"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

89 | aprile 2011

9788898260348

L’occhio della storia. Didi-Huberman tra un’'etica' e una 'politica' delle immagini

presentazione di "aut aut" n. 348

Raoul Kirchmayr

English abstract

Da alcuni anni in Italia i libri di Georges Didi-Huberman ricevono un’attenzione crescente, soprattutto dopo la traduzione di due saggi come Immagini malgrado tutto e L’immagine insepolta che si sono inseriti in dibattiti già molto vivaci e che, partendo da problemi di estetica, la oltrepassano ampiamente: il primo perché prende posizione sulla questione delle fonti storiche, sul valore della testimonianza e sulla archiviazione dell’evento (nel caso specifico la Shoah), non senza accese polemiche in Francia; il secondo perché ha fornito ulteriori importanti tasselli per una rilettura critica dei percorsi di ricerca di Aby Warburg, anche in contrapposizione alla cosiddetta 'scuola warburghiana'. In virtù della sua capacità di focalizzare e di lavorare con accuratezza le diverse problematiche dell’immagine, e di un metodo che si nutre costantemente di apporti provenienti da discipline diverse, la presenza di Didi-Huberman si è di conseguenza imposta anche a una cerchia di lettori più ampia rispetto a quella degli specialisti (storici dell’arte, iconologi e studiosi di estetica). Il fatto poi che da un lato le sue ricerche sulla storia dell’arte italiana e dall’altro lato alcuni tra i suoi saggi rivisitassero i motivi di una Kulturkritik per la quale, storicamente, in Italia si è rivolta più attenzione che in Francia, ciò ha senza dubbio contribuito a stringere ulteriormente il legame tra lui e il nostro paese. Queste sono alcune delle ragioni per le quali “aut aut” ha ritenuto fosse giunto il momento di aprire uno spazio di dialogo con Didi-Huberman per provare a costruire e mettere alla prova delle ipotesi di lavoro che si richiamassero ai suoi temi. Ne è nata una sorta di laboratorio dove ciascun intervento – tra i quali due suoi saggi inediti – si confrontano con i suoi scritti e con i suoi modi di affrontare le questioni dell’immagine, così decisive per la nostra cultura, contribuendo a riprenderle e rilanciarle.

In questo modo Laura Odello e chi scrive, come curatori, hanno introdotto il fascicolo di “aut aut”, consacrato al lavoro di ricerca estetica dell’autore francese, dividendolo in due sezioni, intitolate rispettivamente Per un’etica delle immagini e Ripensare Warburg. La pista che man mano si è definita lungo il lavoro di preparazione del numero, e grazie all’apporto di chi vi ha contribuito, sembra infatti condurre verso l’ambito di un’'etica' che, ben lungi dall’avere una qualche pretesa normativa, ci indica piuttosto il modo di intendere il nostro rapporto complessivo con le immagini, nel senso che essa chiama in causa l’intera dimensione del visibile in cui siamo immersi. In relazione a un’'etica' del genere può, e deve, essere pertanto formulata la questione della portata culturale dell’immagine nella nostra epoca.

È a questo proposito che gli scritti di Didi-Huberman articolano un discorso critico sulle immagini con lo scopo di mutare il nostro atteggiamento di fronte a esse, al di là della pur necessaria costruzione di una conoscenza discorsiva sull’immagine. Difatti, se le immagini veicolano una conoscenza, quest’ultima mostra una sua specifica consistenza critica quando è la risultante di un mutamento dello sguardo e del gesto. Si tratta di un 'vedere altrimenti' che si ripercuote tanto sul fare quanto sul sapere. Sul fare, perché, dal lato dell’autore ne va sempre di una gestualità manuale presente nell’elaborazione delle immagini. Non c’è immagine, dunque, che non sia il frutto di un sapere tecnico. Sul sapere, perché dal lato dell’osservatore, o del fruitore, il mutamento dello sguardo comporta un più di conoscenza che a sua volta si riverbera tanto sull’immagine quanto sullo stesso osservatore. In particolare, è la nozione di storicità quella che si vede chiamata in causa: non si tratta solo della storicità delle immagini a dover essere presa in conto da questo 'vedere altrimenti', ma è anche la stessa condizione storica di chi guarda che viene messa in gioco.

Così, se il territorio dell’'etica' delle immagini si articola con il problema della loro storicità, la giuntura che pare legarli sarà riconoscibile nella questione del presente, ovvero dell’attualità delle immagini, tanto nel senso del loro effetto sulla comprensione del nostro presente, quanto su quello della comprensione del presente storico, ovverosia di quel presente-che-è-stato e che dunque, per il nostro sguardo, è già storicizzato come 'archivio', 'documento', 'fonte'. È qui che si innesta il tema, così importante, della complessa temporalità richiesta dalla nozione (tanto warburghiana quanto benjaminiana) di sopravvivenza, da intendersi non nel senso di una permanenza-nonostante, ma di un ricomparire carsico alla superficie del presente. È infatti tale ri-presentarsi delle immagini alla luce del presente l’incognita stessa del loro senso storico e della domanda che, sempre di nuovo, esse pongono alla nostra condizione attuale.

Ora, se l’interrogazione dello statuto dell’immagine in Didi-Huberman avviene lungo la linea di sutura tra l’'etica' e l’epistemologia, la domanda che ci si può porre – domanda ancorata al problema stesso del presente – è se tale lavoro apre al tempo stesso a una dimensione politica, cioè a una politica delle immagini che parrebbe contenuta in nuce nella stessa imbricazione tra sapere e fare. Certo, a uno sguardo retrospettivo indirizzato verso il percorso svolto da Didi-Huberman negli ultimi dieci anni, è possibile cogliere questa preoccupazione politica, per esempio in testi come Immagini malgrado tutto, dove il problema della memoria, della trasmissione e della testimonianza mediante immagini aveva assunto d’emblée un rilievo politico, quanto meno nel senso dell’interpellazione che l’esempio – forse più che esemplare – delle immagini dei campi di sterminio nazisti rivolge allo sguardo di noi contemporanei e, pertanto, alla nostra responsabilità storica e culturale.

Tuttavia è certamente negli ultimi anni che Didi-Huberman con i suoi lavori ha scelto di giocare, sempre più frequentemente, il significante 'politica' nel suo discorso sulle immagini: i due volumi che portano come sottotitolo programmatico L’œil de l’histoire, L’occhio della storia (mi riferisco a Quand les images prennent position. L’œil de l’histoire 1, e a Remontage du temps subi. L’œil de l’histoire 2) e, naturalmente, il già apparso in traduzione italiana Survivance des lucioles (Come le lucciole. Una politica della sopravvivenza), mostrano le nervature di un enjeu politico che non si risolve né in una formulazione di una teoria politica delle immagini, né nell’analisi del significato politico di esse, né, ancora, in una nuova forma di militanza. Non si tratta infatti di un manifesto per una nuova politica delle immagini (per quanto, a dire il vero, non siamo mai troppo lontani da una certa responsabilità politica dell’autore). Piuttosto, ciò che il significante 'politica' sembra indicare è una declinazione di quell’atteggiamento 'etico' con cui abbiamo definito il modo del 'vedere altrimenti' le immagini. Come intendere, dunque, questa dimensione 'politica' che Didi-Huberman mette all’opera nei suoi ultimi lavori?

Anzi tutto, ciò che per Didi-Huberman è 'politico' coincide per l’appunto con un gesto che è richiesto all’autore di fronte al proprio presente. 'Politica' è dunque l’assunzione della propria epoca e del proprio punto di vista al suo interno. Tale gesto è definito come un prendere posizione che a sua volta si rivela un gesto complesso. Vale la pena allora citare la prima pagina di Quand les images prennent position, il bel libro dedicato a Brecht, per comprendere come deve essere inteso tale gesto, che si mostrerà come un gesto composto da due movimenti distinti, i quali permettono una considerazione della propria situazione come temporalmente definita. “Per sapere occorre prendere posizione. Nulla di semplice in un tale gesto”, scrive Didi-Huberman. “Prendere posizione significa situarsi almeno due volte, almeno sui due fronti che comporta ogni posizione, poiché ogni posizione è, fatalmente, relativa […]. Si tratta allo stesso modo di situarsi nel tempo. Prendere posizione significa desiderare, esigere qualcosa, situarsi nel presente e puntare al futuro. Ma tutto ciò esiste solo sullo sfondo di una temporalità che ci precede, ci ingloba, che fa appello alla nostra memoria fino ai nostri tentativi di oblio, di rottura, di novità assoluta […]. Per sapere occorre dunque porsi in due spazi e in due temporalità simultaneamente. Occorre implicarsi, accettare di entrare, affrontare, andare al cuore, non barcamenarsi, decidere. Occorre inoltre – dal momento che lo richiede la decisione – distanziarsi (s’écarter), violentemente, in caso di conflitto, oppure leggermente, come il pittore quando si sposta (il s’écarte) dalla tela per sapere a che punto è arrivato con il suo lavoro” (Didi-Huberman, Quand les images, p. 11). Inoltre, lo spostamento implicato dal gesto è contemporaneamente una messa a fuoco di ciò che c’è da vedere: risiede qui, infatti, la condizione finita, se non addirittura precaria, del 'vedere altrimenti', una condizione che assume riflessivamente tanto il dominio dell’entre-deux tra sensibile e intelligibile – che è storicamente il campo dell’estetica come sapere filosofico – quanto la tesi di una discontinuità che non è assoluta, se mai se ce ne fosse una, ma è invece relativa: si tratta infatti di pensare il rapporto mobile del discontinuo nel continuo e del continuo nel discontinuo, quale condizione stessa del sapere. “Non si sa nulla nell’immersione pura, nell’in-sé, nella terra del troppo-vicino. Non si sa nulla neanche nell’astrazione pura, nella trascendenza altera, nel cielo del troppo-lontano. Per sapere occorre prendere posizione, il che presuppone il muoversi e l’assumere costantemente la responsabilità di un tale movimento. Questo movimento è tanto avvicinamento quanto scarto: avvicinamento con riserva, scarto con desiderio. Presuppone un contatto, ma lo presuppone come interrotto, se non spezzato, perduto, totalmente impossibile" (Didi-Huberman, Quand les images, p. 12).

Dunque, è anzi tutto l’autore a prendere posizione di fronte al proprio presente e ad assumersi la responsabilità di mostrare ciò che di tale presente è necessario, si deve, non è possibile non far vedere. Assunzione della propria epoca, presa di posizione di fronte a essa: tale gesto implica dunque una decisione. Al di là di ogni possibile retorica dell’impegno, con i suoi correlati discorsi di tipo umanistico, qui ne va della forza dello sguardo e della sua capacità di cogliere ciò che altrimenti il passare del tempo consegnerebbe all’oblio. In questo, il souci éthique si sovrappone al souci politique: non c’è 'politica' dello sguardo senza una presa in carico etica della responsabilità che abbiamo di fronte alle esistenze minacciate della nostra storia. Il 'vedere altrimenti' trova pertanto la sua condizione di possibilità, storica e finita, in una passione per il presente che spinge a selezionare ciò che c’è da vedere nel quotidiano dramma del mondo.

Questo tipo di gesto, con cui Didi-Huberman evidenzia l’essere in-situazione dell’autore, il suo essere implicato nel proprio tempo storico, viene riconosciuto esemplarmente nelle operazioni con cui Bertolt Brecht realizzò il suo L’ABC della guerra, e nelle tecniche (oltre che nel pensiero) con cui il cineasta tedesco Harun Farocki, al quale è dedicato il secondo volume di L’œil de l’histoire (Remontages du temps subi, ma anche Rendere un’immagine, nel numero di "aut aut" in questione) monta i suoi film. La traiettoria che così si delinea nel percorso di Didi-Huberman, perlomeno nel suo ultimo segmento, pare chiara e sembra disegnare una curva a due fuochi. Il primo fuoco è indicato appunto dal significante 'politica', ed è la direzione conseguente alla costruzione, genealogicamente orientata, di un’'etica' dell’immagine attraverso la lignée Warburg-Benjamin-Brecht-Adorno, che dunque sfocia nell’assunzione del metodo e degli strumenti della Kulturkritik francofortese. In essa Farocki non compare certo quale rappresentante epigonale e sui generis, ma forse addirittura come uno dei vertici poiché è stato capace di condurre a fondo la tesi (già benjaminiana e adorniana) sull’autore come critico e come produttore. Il secondo fuoco è indicato invece dalla problematica dell’Atlante e dello statuto epistemologico della tavola come forma per la presentazione del sapere scientifico, linea lungo la quale la questione del sapere storico in immagine viene affrontata dal punto di vista operazionale mediante la definizione di una peculiare boîte à outils dell’autore-critico-produttore, nella quale trova posto, assieme alla tavola medesima, tutto lo strumentario che permette di realizzare le operazioni di montaggio, smontaggio e rimontaggio delle immagini. Qui il sapere tecnico si sovrappone alla costruzione teorica, fino a confondervisi: questa è la ragione per cui è precisamente nei tableaux della cosiddetta 'illustrazione scientifica' che è possibile riconoscere una techne che si intreccia alla theoria e che una qualche misura, d’altronde essenziale, la sovradetermina. Così, ogni presentazione della teoria in immagine deve essere pensata non come una resa sensibile di un logos astratto, ma, ben altrimenti, come un farsi presente di un logos che non può che essere mostrarsi sensibilmente come pathos. Perciò, è necessario per Didi-Huberman restituire a tali forme sensibili di conoscenza tutta la loro dimensione storica, la loro 'verticalità' dinamica (che si accoppia a una temporalità del discontinuo – e qui Didi-Huberman assume spesso come interlocutore privilegiato il Foucault di Le parole e le cose e dell’Archeologia del sapere) di contro a una rappresentazione 'orizzontale' e statica cui le relega una concezione del sapere di tradizione positiva.

È la contemporanea presenza di questi due fuochi a generare la curva euristica: l’interrogazione sulle condizioni e sulle forme della costruzione di un sapere storico, da un lato, e l’interrogazione sulle condizioni e sulle forme dell’implicazione dello sguardo nella temporalità della storia, dall’altro, definiscono dunque il progetto. È perciò su questo secondo lato che il significante 'politica' entra sulla scena della scrittura, per quanto occorrerà tenere conto del fatto che, presumibilmente, i suoi effetti non potranno non farsi sentire pure sul primo lato (e allora si tratterà di pensare le condizioni sociali e politiche, anche in senso stretto, nella produzione di saperi in immagine, ovverosia, più in particolare, di pensare le condizioni per le quali le immagini possono fornire un supplemento di resistenza alla violenza di una politica che le impiega come strumenti di sapere/potere, prima ancora che come mezzi per esercitare, più o meno subdolamente, coercizione, dominio e oppressione). Il libro su Brecht è peculiarmente indicatore di questo percorso di indagine, poiché mostra bene il ruolo che l’autore svolge nel procedimento di costruzione di una differente narrazione degli eventi storici mediante la sequenza di gesti con cui le immagini vengono selezionate, smontate e rimontate e, infine, combinate con la parola scritta. È in questa serie di operazioni di moderna mitopoiesi che, per Didi-Huberman, deve essere riconosciuto il tratto distintivo dell’epos brechtiano. “Il poeta epico inventa delle favole che interrompono e 'rimontano' per conto proprio il corso della storia, perché esse servono a creare un montaggio di storicità immanente i cui elementi, attinti dal reale, inducono con la loro messa in forma un nuovo effetto di conoscenza che non si trova né nella finzione extratemporale né nella fattualità cronologica dei fatti reali” (Didi-Huberman 2009, p. 64). Ora, questa particolare disposizione critica verso le immagini in generale si intreccia a sua volta con il senso politico di una strategia culturale che consiste nel condurre il fruitore alla comprensione degli eventi storici. L’autore qui si fa modello, poiché invita il fruitore a seguirlo, ad adottare una postura critica e ad affrontare l’esercizio dello sguardo.

La conseguenza più diretta è che la presa di posizione politica dell’autore, sostiene a ragione Didi-Huberman, non può che coincidere con una sua esposizione di sé. Ne andrebbe pertanto di due esposizioni legate tra loro, poiché il prendere posizione è al contempo un esporsi, e tale esposizione non è altro che il gesto che precede l’esporre le immagini altrimenti. Didi-Huberman qui non teme di indicare questo nodo come la posta in gioco di una “nuova politica dell’esposizione” (Didi-Huberman 2009, p. 122). In che cosa consiste dunque, tale politica che si unisce così all’etica delle immagini? Anzi tutto, possiamo dire che il vedere altrimenti è la condizione etica del rapporto con le immagini, ma a esso deve accompagnarsi pure un mostrare altrimenti da parte dell’autore. Il mostrare altrimenti implica sempre il ricorso all’occhio di un terzo, cioè dello spettatore: presente o assente che sia, esso dovrà essere senza dubbio presupposto dall’autore nel momento in cui cercherà di restituire in immagine ciò che avrà visto e che ritiene essere ciò che ci riguarda. Sarà perciò possibile mostrare tale “cosa delle immagini", ma solo attraverso una manipolazione tecnica di queste ultime mediante un fare che è sempre un saper fare dell’occhio e della mano, dunque un’abilità che si traduce in un gesto, quello del montaggio. A sua volta, il montaggio presuppone un’esplosione di ciò che ci è stato mostrato: le macerie di ciò che rimane verranno in seguito ridisposte per formare un insieme differente rispetto a quello precedentemente distrutto. “Il montaggio, in quanto presa di posizione al contempo topica e politica, e in quanto ricomposizione delle forze, ci offrirebbe così una immagine del tempo che fa esplodere il racconto della storia e la disposizione delle cose” (p. 126). Ogni montaggio presuppone così uno smontaggio di ciò che era già stato messo in immagine: per potere vedere ciò che ci riguarda, serve rimontare. Questo doppio movimento di messa-in-forma sarebbe dunque di per sé politico, poiché andrebbe a coincidere con un’operazione di tipo strategico, con un posizionamento e, parallelamente, con un’interrogazione sui limiti entro i quali l’immagine era stata precedentemente disposta, collocata, inquadrata. Si costruisce così una proporzione tra morfologia dell’immagine e politica: “Il montaggio starebbe alle forme come la politica sta agli atti: gli occorrono quei due significati dello smontaggio che sono il surplus (excès) di energie e la strategia delle collocazioni (places), la follia della trasgressione e la saggezza della posizione” (p. 129), scrive difatti Didi-Huberman poche pagine dopo.

La ri-disposizione dello sguardo, la ri-calibratura del punto di vista e la ri-messa a fuoco dell’oggetto procedono tutte lungo la medesima direzione, che è etica e gnoseologica assieme. Etica, perché, nuovamente, ne va di un aprire gli occhi dinnanzi agli eventi della storia, soprattutto – occorre sottolineare – in ciò che essi comportano di abissale quanto alla loro dimensione collettiva; gnoseologica perché si tratta di un saperli leggere al di là della loro sequenza meramente cronologica o della loro apparente istantaneità, quale essa sarebbe restituita dalle immagini. Ciò che le immagini, invece, portano alla superficie è proprio la durata temporale dell’evento, assieme alla condizione di passività del soggetto rispetto a tale temporalità, ovvero quel temps subi che compare nel titolo del libro al cui centro c’è lo studio del cinema di Farocki e il suo peculiare trattamento delle immagini.

Infatti, commentando il procedimento di montaggio che Farocki utilizza per costruire le sue sequenze narrative, in particolare l’impiego dello split screen o l’installazione su doppio schermo, Didi-Huberman rende esplicita pure la stessa operazione di rimontaggio delle immagini secondo quella che chiama un’“esposizione dei momenti operatori" e che, a suo avviso, sintetizza il duplice aspetto dell’immagine. “Questa condizione fenomenologica suscitata dalle installazioni di Farocki trasforma profondamente, mi pare, l’uso che si può fare di tali 'opere d’arte'. Tale uso si inscrive in qualcosa come un’autoformazione dello sguardo condotta sulle immagini, confrontate senza sosta […]. Un simile lavoro dello sguardo non è dunque solamente ottico, ma, letteralmente, etico e gnoseologico: confrontare da sé tutte quelle immagini diventa un atto di giudizio e di conoscenza, richiede una costante presa di posizione di fronte al materiale specifico e, conseguentemente, delle immagini della storia in generale” (Didi-Huberman 2010, p. 154). Tuttavia, questo tipo di lavoro svolto sull’immagine mediante le tecniche di montaggio – che in effetti, in questa prospettiva si rivela come il vero e proprio fulcro teorico-pratico delle arti visive – comporta in alcuni autori uno spessore politico che apre lo spazio passionale e politico della collera e della resistenza di fronte allo stato corrente delle cose. In effetti, la duplice dimensione etica e gnoseologica negli esempi più fortunati è incorniciata politicamente, poiché essa presuppone sempre una presa di posizione che si esprime nella necessità di raccontare aprendo gli occhi sulla violenza della storia, portandone a visibilità le dinamiche meno apparenti, non tanto per denunciarle (lavoro che potrebbe fare altrettanto bene un’immagine semplicemente documentaristica) ma per mostrarne la logica interna e, alla fine, per resistere a quella violenza e quell’ingiustizia di cui esse recano l’impronta. Il binomio etica-gnoseologia non può che articolarsi in un trinomio, al cuore del quale si trova l’enjeu politico, indicato dall’espressione, quasi programmatica, di “armare gli occhi” (armer les yeux). Perché, se la storia in cui viviamo è teatro della violenza, non si tratta solamente di repertoriarne gli effetti, ma di trasformare l’esperienza dello sguardo in un’esperienza di comprensione dei suoi aspetti più traumatici.

Uno degli esempi scelti da Didi-Huberman per mostrare, appunto, questa esigenza etico-politica è il commento di una sequenza del film Nicht löschbares Feuer (Fuoco inestinguibile) di Farocki, realizzato nel 1969, dove il cineasta tedesco compare in prima persona per descrivere gli effetti sul corpo umano prodotti dalle bruciature del napalm. Seduto a un tavolo, le braccia tese e distese sul piano del tavolo, gli avambracci scoperti e i pugni chiusi davanti alla camera, Farocki legge il racconto delle sofferenze patite da Thai Bihn Dan, e rilasciate in una dichiarazione al Tribunale di Stoccolma per i crimini di guerra in Vietnam. Quindi Farocki fa seguire alla lettura della dichiarazione una serie di riflessioni filosofiche sulla portata dell’immagine, che si articolano attorno a quella che Didi-Huberman chiama un’“aporia per il pensiero” dell’immagine: “Come mostrarvi gli effetti del napalm? E come mostrarvi delle ferite dovute al napalm? Se vi mostreremo un’immagine di ferite causate dal napalm, voi chiuderete gli occhi. Anzitutto chiuderete gli occhi davanti alle immagini. Poi chiuderete gli occhi sul loro ricordo. Poi chiuderete gli occhi davanti ai fatti. Infine, chiuderete gli occhi sul contesto dei fatti. Si vi facciamo vedere un uomo ferito dal napalm, feriamo la vostra sensibilità. Se feriamo la vostra sensibilità, avrete l’impressione che avremo fatto uso del napalm contro di voi e a vostre spese. Pertanto non possiamo che mostrarvi una rappresentazione molto debole degli effetti del napalm” (H. Farocki, Nicht löschbares Feuer, cit. in Didi-Huberman 2010, p. 76).

Prima di considerare ciò che avviene immediatamente dopo tale dichiarazione di metodo, cioè il gesto che Farocki compie coerentemente con essa, sottolineo come tale aporia – che mette in relazione l’autore, il fruitore e l’immagine – comporti un paradosso della visibilità, secondo il quale la forza di pathos dell’immagine richiede una sua rappresentazione indebolita: quanto a dire che la disposizione a 'vedere altrimenti' non coincide affatto con un 'vedere di più' e a un 'fare vedere di più', ma è piuttosto il risultato di un esercizio conseguente a un 'mostrare meno' da parte dell’autore affinché quel 'meno' possa far accedere chi guarda a una migliore comprensione della 'cosa' dell’immagine. E cos’è la 'cosa', nell’esempio messo in scena da Farocki e ripreso da Didi-Huberman? È l’insopportabile dolore provocato da una bruciatura da napalm, a sua volta metonimia di ogni trauma patito, in ogni luogo e ogni tempo, dalle vittime della storia. Tale insopportabile dolore è ciò che ci riguarda in quanto ciascuno di noi è soggetto politico in quanto “soggetto della sofferenza” (Didi-Huberman 2010, p. 189). Come restituire, dunque, una simile esperienza-limite senza che lo spettatore chiuda gli occhi davanti all’insopportabile spettacolo della devastazione? È qui che Farocki mette al lavoro in immagine il paradosso della visibilità, fornendo l’accesso alla 'cosa' nel suo eccesso di pathos, e, così, alla comprensione del senso di un evento che, altrimenti, rischierebbe di ridursi a mero spettacolo. Didi-Huberman, per evidenziare il senso del gesto che Farocki compie davanti ai nostri occhi (cioè davanti alla camera da presa), lo cita nuovamente. Nella sceneggiatura del film si legge la seguente indicazione: “Travelling in avanti (Dolly) sulla mano sinistra di Farocki che è distesa sul tavolo. La sua mano destra esce dal campo e vi rientra con una sigaretta accesa che viene schiacciata lentamente sul suo braccio sinistro, a uguale distanza tra il gomito e il polso (3,5 secondi). Voce off del narratore: Una sigaretta brucia a 400 gradi, il napalm brucia a 3000” (p. 77).

Il trattamento con cui Didi-Huberman percorre il lavoro di parecchi decenni svolto da Farocki – in diversi importanti passaggi contrapposto d’altronde a Godard proprio quanto alla postura etica dell’autore e, pertanto, quanto alle responsabilità politiche che ne discendono (Didi-Huberman 2010, pp. 173-180; cfr. anche Id., Rendere un’immagine, pp. 22-26.) – mostra dunque l’emergenza di un territorio che coinvolge direttamente il senso delle immagini (e non solo) e che potrebbe essere indicato come una politica della passione. Citando le Note sul gesto scritte da Giorgio Agamben, e contenute in Mezzi senza fini, ma anche distanziandosi leggermente rispetto a esse, come per focalizzare meglio la posta in gioco etica e politica del cinema di Farocki, Didi-Huberman lavora pertanto sul rapporto tra pathos e 'politico' in cui, mi pare, debba essere riconosciuta l’articolazione tra la dimensione etica e quella politica dell’immagine. Senza dubbio ne va del gesto, in particolare del senso del gesto del cineasta quando il lavoro della mano e dell’occhio dà luogo all’immagine: “questa coalescenza del cinema e del gesto umano impegna direttamente la sfera dell’etica e della politica. 'Avendo per centro il gesto e non l’immagine, il cinema appartiene essenzialmente all’ordine etico e politico (e non semplicemente all’ordine estetico)'. Preciseremo semplicemente, e penso che Farocki farebbe la stessa cosa, che qui non è il caso di opporre forzatamente il gesto all’immagine. L’immagine, come il gesto di cui essa è il prolungamento […], appartiene immediatamente (d’emblée) all’ordine etico e politico. Se non fosse possibile appurarlo, l’opera di Farocki non esisterebbe neppure” (Didi-Huberman 2010, p. 185). Tutto si gioca dunque d’emblée, cioè sia al tempo di questo inizio, di questa apertura dell’articolazione tra gesto e immagine che si ripercuote sul terreno dell’etica-e-della-politica e che, anzi, sarebbe da sempre etico-politica, sia nella semplicità del tratto che unirebbe l’etica alla politica. Non ci sarebbe che un tratto posto d’emblée, cioè – come si può anche tradurre in italiano – immediatamente, e che unisce la dimensione etica e quella politica dell’immagine. In altre parole, l’etica e la politica sarebbero immediatamente le dimensioni proprie dell’immagine.

Ora, se si comprende molto bene l’esigenza che spinge Didi-Huberman a porre questa articolazione come prioritaria (evito appositamente di dire qui 'fondamentale'). Tuttavia non si può non avanzare la questione su cosa renda ragione di tale articolazione d’emblée, la quale se da un lato semplifica la distinzione introdotta da Agamben, dall’altro rischia di presentarsi come un’evidenza di per sé, non ulteriormente analizzabile o decostruibile. Certo, affermando che l’immagine è per prima cosa (traducendo ulteriormente la locuzione avverbiale impiegata da Didi-Huberman) etico-politica, si pone al centro la posta in gioco dell’attuale dibattito sull’immagine, proprio perché la nostra epoca non fa altro che rivolgerci, incessantemente, tale questione. Eppure, dire che la dimensione etico-politica è immediata, ogniqualvolta ne va dell’immagine, e dunque se ne parla e se ne discute, questa pare essere una tesi che richiede quantomeno un supplemento di argomentazione, o un’ulteriore détour che stabilisca al centro dell’analisi il tratto tra l’etica e la politica.

Possiamo chiamare questo tratto un partage, cioè una linea di separazione, e al contempo d’unione, tra etica e politica. Detto forse troppo rapidamente, con l’interrogazione sul partage tra le due ne andrebbe, radicalmente, del senso dell’estetica dell’esposizione elaborata da Didi-Huberman nel corso degli anni. Non c’è dubbio che l’intero discorso sul valore politico della produzione/esposizione di immagini dialettiche poggia sul movimento di apertura dell’immagine e di esposizione di qualcosa che, apparendo in un’immagine prodotta (il che significa selezionata, smontata, rimontata, inquadrata ecc.), rende evidente allo sguardo un poter-essere-altrimenti del mondo. Non si tratterà dunque di interrogare ulteriormente questa evidenza, che qualifica l’apertura e l’esposizione delle immagini, e che sarebbe opportuno non rendere troppo rapidamente evidente nel suo venire alla luce? In altre parole, questo rendersi evidente non trova le sue risorse nel gesto classico di una dialettica dello svelamento che si era pensata come ultima risorsa critica di una modernità in crisi? Non troviamo forse qui un presupposto che varrebbe la pena di indagare più a fondo circa la sua 'logica' e la sua 'dinamica', ossia il legame che si istituisce tra l’evidenza richiesta dall’esposizione e il valore di presenza che deve essere accolto affinché tale esposizione possa darsi al nostro sguardo? E se la definizione di una consistenza politica delle immagini dipende, alla fine dei conti, proprio da questo valore di presenza che viene affermato come un poter-essere-altrimenti delle cose, non è possibile qui scorgere l’eventualità di una ricaduta in una semplice effettività che sarebbe dunque nuovamente affermata, per quanto ad essa si acceda tramite discontinuità, anacronie, sopravvivenze, ovverosia mediante una dialettica pensata e praticata altrimenti, ma che non può comunque fare a meno di essere una dialettica?

Il terreno qui pare diventare ancora più insidioso, perché nulla ci assicura dagli effetti di ritorno dei rovesciamenti dialettici. E si può dubitare che sia del tutto soddisfacente contrapporre – come fa Didi-Huberman, d’altronde opportunamente, e con grande chiarezza – la presa di partito di Brecht (in nome del socialismo realizzato, del ruolo storico-politico del partito ecc.) e la presa di posizione di Benjamin. Infatti, quest’ultima si chiarisce mediante il ricorso a una certa teologica messianica che a sua volta fornisce l’incorniciamento alla questione del tempo, dell’istante, dell’interruzione e che, come è lecito dubitare, non pare legittimare il ricorso a una presenza piena, a una parusia. Così, una volta affermata la possibilità di una presenza cui rimanderebbero le evidenze dell’apertura e dell’esposizione, il pericolo che si può intravedere è che da tale presenza possano essere successivamente dedotti i termini di tutto un lessico più strettamente (e tradizionalmente) politico, pensati quali altrettante effettività – a iniziare, per esempio, da 'autore', per finire, altro esempio, con 'popolo' – che farebbero dunque segno verso la restituzione di un altro valore di soggettività. Il rischio sarebbe dunque già corso e già noto: che, a forza di dialettica, anche il riconoscimento della discontinuità, della frattura, dell’intervallo ecc., come altrettante modalità dell’inappropriabile e dell’eterogeneo, finiscano per acquisire il loro senso (per quanto finito, contingente, ancorato alla nostra situazione storica ecc.) all’interno di una logica della riappropriazione che si (ri)presenterebbe con la forza del suo discorso e la sua necessaria esigenza di verità.

Bibliografia di riferimento
English abstract

Georges Didi-Huberman’s major latest works, entitled The Eye of History (L’Œil de l’histoire), show a peculiar path towards an 'ethics of images', where the philosophical heritage of the School of Frankfurt (Benjamin and Adorno above all) is linked to a critical focus on the status of the image at the present time. Working on authors like Bertolt Brecht and the avangardist cinema director Harun Farocki, Didi-Huberman basically arises the question of the historical meaning of images in our time, when it seems more and more difficult to 'keep our eyes wide open' on them, as Didi-Huberman writes. Nowadays, images tell us a story of violence, oppression, domination and so forth. Is it possible to 'see otherwise', in a way that would lead us to be historically and pathetically touched by images and not mesmerized by them? Hence, the quest on the image’s exposure and openness which characterizes Didi-Huberman’s research, turns into a 'political' one: 'seeing otherwise' is a critical gesture that follows the ethical choice of taking position when confronted with images. Nevertheless, this kind of ethical-and-'political' conception of the gaze (le regard) could be submitted to a futher criticism: based on the above-mentioned values of opennes and exposure, would it be fit enough to radically achieve its philosophical aims?

 

keywords | Aut aut 348; Georges Didi-Huberman; The Eye of History; Harun Farocki; School of Frankfurt.

Per citare questo articolo / To cite this article: R. Kirchmayr, L’occhio della storia. Didi-Huberman tra un’‘etica’ e una ‘politica’ delle immagini. Presentazione di “aut aut”, n. 348, ottobre/dicembre 2010, “La Rivista di Engramma” n. 89, aprile 2011, pp. 29-36 | PDF di questo articolo