava volentieri le critiche che le si movevano. Ancora nel 1929 visitò a Roma l’ex cancelliere del Reich Bülow ­benché lo facesse forse con qualche malizia, perché gli era tanto simpatica la moglie italiana di Bülow. E benché egli si identificasse con la Germania così integralmente e senza riserve – come noi, la generazione successiva non avremmo più potuto fare, anche prima di Hitler – egli non si era mai liberato del tutto del senso della minaccia antisemita. Una sua piccola osservazione dice in proposito più di molte parole. Quando a Firenze, nella sua casa, un’amica della moglie sposò uno dei giovani colleghi del Warburg, ed egli avrebbe quindi avuto buone ragioni per partecipare al festoso evento, annotò invece nel suo diario: “Mary ed io non li abbiamo accompagnati in chiesa. È meglio che ci si meravigli del fatto che non ci siamo, che qualcuno si meravigli del fatto che ci siamo”. Si deve forse alla lucidità derivante da quella scissione, che il Warburg fosse tra i pochi che in Germania trovarono inaudito il fatto di Bethmann-Hollweg sui “pezzi di carta” a proposito della violazione della neutralità belga. Nella prima metà di agosto del 1914, quando tutta la Germania s’inebriava di gioia per il successo dell’avanzata in Francia, troviamo nel suo diario le profetiche parole: “Noi vinciamo da morirne”.

L’orgoglio per le peculiarità ebraiche che era sempre esistito nell’ortodossia e s’era poi sviluppato sotto la pressione dell’antisemitismo anche presso gli ebrei liberali, era estraneo al Warburg, il quale lo respinse sempre fermamente dovunque l’incontrasse. Egli aveva una sua risposta alla domanda su che cosa costituisca la distinzione fra gli ebrei e i popoli che li ospitano: “Abbiamo patito la storia universale per duemila anni più di loro”. Non c’era altro, ma per chi conosce lo stile del Warburg non è difficile ravvisare in questa formulazione il nesso linguistico fra “patire”, “pazientare” e “passione”: Amor fati.

Non v’è dubbio che la sua persona avesse qualcosa del profeta del Vecchio Testamento. Tutti coloro che mai abbiano provato su di sé la pienezza e l’eloquenza della sua collera, debbono averlo sentito. Ma parlando di lui si pensa anche al detto di Federico Schlegel: lo storico è un profeta volto all’indietro. Il Warburg sentiva il suo compito scientifico come missione; parlava del “problema che lo comandava” – e al quale egli obbediva senza ribellarsi nonostante gli acciacchi fisici, nonostante la incomprensione nella quale spesso s’imbatteva e nonostante i dubbi che su se stesso troppo spesso l’afferravano. Nel suo lavoro di ricerca, disse un giorno, non doveva “esservi nemmeno il sospetto d’un blasfemo giocare alla scienza”.

E ora mi si consenta di chiudere con una piccola frase autobiografica scritta dal Warburg un giorno in italiano: “Ebreo di sangue, Amburghese di cuore, d’anima Fiorentino”. Forse neppure lui sapeva esattamente quale rara fusione avessero compiuto in lui quei tre elementi.

ristampa in “La Rivista di Engramma”, 116 (maggio 2014)
prima edizione online in “La Rivista di Engramma”, 27 (settembre/ottobre 2003)