"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

86 | dicembre 2010

9788898260317

I 'fotogrammi' di Arezzo: Pasolini e Piero della Francesca

Maria Rizzarelli

English abstract

Piero della Francesca, Le storie della Vera Croce, 1452-1466, Arezzo, San Francesco

Se i versi delle Ceneri di Gramsci rappresentano per Pasolini l’inizio, il momento di ri-nascita dopo la conclusione della vicenda biografica e poetica friulana, e sono segnati dall’alternarsi ritmico dell’euforia nata dal ripartire da zero e dalla disperazione per ciò che si è ormai perduto, quelli della Religione del mio tempo mostrano, invece, la coscienza dell’essere giunti ad un passaggio apocalittico, senza più ritorno, senza più il miraggio della circolare salvezza che animava l’altra raccolta.

È passato il tempo delle speranze!
[…] No, la storia
che sarà non è come quella che è stata
(P.P. Pasolini, La reazione stilistica, 1961, pp. 1042-1043).

Nel ritornare in sé, dopo l’alienazione nel mondo che aveva scoperto dinanzi ai suoi occhi, l’io pasoliniano è costretto a fare l’inventario degli oggetti sopravvissuti all’incendio della passione, si scopre a chiedere ciò che continuerà a domandare a se stesso negli anni successivi: "Dio mio, ma allora cos’ha/ lei all’attivo?…" (P.P. Pasolini, Una disperata vitalità, 1964, p. 1202). Insieme al profumo della religione friulana, morta e rinata in brevi e fugaci 'folgorazioni olfattive', tra le ceneri del passato ormai concluso troviamo una serie di citazioni pittoriche, cinematografiche e letterarie, frequenti ed esibite non soltanto come referenti per la costruzione della nuova immagine dell’io, ma anche come talismani evocati per sopravvivere nella "Nuova storia" e per orientarsi nella nuova geografia del Magma. La ricchezza, titolo del lungo poemetto che apre la raccolta del ’61, allude proprio ad una precisa eredità figurativa in cui la pittura di Piero della Francesca, attraverso la lezione longhiana, gioca un ruolo fondamentale:

L'essere povero era solo un accidente
mio (o un sogno, forse, un'inconscia
rinuncia di chi protesta in nome di Dio...)
Mi appartenevano, invece, biblioteche,
gallerie, strumenti d'ogni studio: c'era
dentro la mia anima nata alle passioni,
già, intero, San Francesco, in lucenti
riproduzioni, e l'affresco di San Sepolcro,
e quello di Monterchi: tutto Piero,
quasi simbolo dell'ideale possesso,
se oggetto dell'amore di maestri,
Longhi o Contini, privilegio
d'uno scolaro ingenuo, e, quindi,
squisito... Tutto, è vero,
questo capitale era già quasi speso,
questo stato esaurito: ma io ero
come il ricco che, se ha perso la casa
o i campi, ne è, dentro, abituato:
e continua a esserne padrone...
(P.P. Pasolini, La ricchezza, 1961, pp. 910)

Il poemetto si presenta come un lungo inventario iconico, "una terra/ che è solo visione" (P.P. Pasolini, La ricchezza, cit., p. 900), delimitata da due blocchi ecfrastici (la descrizione degli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo e le immagini di Roma città aperta > sul ciclo aretino vedi in engramma i contributi nel numero 52 di Centanni, Pedersoli e la recensione al libro di Silvia Ronchey su Piero), fra i quali la visionarietà poetica si distende alimentata da due modelli figurativi tanto distanti, ma che all’interno dell’immaginario pasoliniano scoprono una inattesa contiguità.

Pier Paolo Pasolini e Ninetto Davoli in San Francesco ad Arezzo

Lo sguardo di secondo grado, attraverso cui è filtrata la descriptio del ciclo aretino, ha una carica distanziante come quello già sperimentato nel poemetto dedicato a Picasso, ma la distanziazione qui risulta moltiplicata e funzionale non tanto al discorso critico, quanto piuttosto a quello poetico.

Si gira, sotto la base scalcinata,
col suo minuto cranio, le sue rase
mascelle di operaio. E sulle volte
ardenti sopra la penombra in cui stanato
si muove, lancia sospetti sguardi
di animale: poi su noi, umiliato
per il suo ardire, punta un attimo i caldi
occhi: poi di nuovo in alto... Il sole
lungo le volte così puro riarde
dal non visto orizzonte...
Fiati di fiamma dalla vetrata a ponente
tingono la parete, che quegli occhi
scrutano intimoriti, in mezzo a gente
che ne è padrona, e non piega i ginocchi,
dentro la chiesa, non china il capo: eppure
è così pio il suo ammirare, ai fiotti
del lume diurno, le figure
che un altro lume soffia nello spazio
(P.P. Pasolini, La ricchezza, cit., p. 897).

I "caldi occhi" attraverso cui è mediata la visione distinguono il soggetto vedente sia dall’io autoriale, reale motore organizzativo della visione sul quale per un attimo cade lo sguardo, sia da un altro soggetto al cui confronto, giocato tutto su una contrapposizione gestuale che polarizza la dicotomia fra pietas e infrazione sacrilega, esso viene legittimato.

Anche qui, come in Picasso, lo sguardo a cui è delegata l’esplorazione visiva del dipinto pare essere in qualche modo omogeneo alla raffigurazione: nelle Ceneri uno spettatore borghese guardava "salire su/ nelle atroci lastre la figura/ di se stesso, la sua colpa, la sua/ storia" (P.P. Pasolini, Picasso, 1957, p. 791); qui un operaio osserva con sguardo umile e "ingenuo" quelle raffigurazioni nate dalla "fioritura di epoca popolaresca, […] cresciute nei tempi di mezzo intorno alle più antiche narrazioni sacre" (R. Longhi, Piero della Francesca [1923], 1963, pp. 388-389). Egli recupera, attraverso la sua vista pura e incontaminata, che per la prima volta posa gli occhi su "quel 'sacro muro'" (R. Longhi, Piero della Francesca [1923], 1963, p. 391), la verginità di uno sguardo velato soltanto da un lume "che si spande/ da un sole racchiuso dove fu divino l’Uomo" (P.P. Pasolini, La ricchezza, cit., p. 898), il candore di uno sguardo capace di cogliere la divinità perché espressione di essa.

L’atteggiamento corporeo dei due soggetti che si muovono dentro la chiesa, l’uno coi suoi occhi "di animale", "ingenui", "intimoriti", "pii", "umili", l’altro ostentando l’irreligiosa sicurezza del possesso attraverso il busto eretto e il capo sollevato, focalizza dall’inizio l’opposizione inconciliabile delle due forme di 'religiosità' che si contrappongono all’interno del tessuto testuale di questa raccolta.

Ma nel "pio" ammirare dell’operaio s’intravede anche l’influenza dell’ermeneutica longhiana che agisce in profondità, oltre il livello lessicale e stilistico, e ancora oltre la strutturazione della descriptio.

Non rientro una volta in San Francesco senza che si rinnovi in me quella distensione della prima vista al cospetto di quel "sacro muro" colorato di verdi e di rosa, di bruni e di bianchi […]. E se Masaccio ci diede il senso della forma primeva, quasi adamitica, Piero il colore del mondo per la prima volta tinto all’arrivo del primo raggio di mero sole, quaggiù (R. Longhi, Piero della Francesca [1923], cit., p. 391).

Lo sguardo che per la prima volta si accosta a quelle sacre pareti riproduce, in realtà, l’azione 'creativa' di una luce che per la prima volta si posa su cose e persone, dando loro la giusta forma e l’esatta sfumatura cromatica.

Distribuisce esso [il primo raggio di mero sole] agli uomini il tono del sesso e della razza, al paese e agli animali i vocaboli dei loro mantelli, ai metalli il forbito, agli eserciti i quarti delle insegne e degli scudi; agli edificî e ai vestimenti le apparenze di abitato involucro, ch’essi sono, del gesto e della vita (R. Longhi, Piero della Francesca [1923], cit., p. 391).

Piero della Francesca, Battaglia di Eraclio e Cosroe, da Le storie della Vera Croce, 1452-1466, Arezzo, San Francesco

Il fiat lux da cui ha principio quella perfetta "sintesi prospettica di forma-colore" (R. Longhi, Piero della Francesca [1923], cit., p. 402), che nella nota formulazione longhiana rappresenta la conquista più originale del "lume universale" di Piero della Francesca, sembra riprodursi nella focalizzazione sdoppiata dell’"umiliato sguardo" che fissa i particolari dell’affresco, dando loro al tempo stesso consistenza verbale e visiva:

Quelle braccia d'indemoniati, quelle scure
schiene, quel caos di verdi soldati
e cavalli violetti, e quella pura
luce che tutto vela
di toni di pulviscolo: ed è bufera,
è strage. Distingue l'umiliato sguardo
briglia da sciarpa, frangia da criniera;
il braccio azzurrino che sgozzando
si alza, da quello che marrone ripara
ripiegato, il cavallo che rincula testardo
dal cavallo che, supino, spara
calci nella torma dei dissanguati
(P.P. Pasolini, La ricchezza, cit., pp. 897-898).

Benché la descrizione dell’affresco esibisca indubbiamente l’influsso della critica di Longhi, che emerge con più evidenza soprattutto in questa raffigurazione della Disfatta di Cosroe rispetto all’Annunciazione e al Sogno di Costantino, segnati da una maggiore autonomia descrittiva, la presenza del maestro è ben più sottile, e si scopre proprio nel senso della luce, "che tutto vela/ di toni di pulviscolo", e si presenta come la vera protagonista della visione degli affreschi di Piero, come della waste land che si distende nei versi dell’intera raccolta pasoliniana.

La luce, che fa il suo ingresso nello spettacolare dispiegamento figurativo del ciclo aretino, si fa carico, attraverso un’iterazione monotona e ossessiva delle sue variazioni, di una scoperta valenza metaforica, che allude al patrimonio degli ideali post-bellici, di cui sembrano conservarsi nel presente soltanto riverberi crepuscolari, stanche tracce di un passato carico di promesse luminose:

Così giunsi ai giorni della Resistenza
senza saperne nulla se non lo stile:
fu stile tutta luce, memorabile coscienza
di sole. […]
Fuggimmo con le masserizie su un carro
da Casarsa a un villaggio perduto
tra rogge e viti: ed era pura luce.
Mio fratello partì, in un mattino muto
di marzo, su un treno, clandestino,
la pistola in un libro: ed era pura luce.
Visse a lungo sui monti, che albeggiavano
quasi paradisiaci nel tetro azzurrino
del piano friulano: ed era pura luce.
Nella soffitta del casolare mia madre
guardava sempre perdutamente quei monti,
già conscia del destino: ed era pura luce.
Coi pochi contadini intorno
vivevo una gloriosa vita di perseguitato
dagli atroci editti: ed era pura luce.
Venne il giorno della morte
e della libertà, il mondo martoriato
si riconobbe nuovo nella luce...
(P.P. Pasolini, La ricchezza, cit., p. 944).

L’epiforica ripetizione della parola-chiave, in quest’ultimo capitolo del poemetto, dedicato alla Resistenza e alla sua luce, pare offrire, attraverso l’intonazione antifrastica, il tragico ed inspiegabile destino di una luce da cui è nato un presente buio e tetro (che sembra capovolgere l’epigrammatica affermazione espressa nell’Umile Italia "la luce è frutto di un buio seme"). Ma, in realtà, tale allegoria ideologica non esaurisce la pienezza e la complessità semantica del segno luministico che pare sconfinare da un lato verso un discorso metalinguistico, suggerendo l’apertura ad un codice 'altro' rispetto alla lingua poetica, dall’altro indicando un velato accenno a una possibile valenza metafisica dell’ipostasi solare.

Anna Magnani in Roma città aperta, regia di Roberto Rossellini (ITA 1945)

Il discorso memoriale sul passato mitico della Resistenza è introdotto dalla visione di Roma città aperta, che riporta indietro "nelle stanze/ misteriose dove l’uomo fisicamente è altro", che ricrea il tempo perduto con la "forza/ brutale delle immagini assolate", attraverso "quella luce di tragedia vitale" (P.P. Pasolini, La ricchezza, cit., p. 937) che informa ogni fotogramma fissato dalla scrittura. La prossimità fra le immagini che scorrono sullo schermo e quelle del flusso della memoria, in un sovrapporsi onirico dei diversi livelli semantici, colpisce al cuore lo spettatore in un coinvolgimento globale, che esplode in un pianto metaforico fluente da ogni parte del corpo, attraverso un iter che va "dagli occhi ai polpastrelli delle dita", e che sembra suggerire furtivamente il percorso genetico da cui quelle immagini poetiche sono nate.

Ecco l'epico paesaggio neorealista,
coi fili del telegrafo, i selciati, i pini,
i muretti scrostati, la mistica
folla perduta nel daffare quotidiano,
le tetre forme della dominazione nazista...
Quasi emblema, ormai, l'urlo della Magnani,
sotto le ciocche disordinatamente assolute,
risuona nelle disperate panoramiche,
e nelle sue occhiate vive e mute
si addensa il senso della tragedia.
È lì che si dissolve e si mutila
il presente, e assorda il canto degli aedi
(P.P. Pasolini, La ricchezza, cit., pp. 937-938).

In questo requiem al cinema di Rossellini, emblema di tutta un epoca, c’è già il primo capitolo del discorso in morte del realismo, che si svolge più ampiamente ed esplicitamente nella terza sezione della raccolta (nel poemetto omonimo e nella Reazione stilistica), ma il commiato funebre al passato nasconde in realtà una vitalità che si coglie soltanto allontanando lo sguardo dalla pagina, e rivolgendolo alla complessiva situazione creativa pasoliniana.

Gli anni in cui si colloca la stesura dei poemetti che compongono la Religione del mio tempo (1955-60) sono gli stessi in cui Pasolini matura un progressivo avvicinamento alla scrittura cinematografica, attraverso la collaborazione a varie sceneggiature, e culmina nell’esordio registico di Accattone, la cui uscita nelle sale cinematografiche coincide con l’anno di pubblicazione della raccolta. I poemetti della Religione portano il segno di questa sperimentazione innanzitutto a livello lessicale: il vocabolario specifico mostra infatti attraverso una serie di lemmi (l’aggettivo "chapliniano", i nomi propri di attori, film e registi "Magnani", "Roma città aperta", "Rossellini", i sostantivi "inquadratura", "panoramica", "proiezione", "cartellone", "cinema", "cinematografaro", "film", "spettacolo", "video") l’irruzione del mondo della celluloide dentro quello della poesia.

Le citazioni degli affreschi di Piero della Francesca e del film di Rossellini possono essere lette all’interno di questo contesto di rinnovamento espressivo che, come di consueto per Pasolini, si attua rivolgendosi al passato, tentando di ripartire dai luoghi biografici e figurativi dove "si mutila/ il presente e assorda il canto degli aedi". Un rinnovamento che si realizza ricominciando da quegli spazi iconici ormai perduti nel tempo ma ritrovati come forme del mito, tanto prossimi al soggetto da divenire, in virtù dell’amore che li lega ad esso, immagini della sua stessa memoria.

Il "cinema di poesia" è preceduto da una 'poesia del cinema' che trae ispirazione da questo amore viscerale per la più antica e per la più nuova delle arti figurative, e che nasconde le impronte di una velata riflessione su due aspetti fondamentali della 'sacralità della tecnica' cinematografica: il movimento e la luce.

Lo sguardo dell’operaio, che ci introduce fra i versi della Religione, osserva gli affreschi muovendosi come l’obbiettivo di una macchina da presa dalla parete sinistra del coro della chiesa a quella frontale; i vari quadri che illustrano la Storia della Vera Croce, raccontata da Jacopo da Varagine nella sua Legenda Aurea, impongono a qualsiasi osservatore un montaggio delle immagini vòlto alla ricostruzione del percorso diegetico. Al di là dell’influenza che Piero della Francesca eserciterà concretamente sull’iconografia filmica pasoliniana, le pareti dipinte della chiesa di San Francesco sembrano già gli abbozzi di una sceneggiatura, le cui 'inquadrature' presentano un’"integrazione figurale" anticipata.

La strutturazione narrativa del cinema pasoliniano sembra rivelare, infatti, qualche analogia con quella degli affreschi aretini, che emerge più chiaramente con l’ausilio del discorso ermeneutico longhiano. Ecco come lo storico dell’arte commenta l’organizzazione compositiva della raffigurazione della Disfatta di Cosroe:

Il pensiero del maestro fu quello di dare qui […] una battaglia in corso, anzi al suo colmo […]. Egli pensava, da sempre, che il movimento non fosse esprimibile in pittura come azione in fieri, ma soltanto come battuta d’arresto che, nel suo stile, lo sorprenderà all’apice, senza più “divenire”. Il figlio di Cosroe, vediamo, cade, riverso, sgozzato in quest’istante; ed è quest’istante che sarà fermato per sempre. […] Piero giunge qui alla chiarezza del molteplice… Provarsi a dire: dall’alto al basso o dal basso in alto; da destra a sinistra o da sinistra a destra. Tutte espressioni che non portano di fronte a questa struttura policroma, a questo coloratissimo intarsio, bloccato dinnanzi al nostro sguardo come un’astrazione appena incarnata. Ed anche il tempo che s’impiega a pronunciare: le nuvole, le imprese, le armi di volata sul fondale azzurro del cielo, […] le teste che stridono brune sulle groppe dei destrieri chiari, gli elmi bianchi, verdi, azzurri; […] è già un tempo troppo lungo per ripetere l’aspetto di quest’attimo di molteplicità, che arriva al suo culmine non esprimibile (R. Longhi, Piero della Francesca [1950], 1963, p. 90).

Il movimento non è esprimibile in pittura, ma è possibile fissare con le immagini il suo culmine attraverso segni non traducibili verbalmente, che mostrino in simultaneità "un attimo di molteplicità".

La riflessione del maestro lascia le sue tracce innanzitutto nella più volte ricordata "origine figurativa" del gusto cinematografico pasoliniano, dalla quale deriva la scelta costante dei movimenti di macchina "su fondi e figure sentiti sostanzialmente come immobili e profondamente chiaroscurati" (P.P. Pasolini, Diario al registratore, 1998, p. 1846), ma in secondo luogo anche nella stanca accumulazione dei particolari che la scrittura poetica pasoliniana mette in mostra nella descriptio dell’affresco senza riuscire a riproporne la simultaneità.

Ciascuno dei quadri che compone il ciclo di Arezzo, inoltre, puro 'fotogramma', sempre nell’accezione longhiana di "descrizione di luce", viene riprodotto dalla mimesi poetica pasoliniana come tale, con un attenzione particolare proprio alle variazioni luministiche, quasi fosse delegato loro il compito di unire insieme i diversi quadri. La Disfatta di Cosroe mostra la luce splendente del mezzogiorno, l’Annunciazione quella crepuscolare del vespro ("una luce […] che si spande/ da un sole racchiuso dove fu divino/ l’Uomo, su quell’umile ora dell’Ave"), Il sogno di Costantino tenta di ridipingere con la parola poetica "il primo 'notturno' della pittura del Quattrocento" (R. Longhi, Piero della Francesca [1950], cit., p. 87).

Nello scorrere dei versi che compongono La ricchezza l’anticlimax della luce declinante si riflette e si allarga, dalle descrizioni degli affreschi a quelle dell’ambiente esterno alla chiesa di San Francesco, nei mutamenti luministici che seguono l’itinerario del soggetto poetico nel suo viaggio di ritorno da Arezzo a Roma. Le vie della memoria s’intrecciano a quelle percorse realmente, lungo il paesaggio umbro illuminato dal sole vespertino, il cui tramonto coincide proprio con l’arrivo nella capitale, con una miracolosa e straniante epifania di una città avvolta dalle fiamme della luce crepuscolare:

Dio, cos'è quella coltre silenziosa
che fiammeggia sopra l'orizzonte...
quel nevaio di muffa - rosa
di sangue - qui, da sotto i monti
fino alle cieche increspature del mare...
quella cavalcata di fiamme sepolte
nella nebbia, che fa sembrare il piano
da Vetralla al Circeo, una palude
africana, che esali in un mortale
arancio... È velame di sbadiglianti, sudice
foschie, attorcigliate in pallide
vene, divampanti righe,
gangli in fiamme: là dove le valli
dell'Appennino sboccano tra dighe
di cielo, sull'Agro vaporoso
e il mare: [..]
Ma tutto ormai è fumo, e stupiresti
se, dentro quel rudere d'incendio,
sentissi richiami di freschi
bambini, tra le stalle, o stupendi
colpi di campana, […].
Ché ormai la sua furia, scolorando, come
dissanguata, dà più ansia al mistero,
dove, sotto quei rósi polveroni
fiammeggianti, quasi un'empirea coltre,
cova Roma gli invisibili rioni
(P.P. Pasolini, La ricchezza, cit., pp. 917-918).

Dopo questo trionfo fiammeggiante del paesaggio urbano, spettacolarizzazione dall’ultimo falò della passione pasoliniana, l’orizzonte scivola nel buio della sera e si immerge poi nell’oscurità del cinema dove si svolge la proiezione di Roma città aperta, inscenando un percorso luminoso che corre parallelo a quello del soggetto poetico, nel suo sprofondare "nei rifiuti del mondo" dove "nasce un nuovo mondo".

La Serata romana alle Terme di Caracalla (che occupa la quarta e la quinta sezione del poema) rappresenta, in realtà, il culmine di quell’itinerario verso le viscere di Roma compiuto dal soggetto poetico nei versi delle Ceneri di Gramsci. Al calare del buio un’umanità fresca e innocente, – nell’accezione pasoliniana –, si dirige verso la zona archeologica; sembra convergere, come in una processione disegnata dalla ripetizione anaforica del primo verso ("va verso le Terme di Caracalla"), al centro di un mondo labirintico e separato, alla ricerca di un varco che soltanto il sesso può offrire, anche se fugacemente. L’io autoriale s’inoltra insieme a quel corteo di poveri dannati verso "luoghi sconfinati dove credi/ che la città finisca, e dove invece / ricomincia […]/ per migliaia di volte, con ponti/ e labirinti, cantieri e sterri,/ dietro mareggiate di grattaceli,/ che coprono interi orizzonti" (P.P. Pasolini, La ricchezza, cit., p. 925-926), e scopre un altro mondo dove l’aristocrazia del sesso mercificato è l’emblema di un’umanità che vive ai margini della città e della storia, e che nell’abiezione e nella degradazione nasconde una disperata volontà di sopravvivenza:

Sesso, consolazione della miseria!
La puttana è una regina, il suo trono
è un rudere, la sua terra un pezzo
di merdoso prato, il suo scettro
una borsetta di vernice rossa:
abbaia nella notte, sporca e feroce
come un'antica madre: difende
il suo possesso e la sua vita.
I magnaccia, attorno, a frotte,
gonfi e sbattuti, coi loro baffi
brindisini o slavi, sono
capi, reggenti: combinano
nel buio, i loro affari di cento lire,
ammiccando in silenzio, scambiandosi
parole d'ordine: il mondo, escluso, tace
intorno a loro, che se ne sono esclusi,
silenziose carogne di rapaci
(P. P. Pasolini, La ricchezza, cit., pp. 925-926).

Queste "impure tracce umane" che popolano la notte pasoliniana ricordano altre Notti; quelle di Cabiria, per esempio, stupenda creatura felliniana, protagonista di un film alla cui sceneggiatura aveva collaborato anche Pasolini, nella fase più importante del suo apprendistato cinematografico.

Federico Fellini sembra, infatti, collocarsi al vertice di un triangolo che rappresenta le trame intertestuali dell’immaginario poetico pasoliniano all’opera nella Religione del mio tempo. La base di questa geometrica costruzione fantasmatica è occupata da Piero della Francesca e Roberto Rossellini, e ciascuno dei due intrattiene con il vertice felliniano – sempre all’interno dell’immaginazione del poeta – un’intensa e feconda relazione.

Piero della Francesca, Madonna del parto, 1455-1465, Monterchi, Museo, già nella cappella di Santa Maria di Momentana (a sinistra).

Se il legame tra Fellini e Rossellini è più scontato, avendo d’altra parte un riscontro reale, quello tra Fellini e Piero della Francesca sembra appartenere unicamente alla fantasia del poeta, che descrive il primo impatto con la figura del regista romagnolo ricorrendo alla iconografia dell’amato pittore di San Sepolcro:

Lui mi ascoltava accovacciato, acciambellato sul sedile rosso, come una chioccia, come una Madonna del Manto, col guancione, l’occhio bistrato, su cui si stampava la balenante attenzione o l’ansia, come una tinta più opaca, rendendolo a tratti così umano, con la sua retina, la sua pupilla nocciola (P.P. Pasolini, Nota su «Le Notti», 1999, pp. 700-701).

Esiste, del resto, un’altra significativa interferenza tra Fellini e Piero della Francesca. Si tratta dell’abbozzo di una sceneggiatura commissionata a Pasolini dallo stesso Fellini e intitolata Viaggio con Anita. Si tratta di un progetto di poco successivo a Le notti di Cabiria, rimasto incompiuto e poi solo più tardi ripreso da Mario Monicelli, che firmerà la regia del film (Viaggio con Anita, 1978). Il dato interessante riguarda la sosta dei due protagonisti – lo scrittore Guido e la sua amante Anita – nei luoghi di Piero della Francesca per la visita de La Madonna del Parto.

Alla debole e vagante luce delle fiammelle compare la maternità di Piero, la madre-bambina, la matrona implume, coi capelli tirati e rossicci, le sopracciglia depilate, il dolcissimo, angoscioso sorriso…
Guido è preso da un piacere febbrile: Anita, dalla parte della custode e del suo ragazzino, si fa il segno della croce. (P.P. Pasolini, Viaggio con Anita, 2001, p. 2188).

Sebbene restino ancora molte incertezze in merito alla stesura di tale progetto, l’episodio di Monterchi rivela una chiara radice pasoliniana. La contemplazione dell’affresco di Piero non può che essere frutto della fantasia poetica di Pasolini; a confermarlo ci pensano i sintagmi usati nel brano per descrivere il dipinto: tornano infatti nella sceneggiatura gli stessi epiteti ("la madre-bambina, la matrona implume") utilizzati da Pasolini nell’ecfrasis dell’Annunciazione del ciclo aretino su cui si apre il poemetto La ricchezza.

Fotogramma da Il Vangelo secondo Matteo regia di Pier Paolo Pasolini (ITA, 1964; Margherita Caruso è Maria da giovane)

E un’altra "madre-bambina" segna il congedo di Pasolini dall’amato pittore, in un ennesimo processo di contaminazione visiva e reinvenzione linguistica. Per sua stessa ammissione, è Piero della Francesca a ispirare un certo numero di elementi stilistici del Vangelo secondo Matteo (1964), per esempio le cuffie e i costumi dei farisei, ma è soprattutto il tema della maternità a costituire il più autentico omaggio del regista al suo modello iconografico.

1 Casa di Maria
Interno. Giorno. Nazareth
F.I. di Maria. Essa è una giovinetta, ma lo sguardo è profondamente adulto: vi brilla, vinto il dolore. […]
È una giovinetta ebrea, bruna, naturalemente, proprio «del popolo», come si dice; come se ne vedono a migliaia, con le loro vesti scolorite, i loro «colori della salute», il loro destino a non essere altro che umiltà vivente. Tuttavia c’è in essa qualcosa di regale: e, per questo, penso alla Madonna incinta di Piero della Francesca a Sansepolcro: la madre-bambina. Il ventre leggermente gonfio, appuntito, per la miracolosa gravidanza, dà a quella giovinetta che tace, col suo dolore, una grazia sacrale (P.P. Pasolini, Il Vangelo secondo Matteo, 1964, p. 487).

Fotogramma da Il Vangelo secondo Matteo regia di Pier Paolo Pasolini (ITA, 1964; Margherita Caruso è Maria da giovane)

L’emozione estetica provata leggendo il Vangelo di Matteo scatena in Pasolini una carica di vitalità, da cui ha origine la proiezione nella sua immaginazione di una doppia serie di mondi figurativi, spesso connessi fra loro: quello fisiologico, brutale del tempo biblico, vissuto in prima persona durante i viaggi in India o in Africa, e quello ricostruito dalla cultura figurativa del Rinascimento italiano. Ancora una volta è il nome di Piero a tornare:

Pensate alla prima inquadratura, alla «F. I. di Maria, vicina a essere madre»: si può sfuggire alla suggestione della Madonna di Piero della Francesca a Sansepolcro? Quella bambina, di pelo biondo, o forse appena rossiccio, quasi senza ciglia, le palpebre gonfie, il ventre appuntito il cui profilo ha la stessa castità del profilo di un colle appenninico? (P.P. Pasolini, Una carica di vitalità, 1963, p. 673).

L’insistenza con cui Pasolini torna a ricalcare i segni fiammeggianti della pittura di Piero, a riviverli attraverso lo stile poetico o l’analogia delle immagini cinematografiche, rappresenta un mirabile esempio di 'resistenza' culturale, per cui il passato diviene forma mitica del presente, memoria attiva di un "lume universale".

Riferimenti bibliografici

English abstract

La ricchezza, the long poem that opens La religione del mio tempo (1961) of Pasolini, is introduced by the ekphrasis of some pictures of the “Ciclo di Arezzo” of Piero della Francesca. The title of this poem refers to the magnificent figurative heritage that the authors brings to mind just when he is searching a new aesthetic language. The genesis of "cinema di poesia" is accompanied by a kind of poetry of cinema that shows, behind the figurative references and the lesson of Roberto Longhi, an intense and fascinating reflection on the basic elements (light, shot, cutting) of Pasolini’s film writing.

keywords | Pasolini; La religione del mio tempo; ekphrasis; Piero della Francesca.

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Rizzarelli, I ‘fotogrammi’ di Arezzo:Pasolini e Piero della Francesca, “La Rivista di Engramma” n. 86, dicembre 2010, pp. 96-113 | PDF of the article 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2010.86.0015