"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

80 | maggio 2010

9788898260256

Discesa nello spazio misterico e “spaccio delle tenebre”: l’ultimo viaggio di Warburg in Italia

Alice Barale

English abstract

Alle fonti dell’entusiasmo

Il 17 maggio 1929, giunti a Capua sotto forti raffiche di pioggia, Aby Warburg e la sua assistente Gertrud Bing si calano, attraverso due lastre di ferro non molto più grandi di un tombino, nella caverna dove si celebrava, nella tarda antichità, il culto di Mitra [1]. Agli occhi delle “donne proletarie vestite con camicioni (per lo più incinte)” e dei “bambini dall'aspetto emaciato” che si radunano attorno ai visitatori, “la discesa nell'oscuro antro dei signori (relativamente) eleganti, giunti con la loro roboante macchina (persino con il temporale)”, assume “un aspetto mitico fobico" [2].

L’ironia con cui registra la propria impresa si fonde, per Warburg, con la determinazione a ripercorrere concretamente lo “spazio misterico” [3]. La discesa all'interno di quest'ultimo assume così un carattere semi-serio, ambiguamente teso tra il sacro e il profano. Comprendere questa contraddittorietà significa interrogarsi sulle motivazioni che spingono l'ultrasessantenne e cardiopatico sostenitore della necessità dello “spazio del pensiero” (Denkraum) [4], di quella distanza tra sé e il mondo in cui il pensare ha la propria condizione di possibilità, ad arrampicarsi lungo la via dell'unio mistica. Il pathos di quest’ultima gli è infatti radicalmente estraneo: il trattato ermetico Pimandro, con il suo accumulo di immagini misteriosofiche, gli risulta "terribilmente noioso” [5], e al tipo di “studioso invasato”, qual è l’esperto di orfismo Macchioro, che conosce a Napoli, non perdona di anteporre l’“eruzione del proprio impulso creativo” alla “capacità di convogliare (Geleisigkeit) la propria attività in una struttura connessa" [6]. Eppure l’ultimo viaggio in Italia, intrapreso tra il settembre del 1928 e il giugno del 1929, anno della sua morte, si configura per Warburg come una “spedizione alle fonti (Quellen) dell’entusiasmo (Enthusiasmos) europeo”, un tentativo di “vivere come mystes il culto di Mitra da Rimini alla Cappella Sistina” [7]. Lo spazio misterico sembra così costituire non tanto un’alternativa allo spazio del pensiero, quanto una fonte (Quelle) da cui è impossibile, per quest’ultimo, prendere definitivamente congedo.

“Mistiche dell’ascesa”: il Tempio Malatestiano di Rimini

È infatti allo spazio concreto,“stereometricamente scandito” in cieli e in sfere – che nelle mistiche della tarda antichità [8] l’anima, nel proprio destino cosmico, percorre in ascesa e in discesa – che lo spazio astratto, “spazio infinito del pensiero matematico e psicotecnico” deve rivolgersi, per comprendere la propria condizione di possibilità [9]. Giunto nel settembre del 1928 da Amburgo a Bologna, attraverso Basilea e Milano, Warburg dedica alcune settimane all’osservazione delle raffigurazioni astrologiche che ricoprono il soffitto del Teatro Anatomico. In esse, negli invisibili legami che il corso degli astri intratteneva con ogni aspetto della vita terrestre, i medici rinascimentali cercavano una guida al proprio operare. Nel suo secolare intreccio con l’astrologia, il cosmo impersonale della scienza è dunque inseparabile da quello vissuto, immaginariamente percorso in su e in giù dei misteri ellenistici che il Rinascimento richiama in vita. Una corrente gnostica-ermetica-platonica attraversa la speculazione rinascimentale sull’universo, che emerge come il luogo di un incessante pellegrinaggio che l’anima, ad ogni ciclo vitale, compie attraverso i cieli e i pianeti. È in questa ascesa e discesa “soggettiva del singolo” che occorre dunque cercare la “genesi dello spazio ideale (Idealraum)” [10].

La spedizione warburghiana (Entdeckungsreise) [11] prosegue così sino a Rimini, per indagare la rappresentazione del cosmo che il Tempio Malatestiano racchiude. In questa cattedrale quattrocentesca la religiosità cristiana si incontra infatti con il rinascente immaginario pagano: i sepolcri sotto le arcate esterne, destinati a contenere le spoglie mortali degli intellettuali della corte malatestiana, cedono il passo, all’interno, all’“esaltazione cosmologica” [12]. Alla rappresentazione, nella terza cappella di destra, dei pianeti, risponde infatti, nella terza di sinistra, quella delle Muse che, sedute sulle sfere planetarie, ne intonano, guidate da Apollo, l’armonia. Appena risvegliate dal sonno in cui il Medioevo le aveva sprofondate, queste ultime inducono, con la loro iconografia ancora lontana da quella antica, Warburg e la sua assistente a dubitare della loro identità, individuando piuttosto in alcune di esse i tre generi di musica – celeste, mondana e strumentale [13]. È comunque la rappresentazione dell’universo come “sistema armonico” che dai rilievi di Rimini si fa incontro a Warburg, investendo di un’interna contraddittorietà l’itinerario celeste che la sua Entdeckungsreise intende ripercorrere [14]. L’idea della discesa dell’anima attraverso i cieli subito prima della nascita, e della sua risalita dopo la morte, è infatti di “provenienza gnostica” [15]. Il viaggio astrale dell’anima è dunque originariamente connesso al punto di vista anticosmico dello gnosticismo, che individua la salvezza di quest’ultima in un principio radicalmente estraneo all’universo in cui essa è costretta.

La discesa celeste è, in quest'ottica, una pura caduta, e l’ascesa una liberazione dall’errore del cosmo. La rappresentazione, nel Tempio Malatestiano, di Apollo con la lira, attorniato dalle allegorie dell’armonia cosmica, fa tuttavia spazio alla possibilità che il principio dell’universo non attenda, come per lo gnosticismo, ai suoi margini, ma trovi piena realizzazione al suo interno. Al mondo senza Dio dello gnosticismo si contrappone l’idea, propria di quella filosofia neoplatonica che Gemisto Pletone immette nel cuore del Rinascimento [16], di una divinità che si fa mondo, serie ininterrotta di entità più o meno sottili che solo nel proprio carattere corporeo, esterno al principio che le ha generate, possono ad esso condurre [17].

È nel sole che questo manifestarsi sensibile della divinità trova, sin dalla tarda antichità, il proprio simbolo. La “teologia solare” [18] affonda le proprie radici nella scienza astrologica degli antichi Caldei, per investire, con le conquiste di Alessandro Magno, l’intera religiosità ellenistica. È questa la tesi dell’archeologo Franz Cumont, “bionda natura da avventuriero” [19] di cui Warburg, poco dopo il proprio soggiorno a Rimini, fa la conoscenza a Roma [20]. Nel fare proprie le “mistiche dell’ascesa” (Aufstiegsmystiken) della tarda antichità, il neoplatonismo rinascimentale ne accoglie dunque tanto il pessimismo astrologico, di derivazione gnostica, quanto quest’ultimo elemento “ottimistico”, “eliotropico (apollineo)” [21]. Alla tensione, all’interno del Tempio Malatestiano, tra la figura “sconvolgente” del “diavolo-Lucifero Sigismondo” [22], affrescato da Piero della Francesca nella Cella delle Reliquie, e la “volontà luminosa” che si esprime nella spaziosità della navata centrale “con il gigantesco coro” risponde così, nelle cappelle interne, quella tra i demoni astrali e il Sole che li domina. Oltre che come Apollo, che con la sua lira si erge a “musico reggitore delle sfere” [23], quest’ultimo è infatti rappresentato anche nel suo levarsi sul carro, da cui sovrasta, dalla chiave di volta dell’arco nella Cappella dei Pianeti, l’intero firmamento. Tra le raffigurazioni degli dei che presiedono agli astri, poi, quella di Giove corrisponde per Warburg alla descrizione di Macrobio dello “Jupiter-Baal” di Eliopoli (Baalbek) in Siria, divinità solare di origine egiziana, poi identificata con Zeus, che “ha la destra alzata con la frusta, al modo dell’auriga, mentre la sinistra tiene il fulmine e le spighe” [24].

La devozione per questo principio solare è "divino furore", entusiasmo che solleva l’anima verso di esso e la dischiude alla sua eterna armonia [25]. Al monito gnostico a non cadere schiavi dell’“ebbrezza del mondo” ma a romperne, piuttosto, l’incanto [26], subentra il concetto platonico e neoplatonico di eros come possibilità di ricongiungersi alla sua interna verità. Così Isotta, amante di Sigismondo, è raffigurata nel Tempio come 'Venus Virgo' [27], incarnazione dell’amore sublime. Nella cattedrale che accoglie le spoglie del filosofo neoplatonico Gemisto Pletone, Warburg si interroga sull’idea greca di “mania” (Wahnsinn) e sulla sua tradizione [28]. In essa si radica forse la dottrina, che il neoplatonismo attinge da un antico nucleo mitologico orfico ed esiodeo, “dell’eros cosmogonico” [29]. Proprio a quest’ultimo aveva, pochi anni prima, dedicato la propria opera Klages [30]. Rispetto a questi, però, la riflessione warburghiana sull’entusiasmo assume tutta un’altra direzione. Decisivi, nel determinarla, sono il riconoscimento, attraverso l’esperienza del Mitraismo vissuta “come mystes[31], del carattere duplice, internamente contraddittorio, del divino furore, e l’interesse che a Rimini inizia a delinearsi per la riflessione di Giordano Bruno.

Nella “città dell’alloro e della corona di spine”

Le tracce che l’idea greca di mania ha lasciato nell’arte classica sono sfuggite a lungo all’osservazione storica. Il trasporto entusiastico o disperato che segna, non di rado, le raffigurazioni dell’arte ellenica era infatti difficilmente accettabile per un’estetica dominata, come Warburg ha criticamente osservato sin dai primi anni della sua ricerca, dalla “perdurante e unilaterale dottrina classicistica della ‘quieta grandezza’” [32] dell’antichità:

In precedenza, ogni tentativo di considerare l’estasi tragica come un bene caratteristico dell’eredità dell’Antico era sembrato uno sviamento romantico che non era passibile di dimostrazione, un errore che non si conciliava con i risultati della storia dell’estetica archeologica del tempo [33].

Giunto a Roma poche settimane dopo la propria permanenza a Rimini, Warburg può cogliere in tutta la loro forza e persistenza i segni di questa estasi tragica rimossa. Un “esercito selvaggio” di Menadi e demoni che si agitano o crollano in preda al divino [34] gli si fa infatti incontro dai sarcofagi funerari romani sui quali ha trovato, nella propria migrazione dalla Grecia, rifugio.

L’“abbandono” (Hingabe) che in queste figure si esprime si incontra così, nella capitale romana, con il movimento di “affermazione” (Behauptung) che l’arte imperiale, invece, in ogni suo gesto riflette: al profondo “trasporto” (Egriffenheit) dei demoni funerari ellenici risponde, sugli archi, le colonne e le monete di Roma, il vigoroso, superbo “afferrare” (Ergreifen) dell’imperatore trionfante [35]. Nella sua “doppia radice greca e romana”, la classicità appare così attraversata da una contraddizione che rispecchia “la contraddittorietà originaria della vita umana”:

Tutte quelle opere d’arte che narravano il trionfo della autorità pubblica romana forniscono delle preconiazioni per la vita activa penetrata da un senso ottimistico, mentre il selvaggio esercito dei demoni greci del destino, negli dei e semidei sui sarcofagi pagani romani narra in modo perturbante e commovente di una umanità che soccombe nella lotta con il destino [36].

Nel contrasto tra l’“orgogliosa passione” dell’arte imperiale romana e il “disperato cordoglio” [37] dei demoni funerari greci si esprime l’originaria tensione che segna il rapporto tra individuo e cosmo [38]. Tra “abbandono” e “affermazione”, tra “trasporto” e “presa” nei confronti del mondo non c’è infatti, per il soggetto, scelta definitiva, ma continua oscillazione. Nel carattere violento che caratterizza entrambi i momenti si esprime la loro unilateralità, l’impossibilità di trovare in essi rifugio.

A questa violenza corporea si oppone, nella propria conquista della capitale romana, la spiritualità cristiana. “Disintossicare la vita in movimento” da ciò che in essa vi è di demoniaco [39], di opaco e incontrollato, significa per il cristianesimo ricondurla a un contenuto spirituale che ne costituisca il vincolo e il fondamento. L’esteriorità del gesto è così ridotta a semplice metafora, strumento di un significato interiore eticamente compatibile: “Tentativo di riforma dell’estasi pagana attraverso una determinazione dell’estensione metaforica (metaphorische Umfangsbestimmung)”, annota Warburg durante il proprio soggiorno romano [40]. La “reinterpretazione del significato” a cui il cristianesimo sottopone le antiche formule espressive è però destinata a scontrarsi con il “mondo pulsionale” in cui esse, nella loro letteralità, si radicano e che continuano, nonostante ogni tentativo di riforma, a veicolare [41]. Così la leggenda della giustizia di Traiano, che nell'interpretazione medievale e rinascimentale ferma il proprio cavallo di fronte ad una vedova il cui figlio è stato travolto dal corteo imperiale, convive con l’immagine originaria, che si tramanda sino a Botticelli, del suo “incedere impetuosamente sopra ai nemici morti” [42], la compostezza cristiana di fronte al dolore con l’estasi tragica delle rappresentazioni funerarie.

A questo contrasto Warburg dedica la lezione che tiene, durante la propria permanenza a Roma, alla Biblioteca Hertziana su L’antico romano nella bottega del Ghirlandaio. Nell’opera di quest’ultimo, infatti, il mondo pagano dell’espressione non si compenetra, come in maestri più grandi, ad esempio in Donatello, con quello moderno dell’artista, ma rivela, nei suoi confronti, una tragica contraddittorietà. La tensione, che attraversa la “città dell’alloro e della corona di spine” [43], “tra la cultura pagana e quella cristiana”, si rispecchia nell’arte del Ghirlandaio in una giustapposizione di motivi [44]. L’artista “introduce” infatti “come fattori costitutivi dello stile dei valori limite espansivi: il polo dell’Antico che intensifica il linguaggio dei gesti, e il polo della quiete tipico del quadro votivo nordico” [45]. Negli affreschi di Santa Maria Novella, ad esempio, “l’esercito selvaggio [...] si dispera per la perdita di Francesco Sassetti come per Meleagro, lamentandosi in modo sfrenato”, mentre “Francesco Sassetti stesso recita la sua pietà da pastore nella tavola nello stile di Hugo van der Goes” [46]. Accanto alle scene devozionali ispirate, nel loro quieto raccoglimento, all’arte fiamminga, i gesti intensificati che Ghirlandaio attinge al patrimonio classico permangono come una presenza inconciliata, in parte oscura.

È nel contesto di questa riflessione sull’incontro tra la Roma pagana e quella cristiana, tra la letteralità delle antiche formule di pathos e il valore metaforico che la modernità cerca di assegnare loro, che Warburg inizia a leggere Giordano Bruno [47]. Lo spaccio de la bestia trionfante si accosta infatti, per argomento e finalità, alle versioni moralizzate degli antichi classici. Oggetto di riforma etica è, in esso, il cosmo pagano: ai “veri e propri monstra” che lo presiedono “subentrano figure (virtù) spiritualizzate” [48]. La “bestia trionfante” che va sottoposta allo “spaccio”, alla cacciata, è dunque l’immagine mitica, incarnata degli astri, che va sostituita, di volta in volta, con un valore puramente spirituale. Così ad esempio l’Orsa, nella parte superiore del cielo [49], deve lasciare il posto alla Verità; e a Perseo, l’eroe che trionfa sul mostro, deve succedere la Sollecitudine, nutrimento degli “animi generosi” [50]. Una simile riforma del cosmo aveva compiuto, più di mezzo secolo prima, il domenicano Radino. Nel suo Sideralis Abyssus le antiche divinità astrali sono infatti "messe alla porta” e il loro posto è occupato dalle “virtù tomistiche” [51].

Per quanto, tuttavia, Warburg si aspetti di trovare in Bruno un “fautore dell’astrazione (Abstractor) nel senso più autentico” [52], “con una indole avversa alle immagini”, “la lotta con la ‘bestia trionfante’ in cielo assume ancora”, nello Spaccio, “l’aspetto di una prestazione personale ed energetica, densa di pericoli reali e avvolta da terrori demoniaci molto sconvolgenti” [53]. Se il mostro non è che “larva” [54], figura evanescente, fittizia, la lotta contro di esso è, nondimeno, radicata nel corpo, reale. Di contro ai “divorzii orrendi” [55] che il cristianesimo, in massimo grado quello luterano, opera tra divino e naturale, tra conoscenza e azione, la rivolta bruniana contro il potere soggiogante degli idoli celesti investe al contempo anima e corpo, spirito e materia. "Don Chisciotte" delle immagini [56], chevalier errant [57] del cosmo inventato dagli antichi, il riformatore si preoccupa così che l’Orsa, scaraventata dalla sommità del cielo, “con la coda [...] non faccia qualche ruina di stelle con farle precipitare in mare” [58]. Lo spaccio bruniano non nega, attraverso una semplice astrazione, il ‘corpo’ delle immagini celesti, ma penetra in esso e, affrontandone il pericolo, ne confuta di volta in volta il carattere immutabile e assoluto. Gli idoli sono così trasferiti dal cielo alla terra, dove le loro corpulente figure cessano di incombere staticamente sul destino umano per assumere, al suo interno, un impiego “socialmente utile” [59]. Così Ercole “col braccio della Giustizia e bastone del Giudicio è fatto domator de le corporee forze” [60], e Perseo ha il “mandato etico-olimpico” [61] di mettere “il chiodo” alla “perniciosa coscienza” dei “malfattori ed ostinati ingegni” [62].

Se l’infinità dell’universo, eccedente ogni confine figurativo, è oscurata dal carattere bestiale, idolatrico delle sue immagini, è tuttavia all’interno di queste ultime che si celano dunque quelle forze che permettono di sopraffare i “veri e propri monstra[63] che ostruiscono, di volta in volta, lo spazio celeste [64]. Estraneo a ogni pura negazione del mitico, “Bruno resta attaccato” a quest’ultimo, “ma trasforma come per magia il terrore (Phobos) dinamicamente ipostatizzante” che lo caratterizza “in attività che pone energeticamente uno scopo” [65]. Da immobili “guardiani di confini” [66], che scandiscono immutabilmente il cosmo in cieli e in sfere, le immagini astrologiche divengono i simboli di un’energia terrestre e dirompente, in grado di fare “scoppiare i gusci delle sfere cosmiche” [67]. Lo spaccio a cui Bruno sottopone le “larve, statue, figure” [68] che affollano l’universo è dunque una “grazia condizionata” [69]. In virtù di essa, il mito si spoglia ogni volta della propria immobilità: “il redentore antico si redime” sempre nuovamente “dal mostro” [70].

“Verso Capua - eliotropismo e trionfo della notte”

La necessità, per la conoscenza, di farsi “prestazione personale ed energetica” [71], impresa radicata nel corpo e nell’immagine, si fa più che mai evidente negli Eroici furori. Al contrario del “sapiente”, che osserva dall’esterno il mutamento, considerandone con distacco la “vanità”, il “furioso” vive infatti sulle proprie membra l’avvicendarsi degli opposti, sino a farli implodere al proprio interno: il “disquarto” [72] che permette al protagonista dei Furori di avere esperienza dell’infinità del cosmo è un sacrificio reale quanto quello del toro dall’“aspetto stranamente umano” che soccombe, nelle pitture murali della caverna di Capua, sotto i colpi di Mitra [73].

Warburg ha da poco terminato, in una Napoli in cui l’ “afa già arde lo stomaco” [74], la faticosa lettura degli Eroici furori, quando si cala, assieme alla “collega Bing” (come è chiamata la sua assistente in tutto il Tagebuch), nelle profondità del mitreo campano. Il sacrificio dello studioso, che si è lasciato via via alle spalle la “fiacca asinità anemica” e “l’irresolutezza fetale” della patria teutonica [75] per inoltrarsi in un territorio che, come il suo vino “troppo ruvido” e la sua aria troppo densa, risveglia e sfianca i sensi [76]; il sacrificio del Furioso che si avvia a sciogliere i “nodi” delle sue “perturbate” membra [77]; e quello di Bruno stesso, arso per la propria sete di conoscenza, si trovano così unificati in quello dell’antico adepto. Negli “occhi morenti” del toro ucciso da Mitra si rispecchia, per l’iniziato, la necessità della propria morte rituale: “l’idea di fondo di questi misteri è sempre la stessa: sei stato ucciso e poi torni alla vita” [78]. La rinascita si svela però, nella caverna di Capua, meno certa e definitiva del previsto. Di fronte alla tradizionale raffigurazione di Mitra che uccide il toro, Warburg scorge infatti, alla luce di una lanterna, un affresco più misterioso. Una “donna seminuda” conduce una biga trainata da “inquietanti animali color blu-nero” [79], forse asini selvatici, “che sono rannicchiati a terra come se fossero caduti e come se attendessero di poter entrare” [80]. In questa figura insolita per l’Occidente (nell'iconografia classica la Luna è trainata di norma sul suo cocchio da più domestici buoi), si può forse riconoscere Ahriman, “la dea” iranica “dell’oscurità” [81], “che riempie di nuovo la sua profondità dopo che il dio della luce [Mitra] ha trionfato” [82].

La teologia solare, che secondo l’avventuriero Cumont si propaga dall’astrologia caldaica all’intera civiltà ellenistica, si svela qui attraversata da un dualismo di matrice iranica che ne incrina il carattere immediatamente “ottimistico” [83] osservato da Warburg nelle cappelle del Tempio di Rimini [84]. Contrariamente al Dio dello gnosticismo, saldo nella sua unità grazie alla sua non compromissione con il mondo, il principio naturale, sensibilmente percepibile del cosmo, si caratterizza infatti come originariamente duplice, in sè diviso: non è che nel proprio avvicendarsi che sole e oscurità, giorno e notte, si danno. Pochi mesi prima, a Roma, Warburg aveva individuato nel carattere “girevole” del rilievo del mitreo tedesco di Dieburg [85], che raffigura su un lato Mitra che trionfa sul toro e sull’altro la rovinosa caduta del figlio del Sole Fetonte sul cocchio infuocato del padre, la possibilità di pervenire a “un’idea più profonda del culto” [86].

Con la figura di Fetonte, attinta probabilmente alla filosofia stoica, che ne aveva fatto il simbolo dell’ekpyrosis, la conflagrazione universale, si insinua infatti, nel movimento unidirezionale del trionfo di Mitra, quello ciclico della natura: nel mito del figlio del Sole il mitraismo rappresenta la capacità di palingenesi del proprio dio (sul piano astronomico, la capacità di porre fine a un ciclo cosmico e iniziarne uno nuovo [87]. Come emergerà in Michelangelo, che dall’episodio, copiato in un importante disegno [88], trae il proprio modello per “le forme della caduta delle anime” per la Cappella Sistina [89], l’ascensione è, nel mito di Fetonte, al tempo stesso rovina, “incendio universale” [90] in cui il trionfatore “è egli stesso bruciato” [91]: elevazione al cielo e caduta nelle profondità della terra, “eliotropismo e trionfo della notte” [92], si rivelano parte di un unico, inscindibile processo.

Questi stessi antitetici momenti si saldano, in Bruno, in un “eliotropismo interno[93]. Non è infatti dato, al protagonista dei Furori, di ricongiungersi alla verità a cui tende, risolvendosi in essa: “quello uno che è l’istesso ente, quello ente che è l’istesso vero, quello vero che è la natura comprensibile” non può essere perseguito una volta per tutte, ma soltanto “in quel modo di persecuzione il quale non ha raggion di moto fisico, ma di certo moto metafisico” [94]. Non è dunque che in una sempre rinnovata esperienza di sè e del proprio corpo che ciò che ne trascende la finitezza può essere attinto: non nelle “negligenze di se stesso” ma nell’autotrasformazione, non nell’oblio ma in una sempre riattivata 'memoria'. Il principio a cui nel furore eroico gli uomini rivolgono la propria “volontà di salvezza” [95] non li investe dall’esterno, come “vasi ed instrumenti”, ma dall’interno, in quanto “artefici ed efficienti” [96]: non è il sole celeste, ma il “sole della ragione” [97]. Nel furore quest’ultima non abdica infatti a favore dell’irrazionale, ma si misura con il proprio limite e ne esce, di volta in volta, trasformata. È infatti soltanto attraverso il ricongiungimento, nel disquarto, alla natura nel suo aspetto caotico, disperso – quello rappresentato, nel mitreo di Capua, dagli asini selvatici di Ahriman – che può emergere, sempre di nuovo, l’esperienza della sua armonia.

Lo sguardo sul futuro (Zukunftsschau), calcolante (zahlenmäßiger) ed 'eroico', non può dunque prescindere, nell’esperienza del furore, dall’immersione (Einsenkung) erotica in ciò che è [98]. L’avventura conoscitiva del Furioso si rivela attraversata da un paradosso che caratterizza per Warburg lo stesso orientamento umano: la necessità, perché quest’ultimo si realizzi, di farsi al contempo preda (“il cervo di Atteone, estraneo all’umanità”) e cacciatore (Atteone stesso, “scrutatore dalla rocca della coscienza razionale” [99], di restare al tempo stesso fuori e dentro l’esperienza. Il gesto dell’antico gigante Anteo [100], abbarbicato alla terra, si fonde così con quello dell’indovina Cassandra, malinconicamente sradicata dal divenire che osserva, per dare vita ad una “Cassandra invertita”, che si proclama parte in causa di ciò che la divinità di volta in volta le assegna: “Tu (dio) non mi hai dato da vedere che ciò che io posso ancora rivoltare (Darum gabst Du nur zu schauen, was ich doch noch wenden kann)" [101].

Lo stesso carattere sempre provvisorio, iniziale, ha la visione del Furioso. L’essenza dell’infinita 'persecuzione' in cui essa consiste non può essere cercata, come per Aristotele quella del tempo intero [102], che di volta in volta nel suo infinitesimale “instare”: Amor instat ut instans [103]. Privata della propria istantanea transitorietà, la visione eroica di Atteone si converte infatti in un eidolon [104] mostruoso, come quello che ne L’opera di Zola soggioga dalla sua tela l’artista che l’ha evocato. Nell’indecifrabile corpo che si fa incontro al pittore Claude Lantier [105], Warburg scorge un 'derivato' della splendida natura (la Diana) che si svela al Furioso [106]: il mostro tentacolare in cui essa si trasforma per chi cerchi di coglierla una volte per tutte [107]. Nel mondo sensibile a cui si avvicina sino al disquarto di sè, Atteone non scorge infatti Dio, la “luce absoluta”, ma di volta in volta “la sua ombra”, “la luce che è nell’opacità della materia, cioè quella in quanto splende nelle tenebre” [108]. L’errore di Claude Lantier è quello di violare il carattere umbratile di Diana per fissarla in piena luce: catturata come origine, “causa primordiale”, la natura si converte in “scherzo di natura”, la tellus in monstrum [109]. Lo “spirito di presunzione” che conduce a questa catastrofe è ciò da cui il Furioso deve prendere definitivamente congedo: solo allora, “rilassati i nervi, dismessi gli ordegni” [110], l’abbandono alle tenebre della natura può infatti aprire, in esse, uno spiraglio, e la “dedizione al caos e alla hyle” divenire la condizione del “distacco che produce lo spazio del pensiero” [111]. Il “desperado Akt” di Atteone [112] si trasforma così impercettibilmente nella pausa consapevole dei personaggi del Déjeuner sur l’herbe di Manet, distesi a terra non perché “non possono”, ma perché “non vogliono” rialzarsi [113].

Un “intervallo della respirazione”

I movimenti di ascesa e di discesa cosmica, sulle cui tracce Warburg si è spinto per l’ultima volta in Italia, sembrano trovare un punto di equilibrio nell’abbandono orizzontale che caratterizza i personaggi del Déjeuner sur l’herbe di Manet. Distesi a fare colazione sul prato, questi ultimi occupano infatti, nel loro affidarsi alla terra, una posizione intermedia tra l’alto e il basso, tra l’elevazione e la caduta.

Al regno intermedio della natura e dei suoi demoni appartengono del resto già i loro antenati, che Warburg scopre, durante la propria ultima permanenza a Roma, sugli antichi sarcofagi di alcune ville romane: “tre semidivinità nude e sdraiate legate alla Terra”, che contemplano dalle rive di un fiume il ritorno degli dei all’Olimpo [114]. Nella postura indolente di questi demoni, come in quella della divinità fluviale Eridano, tradizionalmente chino su sè stesso, la “mitologia della natura pagana” ha voluto da sempre rappresentare la “concentrazione dell’energia naturale, così come essa agisce nell’acqua stagnante o che fluisce” [115]. L’abbandono dei tre geni alla terra è dunque abbandono alla natura in quanto energia, capacità di mutamento: possibilità di ascesa e discesa, di scorrimento o di arresto. La forza a cui i demoni si affidano costituisce però, assieme alla loro elementare bellezza, anche la loro rovina: nella sua eventualità imponderabile li espropria di intenzioni e parole, lasciandoli svuotati. I corpi dei tre semidei sembrano infatti “essere stati gettati sulla riva casualmente e senza che mostrino alcun segno di un possibile rapporto tra di loro” [116] ed essi, “nella loro nudità e bellezza, non hanno nulla da dirsi” [117]: a insidiare la contemplazione della natura come idillio si fa strada l’idea che “i nostri predecessori pagani non se la passavano poi così bene” [118].

A questo destino sfuggono i personaggi di Manet: la forza che lega le antiche semidivinità alla terra, imprigionandole entro i confini della “naturale ed ovvia esistenza ferina” perde nei loro successori moderni il proprio carattere estrinseco, per farsi necessità interiore. È questo che – attraverso alcuni “spostamenti apparentemente del tutto insignificanti nella raffigurazione dei gesti e del volto” rispetto ai propri modelli classici [119] – i protagonisti del Déjeuner sur l’herbe rivelano: nel loro sguardo, distolto dagli eventi numinosi del cielo a cui sono ancora intenti i loro predecessori e coscientemente rivolto in avanti, la soggezione al trascendente si fa ascolto assorto, la resa alla terra sospensione volontaria dell’azione. Il trasporto (Ergriffenheit) cultuale di cui Warburg, nel suo ultimo viaggio in Italia, ripercorre come mystes le tracce si svela così, nel quadro di Manet, originariamente incorporato nella presa (Ergreifen) [120] della scienza: a contatto con la moderna razionalità, la prostrazione di fronte al divino diviene abbandono consapevole alla natura come ciò che segna il proprio limite, la propria possibilità di essere altrimenti. In questa resa momentanea è custodito, per l’uomo civilizzato, il contatto con quella sua “immagine ideale” che è “l’uomo primitivo”, con la possibilità, propria di quest’ultimo, di attingere sempre di nuovo il “mondo vivo che lo circonda”:

L’uomo primitivo è certamente un’invenzione della cultura, vale a dire è l’immagine ideale di colui che è gravato dalla tradizione e che si trova di fronte alla questione se egli possa interiorizzare adeguatamente da un lato il patrimonio ereditario del passato, dall’altro le impressioni del mondo vivo che lo circonda [121].

Nella natura a cui si accosta, il demone umanizzato di Manet non cerca dunque ciò che già è ma, come un nuovo Diogene, ciò che sempre nuovamente gli sfugge: da “simbolo del fatalismo passivo [egli] si trasforma [...] in un cinico, retto interiormente dall’ottimismo” [122]. Interiorizzata, l’accidia dei suoi predeccesori pagani [123] si converte infatti in lui nell’intervallo (Zwischenraum) della sophrosyne [124], in quella pausa dell’argomentare in cui, per un istante, sapere e ignoranza, “vittoria e dolore” si stringono in un nodo solo [125]. È questo l’attimo in cui i demoni inerti si fanno, ad un tempo, heroes e cowards [126]: l’emergere di quella conscience in cui si sovrappongono, shakespearianamente, vincitori e vinti. Nella coscienza come sempre rinnovata Formung [127], messa in forma che si libra tra l’ordine e il caos, si intrecciano “entusiasmo” e capacità di convogliare (Geleisigkeit) la propria attività in una struttura; abbandono (Hingabe) e affermazione (Behauptung), perdita e appropriazione di sè [128]. Lo 'spazio misterico' che Warburg ripercorre non si dissolve dunque nello 'spazio ideale' a cui dà origine, ma permane in esso come vuoto dinamico, intermittente sussulto.

Ad accendere l’ironia negli occhi dei personaggi di Manet è infatti la stessa instabile 'scintilla' che incalza, nello Spaccio, i vecchi dei olimpii e le loro polverose simbologie [129]: la synderesis che il Momo del dialogo bruniano incarna “come ironica e secolare coscienza europea” [130]. La modernità raccoglie, con Manet, l’eredità di quella meditazione sulla coscienza di cui la riflessione warburghiana su Bruno e sul suo legame con Shakespeare indaga, tra Cinque e Seicento, l’emergere [131]. Se è tuttavia in contrapposizione all’afasia degli antichi demoni che, nei personaggi del Déjeuner, la scintilla si manifesta, nella Medea di un affresco pompeiano, che con la spada in mano esita di fronte alla propria tragica decisione, essa mostra il proprio volto antico [132]. Alla sinderesi, in quanto “potenza pronta all’atto”, potentia habitualis [133], è affidato infatti quell’ “intervallo eternamente mobile tra impulso e azione” [134] che costituisce di volta in volta il confine tra naturale accadere e libertà. È infatti alla natura che la sinderesi attinge il suo carattere ciclico: nel ritmo intermittente della scintilla della coscienza si rispecchia il “ciclo della vita” [135]. A quest’ultimo appartengono, nel loro alternarsi, l’inspirazione e l’espirazione, così come, nel cosmo, l’ascesa e la discesa. Se all’oscillazione non è dunque dato sottrarsi, è possibile però dilatarne, ogni volta, l’intervallo:

L’ascesa di Elio verso il Sole e la discesa di Proserpina negli Inferi simboleggiano due tappe che appartengono in modo inscindibile al ciclo della vita, come l’inspirazione e l’espirazione. Come unico bagaglio per intraprendere questo viaggio possiamo portare con noi solo l’intervallo eternamente mobile tra impulso e azione: sta a noi decidere quanto possiamo dilatare, con l’aiuto di Mnemosyne, questo intervallo della respirazione [136].

Bagaglio del viaggio nel cosmo non è, come per la tradizione gnostica, il germe di una conoscenza che attenda al di là delle sue tappe sensibili, ma quella che scaturisce, di volta in volta, dalla possibilità di sostare tra l’una e l’altra di esse. Non è infatti oltre la “vita reale”, ma in essa, nell’intervallo del suo pulsare, che il pensiero può aprire sempre nuovamente il proprio spazio. Nel ritmo intermittente della coscienza, nel suo periodico riprendere da capo, la logica svela così il proprio intreccio con l’estetica: “Estetica come orientamento logico in Giordano Bruno” è il tema che Warburg si propone nell’ottobre del 1929 per la propria prolusione rettorale. Al fraintendimento di chi, come la stessa “collega Bing”, continua ad identificarla con la ‘teoria dell’arte’, Warburg oppone la necessità di concepire l’estetica come 'atto' che dissolve il carattere deterministico dell’immagine, facendosi così ‘orientamento logico’:

Warburg: Personalmente mi sono proposto il tema: estetica come orientamento logico in Giordano Bruno.
Bing: Non trovo che il termine “estetica” sia un’espressione felice poiché conserva qualcosa che ha a che fare con la teoria dell’arte. Il termine “carattere figurativo” (Bildhaftigkeit) mi sembra migliore.
Warburg: Non è forse vero che l’allontanamento del determinismo figurato delle costellazioni, anche se a contrasto, è un atto estetico? Nel quale logica e anti-estetica fioriscono ancora su un medesimo stelo?
Bing: Dunque: la condanna etica di ciò che è estetico come orientamento logico in Giordano Bruno [137].

Prima che all’etica, la “condanna [...] di ciò che è estetico” in quanto 'determinismo figurato' appartiene però al carattere attivo, energetico dell’estetica stessa: “Perseo o Estetica energetica come funzione logica nel problema dell’orientamento in Giordano Bruno [...] così si intitolerà la mia prolusione rettorale” [138], Warburg annota alle 4 del mattino del 26 ottobre 1929, poche ora prima di morire. Nel Perseo bruniano, costretto a lasciare il proprio trionfo celeste per iniziare nuovamente sulla terra la propria impresa, si incarna, per il pensiero, la necessità di tornare ogni volta di nuovo alla “dinamica della vita” [139]. È all’interno di quest’ultima, infatti, nel movimento alterno che la caratterizza, che la conoscenza logica può farsi sempre nuovamente ‘atto estetico’ e l’estetica divenire, in tal modo, ‘orientamento logico’. 

La ciclicità che, come alternanza tra sacrificio e rinascita [140], caratterizzava lo ‘spazio misterico’ permane dunque all’interno dello ‘spazio ideale’ senza, per questo, annullare in esso il mutamento, ma divenendone al contrario condizione costitutiva: nella necessità di finire e ricominciare ogni volta da capo tornano ad incontrarsi, sempre nuovamente, l’infinito trascorrere del pensiero e quello del mondo. La trascendenza a cui gli antenati classici dei personaggi di Manet sono intenti si svela così custodita non al di là della natura a cui questi volgono le spalle, ma in essa, nella ‘scintilla’ sempre pronta ad accendersi al contatto con il loro sguardo.

Nell’ininterrotto innescarsi e dileguare di quest’ultima, “eliotropismo e trionfo della notte”, sacrificio e rinascita lasciano la dimensione escatologica del culto per trovare posto nella continuità dello spazio e del tempo. In essa la tradizione può così a ogni istante ritrovare, oltre il proprio ‘gravare’ [141], il libero movimento che la costituisce, quello “stato cinetico-estatico” della funzione mnemica [142] che si manifesta a Warburg, subito prima di riprendere la sua strada verso nord, nell'annuale danzare, per le strade di Nola, delle torri di legno dipinte che celebrano, con un “vulcanico scoppio di immagini”, il solstizio d’estate.

Note

[1] Warburg [1928-1929] 2001, 456.
[2] Warburg [1929] 2008/Bruno, 941-945.
[3] Warburg [1929] 2008/Bruno, 938.
[4] Vd. Brosius 1997.
[5] Warburg [1928-1929] 2001, 361. E ancora, il 12 novembre 1928: “bei Poimandres, wie es sich gehört, eingeschlafen”, ivi, 365.
[6] Warburg [1928-1929] 2001, 460.
[7] Warburg [1928-1929] 2001, 467, 458.
[8] Ma il motivo della discesa e ascesa dell’anima attraverso le sfere è, secondo Gioachino Chiarini, già presente, “su indubitabile influenza delle culture mesopotamiche”, in epoca omerica: vd. Chiarini 2003, 245-247.
[9] Warburg [1928-1929] 2001, 350.
[10] Warburg [1928-1929] 2001, 352.
[11] Warburg [1928-1929] 2001, 467.
[12] Warburg [1928-1929] 2001, 354; per il dialogo, all’interno del Tempio, tra cristianità e paganesimo vd. la Tavola 25 del Bilderatlas Mnemosyne con il saggio interpretativo pubblicato in Engramma; vd. inoltre Centanni 2007.
[13] Warburg [1928-1929] 2001, 359. In particolare Gertrud Bing ritiene incompatibile con l'iconografia di una delle Muse la figura con la corona di teste: si tratta invece proprio di una rappresentazione di Calliope, giusta le indicazioni fornite da Guarino Veronese nell'Epistola De Musis. Sulla rinascita delle Muse nel Tempio Malatestiano vd. Bordignon 2005.
[14] Warburg [1928-1929] 2001, 358.
[15] Warburg [1928-1929] 2001, 363; ed è forse proprio la discesa dell’anima nel “burrascoso mondo sublunare” a essere rappresentata nel “rematore in balìa delle onde” che, nella Cappella dei pianeti, “sembra cercare rifugio su un’isola”: vd. Bertozzi 2003, 158-170.
[16] Sulla filosofia di Gemisto Pletone in relazione al Tempio Malatestiano, vd. Centanni 2003.
[17] Per il legame tra l’iconografia del Tempio e il neoplatonismo rinascimentale vd. tra gli altri Mitchell 1978 e Meldini 1983; su Gemisto e Sigismondo vd. anche Bertozzi 2003.
[18] Warburg [1928-1929] 2001, 453.
[19] Warburg [1928-1929] 2005, 15.
[20] Cumont [1929] 1990.
[21] Warburg [1928-1929] 2001, 361.
[22] Warburg [1928-1929] 2001, 353. Sulla leggenda luciferina di Sigismondo Malatesta, che per il proprio paganesimo si guadagnò l’attribuzione di ogni sorta di crimini e l’epiteto, da parte di papa Pio II, di “disonore d’Italia e vergogna del suo tempo”, vd. Bertozzi 2008.
[23] Warburg [1928-1929] 2001, 457.
[24] Warburg [1928-1929] 2001, 363: cfr. Macrobio, I, 23, 12.
[25] Warburg [1928-1929] 2001, 360.
[26] Vd. Jonas [1958] 1991, pp. 89-91: “la principale arma del mondo nella sua grande seduzione è 'amore'”.
[27] Warburg [1928-1929] 2001, 356.
[28] Warburg [1928-1929] 2001, 360.
[29] Warburg [1928-1929] 2001, 356; vd. Reale 2006, 13; sull’eros cosmogonico nei Magika logia di Gemisto Pletone vd. Centanni 2003.
[30] Klages [1922] 1979.
[31] Warburg [1928-1929] 2001, 458.
[32] Warburg [1905] 2004, 408.
[33] Warburg [1929] 2008/Ghirlandaio, 865.
[34] Warburg [1929] 2008/Ghirlandaio, 867.
[35] Warburg [1928-1929] 2001, 344, 361.
[36] Warburg [1929] 2008/Ghirlandaio, 834, 867.
[37] Warburg [1929] 2008/Ghirlandaio, 873.
[38] Warburg [1928-1929] 2005, 103.
[39] Warburg [1929] 2008/Ghirlandaio, 834.
[40] Warburg [1928-1929] 2001, 436.
[41] Warburg [1929] 2008/Ghirlandaio, 834, 866.
[42] Warburg [1929] 2008/Ghirlandaio, 836; vd. Bordignon 2004.
[43] Warburg [1928-1929] 2005, 27.
[44] Warburg [1929] 2008/Ghirlandaio, 834.
[45] Warburg [1929] 2008/Ghirlandaio, 833.
[46] Warburg [1929] 2008/Ghirlandaio, 837.
[47] Vd. Warburg [1928-1929] 2001, 373 (22.XI.1928): "Iniziato nel pomeriggio a leggere Giordano Bruno in tedesco". E poco più di un mese prima, a Bologna: “Dobbiamo leggere Giordano Bruno” (14.X.1928, ivi, 350). Per una ricostruzione dell’avvicinamento di Warburg a Bruno vd. Mann 2003. Su Warburg e Bruno cfr. inoltre Cassirer Studies 2008. Per il tema della memoria in Warburg e in Bruno cfr. Quiviger 2009 e Tavola '68 2008.
[48] Warburg [1929] 2008/Bruno, 960-962.
[49] Bruno [1584] 2008, 129.
[50] Bruno [1584] 2008, 209-210.
[51] Warburg [1929] 2008/Bruno, 965.
[52] Warburg [1928-1929] 2001, 457.
[53] Lettera a Saxl del 21 maggio 1929, cit. in Ghelardi 2008, XVI e 933.
[54] Bruno [1584] 2008, 124.
[55] Bruno [1584] 2008, 124, 167.
[56] Warburg [1929] 2008/Bruno, 957.
[57] Warburg cita qui, reinterpretandolo, il giudizio di P. Bayle, Dictionnaire historique et critique (1820), s.v.: “Ceci nous donne l’idée d’un personnage, qui, en matière de philosophie, fait le chevalier errant”.
[58] Bruno [1584] 2008, 131.
[59] Warburg [1929] 2008/Bruno, 981, 983.
[60] Bruno [1584] 2008, 209.
[61] Warburg [1929] 2008/Bruno, 970.
[62] Bruno [1584] 2008, 209.
[63] Warburg [1929] 2008/Bruno, 960.
[64] Sul carattere innovativo, rispetto alle “coeve linee di tendenza della storiografia italiana di ispirazione gentiliana”, dell’interpretazione warburghiana di Bruno come “un uomo che pensa per immagini”, vd. Ciliberto 2005, 373-377.
[65] Warburg [1928-1929] 2001, 457.
[66] Warburg [1929] 2008/Bruno, 981.
[67] Warburg [1928-1929] 2005, 29.
[68] Bruno [1584] 2008, 124.
[69] Warburg [1929] 2008/Bruno, 967: “Lo Spaccio significa proprio una grazia condizionata”. 
[70] Warburg [1928-1929] 2005, 42.
[71] Lettera a Saxl del 21 maggio 1929, cit. in Ghelardi 2008, XVI e 933.
[72] Bruno [1585] 2000, 36-37.
[73] Warburg [1929] 2008/Bruno, 933.
[74] Warburg [1928-1929] 2001, 453.
[75] Warburg [1928-1929] 2005, 78; entrambi i fulminanti giudizi si riferiscono in particolare allo storico dell’arte Willy Otto Drost, direttore del Museo di Danzica incontrato a Roma, la cui “fiacca asinità anemica” rende “tanto teutonico”.
[76] Warburg [1928-1929] 2001, 352: “sono più dritto sui piedi (Bin mehr [...] auf den Füßen) che a casa ma anche – ad attacchi – più stanco”.
[77] Bruno [1585] 2000, 127.
[78] Warburg [1929] 2008/Bruno, 933. Come la conoscenza a cui il Furioso si avvicina, “il mistero non si dice, non si lascia 'parlare' dal logos ma va intimamente vissuto”. “Le varie forme di religione misterica non rappresentavano” infatti “un’opzione personale e segreta in contrasto con la religione pubblica” ma “erano invece comunque accettati, anche pubblicamente, come una dimensione ‘alternativa’ del sentire religioso”: i misteri erano “'segreti', ma in un senso molto particolare [...] in quanto àrrheta, 'indicibili', 'impossibili a dirsi'” (Bergamo, Centanni 2006).
[79] Warburg [1928-1929] 2001, 456.
[80] Warburg [1929] 2008/Bruno, 943.
[81] Warburg [1928-1929] 2001, 456.
[82] Lettera a Saxl del 21 maggio 1929, cit. in Ghelardi 2008, XVI e 933.
[83] Warburg [1928-1929] 2001, 363.
[84] Nell’Avesta Ahriman, o Angra Mainyu, è lo spirito delle tenebre, che si oppone originariamente a Spenta Mainyu, quello della luce. Entrambi sono emanazioni di Ahura Mazda, lo spirito supremo. Mitra, pur presente nell’Avesta, non ha ancora in esso il ruolo di divinità suprema che ricoprirà invece in seguito, nel culto ellenistico a lui dedicato, ma è uno degli aiutanti dello spirito benefico. Per la compresenza, all’interno del Mitraismo, di una componente astrologica di derivazione caldaica e di un dualismo che ha le sue radici nella religione iranica vd. Cumont [1929] 1990, 116-117.
[85] Warburg [1929] 2008/Bruno, 935.
[86] Warburg [1928-1929] 2005, 63.
[87] Vd. Ulansey 2001.
[88] Vd. Warburg [1928-1929] 2005, 68: “il disegno del Fetonte (Michelangelo) emerge e vuole essere forgiato come un anello – pesante – della catena”.
[89] Warburg [1928-1929] 2001, 457.
[90] Warburg, [1929] 2008/Bruno, 935.
[91] Warburg [1928-1929] 2001: “Der Kampfer wider das Monstrum am Himmel wird selbst verbrannt”.
[92] “Aby Warburg verso Capua – eliotropismo e trionfo della notte”: Warburg [1929] 2008/Bruno, 938.
[93] Warburg [1928-1929] 2001, 451.
[94] Bruno [1585] 2000, 57.
[95] “Josannawillen”. Warburg [1928-1929] 2001, 451: “Marcello Palingenio Josannawillen zum Stehen gebracht als Sonne der Vernunft (Synderesis!)”.
[96] Bruno [1585] 2000, 42-43.
[97] Warburg [1928-1929] 2001, 451.
[98] Warburg [1928-1929] 2001, 452. Letteralmente “l’immersione in ciò che è eroticamente perduto (an das erotisch verruchte)”: in ciò che, nel suo darsi all’amore, ne è già sempre consumato, perduto.
[99] Warburg [1928-1929] 2001, 452. 
[100] “Antaeisch furioser” è definita “l’immersione in ciò che è eroticamente perduto”.
[101] Warburg [1928-1929] 2001, 452.
[102] È al quarto libro della Fisica che Bruno qui si riferisce: “Perché se non fusse l’instante, non sarebbe il tempo: però il tempo in essenza e sustanza non è altro che instante. E questo baste, se l’intendi (perché non ho da pedanteggiar sul quarto de la Fisica)”; Bruno, Eroici furori, 90.
[103] Bruno [1585] 2000, 57, 89.
[104] Warburg [1928-1929] 2005, 108.
[105] Zola [1886] 2006.
[106] Warburg [1928-1929] 2001, 451
[107] Warburg [1928-1929] 2005, 108.
[108] Bruno [1585] 2000, 127.
[109] Warburg [1928-1929] 2005, 108. 
[110] Bruno [1585] 2000, 11.
[111] Warburg [1929] 2008/Bruno, 979.
[112] Warburg [1928-1929] 2001, 452.
[113] Warburg [1928-1929] 2005, 81.
[114] Warburg [1929], 2008/Manet, 786-787; sui modelli del quadro di Manet vd. in Engramma, Ninfa 2004.
[115] Lettera a Gustav Pauli del 14 febbraio 1929, cit. in Ghelardi 2008, XX.
[116] Lettera a Gustav Pauli del 14 febbraio 1929, cit. in Ghelardi 2008, XX.
[117] Pauli [1908] 2008.
[118] Warburg [1929] 2008/Manet, 786.
[119] Warburg [1929] 2008/Manet, 786.
[120] Warburg [1928-1929] 2001, 361.
[121] Warburg [1929] 2008/Ghirlandaio, 832.
[122] Warburg [1928-1929] 2005, 92.
[123] Warburg [1928-1929] 2005, 92: “Déjeuner sur l’herbe: la catarsi dell’accidia, grazie all’Eridano riformato...”.
[124] Warburg [1928-1929] 2001, 434; Warburg [1929] 2008/Bruno, 975.
[125] Warburg [1928-1929] 2005, 43.
[126] Warburg [1928-1929] 2005, 43. Il riferimento è al famoso monologo della prima scena del terzo atto dell’Amleto: "Così la coscienza ci rende tutti codardi". L’accostamento con Shakespeare accompagna l’intera interpretazione warburghiana di Bruno. Così la trasformazione, al termine degli Eroici furori, del cacciatore Atteone in preda, è messo in relazione con un passo del Riccardo III in cui l’opposizione furiosa dell’amata si converte in trasporto amoroso: “ma fu mai conquistata una donna con questo stato d’animo?”: Warburg [1929] 2008/Bruno, 975. Vide Shakespeare, Riccardo III, I, 2: “Ci fu mai donna così corteggiata? / ci fu mai donna così conquistata? / La voglio, sì, ma non la terrò a lungo. / Io, che le ho conquistato il suocero e il marito / L’ho conquistata, nel colmo del furore / con la bestemmia in bocca, negli occhi il pianto, / e il teste sanguinante del suo odio accanto” (traduzione di J. Wilcock e G. Melchiori, Milano 2008).
[127] Warburg [1928-1929] 2005, 43 e Warburg [1928-1929] 2001, 398.
[128] Warburg [1928-1929] 2001, 467, 460, 344.
[129] La sinderesi è definita come 'scintilla' nel commento di San Girolamo a Ezechiele; vd. Warburg [1928-1929] 2005, 92: “Ho letto con grande profitto nell’Archiv Geschichte Philosophie, X, Siebeck sulla synderesis. Conservatio scintillae della coscienza: l’ammonitore (tarlo della coscienza) e l’aquila in Ezechiele”. Sulla sinderesi e sulla sua possibile interpretazione in relazione al tema della coscienza, vd. Desideri 1998, 243-247.
[130] Bruno [1585] 200080; Warburg [1928-29] 2005, 89.
[131] Warburg [1928-1929] 2001, 484.
[132] Warburg [1926] 2008, 629; a un modello antico risale probabilmente del resto anche il volgersi, per Warburg così moderno, della ninfa di Manet: vd. Centanni 2004.
[133] Vd. Desideri 1998, 244.
[134] Warburg [1926] 2008, 632.
[135] Warburg [1926] 2008, 632.
[136] Warburg [1926] 2008, 632.

[137] Appunto del 9 ottobre 1929, cit. in Ghelardi 2008, XVI.
[138] Warburg [1928-1929] 2001, 555.
[139] Warburg [1926] 2008, 632.
[140] Sul tema del sacrificio vd. Warburg [1929] 2008/Bruno, 926, 929-930.
[141] Warburg [1929] 2008/Ghirlandaio, 832.
[142] Warburg [1928-1929] 2001, 459.

Bibliografia
Fonti

Bruno [1584] 2008
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English abstract

The last trip to Italy, undertaken between September 1928 and June 1929, the year of his death, assumed for Warburg the shape of an “expedition to the sources of European enthusiasm”, an attempt to “live like a mystes the worship of Mithra from Rimini to the Sistine Chapel”. A journey of the soul, in which the scholar gradually left behind his German attitude, advancing into a territory which, like its wine “too rough” and its air “too thick”, broke but at the same time awakened the senses. Warburg’s journey in Italy was not only a trip to another country, but configured a mental movement regarding the idea of cosmic ascent and descent, considering the astrological depictions of planetary gods as well as the Neoplatonists harmonics in the Tempio Malatestiano; the fury of funerary daemons on Roman sarcophagi as well as Imperial triumphal art on arches and coins; the adhesion to Nature in Giordano Bruno’s works as well as its ascent to the light of reason; the mysterious depths in the mithraeum of Capua as well as the positive abandonment of the characters of Manet’s Djeuner sur l'herbe. In Warburg’s thought, the “space of mysteries” seems not so much an alternative to the “space of thought”, but rather a source from which it's impossible, finally, taking leave.

keywords | Warburg; Giordano Bruno; Mithraeum of Capua.

Per citare questo articolo: Alice Barale, Discesa nello spazio misterico e “spaccio delle tenebre”: l’ultimo viaggio di Warburg in Italia, “La Rivista di Engramma” n. 80, maggio 2010, pp. 5-29 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2010.80.0008