"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

80 | maggio 2010

9788898260256

L’architettura come testo e la figura di Colin Rowe

Mauro Marzo

 English abstract

Una approfondita indagine intorno alla lezione rowiana: così potrebbe sintetizzarsi il contenuto del volume pubblicato da Marsilio-Iuav nel febbraio 2010 L’architettura come testo e la figura di Colin Rowe [1]

Attraverso i diversi saggi che lo compongono, il libro si pone in prima istanza l’obiettivo di esplorare la figura del critico, teorico e docente inglese Colin Rowe, attraverso l’analisi della sua formazione e la lettura interpretativa di alcuni dei suoi scritti: da La matematica della villa ideale a Transparency: Literal and Phenomenal, da Collage City fino a L’architettura delle buone intenzioni. I diversi apporti di progettisti, di storici dell’architettura e di studiosi di tradizione del classico accompagnano il lettore alla comprensione del pensiero di uno studioso che – allievo di Rudolf Wittkower al Warburg Institute prima, maestro di James Stirling e mentore di Peter Eisenman poi – indagava le ragioni formali del primo e dell’ultimo Le Corbusier attraverso Palladio, leggeva la città come un collage fatto di sfondi e figure, analizzava le architetture come testi in attesa di essere letti.

Due specifici punti di vista possono essere individuati nei saggi che compongono L’architettura come testo e la figura di Colin Rowe. Il primo punto di vista è presentato da storici dell’architettura o della 'tradizione del classico'. Francesco Benelli, Marco Biraghi, Monica Centanni, Katia Mazzucco, Alessandra Ponte indagano i modi con cui il critico inglese si confronta con i suoi maestri, quanto del loro metodo e dei loro temi di ricerca permanga nella sua produzione, in cosa egli si allontana dai loro principi, con quali testi architettonici e quale letteratura Rowe dialoga per approfondire le questioni a lui più care: il carattere, la composizione, il 'classico' usato come filtro per leggere l’architettura contemporanea, il collage come metodo di analisi storica oltre che proposta operativa per le città. Il secondo punto di vista indica, in maniera più o meno esplicita, come gli studi di Rowe possano assumere nuovi valori di senso per chi oggi si occupa di progetto, evidenziando punti critici, ma al contempo illustrando con chiarezza potenzialità evidenti, e ancora inespresse, della eredità rowiana. Quest’ottica attraversa in maniera differenziata molti saggi, da quello di Luciano Semerani, a quelli di Alberto Ferlenga, Luca Ortelli, Bernardo Secchi, fino a quelli di Peter Eisenman e Robert Maxwell, che hanno avuto una lunga consuetudine con il critico inglese e più volte, nel corso di scritti e interviste, hanno sottolineato l’importanza rivestita da Rowe nella loro formazione.

Ciò che emerge complessivamente dalla lettura dei diversi contributi del volume è che non di fondamenti o certezze  è stato maestro Rowe, ma di affiancamenti perturbanti tra classico e moderno, di congetture verificabili solo attraverso la coerenza interna del ragionamento, di manipolazioni e smontaggi che preludono ad azioni progettuali.

Gli scritti di Colin Rowe non descrivono le opere, ma le interpretano, le trasfigurano, le sottopongono a inattese comparazioni capaci di far scaturire risonanze tra architetture distanti nello stile. Connotati da tecniche e modalità espositive che sembrano attingere al campo della retorica, i suoi saggi intessono una trama di inedite relazioni tra edifici temporalmente e stilisticamente lontani, individuano analogie tra le strutture formali dei manufatti e guardano alla storia dell’architettura come a un campo di trasformazioni continue nel quale ciascun manufatto sembra parlarci non solo di se stesso, ma anche di tutti gli altri cui ragionamenti analogici sia significativo correlarlo. "Il suo strumento conoscitivo è l’occhio, un privilegio naturale che si alimenta della varietà delle forme quasi fossero per lui una incessante e quotidiana necessità; una varietà, tuttavia, che egli riesce a governare grazie alla disciplina stressante del raffronto e dell’analogia", ha scritto Paolo Berdini [2]. E la disciplina del raffronto e dell’analogia si applica tanto agli studi sulle singole architetture quanto alle analisi del fenomeno urbano.

Le architetture di Palladio e Le Corbusier comparate nell’articolo The Mathematics of the Ideal Villa del 1947 costituiscono, da questo punto di vista, un caso emblematico: dittico eretico e cortocircuito temporale insieme, che affianca due coppie di opere lontane cinque secoli le une dalle altre. Rowe istituisce una chiara relazione tra classico e moderno attraverso il raffronto de La Rotonda e di villa Savoye da una parte, di villa Foscari e di villa Stein-de Monzie dall’altra. Eterodosso sia rispetto all’impostazione che dominava la storiografia del movimento moderno che rispetto agli insegnamenti del maestro Wittkower, lo scritto determina il sovvertimento di una delle questioni fondamentali su cui si era basata l’idea dell'originalità dell’architettura moderna, ovvero la sua assoluta indipendenza da ogni tradizione stilistica precedente. I disegni e i diagrammi che corredano l’articolo costituiscono inoltre un livello di lettura parallelo al testo che rafforza, con l’immediatezza iconica, il collegamento tra le due coppie di ville. I lettori di "Architectural Review" dovettero provare lo strano spaesamento che avverte chi, sfogliando un vecchio libro di cui siano andati dispersi molti capitoli, si trovi improvvisamente di fronte all’incongruo affiancamento di pagine e figure inizialmente assai distanti tra loro [3]. Alcuni autori del volume che qui si presenta indagano le possibili ragioni che dovettero suggerire a Rowe l’analisi comparata delle due coppie di ville - La Rotonda/villa Savoye e, soprattutto, La Malcontenta/villa Stein-de Monzie. L’influenza di Wittkower, dei suoi studi sulle ville rinascimentali di Palladio e sui sistemi proporzionali e armonici che le governano, la fortuna critica del maestro padovano durante il periodo del classicismo inglese dei secoli XVII e XVIII, l’influenza indiretta degli studi warburghiani e la stessa passione per l’architettura moderna del giovane critico giocano un ruolo fondamentale nella ideazione-elaborazione di una comparazione tanto sorprendente. Benelli, Centanni, Mazzucco misurano la reale portata dell’influenza su Rowe degli studi warburghiani e degli insegnamenti di Wittkower e ai loro saggi si rimanda il lettore che volesse approfondire questi aspetti. È utile, tuttavia, far qui riferimento al fatto che Rowe giunge a indagare insieme tradizione e modernità, prendendo a prestito dalla storiografia quello che gli appariva l’unico sistema capace di addivenire alla costruzione di un’analisi critica attraverso la comparazione di due opere: il metodo wölffliniano. Rowe si era avvicinato tramite gli studi wittkoweriani al sistema di analisi formale approntato dallo storico dell’arte Heinrich Wölfflin, che si basava sul dialettico confronto di oggetti attraverso coppie di simboli visivi in contrapposizione (lineare-pittorico, forma chiusa-forma aperta, ecc.) e volto alla comprensione dei mutamenti delle forme nel tempo[4]. La tecnica delle due diapositive accoppiate che già aveva connotato le lezioni di Wölfflin e una certa propensione metodologica al confronto dualistico tra figure e concetti divengono, a partire dal 1947, una costante dell’œuvre rowiana. Non solo dunque La Rotonda e la villa a Poissy, La Malcontenta e la villa a Garches, ma anche l’edificio del Bauhaus di Gropius e il progetto per il Palazzo della Società delle Nazioni di Le Corbusier, la trasparenza letterale e quella fenomenica, la figura e lo sfondo, l’oggetto e il vuoto e il celeberrimo raffronto tra la pianta del centro di Parma e il progetto per Saint-Dié di Le Corbusier che illustra una delle pagine di Collage City.

Sono in fondo gli opposti figurativi di vuoti e tessuti compatti, di oggetti isolati e territori della dispersione illustrati nel libro del 1978 a suggerirci che il significato della città è forse da ricercare proprio nello spazio che sta tra le cose, nel rapporto tra il pieno e il vuoto, nella relazione tra il poché e la superficie bianca del foglio. Il progetto urbano non consiste forse nella capacità di comporre quelle alterità?

Ab-soluti, sciolti da ogni ideologia e da ogni contingenza, edifici e pezzi di città possono essere allora studiati indipendentemente dall’appartenenza a stili ed epoche, possono divenire oggetto di comparazioni e affiancamenti che smontano incasellamenti storiografici, possono essere utilizzati come materiali per nuovi progetti e nuove narrazioni. Su tali questioni ritorna a ragionare ossessivamente Rowe nel corso della sua lunga carriera. Gli autori dei saggi de L’architettura come testo e la figura di Colin Rowe imbastiscono sottili dialoghi critico-interpretativi con tali ossessioni e con il particolare modo di guardare all’architettura, alla città e alla storia che connota l’opera rowiana. Quanto questi dialoghi possano tornar utili ad illuminare il nostro presente e quanto possano aiutarci a comprendere oggi l’architettura, la città e la storia, è questione da lasciare aperta a coloro i quali vorranno immergersi nella lettura del primo libro interamente dedicato alla figura di Colin Rowe.

Note

[1] Il titolo del libro, pubblicato da Marsilio-Iuav,  riprende quello del Convegno internazionale svoltosi nel 2008 presso la Scuola di Dottorato dell’Università Iuav di Venezia. Nato da una proposta avanzata dal coordinatore del dottorato in Composizione Architettonica, Luciano Semerani, alla quale si sono associati Alberto Ferlenga, direttore della Scuola di Dottorato, e Bernardo Secchi, coordinatore del dottorato in Urbanistica, il convegno aveva dato vita ad un intenso confronto dialettico cui è parso importante assicurare un esito editoriale per la rilevanza delle considerazioni esposte dai relatori e per la volontà di avviare studi approfonditi intorno al metodo di ricerca di uno degli studiosi di architettura tra i più eminenti della seconda metà del Novecento.

[2] P. Berdini, Introduzione a C. Rowe, La matematica della villa ideale e altri scritti, a cura di P. Berdini, Bologna 1990, VIII.

[3]. Cfr. P. Berdini, ivi, XVII.

[4]. Cfr. R. Masiero, Estetica dell’architettura, Bologna 1999, 160-164.

English abstract

A thorough investigation on Colin Rowe’s lesson: in such a way the contents of the book Architettura come testo e la figura di Colin Rowe (Architecture as text and the figure of Colin Rowe) could be summarized. Through the various essays that compose it, the book aims in the first instance to explore the figure of the English critic, theorist and professor Colin Rowe, by considering his education and some of his writings (The Mathematics of the Ideal Villa; Transparency: Literal and Phenomenal; Collage City; The Architecture of Good Intentions). The different contributions of designers, historians and scholars of the classical tradition lead the reader to understand Rowe's thought – first as a student of Rudolf Wittkower at the Warburg Institute, then as teacher and mentor of James Stirling and Peter Eisenman – that investigated Le Corbusier’s work through Palladio’s architecture, read the city as a collage of backgrounds and figures, and considered architectures as texts waiting to be read.

keywords | Colin Rowe; Architecture as text;

Per citare questo articolo: Mauro Marzo, L'architettura come testo e la figura di Colin Rowe, “La Rivista di Engramma” n. 80, maggio 2010, pp. 30-33 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2010.80.0009