"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

117 | giugno 2014

9788898260621

Agamennone al pianoforte

Intervista a Antonio Di Pofi, compositore delle musiche per Agamennone di Eschilo al Teatro greco di Siracusa (Fondazione Inda, 2014)

a cura di Emilia Trovato

English abstract

Il coro di Agamennone 2014, foto G. L. Carnera, Archivio Fondazione Inda.

Emilia Trovato Uno spettatore qualunque, soprattutto se di formazione classica, potrebbe aspettarsi un accompagnamento musicale che imiti il suono di cembali, flauti o cetre – gli strumenti che comunemente si associano alla Grecia antica. Invece, ad accompagnare i momenti salienti della tragedia è stata una melodia eseguita al pianoforte, con un sound riconducibile al jazz. Può parlarmi delle intenzioni che hanno motivato questa scelta?

Antonio Di Pofi L’approccio alla tragedia e più in generale alla cultura classica può essere di varia natura. Noi siamo innanzitutto teatranti, e il teatro si compie principalmente nell’atto dell’allestimento. Il nostro non può che essere un allestimento datato 2014 e, come sappiamo benissimo, questa non è soltanto la data in cui ricorre il centenario della prima rappresentazione di Agamennone al Teatro Greco di Siracusa (16 aprile 1914), ma abbiamo alle spalle più di duemila anni di letture e rappresentazioni del teatro classico. Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane sono stati rivisitati in tutti i modi possibili, con tutti gli approcci musicali, di costumi, di scenografie immaginabili. La decisione del nostro regista – Luca De Fusco – che abbiamo sposato tutti noi collaboratori, è quella di dichiarare il nostro tempo nel rispetto della scrittura, senza fingere di vivere in tempi diversi. Quindi la nostra intenzione era di fare una musica del ‘900, che va dal post-impressionismo, a Bartók, a Stravinsky, fino poi alla dodecafonia e allo sperimentalismo del dopoguerra.

La mia scelta è stata quella di fare riferimento a certe ritmiche prese dal jazz, ma anche di attingere a certi modi di suonare il pianoforte, alla Bartók o alla Steve Garrett. La scelta del piano è ovviamente impensabile all’interno della cultura greca, tuttavia nessuno sa esattamente come la musica si presentasse allora. Abbiamo tante testimonianze, come sanno bene gli antichisti, sulla concezione e la teoria della musica greca, ma non abbiamo molti esempi di esecuzione, tranne qualche frammento dal quale si evince ben poco. Sicuramente c’era l’aulòs, c’erano gli strumenti a plettro, come la cetra e simili, e gli strumenti a percussione. Altrettanto sicuro è che non c’era il pianoforte, che nasce a cavallo tra ‘700 e ‘800: la scelta del pianoforte diventa dunque molto netta e dichiara il nostro tempo.

È la terza volta che compongo le musiche per una tragedia a Siracusa, e credo che il rispetto profondo per la grecità si possa certamente tradurre con un omaggio a quella che possiamo ipotizzare fosse una musica di quel tempo. Ma credo che rendiamo un omaggio più grande a quella cultura che è nostra madre, dichiarando “io sono nato e vivo in questo secolo”. Senza avere il complesso di non essere contemporanei di Eschilo, credo che si misuri se una interpretazione della tragedia antica sia giusta o meno non tanto nel linguaggio che si sceglie, quanto nella sincerità, nell’autenticità della nostra esecuzione: in questo abbiamo tentato di essere quanto più possibile sinceri.

E. T. Sempre a proposito dell’esecuzione al pianoforte – c’è una melodia che ha attratto la mia attenzione: si tratta di una composizione costruita su passaggi sincopati e ripetitivi, possiamo definirli quasi ossessivi. Ho notato che faceva da accompagnamento a momenti quali il monologo di Clitemnestra dopo l’omicidio del marito, o il racconto dell’“orrido pasto” di Egisto. Si può dunque affermare che in questo caso la musica sottolinei una condizione mentale o uno stato d’animo dei protagonisti?

A. D.P. Sì, ha centrato sicuramente uno degli intenti della musica. Usare un elemento che nella sua brevità viene poi ripetuto in maniera ossessiva ha due funzioni: quella di restituire, rispetto al personaggio di Clitemnestra  in questo caso, un’ossessività del pensiero. Lei è la moglie del re, che però vuole diventare ella stessa re, e non regina, perché è il re che detiene il vero potere. Nel corso della tragedia, Clitemnestra annuncia più volte il suo desiderio di regnare, oltre che di compiere la vendetta per la morte della figlia. È il pensiero ossessivo che per dieci lunghi anni l’ha accompagnata, mentre pregava che Agamennone non morisse a Troia, perché in tal caso lei sarebbe diventata banalmente la sua vedova: non avrebbe potuto esercitare la sua vendetta, e non sarebbe diventata mai il re. Voleva che tornasse, per poterlo uccidere. Quindi abbiamo cercato di sottolineare questo pensiero. Un’altra delle intenzioni è stata quella di creare un’atmosfera da noir, da thriller. Quindi all’inizio, quando Clitennestra annuncia al popolo la presa di Troia, la gioia che scaturisce sulla scena viene interpretata in maniera diversa, nel senso che il popolo gioisce della fine della guerra perché questo comporta il ritorno di padri, figli, fratelli e mariti. Lei invece pensa all’uccisione che finalmente potrà mettere in atto. È dunque una gioia diversa, che però non viene dichiarata.

E. T. Quindi questo espediente musicale in qualche modo crea un senso di attesa nello spettatore che conosce già la vicenda, e un senso di straniamento nello spettatore ignaro, che viene già messo in guardia dalla musica?

A. D.P. Esatto: lo spettatore avverte che c’è una tensione in contrasto con la gioia scaturita dalla buona notizia, e questa è una tecnica sicuramente mutuata anche dal cinema. Un maestro della suspense quale è Hitchcock, tramite le musiche di Herrmann, crea spesso una tensione prolungata nel tempo, con brevi frammenti ripetuti – i famosi acuti di Psycho per citare i più famosi. Una tensione che più è forte e dilatata, più crea grande attenzione nello spettatore che attende il dipanarsi dell’azione tramite l’atto violento. E questo è quello che volevamo, creare un’atmosfera da thriller.

E. T. Ho notato poi che in concomitanza con la messa in atto di gesta luttuose, i suoni dell’accompagnamento musicale si fanno discordanti, quasi cacofonici, in una climax ascendente che crea nel pubblico uno spasmo d’ansia…

A. D.P. Ecco, quel suono è ottenuto sulla cordiera del pianoforte a coda. È come se si tornasse a suoni primitivi per cui, agendo con le mani direttamente sulla cordiera anziché sulla tastiera del piano, si ottengono dei suoni non più organizzati secondo l’armonia e secondo i concetti della costruzione musicale. È stato fatto con l’intento di creare una sensazione atavica … come per dire che la violenza di Clitemnestra è la stessa di Caino, la stessa di tutte le uccisioni. Un uomo o una donna che dà la morte a un altro essere umano libera sempre e da sempre la stessa violenza. L’azione ha in sé qualcosa di animalesco; quando Clitemnestra descrive le pugnalate date ad Agamennone, ne parla con esaltazione, e ne trae un piacere fisico, quasi orgasmico. Ecco – per rendere questa sensazione io ho preferito eliminare il fatto melodico, armonico e andare verso un’espressione timbrica più atavica ed elementare. Quindi il pianoforte diventa uno strumento a percussione, perché ne percuotevo le corde come fossero la pelle di un tamburo.

E. T. Un particolare di tutto rispetto che ha innescato il mio interesse è stata la scelta di reintegrare il più possibile il ruolo canoro del Coro, che sappiamo bene essere la caratteristica principale del Coro nella tragedia greca. Quale motivazione sta alla base della scelta di rendere con il canto determinate parti del dramma, piuttosto che altre? Per fare qualche esempio: la descrizione della morte di Ifigenia nella parodo o l’angoscia dopo l’ingresso nel palazzo dell’eroe negli stasimi. Si può presupporre che la scelta cada sulle parti più pregne di pathos?

A. D.P. Diciamo che per quello che riguarda la scelta delle parole da cantare, sia nella parodo sia negli stasimi, io ho preferito trarre delle immagini più poetiche, quasi ermetiche. Abbiamo un coro di soli uomini, i vecchi che non sono partiti per la guerra, e un solo canto femminile, affidato a una bambina di tredici anni, un età simile a quella che poteva avere Ifigenia al momento della morte, che intona il verso “canto di lutto, ma il bene trionfi su tutto”. Questa voce femminile torna più volte: all’inizio invita ad alzarsi il popolo che era sepolto, cioè ridotto a una condizione di incoscienza da un regime che voleva tenerli con la mente semi-offuscata fino al ritorno del re. Il canto dà loro la forza per riprendere vita, con il ricordo del grande sacrificio che ha consentito alla spedizione bellica di continuare nell’impresa, e che pure è il grande delitto che sta dietro a quello che accadrà. Come sempre il motivo di tensione che porterà all’azione viene da un lutto. E dunque “canto di lutto ma il bene trionfi su tutto” è un verso ripetuto nel testo: io l’ho isolato, affidandolo alla voce della bambina, ripresa in seguito dal Coro. Poi ci sono altri frasi cantate, come “Ahimè, il tetro Ares infuria”, che è un immagine non quotidiana, come si evince dallo stesso epiteto di ‘tetro’ associato al nome di ‘Ares’. La ripetizione del verso è ritmata con canto declamato, non melodico, con una ritmica molto incalzante che però si fa più armoniosa quando interviene Clitemnestra. Questo perché il popolo non sa, non ha capito, non si rende conto; lei invece ha un disegno, e allora anche il suo canto ha una musica molto più organizzata.

E. T. A proposito del personaggio di Cassandra – il suo canto connota in qualche modo il suo invasamento profetico?

A. D.P. Il canto di Cassandra ha proprio un ruolo, una funzione, particolare perché, prima che si reimpossessi della parola, sia profetica sia di lamento per la sua condizione di donna schiava, lei emette suoni che sia Clitemnestra sia il Coro dichiarano di non capire. Questo è metafora della condanna all’incomprensibilità delle sue parole, e questa a sua volta è metafora della poesia che non viene mai capita. La poesia quindi, indispensabile per l’umanità, e purtuttavia inutile dal punto di vista pratico, l’abbiamo resa con questo canto/non canto, che in realtà è un semitono. Nel suo lungo monologo Cassandra alterna momenti in cui, attraverso Apollo, ha visioni di un passato che altrimenti non potrebbe conoscere, a momenti in cui ha visioni del futuro, arrivando a prevedere la sua stessa morte. Così va incontro alla morte, perché sa che quello che vede è già reale, e non può opporsi all’ineluttabilità della propria fine. Quindi il canto si pone su un altro piano, un piano che gli altri non possono comprendere: ma anziché farle emettere dei rantoli, o dei suoni inarticolati, abbiamo preferito farle cantare questo semitono ripetuto, che nessuno sa decodificare.

E. T. Tornando al canto del Coro, dopo l’intervento dell’araldo vengono cantati i molti nomi di Elena in greco: ʹΕλέναυς, ʹΈλανδρος, ʹΕλέπτολις. C’è un motivo legato alla musica, o è una scelta registica di altro tipo?

A. D.P. Credo che sia stata una decisione presa di comune accordo tra la traduttrice, Monica Centanni, e il regista, Luca De Fusco, e che io stesso ho trovato molto stimolante. Tra l’altro le frasi in greco che intervengono nel testo recitato sono sempre tradotte nel testo, dunque c’era la possibilità di ripeterle senza creare confusione. È dunque il suono che conta; come quando si recita un proverbio in un qualsiasi dialetto, e questo ha un suono e una musicalità che si perde nella traduzione, pur mantenendosi il significato. Il suono della formula in greco è un suono non traducibile , contrariamente al suo significato. Allora quando abbiamo delle parole così, ʹΕλέναυς, ʹΈλανδρος, ʹΕλέπτολις, il ripetersi continuo della pseudo-etimologia che legge la rovina nel nome di Elena ci serve anche in questo caso a dare l’idea di un'altra ossessione, quella dell’eros – la bellezza femminile che può dare tanto piacere e che tuttavia ha provocato la guerra. Elena diventa così il nome stesso del male, la causa di tutto: è una affermazione ovviamente poco credibile a tutti i livelli, ma che diventa uno dei nostri punti di riferimento per il suo rimando all’archetipo secondo cui amore e morte, desiderio e distruzione sono tutt’uno.

E. T.  Passando al tema generale della creazione di una colonna sonora per uno spettacolo teatrale, immagino che anche i silenzi siano meditati. L’ho notato soprattutto quando il crescendo dei suoni sincopati delle corde del pianoforte si interrompe in un silenzio assordante, mentre  irrompe sulla scena Clitemnestra dopo che il Coro si è reso conto che la guerra è veramente finita …

A. D.P. Sì, certamente: scegliere quando andar via con la musica è importante, in generale per tutti gli allestimenti teatrali. Quando si compone una musica di scena infatti, ancor più importante della musica che viene inserita, è quando la stessa musica viene messa o viene tolta. Perché il senso dell’atto recitativo compiuto nel silenzio cambia del tutto quando la musica fa il suo ingresso – che sia un sibilo, una nota ripetuta o una melodia articolata. È come cambiare le luci: si può passare da gelatine rosse, che quindi danno calore all’ambiente, a quelle bianche, gelide, o a quelle azzurrate, che danno un effetto notturno. E lo spettatore può anche non accorgersi che è stata cambiata la gelatina alle luci, e che quindi è mutata l’atmosfera luminosa, ma cambia subito la sua percezione dell’attore e della scena. Quindi, inserire o meno una musica in un dato momento è una decisione sempre presa di comune accordo tra il regista e il musicista. Ad esempio, nel caso del monologo di Cassandra, ci sono tre interventi musicali che sottolineano altrettante visioni: sono i momenti in cui è posseduta dal dio, e quindi parla quasi con una voce non sua. In questo caso, il passaggio dalla visione al momento in cui torna in sé e si lamenta della sua condizione di donna schiava, viene sottolineato proprio dal passaggio dalla musica al silenzio. Quindi l’inserimento o meno di una musica è sempre una scelta molto studiata e molto motivata.

E. T. Per concludere, volevo condividere con lei una mia considerazione. Sappiamo bene che la tragedia non si concludeva con la scena clou, la morte dell’eroe, ma con i due amanti che prospettano il loro dominio congiunto sulla città. La scelta di concludere con una melodia simile come sound a quella iniziale, deriva da una scelta precisa? Personalmente mi sarei forse aspettata una musica più cupa, che in qualche modo facesse presagire gli eventi che caratterizzano il seguito della trilogia …

A. D.P. In quello che ha detto c’è una parte di verità; Agamennone è una tragedia che finisce non finendo, è un appuntamento per quello che succederà in seguito. Proprio il bilancio finale sintetizzato nella battuta di Clitemnestra “noi due insieme governeremo questa città”, è come se lanciasse un messaggio al pubblico, una sorta di to be continued. Quindi noi avevamo il problema di finire il nostro allestimento, e non a caso spesso l’Orestea viene messa in scena da un unico regista con un unico progetto. In quel caso puoi dare un appuntamento sapendo cosa accadrà nello spettacolo successivo, mentre nel nostro caso siamo di fronte a un allestimento compiuto della prima parte di una trilogia che non è curata dalla stessa troupe. Coefore e Eumenidi in scena al Teatro greco di Siracusa per gli spettacoli Inda 2014 sono curate da un altro regista con altri collaboratori, e con una diversa impostazione e non c’è un’unità stilistica tra i tre atti della trilogia. Dunque noi avevamo il problema di finire il nostro allestimento, e qui si presentano esigenze quasi rituali. Lo spettacolo può terminare in maniera secca, o retorica, o con il grande “finalone”: noi abbiamo fatto nostra l’idea del regista secondo cui il Coro lentamente si risotterra e questo è un modo per i vecchi della città di ritirarsi, senza prendere posizione. È come se si rendessero conto di essere impotenti di fronte a ciò che è accaduto, e il ritorno in uno stato di semi-offuscamento della coscienza civica è stata una scelta ponderata. La frase che viene pronunciata da tutti i personaggi sulla scena, “Ciò che deve accadere accadrà”, nasconde intenzioni e significati profondamente diversi. Il popolo conclude recitando la propria impotenza e sottomissione, Clitemnestra recita il suo progetto di governo futuro assieme a Egisto, mentre il Corifeo recita la speranza che giustizia sia fatta, puntando su Oreste. “Ciò che deve accadere accadrà”: è la stessa frase, ripetuta in ordine per tre volte (da Clitemnestra, dal Coro, dal Corifeo più giovane), con tre intenzioni molto diverse e che in più risponde all’esigenza di chiudere in una battuta il finale. Le ultime parole, e poi il buio. Sul quale ci aspettiamo gli applausi del pubblico. Che, fortunatamente, al Teatro greco di Siracusa, arrivano generosi.

English abstract

In this interview Antonio Di Pofi, composer of the music for Aeschylus’ Agamemnon performed in May-June 2014 at the Greek Theatre in Syracuse, explains his work. Di Pofi’s intention was to maintain an authenticity of execution declaring our own time in respect of the ancient drama: hence his soundtrack echoes post-impressionist music, Bartok, Stravinsky, and the experimentalism of the post-war period. The interview focuses on the distinctive use of the piano, connected with the events taking place on the stage and the ethos of characters. 

 

keywords | Antonio Di Pofi; Music; Aeschylus; Agamennon; Performance; Greek Theatre; Syracuse; INDA; Interview.

Per citare questo articolo / To cite this article: E. Trovato, Agamennone al pianoforte. Intervista a Antonio Di Pofi, compositore delle musiche per Agamennone di Eschilo al Teatro greco di Siracusa (Fondazione Inda, 2014), “La Rivista di Engramma” n. 117, giugno 2014, pp. 144-150 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2014.117.0005