"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

120 | ottobre 2014

9788898260652

La “matta bestialitade” di Atamante

Una proposta di interpretazione del plinto I del fondale della Calunnia di Apelle di Botticelli

Sara Agnoletto

English abstract

Sandro Botticelli o Bartolomeo di Giovanni, La follia di Atamante (particolare dalla Calunnia), tempera su tavola, fine del XV sec., Firenze, Galleria degli Uffizi (a sx); Repulsa dei pensieri cattivi, incisione, in Cesare Ripa, Iconologie, ou Explication Nouvelle de plusieurs images... moralisees par J. Baudoin, Paris 1643, II-122.

Se si osserva in dettaglio l’immagine del rilievo raffigurato sul plinto I del fondale della Calunnia di Apelle di Botticelli (osservazione agevolata dalla campagna fotografica ad alta definizione disponibile in “Engramma”), si distingue chiaramente una figura maschile nuda con la schiena ricurva in avanti, che afferra un individuo per le caviglie e lo tiene sospeso dietro le spalle, a testa in giù. Di fronte a lui una roccia acuminata sporge dal terreno. L’uomo scarica il peso del proprio corpo sul piede destro ben saldo a terra, trovandosi in tal modo sbilanciato in avanti, come chi stia avanzando lentamente. Nel 1613, l’immagine, pressoché invariata, di “un’huomo che tenghi per li piedi vn picciolo fanciullino, e che con disposta attitudine lo sbatta in vna pietra quadra” illustrerà la voce Repulsa dei Pensieri Cattivi dell’Iconologia di Cesare Ripa. Più di un secolo separa questa illustrazione dal rilievo del fondale della Calunnia che, è opportuno ricordarlo, viene datata su basi stilistiche all’ultima decade del XV secolo, ed è probabile che i loro significati ormai divergano: nell’opera del Ripa la pietra è diventata simbolo di Cristo, a cui bisogna ricorrere quando i vizi sono ancora insignificanti per distruggerli:

“Però noi tutti dobbiamo rompere li nostri pensieri di cattivi effetti, mentre sono piccoli, avanti che crescano, e si attacchino alla deliberazione, sbattendoli, come abbiamo detto, nella pietra di Cristo, cioè volgendo la mente nostra, e ‘l cor nostro verso Cristo, collocando in lui ogni nostro pensiero” (Ripa 1767, 24).

Nonostante però la tavola dell’Iconologia non possa essere d’aiuto all’identificazione del soggetto che stiamo studiando, può indirettamente confermare che si tratta di una persona che scaraventa un giovane contro una roccia e non, come si è voluto leggere, di un uomo che scala una montagna con un animale sulle spalle o che scaglia un ragazzo dall’alto di uno scoglio (per le diverse interpretazioni della scena si veda in Engramma l’articolo Botticelli orefice del dettaglio, particolare P1). Le braccia della figura, flesse al di sopra della testa, indicano inequivocabilmente una azione violenta e efferata, cristallizzata in un gesto sospeso: l’uomo sta scaraventando contro il masso un’altra persona, utilizzando la propria massa corporea per infondere maggior impeto al suo folle gesto; probabilmente il corpo sospeso è quello di un ragazzo o un fanciullo, viste le dimensioni ridotte. L’immagine del rilievo, alquanto concisa, non offre molti altri elementi utili all’identificazione del soggetto: è impossibile stabilire l’età e il genere della vittima e la totale assenza di attributi rende difficile accertare l’identità dell’aggressore. Prendiamo quindi in considerazione quest’unico indizio fornito dall’artista: l’aggressione, particolarmente cruenta nelle sue modalità, compiuta ai danni di un/a giovane.

L’uccisione di bambini o adolescenti, in particolare dei propri figli, è un tema centrale sia nel mito greco che nel discorso biblico, che richiamiamo qui di seguito per exempla, senza la pretesa di un trattamento esaustivo dell’argomento. Sebbene siano celeberrimi i casi di figlicidio materno, si registrano anche un certo numero di omicidi compiuti da padri. Accanto ad alcuni episodi verificatisi per tragico errore da capifamiglia per nulla intenzionati a privarsi della propria discendenza, è possibile distinguere due tipologie di assassino: il padre devoto e garante della salute pubblica, che sacrifica il proprio figlio per tutelare il bene comune; e quello che uccide perché preda della mania, la follia, il dàimon messo in moto dalla collera divina.

Molto spesso nel mito greco, il sacrificio del proprio figlio è un atto necessario ad assicurare la salvezza dello stato e del proprio popolo in circostanze di particolare crisi: guerre, calamità naturali e carestie. In special modo il tema del sacrificio di vergini di nobile stirpe garantisce un esito positivo alle imprese di guerra: perché si possano intraprendere o si possano concludere; in ogni caso la vittoria, o la riuscita in un’impresa, spetta a coloro che immolano il/la figlio/a. Il motivo è topico e attestato anche nell’ambito dei miti tragici, in un repertorio vario e numeroso in cui la vicenda di Ifigenia è certamente l’episodio più celebre. Analogamente, per salvare con una sola vittima un’intera comunità, l’innocente Andromeda fu legata a una roccia ed esposta dal padre, il re d’Etiopia Cefeo, a un mostro marino, per placarne la collera e liberare il paese. Ma il mito conosce molti altri esempi di ragazzi ‘offerti’ dai loro padri, o sacrificati con la loro approvazione, per adempiere alla prescrizione di un oracolo e risollevare le sorti della propria patria: è il caso di una o più figlie di Eretteo sacrificate per far fronte all’esercito tracio guidato da Eumolpo; delle figlie di Giacinto, sacrificate presso la tomba del ciclope Geresto, per liberare dalla peste e dalla carestia la città di Atene durante l’assedio imposto da Minosse; del figlio di Idomeneo, re di Creta, il quale accolse il padre sulla spiaggia al suo ritorno dalla guerra di Troia, ignaro del fatto che questi, per poter fare ritorno a casa incolume, aveva fatto voto a Poseidone di sacrificare la prima persona che avesse incontrato una volta giunto sul suolo patrio. La vicenda mitica di Idomeneo ricorda quella biblica di Iefte il quale, prima di intraprendere la guerra contro i pagani Ammoniti, promise che, se avesse vinto, avrebbe offerto in sacrificio colui che per primo sarebbe uscito dalle porte di casa sua per andargli incontro; e il destino volle che questi fosse proprio la sua unica figlia. E ancora, analoghe circostanze indussero il re biblico Mesha a immolare il figlio, gettandolo giù dalle mura della città di Moab, per porre fine all’assedio degli Israeliti. 

In questi esempi di padri che sacrificano i propri figli in nome di una necessità aliena (in generale di un bene pubblico superiore o di un’imposizione divina, che portano a sospendere il loro giudizio), l’atto sacrificale prevede una sofferta rinuncia al figlio da parte del padre il quale, sovente, non vuole portare a termine l’atto, come nel caso di Agamennone nelle versioni tragiche del mito di Ifigenia. La rinuncia (e quindi la devozione e la sottomissione alla divinità con essa dimostrate, che forse si richiama anche a rituali sacrificali quali quello del tophet citato nell’Antico Testamento) è massima nel caso di figli particolarmente amati e importanti, perché unigeniti o primogeniti. Ne è un esempio illustre Abramo il quale, messo alla prova, dimostra l’autenticità della propria fede affidandosi completamente alla volontà divina e rinunciando a quanto ha di più caro e di più prezioso: il proprio unico figlio Isacco, a lungo desiderato.

Differenti, perché pervasi da una componente di brutalità ed efferatezza esercitata sulle vittime, sono i casi di padri che uccidono i figli in preda a un moto d’ira incontrollabile, spesso indotto da uno stato di mania divina: Alcatoo uccide il figlio Callipoli, adirato perché questi interrompe un sacrificio in onore di Apollo per avvertire il padre della morte dell’altro suo figlio, Iscepoli; Eumeo uccide il figlio Brote il quale, durante un sacrificio ad Apollo, mangia il cervello dell’agnello sacrificale prima di averlo offerto sull’altare; Licurgo, reso pazzo da Dioniso, scambia il proprio figlio Driante per un ceppo di vite e lo uccide colpendolo con un’accetta, per poi rinsavire un attimo dopo; Eracle, reso folle dalla gelosa Era, getta nel fuoco i suoi stessi figli o, secondo un'altra versione del mito, li uccide con l’arco e con la clava, scambiandoli per i figli del suo nemico Euristeo; Atamante, impazzito a causa dell’ira di Era, dà la caccia alla moglie e ai propri due figli, credendo che fossero una leonessa e dei leoncini. Secondo alcune fonti li colpisce con una freccia, secondo altre afferra il figlio Learco e lo sfracella contro una roccia, mentre la moglie, fuggendo in preda al panico, si getta dalla scogliera e annega, stringendo tra le braccia l’altro figlio, Melicerte. Le similitudini tra questo ultimo episodio mitico e il riquadro della Calunnia di cui ci stiamo occupando sono evidenti.

La storia del figlicidio di Atamante dovette essere nota dall’auctor intellectualis del dipinto di Botticelli, dal momento che non solo è riportata nel IV libro delle Metamorfosi di Ovidio, senza dubbio uno dei più importanti veicoli di trasmissione della mitologia classica nel Rinascimento; ma anche perché la stessa vicenda è narrata nella Divina Commedia da Dante e nelle Genealogiae Deorum Gentilium di Giovanni Boccaccio, autore chiamato ripetutamente in causa nel fondale della Calunnia. Grazie al lavoro estremamente scrupoloso di catalogazione dei repertori svolto dai ricercatori coinvolti nel progetto Iconos, è possibile seguire le origini, gli sviluppi e la diffusione che il tema della Follia di Atamante ebbe durante il primo Rinascimento italiano e, in particolar modo, fiorentino. Le fonti classiche che riferiscono del figlicidio compiuto da Atamante sono sette. Tre di esse: Ovidio (Fasti, VI vv. 499-504), Stazio (Tebaide, III vv. 186-188) e Pausania (Graeciae descriptio, I 44, 7), citano solo succintamente la fabula senza far riferimento al come fosse stata provocata la morte di Learco.

Altre tre fonti: Igino (Le Fabule, 4), Apollodoro (Biblioteca, I 9,2 vv. 24-27), e Nonno di Panopoli (Dionisiache, X vv. 34-42) riferiscono che Atamante uccise il figlio maggiore durante una battuta di caccia, trafiggendolo con una freccia in un accesso di follia. Per contro, Ovidio, nelle Metamorfosi, è l’unico autore classico che tramanda la versione mitica secondo la quale Atamante uccise Learco con le proprie mani:

Improvvisamente, Atamante figlio di Eolo esclama furioso in mezzo alla reggia: “Iuh, compagni, tendete le reti in questa macchia! Ho visto or ora una leonessa passare con due cuccioli di qui!” E uscito di senno si lancia all’inseguimento della moglie, come una bestia feroce, le strappa dal seno il figlio Learco che ride e tende le piccole braccia, rotea due o tre volte il fanciullo per aria, come si fa con la fionda, e gli fracassa il viso contro una dura pietra, spietato. (Metamorfosi, IV vv. 499-510).

Quando, più tardi, l’episodio mitico venne recuperato, la versione tramandata da Igino, Apollodoro e Nonno di Panopoli cadde nell’oblio e si trasmise soltanto la variante affidata alle Metamorfosi di Ovidio che fu ripresa da Dante (Divina Commedia, XXX vv. 1-12), Boccaccio (Genealogiae Deorum Gentilium, XIII 67, 3) e Petrus Bercorius (Ovidius Moralizatus, tomo II, liber IV, 81); a cui fecero seguito, durante il Rinascimento, Giovanni Buonsignori (Ovidio Metamorphoseo Vulgare, L. IV cap. XXXV), Cristoforo Landino, maestro di Poliziano, Lorenzo il Magnifico e Ficino (La Commedia, Inferno XXX), e Niccolò degli Agostini, suddito anch’egli della Repubblica (Tutti li libri de Ovidio Methamorphoseos, 43.a / 43.b), autori questi ultimi di tre opere date alle stampe a Venezia nel 1497 e 1522.

La follia di Atamante, xilografia. In Giovanni dei Bonsignori, Ovidio Methamorphoseos vulgare, Venezia 1497, libro IV.

Per quanto riguarda la tradizione figurativa, la rappresentazione di Atamante che uccide Learco sbattendolo contro una roccia non sembra aver riscosso molta fortuna prima delle illustrazioni dell’Ovidio Metamorphoseos vulgare di Giovanni dei Bonsignori, opera pubblicata a Venezia nel 1497 da Giovanni Rosso per Lucantonio Zonta. Questa edizione è accompagnata da un ciclo di 52 xilografie (di autore anonimo), un numero di illustrazioni del testo ovidiano mai viste fino ad allora, che attrasse l’attenzione degli umanisti, a tal punto che a esse verrà informata la maggior parte della produzione figurativa delle Metamorfosi dalla fine del XIV a metà del XV secolo.

Composta in prosa tra il 1375 e il 1377, l’opera di Giovanni dei Bonsignori ebbe una discreta divulgazione manoscritta (9 esemplari); ebbe inoltre ben sei ristampe, di cui quattro veneziane: una ad opera di Cristoforo di Pensa (1501), una di Alexandro di Bandoni (1508), e due di Gergio de’ Rusconi (1517 e 1523). Due ristampe furono pubblicate a Milano: una dai fratelli da Legnano nel 1519, e l’altra dai fratelli Da Valle nel 1520 (Ardissino 1993, 107).

La follia di Atamante, xilografia. In Giovanni dei Bonsignori, Ovidio Methamorphoseos vulgare, Venezia 1501, libro IV (a sx); La follia di Atamante, xilografia, in Raffaello Regio, Metamorphoseon Pub. Ovidii Nasonis libri XV cum Raphaelis Regii Volterrani luculentissima explanatio, per Francesco Mazzali, Parma 1505 (prima edizione 1493), libro IV, fol. 8 v. (al centro); La follia di Atamante, xilografia. In Raffaello Regio, Metamorphoseon Pub. Ovidii Nasonis libri XV cum Raphaelis Regii Volterrani luculentissima explanatio, per Giorgio Rusconi, Venezia 1509 (prima edizione 1493), libro IV, fol. LXVI.

A proposito dell’apparato decorativo, la serie dei legni dell’editio princeps servì per illustrare due ristampe dell’Ovidio Metamorphoseos vulgare di Giovanni dei Bonsignori (Venezia 1501 e 1508); e poi ancora per accompagnare due ristampe dell’edizione latina delle Metamorfosi commentata dall’umanista veneto Raffaele Regio, opera anch’essa di grande successo (Parma 1505, Venezia 1509).

La follia di Atamante, xilografia, in Giovanni dei Bonsignori, Ovidio Methamorphoseos vulgare, Venezia 1517 (a sx); La follia di Atamante, xilografia. In Raffaello Regio, Metamorphoseon Pub. Ovidii Nasonis libri XV cum Raphaelis Regii Volterrani luculentissima explanatio, per Giorgio Rusconi, Venezia 1521 (prima edizione 1493), libro IV, fol. 56b.

La serie dei legni dell’editio princeps servì inoltre da modello per realizzare le xilografie che accompagnano l’edizione veneziana dell’Ovidio Metamorphoseos vulgare di Giovanni dei Bonsignori del 1517 e l’edizione in latino delle Metamorfosi curata dall’umanista veneto Raffaele Regio (Venezia 1521).

La follia di Atamante, xilografia, in P. Ouidii Metamorphosis cum luculentissimis Raphaelis Regij enarrationibus... Imp[re]ssum Tusculani apud Benacum in aedibus Alexandri Paganini, 1526.

Una variante semplificata rispetto al modello originale illustrò le due edizioni curate da Raffaele Regio date alle stampe a Venezia nel 1513 e a Toscolano nel 1526.

La follia di Atamante, xilografiam, in Niccolò degli Agostini, Tutti li libri de Ovidio Metamorphoseo, in verso vulgar con le sue allegorie in prosa et istoriato, Venezia 1522, 40.

Da ultimo bisogna segnalare le 72 xilografie anonime che accompagnarono l’edizione dell’Ovidio Metamorphoseos in verso vulgar di Niccolò degli Agostini, pubblicata a Venezia nel 1522 da Giovanni da Lecco, e le sue ristampe del 1533 e del 1537, le quali, nonostante la discendenza diretta, sono le illustrazioni che maggiormente si allontanano dal modello originale, rielaborandolo.

Atamante e Ino. In John Lydgate, The Fall od Princes, Oxford, Bodleian Library Bodley 263 (S.C. 2440), fol. 7r. Metà XV sec. circa (a dx); Atamante e Ino (particolare).

Anteriormente a questa serie iconografica, si conosce un’unica rappresentazione di Atamante che uccide Learco sbattendolo contro la roccia. Si tratta di una delle miniature che fanno da corredo alla raccolta di exempla didattici intitolata The Fall of Princes, una traduzione dell’opera di Giovanni Boccaccio, De casibus virorum illustrium, composta da John Lydgate, monaco di Bury St. Edmunds, per Humphrey, duca di Gloucester, tra il 1431 e il 1438/9.

Francesco Xanto Avelli, La follia di Atamante, ceramica smaltata, 1527-1530 circa, collezione Mario Del Prete e Rosvilde Bartolucci.

Il riquadro della Calunnia dunque, al quale è ormai tempo di tornare, parrebbe rappresentare il momento in cui Atamante, reso folle da Era, scaglia il figlio Learco contro una roccia. Se così fosse, ci troveremmo di fronte, come nel caso dei due particolari raffiguranti Cimone ed Efigenia (architrave 8 e base 14 del fondale della Calunnia), alla prima e precoce rappresentazione del soggetto che si rende indipendente rispetto al testo scritto, al quale era stata fino a ora subordinata. Dovranno infatti trascorrere all’incirca trent’anni prima che la Follia di Atamante ricompaia su una splendida coppa istoriata da Francesco Xanto Avelli, tra il 1527 e il 1530 circa.

Sandro Botticelli o Bartolomeo di Giovanni, Cimone ed Efigenia (particolare dalla Calunnia), tempera su tavola, fine del XV sec., Firenze, Galleria degli Uffizi (a sx); Cimone ed Efigenia, xilografia. Decameron V1, Incunabolo De Gregori: f. 64 v., Venezia, 1492.

L’immagine raffigurata sul plinto I del fondale della Calunnia e la xilografia dell’Ovidio Metamorphoseos vulgare di Giovanni dei Bonsignori (Venezia 1497) sarebbero inoltre le due uniche rappresentazioni di Atamante che uccide Learco sbattendolo contro una roccia del XV secolo, le prime in assoluto, per quanto ho avuto modo di verificare, se si esclude la miniatura che fa da corredo alla raccolta The Fall of Princes nel codice conservato a Oxford presso la Bodleian Library e realizzato in Inghilterra intorno alla metà del XV sec. Analogamente, anche la scena che occupa la base 14 del fondale della Calunnia, in cui sono rappresentati contemporaneamente due momenti narrativi differenti tratti dalla prima novella della quinta giornata del Decameron (l’episodio in cui Cimone contempla Efigenia e quello del rapimento per mare della protagonista) utilizza una composizione poco comune prima della sua divulgazione ad opera del libro a stampa.

Anteriormente alla pubblicazione, nel 1492, a Venezia della prima edizione illustrata del Decameron, infatti, si conoscono solo due miniature che adottano questa soluzione figurativa: una decora il manoscritto Add. 35322 (Londra, BL), trascritto nelle Fiandre durante il terzo quarto del XV secolo (intorno al 1475), l’altra il manoscritto Fr. 240-E (Parigi, BNF), copiato in Francia nell’ultimo quarto del XV secolo (su questi argomenti si veda, nel n. 112 di Engramma, Cimone e Efigenia, ovvero l’Amore fonte di civiltà). Queste considerazioni lasciano intravedere la possibilità, ancora tutta da verificare, che l’autore del fondale architettonico della Calunnia abbia potuto avere in mente o trarre spunto dalle coeve illustrazioni a stampa. 

Cercheremo ora di ricostruire quale messaggio morale potesse essere stato attribuito alla rappresentazione della Follia di Atamante e di trovare la ragione della presenza di questo mito tragico nel fondale della Calunnia. Anzitutto, è importante specificare che la violenza non è la cifra distintiva della figura di Atamante; e la crudeltà non è la disposizione caratteriale principale dell’animo del personaggio. Egli è, prima di tutto, un pazzo che, ottenebrato dalla follia, non ha alcun dominio di sé. Pertanto, la crudeltà non può essere chiamata in causa come movente dell’assassinio, dato che questo sentimento richiede da parte del carnefice coscienza delle proprie azioni: crudele è infatti colui che infligge sofferenza senza pietà. Non bisogna confondere quindi la crudeltà del carnefice con la crudeltà delle sue azioni, per quanto orribili esse siano. È la mancanza di autocontrollo la chiave per interpretare l’episodio mitico di Atamante: il re beota uccise involontariamente, in preda a manía, il suo primogenito, convinto di vedere e di uccidere un animale. Il padre ottenebrato da una follia che lo fa uscire di senno e lo priva della possibilità di governare se stesso, rendendolo inconsapevolmente assassino del figlio, è dunque la prima vittima della sua azione forsennata. Atamante si presenta pertanto come un esempio della degradazione estrema a cui può ridursi la dignità umana a causa della follia, che altro non è se non mancanza di ragione. Proprio questo sembra essere il tertium comparationis tra narrazione mitica e il dialogo di Luciano, non bisogna prestar fede facilmente alla calunnia, dialogo che si apre con un’invettiva contro l’ignoranza, intesa anch’essa come irragionevolezza.

È un male veramente terribile l’ignoranza, causa di molte sciagure per l’umanità, poiché avvolge la realtà come in una cappa di nebbia, oscura la verità e getta ombre sulla vita di ogni uomo. E in effetti, sembriamo tutti brancolare nel buio, anzi, per meglio dire, viviamo proprio come ciechi: ora inciampiamo in ostacoli senza riflettere, ora li superiamo senza che ce ne sia bisogno; non vediamo quello che è vicino e proprio davanti ai nostri occhi, e temiamo invece ciò che è lontano e a una distanza infinita, pensando che possa ostacolarci. In breve, in ogni azione non smettiamo di mettere il piede in fallo […]. La maggior parte delle sciagure rappresentate sulle scene – lo scoprirai – sono elargite dall’ignoranza, come se fosse una sorta di divinità tragica.

Il testo del sofista greco è pieno di riferimenti all’ignoranza, reputata essere la causa principale delle disgrazie degli uomini, particolarmente delle false accuse. E anche in chiusura del trattato il retore greco rimarca quanto perniciosa sia l’ignoranza per l’uomo. Ma la causa di tutto questo, riprendendo il filo del ragionamento, è l’ignoranza che avvolge l’animo di ognuno nell’oscurità. Se un dio togliesse il velo alle nostre vite, la calunnia precipiterebbe nel baratro, senza trovare più spazio alcuno, poiché ogni fatto sarebbe illuminato dalla verità. A conferma di questa lettura è opportuno segnalare che le follie di Atamante e di Ecuba sono evocate da Dante in apertura del canto trentesimo dell’Inferno come due esempi classici e proverbiali di pazzia (“insano”, v. 4; “forsennata”, v. 20; per l’interpretazione dei primi 47 versi del canto trentesimo dell’Inferno si rimanda all’importante contributo di Rebuffat 2001 che è servito, in generale, da filo conduttore in questa indagine). In questi stessi versi “Atamante ed Ecuba hanno […] l’esplicito segno animalesco dei “dispietati artigli” e del “latrare come un cane” (Salsano 1999, 20). Se si toglie infatti all’uomo la ragione ciò che resta è appunto la feritas, lo stato di natura, in cui il concetto di ignoranza s’identifica con quelli di barbarie, di cieco impulso istintivo, di disordine, di violenza; l’uomo, insomma, come la bestia. Così anche Alberti:

Torrai all’uomo l’uso e modo della ragione: a lui nulla rimarrà se non le sole membra dissimili dagli altri animali silvestri et inutilissimi, e quali tutti senza intero discorso, pure in questo participi di qualche ragione, solo quanto in loro la natura richiede a procreare, obbediscano all’appetito (Alberti, Liber secundus de familia: de re uxoria).

Il tema della bestialità dei folli non viene trattato nel riquadro P1 del fondale della Calunnia, che pone l’accento solo sul comportamento violento di Atamante, senza evidenziare, stando a quanto si può vedere, nessun tratto animalesco; d’altronde esso non è nemmeno sviluppato nel testo di Luciano, in cui a ben vedere è presente un unico riferimento a questo aspetto della pazzia (“aguzza i denti” riferito a colui che si infuria per essere stato calunniato).

Sandro Botticelli o Bartolomeo di Giovanni, La famiglia dei centauri (particolare dalla Calunnia), tempera su tavola, fine del XV sec., Firenze, Galleria degli Uffizi.

Lo si evince però indirettamente dal parallelo con il rilievo B13 in cui è rappresentata la Famiglia dei centauri, anch’essa una descrizione ecfrastica di Luciano, con la quale lo scrittore greco ridà forma a un’opera d’arte perduta di Zeusi. In essa è raffigurata una scena di vita domestica, un momento di affetti familiari, di una famiglia di centauri: una centaura che allatta i suoi piccoli mentre il compagno gioca con i figli, mostrando loro un cucciolo di leone. Il soggetto, che fu sicuramente apprezzato in virtù della sua antiquitas e perfezione artistica, dovette anche sorprendere, perché attribuiva comportamenti (maternità e allattamento al seno), forme di convivenza (famiglia e relazioni parentali) e sentimenti (amore materno e paterno) propri della natura umana, a degli esseri semiferini, che secondo Cristoforo Landino incarnavano proprio “gli efferati et crudeli desideri”.

Da una parte Atamante che, pur essendo un essere umano, naturalmente nato “ad amare et giovare et non a odiare et nuocere”, in un accesso d’ira, uccide selvaggiamente il proprio figlio. Dall’altra parte la famiglia dei centauri che, pur essendo degli esseri semiferini, per loro natura crudeli e violenti, adottano dei comportamenti specifici dell’ideale di uomo rinascimentale.

Sandro Botticelli o Bartolomeo di Giovanni, Centauromachia (particolare dalla Calunnia), tempera su tavola, fine del XV sec., Firenze, Galleria degli Uffizi (a sx); Sandro Botticelli o Bartolomeo di Giovanni, Donna che conduce il Centauro (particolare dalla Calunnia), tempera su tavola, fine del XV sec., Firenze, Galleria degli Uffizi (al centro); Sandro Botticelli o Bartolomeo di Giovanni, La famiglia dei centauri (particolare dalla Calunnia), tempera su tavola, fine del XV sec., Firenze, Galleria degli Uffizi.

Questo confronto mette in evidenza, per antitesi, la feritas dell’uomo privato della ragione in comparazione con l’humanitas della bestia ammaestrata. Bisogna inoltre osservare che, all’interno del fondale della Calunnia, la Famiglia dei centauri può essere raggruppata in una serie composta dalla Centauromachia, (architrave 5) e dalla Donna che conduce un centauro (architrave 6). All’interno di questa successione iconografica le singole composizioni acquistano una potenza dinamica e semantica che mette in evidenza il percorso di ascesa che trasforma i centauri da esseri primordiali, violenti, lussuriosi, incapaci di controllare i lori istinti e i loro impulsi (Centauromachia), conducendoli fuori dalla selva, cioè il regno delle fiere (Donna che conduce un centauro), in esseri “umanissimi”, più uomini degli stessi uomini (Famiglia dei centauri). La scena di vita dei centauri potrebbe quindi alludere al livello più basso di esistenza che, illuminato dal sapere, è riscattato dalla sua condizione primordiale e istintiva. Questa lettura appare in armonia con due immagini adiacenti: Cimone e Efigenia (base 14) e Pallade (base 15). Si tratta di una serie di immagini che adombra una visione neoplatonica la quale mette al centro la ragione come strumento di salvezza e affrancamento. Il fatto che tutte siano disposte sulla predella sopra cui si innalza il trono del re-giudice può significare che il giudizio per essere giusto deve fondarsi sulla ragione.

Un altro elemento di congruenza tra mito ed ékphrasis è la furia. Nel trattato di Luciano l’ira è un tratto caratteristico di chi ascolta le false accuse (“esponendo la persona calunniata all’ira di chi ascolta”; “e così chi ascolta, come tormentato nell’orecchio da un tafano, subito s’infiamma”; “essi pensano e dicono quel tipo di cose che considerano le più adatte a scatenare l’ira di chi ascolta”; “chi ascolta, colpito da un moto d’ira improvviso”; “all’istante era andato fuori di sé [Tolomeo] e andava riempiendo la reggia delle sue grida”); e Furia è anche la Calunnia “una donna straordinariamente bella, ma infuocata e agitata, come se fosse in preda all’ira e al furore”, che scatena con la sua malalingua la collera di chi l’ascolta (a proposito dell’analogia tra Calunnia e le Furie si veda, in Engramma, Filipponi e Agnoletto 2011). Allo stesso modo, anche nelle Metamorfosi, furioso è lo stato d’animo che acceca Atamante (“Atamante figlio di Eolo esclama furioso in mezzo alla reggia”; “come una bestia feroce”) mentre la Furia Tisifone è la personificazione allegorica che prende parte all’azione drammatica, facendo inalare ad Atamante il veleno che lo rende pazzo furioso.

Poi essa si strappò due serpenti di tra i capelli e con la mano pestifera li scagliò con violenza. E quelli si misero a strisciare sul seno di Ino e di Atamante e insufflarono fetido fiato; senza infliggere ferite al corpo: solo la mente sentì il terribile assalto. La Furia aveva portato con sé anche un filtro mostruoso: bava di Cerbero e veleno di Echidna, vaneggianti deliri e oblio di mente ottenebrata e malvagità e lacrime e rabbia e sete di strage, tutte cose tritate insieme e, mescolate a sangue fresco, fatte bollire in un calderone di bronzo mestando con ramo di verde cicuta. Mentre i due stavano lì spaventati, versò questo filtro nel loro petto e li sconvolse nel profondo del cuore.

Al centro della vicenda mitica di Atamante si trova l’accesso d’ira incontrollato, presentato come manifestazione di pazzia, cioè come impulso irrazionale e impulsivo capace di sconvolgere l’animo umano e di travolgerlo irrimediabilmente. Atamante è un pazzo furioso. Per gli autori antichi e per gli umanisti che ne accolsero gli insegnamenti, il furor era, insieme con la feritas, il tratto distintivo della mancanza di ragione; il comportamento aggressivo e istintivo era proprio di un selvaggio, mentre era inconcepibile in un essere razionale in grado di dominare i propri impulsi e le proprie passioni. Il vincolo che unisce questi tre questi termini è molto stretto, dimodochè Virgilio, nel canto undicesimo dell’Inferno, al ricordare a Dante la partizione aristotelica del male in tre categorie: gli incontinenti, i violenti e i fraudolenti, si riferisce alla violenza in termini di “matta bestialidade”, ovvero di violenza che rende l’uomo simile a bestie irrazionali (“Non ti rimembra di quelle parole / con le quai la tua Etica pertratta / le tre disposizion che ’l ciel non vole, / incontenenza, malizia e la matta / bestialitade?” Inferno 79-83).

Atamante e Ino. In Christine de Pizan, Epître d’Othée, Oxford, Bibl. Bodl., MS. Bodl. 421, fol. 18v, 1450-75 (a sx); Maître de la Cité des dames, La follia di Atamante, in Christine de Pizan, Epître d'Othée, London, British Library, Harley 4431, fol. 104 r, 1410-1414 (al centro); La follia di Atamante, in Christine de Pizan, Epître d’Othée, Paris, Pigouchet, 1500-1501.

L’immagine, carica di pathos ed estremamente tragica, di Atamante che uccide Learco sbattendolo contro una roccia, si impone in Italia nel XV secolo su una fortunata tradizione figurativa, dai toni più pacati, in cui Atamante è rappresentato mentre sottrae i suoi due figli alla moglie addormentata, affiancato da Tisifone con due serpenti in mano; una tradizione che ebbe inizio all’incirca nel secondo quarto del XV sec. con l’illustrazione dell’Epistre Othea la deesse di Christine de Pisan.

L’accentuazione delle tinte più fosche, del particolare più macabro e raccapricciante della vicenda mitica di Atamante, obbliga lo spettatore a riflettere sullo scatenarsi rovinoso delle sfrenate passioni non dominate dalla ragione e sulle conseguenze catastrofiche che ne derivano. L’auctor intellectualis della rappresentazione ricorse a un registro espressivo drammatico per dimostrare la forza devastante di una passione sregolata, indice di irragionevolezza, e così facendo mettere in risalto l’esemplarità negativa di Atamante. L’intensificazione patetica e l’accentuazione degli elementi cupi del mito sono gli strumenti di cui l’autore si serve per raggiungere più efficacemente il suo principale obiettivo: l’educazione morale.

Sandro Botticelli, Gruppo del giudizio, composto da un giudice affiancato da Ignoranza e sospetto (particolare dalla Calunnia), tempera su tavola, fine del XV sec., Firenze, Galleria degli Uffizi.

In conclusione, la rappresentazione della Follia di Atamante, nel fondale della Calunnia, non si limita a istituire un paragone tra il mito e l’allegoria, ma si presenta come una sorta di glossa, una nota esplicativa e interpretativa che arricchisce di senso l’ékphrasis di Luciano. Essa restituisce all’ignoranza quel protagonismo che le è negato nella scena allegorica in primo piano, in cui è solo una delle personificazioni che concorrono a rendere possibile la calunnia, sussurrando nelle orecchie del cattivo giudice un consiglio nefasto, senza però essere, come insegna Luciano, la principale causa di sciagure per l’umanità, tra tutte, le false accuse.

L’immagine della Follia di Atamante, inoltre, individua un climax che enfatizza le terribili conseguenze di una estrema mancanza di ragione, della follia: l’accesso di collera e la bestialità. Pertanto la vicenda della Follia di Atamante nasconde un tacito insegnamento affinché l’uomo, il quale ha in se stesso la possibilità di definirsi, non si affidi al cieco impulso istintivo (degenerando a bestia), ma eserciti la ratio, sublimando al grado delle cose celesti; affinché l’uomo non rinneghi la sua stessa natura umana, rinunciando alla guida della ragione.

English abstract

In Greek mythology, Athamas was a Boeotian king. He married Ino with whom he had two children: Learches and Melicertes. Athamas and Ino incurred the wrath of the goddess Hera because Ino had nursed the god Dionysus. According to some accounts, Hera struck Athamas with insanity, so that Athamas slew one of his sons, Learchus, throwing him against the rocks and persecuted Ino, who leaped into the sea with her other son Melicertes to escape the pursuit of her frenzied husband. The relief in plinth 1 in the Calumny of Apelles by Sandro Botticelli can be convincingly identified as The madness of Athamas. The subject stresses Athamas’s mad rage which is meant to embody the very opposite of rationality, the most typical feature of human being. When there is neither reason nor sanity, when ignorance and madness prevail, the only thing that exists is irrational and suvage fury, which is repeatedly associated with the animal kingdom and the savage and barbaric world.

 

keywords | Calumny of Apelles; Botticelli; Mythology; Dante; I Plinth.

Bibliografia

Per citare questo articolo / To cite this article: S. Agnoletto, La "matta bestialitade" di Atamante. Una proposta di interpretazione del plinto I del fondale della Calunnia di Apelle di Botticelli, “La Rivista di Engramma” n. 120, ottobre 2014, pp. 78-93 | PDF di questo articolo 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2014.120.0001