"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

94 | novembre 2011

9788898260393

Migranti tra cinema e teatro. Intervista a Mimmo Cuticchio

a cura di Anna Banfi

English abstract

 Linosa, Mimmo Cuticchio ne L'Approdo di Ulisse (foto di Giulio Azzarello)

Dopo aver interpretato Ernesto nel film Terraferma di Emanuele Crialese, Mimmo Cuticchio è tornato quest’estate a raccontare il dramma dei migranti che ogni giorno dall’Africa arrivano sulle coste della Sicilia, per fuggire a guerre e carestie. Per il suo cunto L’approdo di Ulisse, ha scelto proprio un’isola del Mediterraneo, Linosa, lo stesso set del film di Crialese, punto nevralgico nella rotta che dal nord Africa conduce i migranti in Italia e spesso tragico scenario di naufragi. Dal mito di Ulisse alla tragedia contemporanea di Timnit, la donna etiope sopravvissuta al terribile naufragio del 2009 sulle coste di Lampedusa, Cuticchio ha dunque dedicato proprio alla figura del migrante alcuni dei suoi ultimi lavori. Lo abbiamo incontrato e gli abbiamo chiesto di raccontarci il suo percorso tra cinema e teatro e di spiegarci quale ruolo secondo lui può e deve avere un artista nella società contemporanea.

Come è iniziata la tua collaborazione con Emanule Crialese?

Avevo appena visto i primi due film di Crialese, Respiro e Nuovo Mondo, quando Chiara Agnello, addetta ai casting, mi telefonò per informarmi che Crialese desiderava farmi un provino in vista del suo nuovo film. Le dissi che pur apprezzando molto il lavoro di Crialese, non ero interessato ai provini ma aggiunsi che sarei stato comunque felice di incontrarlo e di mostrargli i luoghi dove vivevo e lavoravo. Mi richiamarono per dirmi che Crialese sarebbe venuto a trovarmi nel mio teatro in via Bara all'Olivella, a Palermo.

Così una mattina ci incontrammo: Crialese era in compagnia di Emiliano Torres, suo aiuto regia. Feci visitare loro il mio teatro, il retro dove sono appesi i miei pupi, le scene, gli oggetti della scenotecnica e le macchine sceniche. Insieme ascoltammo il suono del piano a cilindro e io raccontai della mia nascita all’interno di un teatro di pupi a Gela nel 1948 e della mia vita con loro. Arrivati in laboratorio, mostrai loro come nascono i pupi e infine li portai nella sala espositiva dove di solito portiamo le scolaresche prima di uno spettacolo, nel tentativo di insegnare ai ragazzi che la tradizione non è una cosa ferma e inamovibile. Nel laboratorio ci sono più di quattrocento pupi che sono nati negli ultimi 40 anni: da Cagliostro alla Passione di Cristo, dai briganti come Peppe Musolino o Pasquale Bruno al Principe Carlo Gesualdo di Venosa, dal Moby Dick al Macbeth e da Don Giovanni ad Aladino della lampada magica. Dopo avermi ascoltato con interesse, Crialese mi parlò del suo film. La sua storia mi sembrò altrettanto interessante, perché collegava i problemi che nascono dal cambiamento di un’epoca e dagli scontri generazionali alla questione attuale dei naufraghi e dei migranti, uomini e donne che noi ci ostiniamo a chiamare clandestini.

Qualche giorno dopo, mi invitò per un caffè nella sede della ex Camera di Commercio di via Montevergini a Palermo e mentre parlavamo di un incontro tra il personaggio Ernesto e la nuora Giulietta, mi chiese il permesso di filmare. Dopo meno di una settimana, mentre stavo preparando il materiale per una tournée in California, ricevetti una sua telefonata in cui mi diceva: “Sono giorni che mi torna la tua faccia davanti agli occhi. Ho deciso che sarai Ernesto nel mio film”. Mi fece avere la sceneggiatura in anteprima: la lessi mentre ero in volo per San Francisco e me ne innamorai subito.

Quanto tempo siete rimasti a Linosa per le riprese? Questi mesi trascorsi a Linosa sono serviti anche per comprendere come gli abitanti di quell’isola vivono il problema dell’accoglienza?

Io, Filippo Pucillo e Donatella Finocchiaro siamo arrivati a Linosa il 2 maggio del 2010, tre settimane prima dell’inizio delle riprese. Crialese ci disse che in queste settimane dovevamo stare insieme per conoscerci, diventare una vera famiglia, e provare a integrarci nella vita della comunità locale. Ognuno di noi doveva entrare nel proprio ruolo. Donatella, ad esempio, cominciò a frequentare il ristorante-pizzeria per imparare a fare le pizze e preparare i panini; io e Filippo andavamo tutti i giorni a trovare Enzo Saltalamacchia, un giovane pescatore che ci insegnava i nomi dei pesci che abitano quel mare e ci spiegava come distinguere cime e corde, come chiamare ogni singolo pezzo della barca da pesca, come avvolgere le cime sugli anelli o le bitte e come stendere o risarcire le reti sulla banchina. Poi da Lampedusa arrivò Enzo Miotti, proprietario del peschereccio 'Santuzza'. A proposito, piccola curiosità: nella sceneggiatura la barca aveva un nome diverso, ma si decise alla fine di lasciare quello originale, perché come è ben noto ai  pescatori il nome dato alle barche non si cambia!

Una scena del film Terraferma di Emanuele Crialese

Miotti ci insegnò tutti i segreti della sua barca da pesca, dall’accensione del motore all’allacciamento della luce interna e di quella notturna in caso di pericolo; ci fece guidare il peschereccio e ci insegnò ad attraversare le onde, quando sono molto alte a causa del maestrale, di una tempesta o di una tromba d’aria. Frequentando la gente del luogo, imparammo i termini dialettali utilizzati dai pescatori di Linosa. Riuscimmo a intergrarci tanto bene che sull’isola mi chiamavano Ernesto. Solo dopo tanto tempo alcuni seppero il mio vero nome.

Ci sono stati sbarchi durante il periodo della vostra permanenza sull’isola?

Durante il periodo di preparazione i costumisti e gli attrezzisti cominciarono a sistemare i locali del piccolo campo sportivo dove i ragazzi dell’isola vanno di solito a giocare a pallone. Appena fuori dal campo, vennero sistemate tre roulotte per il trucco e parrucco, proprio nello spazio che veniva abitualmente adibito a luogo di prima accoglienza per eventuali naufraghi. Durante la lavorazione del film, abbiamo assistito a diversi sbarchi di uomini, donne e bambini: incontrati lungo i sentieri o intravisti tra i rocciosi scogli dell’isola. Tutti i naufraghi venivano portati nella palestra dell’unica scuola che accorpa elementari e medie nello stesso edificio.

C’è una cosa che mi è rimasta particolarmente impressa di quel periodo: una mattina, proprio nei giorni in cui stavamo girando la scena in cui io, mio nipote Filippo e Giovanni Cintura, l’attore che interpreta il pescatore, salviamo dei naufraghi, vennero a trovarci al campo i carabinieri che presidiano l’isola. Volevano controllare i documenti di tutti i figuranti di colore che lavoravano al film per verificare se tra loro ci fossero degli infiltrati: la notte precedente erano infatti sbarcati degli immigrati poi scovati tra le vie dell’isola mentre domandavano la strada per la stazione dei treni.

Tu sei un grande narratore: come raccontano i linosiani il loro rapporto con gli immigrati?

Durante il tempo libero andavo dove si siedono di solito gli anziani di Linosa, proprio di fronte alla piazza del Comune, oppure mi recavo nella zona della curva a gomito che dalla strada del centro arriva al porto di Pozzolana di Ponente, dove invece si riuniscono le donne.

I vecchi raccontano per lo più di come vivevano sull’isola quando erano bambini tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta. Rammentano episodi di vita vissuta, spesso divertenti, ma spesso prima di lasciarsi andare, vogliono però capire chi sei e perché sei arrivato sulla loro isola. Di solito, quei pochi turisti che vanno a Linosa scelgono quel posto per il mare, l’aria buona e soprattutto per la tranquillità. Non hanno alcun reale interesse a conoscere gli abitanti e così anche gli anziani tendenzialmente amano ritirarsi nei loro luoghi appartati e protetti.

Le donne sono come le berte che vivono sull’isola, uccelli misteriosi che, dopo gli impegni del giorno, al calar del sole si riuniscono e intonano un canto che si tramandano da millenni. La tradizione vuole che il canto delle berte sia lo stesso canto delle sirene incontrate da Ulisse durante il suo travagliato viaggio di ritorno verso Itaca: le donne di Linosa sostituiscono il canto con il 'cunto'. Le donne di qui, se ti accettano, ti raccontano storie bellissime, in generale allegre e giocose, altre volte invece drammatiche, capaci di rivelare la bellezza e la solitudine dell’isola e in grado di mostrarti che spesso essere isolani significa essere isolati e, senza alcuna retorica, confinati.

Quest’estate hai presentato il tuo nuovo spettacolo L’approdo di Ulisse proprio a Linosa e a Lampedusa. Ulisse come metafora dei migranti di oggi. Credi sia importante che cinema e teatro contemporaneo affrontino il tema dell’immigrazione? Teatro e cinema devono avere un ruolo politico, nel senso più proprio del termine, cioè di riflessione della polis sulla polis?

A ogni nuova edizione de La macchina dei sogni presento uno spettacolo nuovo o un evento particolare, legato alla drammaturgia dei luoghi. I ragazzi di Linosa non sapevano distinguere un pupo da una marionetta o da un burattino e la maggior parte degli abitanti non aveva mai visto uno spettacolo di pupi, non sapeva cosa fosse il cunto e non conosceva le storie che in genere si raccontano. Così mi è venuta voglia di cuntare il travagliato ritorno di Ulisse in patria e in particolare la sua discesa nell’Ade, l’incontro con la madre morta e con i compagni caduti in battaglia sotto le mura di Troia. Ho deciso però di fargli incontrare anche alcuni giovani, morti per i mancati soccorsi durante i naufragi nel mar Mediterraneo mentre erano in viaggio alla ricerca della libertà.

Il desiderio di raccontare le storie di questi sfortunati migranti mi è venuto dopo aver girato il film Terraferma. Il film affronta in forma poetica il delicato cambiamento epocale di tre generazioni, la difesa di un mestiere antico come quello del pescatore, il dramma delle donne di queste piccole isole, per le quali rimanere vedove molto giovani significa annullare il proprio futuro e, infine, il rapporto con l’altro, il diverso per colore della pelle e per cultura. Ci vogliono convincere che i migranti vengono per toglierci il lavoro, mentre in realtà cercano soltanto di conquistarsi un futuro migliore, mostrandosi disponibii anche a fare lavori pesanti e umili, a cui noi non siamo più abituati. Dovremmo considerare la loro presenza in maniera positiva dal momento che la nostra nazione diventa anno dopo anno un paese di anziani, e invece guardiamo a queste persone come a un ostacolo che mina la sicurezza e il futuro dei nostri figli.

Il cinema, il teatro, la musica, la radio, la televisione ma anche l’arte figurativa in generale, dalla fotografia alle opere grafiche e pittoriche, fanno bene ad affrontare questi temi perché, solo mettendo in evidenza quello che succede nel mondo, si può sensibilizzare sempre di più l’opinione pubblica che a sua volta deve sollecitare chi governa a prendere seri e urgenti provvedimenti. 

Linosa, Mimmo Cuticchio ne L'Approdo di Ulisse (foto di Giulio Azzarello)

Ne L’approdo di Ulisse hai per la prima volta sperimentato il cunto in prima persona. Perchè questa scelta e perchè in questo spettacolo?

Di solito, quando cunto le mie storie, interpreto i personaggi in terza persona, utilizzando una sorta di straniamento che la gente di teatro chiama 'metodo brechtiano'. Ne L’approdo di Ulisse ho voluto sperimentare il racconto in prima persona, perché non volevo essere il cuntista che racconta cosa è successo ad Ulisse ma l’eroe acheo che riferisce agli astanti cosa gli è successo. Ho voluto sperimentare l’immedesimazione e coinvolgermi emotivamente. E poi, avendo tenuto proprio a Linosa un laboratorio con dodici giovani attori sulle tecniche del cunto, volevo sperimentare qualcosa di nuovo anche io, facendo un racconto diverso da quello che sono abituato a fare. 

Nel tuo cunto su Ulisse hai inserito Timnit, la donna etiope protagonista anche del film di Crialese: che cosa ti ha trasmesso la storia di Timnit? Quanto è importante partire da una storia personale per raccontare le storie di tanti migranti?

Stanislavskij diceva che quando interpreti un personaggio, lo devi cercare prima in famiglia, poi tra gli amici, tra i conoscenti, fino a reinventarlo se a nessuno è successo quello che cerchi tu. Durante i quattro mesi passati a Linosa per le riprese del film, ho avuto modo una sera di ascoltare la drammatica storia di Timnit, il calvario che ha dovuto affrontare per arrivare 'viva' dall’Africa in Sicilia.

Una scena del film Terraferma di Emanuele Crialese

Ascoltare una testimonianza direttamente dalla voce di chi l’ha vissuta è l’esperienza più bella ma anche più crudele che possa accadere a un narratore. Avevo inciso questa storia nel cuore e, quindi, quando è giunto il momento, è venuta fuori spontaneamente. Un narratore deve guardare e vedere, ascoltare e sentire. La sua biblioteca è tra il cervello e il cuore e, quando è il momento di raccontare una storia, torna quello che diceva Stanislavskij: prima di cercare altrove cerca dentro di te e poi, se lo desideri, puoi usare anche il metodo brechtiano. Tanto, alla fine, i conti tornano.

English abstract

Migrants between cinema and theatre, this is the theme of the Interview with Mimmo Cuticchio by Anna Banfi. Between cinema and theatre, Mimmo Cuticchio has investigated all along this year the tragic theme of the immigration: a saecular problem in the history of humanity. An actor in the movie Terraferma by Emanuele Crialese (shot in Linosa) and author and theatrical actor of the play L’approdo di Ulisse (performed in Linosa and Lampedusa), Mimmo Cuticchio draws the attention to one of the trickiest problems which Europe is now reckoning with. We have asked Cuticchio to tell us his experience in Linosa and to think about the political role that cinema, theatre and also visual arts should have today in the attempt of shaping a new mentality, open to the others as a sign of democracy, freedom and liberality.

 

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