"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

76 | dicembre 2009

9788898260218

Il lungo volo di Alessandro

Monica Centanni

Una figura regale, un carro, due alati grifoni

Sulla facciata volta a settentrione della Basilica di San Marco a Venezia, nella fascia superiore, è inserito un bassorilievo: si tratta di una figura rappresentata frontalmente che porta sulla testa una mitra regale; le braccia sono aperte e la figura sta in piedi sopra un carro a cui sono aggiogati due animali fantastici: corpo di leone, testa e ali di grifo. I grifoni alati, rappresentati di profilo, sono in posizione araldica: rivolgono lo sguardo in direzione opposta, verso l'alto, tesi verso le prede infilzate sulle punte di due pertiche che la figura regale tiene nelle mani.

Venezia, Basilica di San Marco, facciata nord, lastra lapidea, XII secolo

Datata agli inizi del XIII secolo, al ritorno dalla IV crociata, la definizione del progetto generale della rinnovata chiesa marciana si basa sul modello della saccheggiata Hagia Sophia di Costantinopoli.

Il carattere ‘greco’ della fabbrica è evidente già al Sabellico che nel 1474, a proposito delle cupole di San Marco, nota: "Altissimae testitudines graecanici operis". La definizione viene citata in Cicognara 1823, II, 60 il quale, nello stesso passo, discute anche la questione degli "architetti da Costantinopoli" che sarebbero stati chiamati a edificare la chiesa. Il tema delle maestranze greche convocate nella progettazione e nella costruzione della basilica era fuori discussione per Sansovino che descrivendo la pianta della chiesa "fatta in forma di croce e alla maniera greca", aggiungeva che essa era stata "per certo da ottimo et Eccellentissimo Maestro ordinata, et fu uno dei principali architetti che all'hora [...] in Costantinopoli fiorivano" (Sansovino 1581, 8). La questione delle maestranze straniere – e della 'grecità' della Basilica – viene diversamente discussa da Cicognara, preoccupato di ribadire 'l’italianità' dell’opera: "Nessuno di questi storici riportò istrumenti, registri, libri di fabbrica, pagamenti, nomi d'autori convincenti in somma del peso che valgano a sostenere, che la chiesa di San Marco fosse l'opera di greci ingegni e che gli Italiani di allora fossero giudicati incapaci di edificarla". Cicognara è invece incline a riconoscere come predominante nello stile architettonico e decorativo marciano un influsso arabo, per la contaminazione di gusto che i veneziani avevano assorbito nelle loro scorrerie commerciali nel Mediterraneo arabizzato, e comunque da un Oriente oramai "più arabo che greco". Sempre secondo Cicognara, oltre alla contaminazione visiva e del gusto dovuta ai traffici, fu anche la penuria di materiali antichi di riporto a decidere della peculiarità meticcia e tutta orientaleggiante della ‘maniera veneziana’:

Non vi erano qui [nelle paludi venete] materiali [antichi] di cui valersi e quelli che vi furono recati, quasi tutti provenienti dall'Oriente, più arabo allora che greco, produssero un misto di elementi che offrir dovettero una maniera affatto diversa da quanto avevasi nel resto d'Italia. Salvo in fine tutto ciò che in questa basilica ricordar può il tempio di Santa Sofia, quanto alla pianta e alla distribuzione, tutta la parte degli ornamenti che la decorano è un misto singolare di stile di ogni nazione. (Cicognara 1824, II 64-65)

I modelli che interferiscono nell’edificazione della nuova chiesa marciana sono dunque la basilica costantinopolitana, ma anche l’archetipo ierosolimita (così sostiene, ad esempio, Puppi 1983). Ma San Marco ha tuttavia una particolare qualità, funzionale e simbolica: nasce infatti, com’è noto, come cappella del Doge, annessa strutturalmente al Palazzo Ducale, e manterrà per secoli questa precisa funzione. Chiesa, tempio, teatro del potere cerimoniale del doge: basilica anche in senso antico e letterale, come ‘spazio deputato alle cerimonie e alle funzioni del basileus’, luogo destinato ad accogliere e fondere le funzioni dei rituali politici e religiosi.

Piuttosto per pompa che per allegoria”: il naufragio del significato

Dobbiamo ipotizzare che all'inizio del XIII secolo, quando il bassorilievo con i grifoni fu collocato con gli altri sulle facciate della chiesa marciana, il suo significato dovesse essere chiaro e perspicuo: perfettamente leggibile per tutti. Certo è che nei secoli la cifra di quel significato e il senso di quella collocazione andarono del tutto smarriti. Per secoli non si trova alcuna testimonianza, né scritta né figurativa, sulla presenza della lastra dei grifoni sulla fiancata della Basilica. Forse una traccia dell'immagine di quegli animali fantastici, così forti da poter sollevare in aria un carro con dentro un uomo, è in una pagina del Milione di Marco Polo. A un certo punto del racconto, Marco Polo dice di aver sentito nel Madagascar da certi mercanti che:

V'à uccelli grifoni, e questi uccelli apaiono certa parte dell'anno, ma non sono così fatti come si dice di qua, cioè mezzo uccello e mezzo lione, ma sono fatti come aguglie, e sono grandi com'io vi dirò. Egli pigliano l'alifante e pòrtallo su in aire, e poscia i lasciano cadere e quelli si disfa del tutto; poscia si pasce sopra di lui. (Milione, 186)

Nella versione francese del Livre des Merveilles, a questi uccelli portentosi viene dato il nome di ‘Roc’. La fonte della suggestione di Marco Polo potrebbe dunque essere proprio il rilievo marciano che il viaggiatore-mercante veneziano non poteva non aver visto e ammirato. Come nota Wittkover:

Senza alcun dubbio Marco Polo aveva osservato a Venezia raffigurazioni di grifoni. Subito ci sovviene del rilievo raffigurante il viaggio celeste di Alessandro, posto sulla faccia di San Marco. (Wittkover [1967] 1987, p. 157)

Soltanto nel XIX secolo, con il rinascere dell'attenzione e delle curiosità antiquarie, gli studiosi si posero il problema dell'identificazione del soggetto del bassorilievo. Ma ancora verso la metà del secolo XIX, nelle molte ristampe dell'importante opera di Cicognara (già pubblicata in seconda edizione ampliata negli anni '20 dell'800) così si legge:

Le statue, i bassi rilievi e gli ornamenti della facciata sono in molta parte contemporanei alla progressiva costruzione della medesima, ma vi si veggono misti agli eroi della religione antica anche quelli del gentilesimo in alcuni quadrati di pietra lavorati in più antico basso rilievo, che rappresentano le forze di Ercole ed altre figure mitologiche o allegoriche; e singolarissimo sul fianco della basilica verso l'orologio, è il basso rilievo di Cerere coi pini accesi nelle mani sul carro tirato da draghi o ippogrifi volanti, espresso in una forma del tutto originale essendo schiacciata la composizione con una simmetria particolare che non so se renda più un'idea delle produzioni degli antichi popoli d'Italia, o delle sculture persiane. (Cicognara 1823, II, p. 73 ss.)

Cicognara dunque stigmatizza (poche righe sopra il brano citato) la "singolar bizzarria di stile", che caratterizza la composizione della basilica: a proposito delle sculture che ornano la facciata riporta una citazione del Temanza in cui si evidenzia che si tratta "Per così dire [di] un grottesco, ma un grottesco magnifico. C'è di tutto". E tra le bizzarrie più singolari, singolarissima è la lastra marmorea del “basso rilievo di Cerere”. L'interpretazione proposta da Cicognara può essere compresa solo considerando l’assimilazione tra postura e attributi propri della romana Cerere con postura e attributi propri della greca Demetra. Cerere viene solitamente rappresentata in trono e tiene in mano una o più spighe di grano, associate o meno ad altri simboli di fecondità; Demetra invece viene convenzionalmente rappresentata seduta in trono o stante, con in mano una o due lunghe torce, le luci con cui la dea illumina la via della sua ricerca negli Inferi della figlia Persefone.

Il sincretismo religioso tardo antico assimila le due figure divine, i loro nomi, i loro attributi: ecco che allora Cicognara può immaginare una Cerere (pro Demetra) con torce. Sta di fatto che Cicognara legge le due aste tenute in mano dalla figura sul carro come “pini accesi” (che identificherebbero la Cerere-Demetra), mentre, in realtà, si tratta con tutta evidenza di lunghe pertiche alle cui estremità sono infilzate due lepri, esche per i grifoni.

La svista macroscopica di Cicognara, inspiegabile per l'osservatore odierno, si può giustificare ipotizzando che nei primi decenni del XIX secolo la leggibilità dei dettagli fosse molto peggiore rispetto all'attuale: l'ipotesi diventa plausibile se si confrontano le fotografie scattate agli inizi del XX secolo, in cui si nota la presenza di una spessa patina scura nelle zone interstiziali del bassorilievo.

Ma c'è un ulteriore elemento fuori posto rispetto alla, pur sintetica e sommaria ipotesi iconografica di Cicognara: il carro "tirato da draghi o ippogrifi", un oggetto del tutto estraneo alle immagini relative a Cerere e/o Demetra. La dea madre della fertilità-fecondità infatti, quando viene rappresentata seduta, è posta su un trono e non su un carro. Qui interviene con tutta probabilità un'ulteriore sovrapposizione e confusione: un carro tirato da leoni (non da draghi o ippogrifi), e pini accesi come torce si trovano infatti come l dell'iconografia di un'altra importante divinità femminile: Cibele, la Grande Madre che arriva dall'Oriente, su un carro trascinato da leoni aggiogati, con il suo corteo di frigi e di iniziati evirati (i galloi che si sottoponevano a castrazione rituale), accompagnata dal suono ossessivo ed estatico dei timpani e dei tamburi. L’iconografia di Demetra (intesa come versione greca di Cerere) era diffusa e ben nota, e per altro un ottimo esempio dell'iconografia di Cibele era a disposizione di Cicognara, a pochi passi dalla Basilica, in un bassorilievo della collezione Grimani (da lui ben conosciuta perché citata più volte nella sua opera): si tratta di una composizione in cui la divinità compare seduta sul carro, nella postura e con gli attributi convenzionali, con il corteo esotico di rito.

A quanto pare di capire, dunque, l'immagine del bassorilievo marciano, con tutta probabilità già malamente leggibile nei dettagli, pare essere implicitamente interpretata da Cicognara come il prodotto di una contaminazione tra gli attributi e l'iconografia di tre, diverse, antiche divinità femminili: Demetra, Cerere e Cibele. Resta il fatto che un'interpretazione di quel tipo tradiva l'evidenza stessa degli elementi compositivi della raffigurazione, distorcendone il senso: pertiche con lepri infilzate come "pini accesi"; grifoni come "draghi o ippogrifi"; la figura frontale come Demetra-Cerere seduta non su un trono, ma su un carro, come una Cibele. Si tratta insomma di una lettura molto poco precisa, per non dire confusa. E comunque del tutto errata.

Ad ogni modo, Cicognara appare colpito in maniera particolare dal “basso rilievo di Cerere", e si dilunga per diversi paragrafi sull’interpretazione dell’opera che giudica "stranissima"; nello stesso capitolo e altrove ritorna, con insistenza, anche sulla presenza, sulla facciata principale, dei due Eracle impegnati nelle "forze". Per altro la scarsa acribìa critica non consente allo studioso di distinguere stilisticamente il reperto archeologico antico dal rifacimento medievale:

A buon conto veggonsi nella facciata di San Marco i bassi rilievi delle forze di Ercole, i quali sebbene non d'aureo tempo, pure sono e profani e di un'età meno vicina alla totale decadenza delle arti; età dimostrata da tanti altri monumenti che si trovano inseriti nell'esterno della basilica. (Cicognara 1823, III, p. 347)

Ma lo studioso, pur concedendo tanta attenzione a queste inquietanti presenze "gentili", espressamente rifiuta qualsiasi interpretazione "allegorica". Al contrario Cicognara si accanisce, con particolare aire, contro il tentativo di cercare un significato – e tanto peggio, un significato coerente e unitario – per gli "ornamenti" della facciata:

Non v'ha dubbio che questi lavori indistintamente furono inseriti nella facciata e nei fianchi, quantunque a nulla si riferissero di relativo a quei tempi, e niente si combinassero col resto delle decorazioni. [E ancora, poco oltre] Sculture di quella forma sono disgiunte affatto dal resto delle opere, e unicamente poste per interrompere il nudo muro della facciata, acciò splendesse l'arte dovunque è la magnificenza, ivi collocate piuttosto per pompa che per allegoria.

È un vero e proprio filtro ermeneutico che sceglie il volontario esilio dell’interpretazione dall'orizzonte simbolico, ed esclude a priori, per scelta di minimalismo critico, qualsiasi lettura in chiave "allegorica". Il motivo dell'inserzione è, per lo studioso, semplicemente la "pompa" (ovvero l'auctoritas formale conferita dalle vestigia antiche al nuovo edificio): e a questa prima motivazione si sarebbe associato un intento di conservazione – una preoccupazione di salvaguardia proto-museale – del reperto:

Era santo costume in quella età il raccogliere ogni cosa per arte preziosa e disporla affinché non perisse ove il decoro dei nuovi monumenti poteva garantire la conservazione. (Cicognara 1823, II, p. 74)

Osservazioni molto corrette, molto moderne. Lo spunto del critico – che diventerà un topos dei sospettosi detrattori dell'ermeneutica iconologica – presceglie la via di una lettura debole, leggera, e insomma tutta ‘estetica’ dell'opera d'arte e in particolare dell’ornamentum artistico-architettonico: ogni lettura semantizzante viene derubricata a facile e ingegnoso esercizio sofistico:

Facile è il dare ad ogni cosa un'interpretazione, soprattutto qualora si voglia sostituire l'ingegno alle memorie che mancano. (Cicognara 1823, II, p. 74)

Ma è lo stesso Cicognara a darci conto, facendone bersaglio critico, della persistenza di una chiave di lettura diversa:

[Tutto ciò è vero] per quanto vogliasi dedurre da alcuni illustratori di questa basilica che v'interpretano l'emblema della forza della repubblica o altre simili allegorie. [...] [Ma] se agevole è stato il far dire a tanti autori con mezzo di eruditi e ingegnosi commenti ciò che non hanno sognato giammai, molto più agevole riescirà il trovare in quelle sculture la ragione di un emblema di forza che sempre conviene ai governi degli stati generosi e potenti. (Cicognara 1823, II, p. 74)

C'era stato, dunque, tra gli “illustratori di questa basilica” chi aveva tentato di leggere, di trovare un senso intelligente, di dare ordine al fenomeno. C'è – o meglio c'era fortunatamente prima e ci sarà fortunatamente dopo – una via di lettura diversa che il verbo estetizzante disprezza e rifiuta. Già precocemente nelle pagine di Cicognara si tratta della rinuncia, scientemente ideologica, tutta illuministica, di quel metodo di lettura iconologica dell'opera d'arte che aveva improntato la grande critica semiologica nata dalla ceneri del Rinascimento: il metodo, perduto al sapere disciplinare moderno (e recuperato in ben più ambiziosa chiave storica da Aby Warburg), di Alciato, di Ripa, di Pittoni, dell'Abate Piccinelli e degli altri grandi eruditi, figli postumi dell'Umanesimo. Un broncone ancora bruciante della grande sapienza rinascimentale, perdente nella guerra ideologica e culturale che decretò la fine della Rinascenza, ma che aveva trovato dopo il massacro segnico della Riforma (e della parallela risposta controriformistica) una forma di resistenza rifugiandosi nell'ermeneutica, nel gioco della decrittazione, nella visione del mondo naturale e artificiale – astri, simboli, opere d'arte – come enigma da decrittare. Estinta la potenzialità della rinascita dei simboli e degli dei, un ramo ancora verde del sapere rinascimentale si era trovato non più a fare nuova poiesis traendo materiali dal repertorio iconografico e simbolico antico, ma a sistematizzare, a catalogare: a leggere e a capire. Si era necessariamente piegato a produrre tassonomie interpretative, ordini categoriali efficienti: i grandi repertori emblematici, i lessici simbolici e figurali del '500 e del '600, presto condannati alla conversione esoterica. E quindi al seppellimento culturale, alla perdita di aderenza rispetto al linguaggio comune, e infine alla totale scotomizzazione. Quella via carsica che Panofsky – raccogliendo ‘una briciola del banchetto warburghiano’ – reinventerà, e per cui ritroverà il nome, già rinascimentale, di ‘iconologia’.

1865: la riscoperta iconografica

È soltanto nel 1865 che uno studioso francese, Jean Durand, in un articolo pubblicato nelle "Annales Archeologiques", avanza l'ipotesi destinata a rivelarsi corretta (Durand 1865): il bassorilievo rappresenta un episodio legato alla storia leggendaria di Alessandro il Grande, secondo le versioni romanzesche dell'epopea del Macedone, presenti in molte versioni tardo-antiche e medievali del Romanzo di Alessandro.

Per i secoli che vanno dalla tarda antichità all’Umanesimo, il veicolo della fortuna del mito di Alessandro è, quasi esclusivamente, il Romanzo di Alessandro. Il testo greco, che aveva avuto una prima traduzione latina ad opera di Giulio Valerio nel IV secolo d.C., è giunto fino a noi in diverse redazioni, irriducibili a un archetipo comune, ma attraverso una ramificazione inestricabile di versioni, traduzioni, redazioni (Merkelbach 1954), ebbe una diffusione vastissima e una fortuna straordinaria sul piano letterario e iconografico. Nel X secolo l’Arciprete Leone riportò da Bisanzio in Occidente una nuova traduzione del testo, l’Historia de preliis, e questa versione sta alla base di tutte le redazioni medioevali nelle lingue occidentali. Contemporaneamente il Romanzo fu tradotto in diverse altre lingue, in siriano, in armeno, in copto, in arabo. Come è stato notato di tutte le tradizioni uscite dall’antichità greco-romana, (fatta eccezione per il Nuovo Testamento), il Romanzo di Alessandro è il testo che ha avuto la più importante diffusione nel tempo e nello spazio.

Nel Romanzo si narra di come Alessandro, dopo aver conquistato tutta la terra, giunge a confini del mondo e si mette alla ricerca dell'unico tesoro che gli manca: l'immortalità. Per cercare il segreto dell'immortalità e per amore di conoscenza, esaurite le possibilità di ricerca sulla superficie terrestre, vuole esplorare anche altri mondi: il fondo del mare con un sottomarino di cristallo, gli inferi, il cielo (Centanni 1991). È in questa parte del Romanzo, fantastica e visionaria, agitata dall'angoscia della morte imminente dell'eroe e dalla sua cerca dei confini ultimi del cosmo, che si colloca l'episodio del volo:

Continuavo a pensare tra me e me, se davvero era là il confine del mondo, dove il cielo appoggia sulla terra: decisi allora di indagare per sapere la verità. Ordinai che fossero catturati due degli uccelli che erano in quel luogo: erano enormi, bianchi, fortissimi e mansueti, tanto che stavano a guardarci senza scappare. Alcuni dei soldati li montavano, afferrandosi ai loro colli, e quelli volavano in alto, trasportandoli su: mangiano carogne di animali e proprio per questo motivo molti degli uccelli venivano da noi, per le carcasse dei nostri cavalli. Ne feci catturare una coppia e ordinai che non fosse dato loro cibo per due giorni: al terzo giorno diedi ordine di preparare un giogo di legno e di legarlo al collo di quegli uccelli; feci preparare quindi una sorta di grande canestro di pelle di bue e ci montai dentro, tenendo in mano una lancia, sulla cui punta avevi infilzato del fegato di cavallo. Gli uccelli subito si alzarono in volo, tesi per mangiare il fegato, e io andai su con loro, nell'aria, tanto in alto che mi sembrava di essere vicino al cielo: tremavo tuttoperché l'aria si era fatta fredda per il moto delle ali degli uccelli. E allora mi si fa incontro un essere alato, antropomorfo, che mi dice: “O Alessandro, è forse perché non riesci a far conquiste sulla terra, che cerchi quelle del cielo? Torna giù in fretta se non vuoi diventare pasto di questi uccelli!” E ancora mi dice: “Sporgiti giù verso la terra, Alessandro!” Io mi sporgo, pieno di paura, e vedo un grande serpente arrotolato, e in mezzo alle sue spire un piccolissimo disco. Equell'essere che mi era venuto incontro mi dice: “Punta la lancia nel disco, fra le spire del serpente, perché quello è il cosmo e il serpente è il mare che circonda la terra". (Romanzo di Alessandro, II 41)

Questo l’episodio del volo in una delle redazioni greche del Romanzo; secondo altre versioni è “un’aquila”, o “una coppia di mostruosi grifoni” che porta in ascensione Alessandro, a contemplare dall’alto, in una visione cosmica, il mondo da lui conquistato. Il carro approdato sulla facciata settentrionale della Basilica marciana è dunque, certamente, il carro trasportato dai mitici grifoni che porta Alessandro ai confini superiori del cosmo, ai bordi del cielo.

Poco più di centocinquant’anni fa dunque, la riscoperta del tema iconografico ha consentito il recupero di un relitto del significato dell’immagine. Ma, decrittato il significato primario dell’immagine, resta da indagare il meccanismo dell’oblio che ha portato all’oscuramento del senso di una figura che per tanti secoli a veva goduto di una ininterrotta fortuna.

Il meccanismo e le ragioni dell'oblio

L'oscuramento che fino alla riscoperta di Durand ha velato anche il primo, elementare, significato iconografico del soggetto del bassorilievo marciano è un caso esemplare di quella dinamica culturale dell'oblio che, per ragioni diverse, può travolgere e occultare la leggibilità di singole opere (o addirittura di interi programmi iconografici): opere che, nella fase storico-culturale immediatamente precedente, erano state patrimonio del sapere letterario o visivo comune.

Per ricostruire il contesto e il significato del Volo di Alessandro a San Marco, è dunque necessario portarsi alle origini di quell'immagine regale sul carro tirato dai grifoni alati, ripercorrendo le tappe millenarie di un volo che ha radici leggendarie, ma che, soprattutto, era destinato ad avere per quasi duemila anni una straordinaria carica mitopoietica, capace di alimentare attraverso i secoli, in circostanze storiche fra loro lontane e diverse, il simbolismo politico della cosmocrazia imperiale.

La storia leggendaria di Alessandro, che nel Medioevo aveva conosciuto una straordinaria fioritura letteraria e figurativa, era stata per secoli anche la fonte di una serie di suggestioni iconografiche non ancora del tutto indagate (sul tema della fortuna iconografica del Macedone vedi in "Engramma" il contributo di Monica Centanni e Claudia Daniotti).

Diverse e numerose sono le versioni medievali del Romanzo: la prima, in ordine cronologico, è un Roman d'Alexandre in francese, degli inizi del XII secolo, opera di un altrimenti ignoto chierico di nome Albéric de Pisançon, forse il primo che osi trarre il soggetto per un poema epico non dall'agiografia di un santo o di un cavaliere, ma da una storia risalente all'antichità classica. Si tratta di "un atto decisivo" (Baumgartner 1999, p. 11), e decisive suonano anche le parole con cui il chierico (con preoccupazione tutta medievale, ma risolta in modo già umanistico) salva il suo poema di soggetto pagano dal rischio della vanitas, grazie all'auctoritas conferita alla sua opera dall’antichità del tema: “Solaz nos faz'antiquitas / que tot non sie vanitas!” (vv. 5-8).

Dal testo di Albéric dipende la prima versione tedesca del Romanzo: l'Alexanderlied del prete Lamprecht, datata alla metà del XII secolo. In queste prime versioni medievali compaiono già, in forma moralizzata, tutti gli elementi tratti dalle fonti antiche che daranno lo spunto per i romanzi del XIII e XIV secolo: l'infanzia straordinaria di Alessandro (assimilabile a quella di Cristo, di Artù, di Orlando); la coloritura cavalleresca della sua impresa; la protezione, di cui l'eroe è inconsapevole, della Divina Provvidenza sulle sue conquiste (sull'assimilazione iconografica Cristo-Alessandro nei manoscritti v. in "Engramma" il contributo di Fabrizio Lollini). Insomma un Alessandro fatto cavaliere, rivestito da paladino, archetipo del monarca sapiente, coraggioso e valoroso, spinto ai confini del mondo per dar prova delle sue eccezionali virtù cavalleresche, ma anche per inverare un disegno voluto dalla Divina Provvidenza (ma la cristianizzazione della leggenda era già nelle redazioni greche di area alessandrina dei primi secoli d.C.). Così le redazioni volgari del Romanzo in francese, in tedesco, in spagnolo, entrano nei cicli epici delle Chansons des gestes insieme alle varie redazioni del Romanzo di Troia, del Romanzo di Tebe, del Romanzo di Enea, e gli eroi pagani entrano nelle biblioteche di tutte le corti, a costituire il modello antico della nuova etica cavalleresca:

I chierici medievali non mascherano, tuttavia, non fosse altro che per rammaricarsene, il carattere pagano del loro eroe. Eliminano in cambio tutto quanto potrebbe appannarne l'immagine: non si trovano allusioni agli eccessi di ogni genere d'un eroe sul quale si erano da tempo esercitate critiche e riserve di filosofi antichi e medievali. La storia di Alessandro e l'insieme delle tradizioni storiche e/o leggendarie uscite dall'antichità [...] sono invece per lo scrittore medievale il luogo privilegiato in cui immaginare e ornare di immagini, in funzione di un pubblico moderno, un modello nuovo di società e di civiltà e, nel caso di Alessandro, un ritratto ideale della monarchia. (Baumgartner 1999, p. 17)

In parallelo con la diffusione letteraria del Romanzo va la diffusione dell'iconografia relativa agli episodi più suggestivi della leggenda. Si tratta soprattutto delle miniature, spesso stupende, che accompagnano il testo delle redazioni medievali, orientali e occidentali, del Romanzo. In queste illustrazioni Alessandro compare abbigliato con vesti moderne, ovvero medievali, e spesso gli elementi compositivi sono indistinguibili da quelli degli altri cicli epici tratti dall'antichità (Daniotti 2005).

Questa storia iconografica degli episodi del Romanzo in area occidentale ha una durata cronologica molto precisa: a partire dalle prime miniature dei manoscritti in volgare che compaiono in Occidente soltanto dalla fine del XIII secolo (Wittkover [1967] 1987, p. 171), per giungere agli arazzi con le Storie di Alessandro sui quali motivi formali e tematiche medievali resistono nelle scelte della committenza e nell'alto artigianato tessile fino alla fine del XV, o addirittura fino ai primi decenni del XVI secolo. L'esempio più notevole di questo genere sono i due grandi arazzi con episodi del Romanzo recentemente trasferiti dalla Galleria Doria-Pamphili di Roma al Palazzo del Principe di Genova. La datazione degli arazzi è a tutt’oggi controversa e oscilla tra la fine degli anni ’50 e l’ultimo quarto del XV secolo (lo status quaestionis sul punto in Stagno 2006). Secondo l’ipotesi di Warburg essi furono commissionati alle manifatture fiamminghe di Tournay da, o per, Carlo il Temerario nell'ultimo quarto del XV secolo, gli arazzi, che illustrano tutti gli episodi salienti del Romanzo secondo una delle innumerevoli versioni elaborate a partire dal medievale Roman d'Alexandre (precisamente quella composta intorno al 1440 da uno dei maggiori intellettuali della corte borgognona, Jean Wauquelin), mostrano un Carlo di Borgogna evidentemente bramoso di identificarsi con il Macedone, fino al punto di prestargli i suoi tratti somatici (Warburg [1913] 1966). Un esempio straordinario di persistenza, in pieno Rinascimento, di tematiche cavalleresche e di stilemi gotico-internazionali, secondo un gusto ancora tutto cortese, in netto ritardo rispetto alla rivoluzione artistica e culturale del tempo (sul tema vedi in "Engramma" la Tavola 34 dell'Atlante Mnemosyne di Aby Warburg).

Episodi delle avventure leggendarie di Alessandro: il Volo, arazzo di manifattura fiamminga (particolare), 1475 circa, Genova, Palazzo Doria

Ma già dal XIV secolo, con la riscoperta umanistica dei testi dei grandi autori classici, si era aperta una questione destinata ad avere conseguenze importanti nella tradizione delle storie di Alessandro. Già Petrarca aveva proclamato orgogliosamente nel proemio al De viris illustribus “neque michi fabulam fingere sed historiam rinarrare propositum est”. È il presupposto umanistico che, contro la millenaria fortuna della leg genda di Alessandro, porterà al rilancio delle ‘vere storie’ di Alessandro lette nei testi di Plutarco, Curzio Rufo, Arriano (tutti pubblicati tra la metà del XV secolo e il primo decennio del XVI) – le sole fonti ora considerate a pieno diritto autentiche e antiche – a discapito delle varie redazioni del Romanzo, che, proprio per la straordinaria fortuna che avevano avuto le redazioni tardo-antiche ed epico-cavall eresche del testo, sono giudicate tutte, in blocco, come fiabe medievali.

Nel libro VI del suo trattato De Politia Litteraria, l’umanista Angelo Decembrio (fratello di Pier Candido Decembrio, che già nel 1438 aveva volgarizzato Curzio Rufo, che uscirà a stampa per la prima volta nel 1478, e aveva messo mano a un compendio latino delle Vite di Plutarco ) attacca gli aneddoti e gli episodi fantastici tramandati come “le favole di Traiano, di papa Gregorio, di Alessandro” che costituiscono il soggetto dei lussuosi arazzi nordici (Baxandall 1963; Rosenberg 1991). Decembrio arriva al punto di deplorare che nelle biblioteche delle corti e degli intellettuali le fiabe medievali siano spesso collocate, a ingenerare confusioni, accanto agli ‘originali’ greco-latini, autenticamente antichi.

Da questi giudizi e pregiudizi si avvia un’operazione di recensione enfaticamente critica di tutta la tradizione romanzesca delle storie di Alessandro, e quindi un’operazione di censura sulle fonti, che porta un copista di una delle versioni medievali del Romanzo – l’Historia de preliis – a premettere alla sua trascrizione la dichiarazione che si tratta di un testo “basato su apocrifi”, mentre un altro copista interrompe la trascrizione scrivendo “nolui plura scribere quondam nimium fabulosa narrat in sequentibus”. Nel 1538 l’umanista Melantone, a proposito delle imprese fantastiche di Alessandro, annoterà: “nemo sine risu legisset”.

Dunque, a partire dalla metà del '400, nella cultura alta del fiorente Umanesimo, la leggenda di Alessandro era destinata a essere prima disprezzata come fantasia medievale, e poi definitivamente dimenticata.

Dopo la straordinaria stagione di fortuna medievale, la gloria iconografica di Alessandro tornerà a brillare sporadica e convenzionale, in alcuni episodi esemplari (tra tutti: la continenza rispetto alle donne di Dario, da Curzio Rufo e da Plutarco; la generosità del dono della modella Campaspe al pittore Apelle, da Plinio), nella pittura di storia settecentesca. E prima, nell'arte rinascimentale, a partire dall'ultimo quarto del Quattrocento la gloria iconografica di Alessandro si era giocata tutta nel repertorio limitatissimo e fisso dell'esercizio erudito della riconversione ecfrastica, grazie alla riscoperta e all'avida rilettura di una famosa descrizione di Luciano.

Denudato dalle sue vesti medievali o rivestito di ves ti all’antica nelle ver sioni pittoriche tratte dalla famosa ekphrasis di Luciano delle Nozze di Alessandro e Rossane, a iniziare dalla sanguigna di Raffaello (Faedo 1994), anche l'Alessandro della letteratura viene ripulito della sua aura leggendaria.

Raffaello, Nozze di Alessandro e Rossane (da Luciano), sanguigna, Vienna, Graphische Sammlung Albertina

Abrogati dalla cultura alta e banditi dalle biblioteche degli umanisti i cicli cavallere schi, le nov elle e le 'fiabe', sparisce l'Alessandro paladino delle diverse redazioni del Romanzo, l'Alessandro allievo di Aristotele, l'Alessandro esploratore dei confini del cosmo. Sparisce la figura iscritta nel novero dei Re del Mondo, nel canone dei Nove o dei Dodici Prodi: trionfa invece l'Alessandro stratega di Arriano, o l'eroe dalle virtù eccessive della vita plutarchea (Daniotti 2005).

Si tratta dunque di un tipico esempio di pulizia umanistica e di recupero delle fonti antiche. Ma il paradosso di questa rimozione culturale (per altro perfettamente riuscita) sta nel fatto che gli umanisti che condannano come ‘medievale’ l'immagine fantastica di Alessandro commettono un errore che verrà ripetuto per secoli: se è certamente vero, infatti, che la figura leggendaria di Alessandro dipende da versioni medievali del Romanzo, più vero è che tutte le versioni medievali della leggenda dipendono, spesso indirettamente, da una fonte antica: la dimenticata redazio ne greca del Romanzo, più antica dei Plutarco, degli Arriano e dei Curzio Rufo su cui l’umanesimo rinascimentale, dalla fine del XV secolo, riconfigurerà il profilo storico del ‘vero’ Alessandro.

La fortuna dell’episodio del volo

Delle diverse storie narrate nelle numerosissime versioni del fantastico Romanzo di Alessandro, l’episodio del volo in cielo in particolare ha una fortuna autonoma, ed è forse l’unica immagine delle storie di Alessandro che per secoli fu nota anche a chi non aveva familiarità con la parola scritta (Frugoni 1973): una fortuna immensa, che corre parallela alla fortuna più colta dei testi letterari, che mescola motivi simbolici, politico-ideologici, con suggestioni fantastiche.

Immagini del volo di Alessandro si ritrovano in conte sti e su supporti mol to diversi: su stoffe, in gemme, in miniature, su paramenti religiosi, sui capitelli delle chiese romaniche, nei mosaici pavimentali.

L’iconografia del volo viene caricata, a seconda delle epoche e del contesto storico, di precise e discordanti valenze che, dall’età tardo antica e per tutto il Medioevo, coprono tutto lo spettro semantico-allegorico, dal negativo al positivo: dall’exemplum superbiae, all’imitatio Christi.

Già nel testo greco l'episodio del volo viene presentato in modo ambivalente: da un lato l'ascensione al cielo è una tappa dell'esplorazione cosmica di Alessandro e, nel finale del racconto, il Macedone viene invitato dalla creatura alata a guardare il mondo dall'alto e a puntare la sua lancia "nel disco, tra le spire del serpente": ovvero a siglare, simbolicamente, la conquista e il possesso di tutta la terra. D'altro canto però "l'essere alato, antropomorfo", al suo incontro con Alessandro ferma il suo volo, lo invita a ritornare sulla terra, minacciando che sarà divorato dagli uccelli come punizione per aver troppo osato nella sua cerca dei confini cosmici.

L'ambiguità delle parole dell'‘angelo’ e del suo ruolo nell'avventura di Alessandro, saranno destinati a dar vita, nel corso dei secoli, a due opposte letture dell'episodio del volo: positiva la prima, negativa la seconda.

Alessandro primo kosmokrator da Roma a Costantinopoli

In chiave positiva, in età imperiale romana, Alessandro è il primo kosmokrator al cui Soma in Alessandria i nuovi principes – da Augusto in avanti – si recano a portare omaggio e a trarre auctoritas simbolica per un nuovo potere che, alla cosmocrazia alessandrina fa risalire il proprio archetipo (Svetonio, Aug. 18).

Nel Romanzo, come abbiamo visto, si narra di come Alessandro, giunto ai confini del mondo, dopo aver tentato l’esplorazione del fondo del mare mediante un sottomarino di cristallo, tentò di esplorare le regioni del cielo avvalendosi di un carro alzato in volo da “enormi uccelli bianchi” o, secondo altre versioni, da “un’aquila”, o ancora altrimenti, da una coppia di mostruosi e mitici grifoni (Rom. Alex. II 41). Il favoloso volo di Alessandro presta lo schema iconografico (e il significato simbolico) all’ascensione dell'imperatore portato in cielo: Alessandro che contempla dall’alto il cosmo da lui conquistato diventa la prefigurazione dell'imperatore divinizzato post mortem.

La stessa apoteosi romana ha, dal punto di vista simbolico e istituzionale, un importante precedente nella divinizzazione di Alessandro, perpetuata dai Diadochi e in particolare dalla dinastia tolemaica (sulla tradizione degli attributi iconografici di Alessandro in età ellenistico-romana v. in "Engramma" i contributi di Lorenzo Bonoldi: Spolia divina, ferinae exuviae e Exuviae Alexandri).

Anche nella costruzione della convenzione iconografica l'apoteosi romana trae precise suggestioni dalle leggende fiorite intorno alle imprese di Alessandro, e in particolare proprio dall'episodio del volo fantastico in cielo. Nell’iconografia dell’apoteosi compare spesso l’aquila, deputata a trasportare in cielo l’anima dell’imperatore; oppure, secondo un altro schema iconografico, l’imperatore o il dignitario divinizzato è raffigurato in posa frontale, su un carro trasportato verso l’alto.

In un aureo di Costanzo II (337-361) vediamo il princeps su un carro tirato da quattro cavalli, che ricorda la quadriga solare, su cui sale anche il Cristo-Helios del mosaico delle Grotte Vaticane.

Aureo con l’imperatore Costanzo II (337-361) su quadriga, Roma, Grotte Vaticane, Cristo Helios/Sol Invictus alla guida del carro solare, mosaico, III secolo

Il volo di Alessandro si trasforma così nel volo dell'imperatore portato in cielo, verso l'apoteosi: l'Alexander Kosmokrator del Romanzo presta la sua figura al Divus Princeps, l'imperatore divinizzato.

Dall’età costantiniana la figura di Alessandro, ormai considerato il primo modello dell’impero globale romano, presta forme e attributi alla configurazione della nuova cosmocrazia imperiale: dietro il profilo di Costantino si vede il profilo di Alessandro, oramai identificato con Helios/Sol Invictus a cui l’imperatore si affidava con devozione.

Costantino (304-333 d.C.) e Alessandro (Helios), aureo, inizi IV secolo, Parigi, Bibliothèque Nationale, Cabinet des Medailles

Ma, tornando più precisamente all’episodio del volo, è dalla stessa età cost antiniana, e poi per tutta l’età bizantina, che l’allegoria assume anche una forte valenza politico-ideologica. Nell’impero fondato da Costantino e che sopravvivrà per circa mille anni alla cosiddetta ‘caduta’ dell’Impero romano d’Occidente, gli imperatori bizantini non disdegnano il nome di basileus, e considerano Alessandro il primo di una genealogia di basileis kosmokratores in cui si iscrivono i principes romani e loro stessi, che si dichiarano, in perfetta continuità con Roma, basileis ton Rhomaion. A Bisanzio e nell’area di influenza bizantina Alessandro – e il suo volo in cielo – viene rievocato come archetipo del potere cosmocratico dell’imperatore che, su mandato divino e a imitazione dell’unico Pantokrator, governa sulla terra. Alessandro dunque come prefigurazione terrena del Cristo Pantocratore, di cui condivide gli attributi riferiti al potere cosmico del Signore.

Nelle versioni medievali Alessandro entrerà nel canone dei Re del Mondo e verrà addirittura presentato come ‘primo imperatore’ e paladino cristiano ante litteram. Come gli altri Re, Alessandro tiene in mano il globo che simboleggia il cosmo: un cosmo su cui svetta la croce di Cristo.

Maestro della Manta, I Nove Prodi: Alessandro Magno (dettaglio), affresco, 1416-1426, Manta (Cuneo), Castello della Manta, Sala baronale; Alessandro come Re del Mondo, Capitello dei Re e Imperatori del Mondo Antico, 1350 ca., Venezia, Palazzo Ducale

Alessandro come Re del Mondo, Venezia, Biblioteca dell’Istituto Ellenico, ms 5, c.1r, XIV secolo

E accanto all’utilizzo della figura di Alessandro nella cultura alta e nell’arte ufficiale – in chiave ideologico-propagandistica dei principes romani e poi dei kosmokratores bizantini, o in chiave di prefigurazione religiosa nell’iconografia cristiana – il culto di Alessandro continua nella religione e superstizione popolare, fino all’ultima età tardo-antica: varie sono le fonti che attestano la fede nel valore profilattico e apotropaico delle medaglie d'oro e d'argento che recano l’immagine di Alessandro. Così Trebonio Pollione, nella Historia Augusta, a proposito di Quieto della famiglia dei Macriani che contendeva il principato a Gallieno (ca. 261 d.C.):

Alexandrum Magnum Macedonem viri in anulis et argento, mulieres et in reticulis et dextrocheriis et in anulis et in omni ornamentorum genere exculptum semper habuerunt, eo usque ut tunicae et limbi et paenul​ae matronales in familia eius hodieque sint, quae Alexandri effigiem de liciis variantibus monstrent. Vidimus proxime Cornelium Macrum ex eadem familia virum, cum caenam in templo Herculis daret, pateram electrinam, quae in medio vultum Alexandri haberet et in circuitu[m] omnem historiam contineret signis brevibus et minutulis, pontifici propinare, quam quidem circumferri ad omnes tanti illius viri cupidissimos iussit. Quod idcirco posui, quia dicuntur iuvari in omni actu suo, qui Alexandrum expressum vel auro gestitant vel argento. (Hist. Aug. Tyr. Trig. XIV, 4-6)

Superstizione e pratiche magiche legate al culto di Alessandro persistono nei secoli: una lettera del teologo e filosofo bizantino Giovanni Italo scritta a un medico di Costantinopoli in pieno XI secolo ricorda che i talismani con le immagini di Alessandro sono considerati capaci di rendere di rendere chiunque li porti "immune dal contagio della peste" (Daniotti 2005).

Alessandro e la Pronoia divina

Già in alcune versioni tardo-antiche del Romanzo le azioni di Alessandro sono direttamente ispirate dalla Pronoia divina: lo stesso Girolamo nel commentare il passo biblico in cui compare un riferimento alla figura di Alessandro introduce l’idea che la Scrittura sacra dimostrerebbe che l’immenso potere conquistato da Alessandro sarebbe derivato non dalla sua propria forza ma dalla volontà di Dio:

"Potestas data est ei" [Dn. VII, 6]: ostendit non Alexandri fortitudinis sed Domini voluntatis fuisse. (Girolamo, Comment. in an., 666)

E nel Medioevo anche l’iconografia propriamente cristiana, se non addirittura liturgica, assume nel suo repertorio il volo di Alessandro come prefigurazione della relazione tra il re terreno e Dio, e come simbolico episodio-chiave di una storia guidata e ordinata dalla Divina Provvidenza. La fortuna di questa tradizione positiva è attestata da esemplari con l’iconografia dell’episodio del volo rinvenuti in contesti indiscutibilmente cristiani, anche molto lontani tra loro. Nella bordatura di un cuscino da reliquia francese dell’VIII secolo la scritta 'ALEXANDER REX' è alternata alla scritta 'AGNUS DEI'.

Montpezat-de-Quercy, chiesa di St. Martin, Ascensione di Alessandro, disegno da un paramento liturgico copto del VII secolo

Ascensione di Alessandro, Bruxelles, Musée Royaux d’Art e d’Histoire, stoffa per paramento liturgico (seta), VIII-IX secolo

Nella versione grec a del Romanzo si parlava di un cesto innalzato in aria da "grandi uccelli bianchi", e così, come uccelli di grosse dimensioni, appaiono in più di un ramo delle redazioni anche orientali del Romanzo, e quindi nella relativa iconografia. Ma nell’iconografia medievale, e in particolare bizantina, l’ascensione avviene per mezzo di un carro trionfale tirato al cielo, e gli uccelli diventano meravigliosi grifoni.

Anche in un rilievo di Mistra, datato al XIV secolo, in un contesto tutto cristiano, troviamo glorificato Alessandro e il suo straordinario volo:

Ascensione di Alessandro, rilievo marmoreo, XIV secolo, Mistra, Museo

Dotato di poteri straordinari, intermediario tra il cielo e la terra, spesso custode di tombe o di tesori ai confini del mondo (diverrà poi in alcune leggende medievali guardiano dell’albero della vita o addirittura del Graal) il grifone già nella mitologia antica – greca e orientale – ha una valenza positiva, collegata alla simbologia solare e della regalità.

Nel bestiario cristiano il grifone manterrà la sua funzione psicagogica, e inoltre, per la sua doppia natura di aquila e leone, diventerà simbolo della doppia natura di Cristo: il corpo leonino è la m ateria mortale, la testa d'aquila e le ali lo spirito divino. Anche nella visione dantesca della processione allegorica del XXIX canto del Purgatorio il carro trionfale che rappresenta la Chiesa è trainato da un grifone che si mboleggia Cristo, circondato dagli animali che rappresentano i quattro evangelisti:

Lo spazio dentro a lor quattro contenne
un carro, in su due rote, triunfale
ch'al collo d'un grifon tirato venne.
Esso tendeva in su l'una e l'altra ale.
(Purgatorio XXIX, 106 ss.)

Il filone storiografico “dell’odio per Alessandro”

Ma fin dall’età immediatamente successiva al la sua morte, alla storiografia e mitografia favorevole al Macedone – in molti casi alimentata dalla mitopoiesi dello stesso Alessandro (Goukowsky 1978-81) – si affianca anche una corrente di interpretazione negativa delle sue gesta e delle sue imprese: parallele corrono “la storiografia dell’amore e quella dell’odio per Alessandro” (Mazzarino [1965-1966] 1983, II, 24-27). Nella prima età imperiale romana, le imprese e la figura di Alessandro sono anche oggetto di pesanti attacchi, sul piano della ricostruzione storiografica e non solo: Livio e Seneca sono le fonti principali di un filone riduttivo sul piano politico e denigratorio sul piano personale delle imprese e delle virtù di Alessandro.

Se Svetonio ci testimonia che Augusto non solo, come si è visto, aveva reso omaggio al Soma di Alessandro, ma usava anche una imago Alexandri come suo personale sigillo (Svetonio, Aug., 50), Livio d’altro canto suggerisce che il profilo glorioso e invincibile di Alessandro sarebbe stato certamente ridimensionato se la morte precoce non avesse ipostatizzato la gloria del Macedone, e se Alessandro avesse portato avanti i suoi progetti occidentali scontrandosi con i Romani: l’areté ellenica che aveva avuto buon gioco con le schiere che Dario conduceva, composte “di femmine ed eunuchi, tra porpora ed oro”, avrebbe dovuto cedere al confronto con la virtus romana (Livio IX, 17-19).

L’attacco di Livio ha il patente intento di sminuire il mito alessandrino per celebrare il modello dei duces romani e in particolare della nuova cosmocrazia augustea; Seneca invece è autore di un attacco più diretto e personale alla figura di Alessandro: il filosofo raccoglie i severi giudizi peripatetici e stoici sulle intemperanze e sui vizi di Alessandro, che sarebbe stato incapace di governare la sua straordinaria fortuna, in quanto vittima di eccessi e delle sue stesse passioni. L'asprezza di Seneca nel giudizio sul Macedone va senza dubbio ricondotta a un'intenzione didascalica nei confronti del giovane Nerone, attratto da tutto quanto di eccessivo era stato tramandato riguardo ad Alessandro, al suo carattere e alle sue imprese. Tanto più che risultava fin troppo facile l'assimilazione dello schema maestro-filosofo/discepolo-tiranno, e quindi l'equazione Aristotele : Seneca = Alessandro : Nerone.

Di Alessandro, Seneca stigmatizza i caratteri, i vizi morali, le azioni: la feritas e la crudelitas del tyrannus, la sua rovinosa ebrietas, l’inestinguibile furor aliena vastandi, l’incapacità di trovare un limite ai propri progetti e ai propri orizzonti, quel pondus che trascinava come un sasso gettato nell’abisso, l’infelicem Alexandrum sempre oltre il limite fissato, ad ignota:

Agebat infelicem Alexandrum furor aliena vastandi et ad ignota mittebat. An tu putas sanum qui a Graeciae primum cladibus, in qua eruditus est, incipit? […] Non contentus tot civitatium strage, quas aut vicerat Philippus aut emerat, alias alio loco proicit et toto orbe arma circumfert; nec subsistit usquam lassa crudelitas inmanium ferarum modo quae plus quam exigit fames mordent. Iam in unum regnum multa regna coniecit, iam Graeci Persaeque eundem timent, iam etiam a Dareo liberae nationes iugum accipiunt; it tamen ultra oceanum solemque, indignatur ab Herculis Liberique vestigiis victoriam flectere, ipsi naturae vim parat. Non ille ire vult, sed non potest stare, non aliter quam in praeceps deiecta pondera, quibus eundi finis est iacuisse. (Seneca, Ep. ad Luc. XV, 94, 62-63)

Soprattutto nelle opere precedenti l’avvento al potere di Nerone, Seneca insiste sui rischi dell’intemperanza caratteriale del re, sulla sua indisciplina alla lezione del Maestro, sugli eccessi che gli procurarono dolori e pene (come l’assassinio dell’amico Clito) e infine lo condussero alla morte prematura. Giova ricordare che lo stesso Seneca, che stigmatizza la risibile pretesa di autodivinizzazione di Alessandro, è autore anche nel 54 d.C. della satirica Apokolokyntosis (‘zucchificazione’ che fa il verso ad apotheosis) che aveva di mira il decreto senatorio che riconosceva a Claudio l’apoteosi e il titolo di ‘Divus’: un’onorificenza che, inaugurata in Roma da Ottaviano all’indomani della morte di Cesare, doveva molto al precedente della divinizzazione di Alessandro.

Un’altra interpretazione negativa presente nella tradizione tardo-antica dipende dalla esegesi biblica. Nelle Historiae adversus paganos, concluse nel 417, Orosio riprende in chiave cristiana il filone storiografico avverso ad Alessandro, traendo spunto dalle rare menzioni contenute nelle Sacre Scritture. Nel prologo del Libro I dei Maccabei, il riepilogo delle imprese di Alessandro culmina in un versetto che sintetizza la superbia del conquistatore del mondo:

La terra si ridusse al silenzio davanti ad Alessandro; il suo cuore si esaltò e si gonfiò di orgoglio. (Mac 1, 1-10)

Ma Orosio fonda la sua lettura soprattutto sulla visione profetica di Daniele:

Ecco un capro venire da occidente, sulla terra, senza toccarne il suolo: aveva fra gli occhi un grosso corno. Si avvicinò al montone dalle due corna, che avevo visto in piedi di fronte al fiume, e gli si scagliò contro con tutta la forza. Dopo averlo assalito, lo vidi imbizzarrirsi e cozzare contro di lui e spezzargli le due corna, senza che il montone avesse la forza di resistergli; poi lo gettò a terra e lo calpestò e nessuno liberava il montone dal suo potere. Il capro divenne molto potente ma quando fu diventato grande, quel suo gran corno si spezzò e al posto di quello sorsero altre quattro corna, verso i quattro venti del cielo. […] Il capro è il re della Grecia; il gran corno, che era in mezzo ai suoi occhi, è il primo re. Che quello sia stato spezzato e quattro ne siano sorti al posto di uno, significa che quattro regni sorgeranno dalla medesima nazione, ma non con la medesima potenza di lui. (Dn 8, 5-22)

In un'altra visione, Daniele evoca:

Una bestia simile a un pardo, che aveva quattro ali d’uccello sul dorso; quella bestia aveva quattro teste e le fu dato il dominio. (Dn 7,6)

San Girolamo nel commentare il passo spiegava:

Tertium regnum Macedonum […] Pardo bestiae velocissimae et hormetikê comparatur quae praeceps fertur ad sanguinem, et saltu in mortem ruit. Et alas habebat quatuor. Nihil enim Alexandri victoria velocior fuit, qui ex Illyrico et Adriatico mari usque ad Indicum Oceanum et Gangem fluvium, non tam preliis quam victoriis percorri et in sex annis partem Europae et omnem sibi Asiam subjugavit. Quatuor autem capita eosdem dicit duces eius, qui postea successores regni exstiterunt, Ptolomaeum, Seleucum, Philippum, Antigonum. (Girolamo, Comment. in Dan., VII 6?

Secondo Girolamo le quattro ali indicano dunque l’incredibile velocità delle conquiste del Macedone, le quattro teste i suoi successori, che si riveleranno, prima con il satanico Antigono e poi con i Romani, persecutori del popolo ebraico.

Orosio attacca nella figura del Macedone il paradigma del cosmocrate pagano che compie le sue imprese e realizza le sue conquiste al di fuori del disegno provvidenziale, solo per soddisfare la propria cieca ambizione e vanità: Alessandro è un flagello che ha portato morte e distruzione in tutto il mondo, una belva feroce "humani sanguinis inexsaturabilis" (III, 18, 10). È una interpretazione di totale condanna e che propone di Alessandro, “sedicente figlio di Dio”, un’immagine demoniaca e luciferina. Questa rappresentazione è destinata a lasciare per secoli tracce significative nei testi della patristica, nelle orazioni e nelle prediche, fino ai mistici tedeschi.

Per secoli comunque, nell’Occidente medievale (sulla demonizzazione di Alessandro in area sassanide, vedi Gnoli 1995) prevale nettamente l’immagine positiva di Alessandro ‘primo re del mondo’, ‘cavaliere della Provvidenza’, paladino di virtù. Ma nel XIV secolo, agli albori dell’età umanistica si riafferma una lettura negativa della figura di Alessandro:

“O altitudo divitiarum et scientie et sapientie Dei”, quis hic te non obstupescere poterit? Nam conantem Alexandrum prepedire in cursu coathletam romanum tu, ne sua temeritas prodiret ulterius, de certamine rapuisti. (Dante, De monarchia II, 8.10)

Dante, sulle orme di Livio, sostiene che soltanto la morte precoce sottrasse Alessandro al confronto, che sarebbe stato disastroso per la sua temeritas, con il coathleta Romanus, l’unico popolo che avrebbe potuto tenergli testa ed essergli concorrente nel progetto cosmocratico.

Sta a Francesco Petrarca riprendere la lettura negativa sul piano morale. Alessandro “Persarum victor Persarum vitiis victus”, invano rimproverato da Aristotele, muore infine a Babilonia “funditus enervatus et ceu in monstrum aliquod transformatus” avendo guadagnato gloria di invincibilità solo grazie al fatto che non aveva avuto occasione di scontrarsi con i Romani, ovvero con un esercito di uomini e non con “femmine orientali” (Petrarca, De vir. ill., Alex., 51): nel nuovo spirito umanistico, Petrarca dichiara le sue fonti, proclamando che la sua interpretazione è fondata non sulle fiabe, ma sulle fonti ‘antiche’, ovvero sull’autorevolezza delle testimonianze di Seneca e di Livio, historicorum princeps (De vir. ill., Alex., 49).

Il volo come exemplum superbiae

Nel contesto della storiografia “dell’odio contro Alessandro” si iscrive anche una interpretazione negativa dell’episodio del volo in cielo. In generale, nell’allegoresi cristiana, l'aspirazione al volo viene solitamente ascritta agli atti di superbia: una sorta di profanazione dell'unica, vera, ascensione al cielo, quella del Cristo. Tra gli esempi biblici da ricordare è la tentata scalata al cielo dei "popoli della terra" con la torre di Babele (in Genesi XI 1-9), puntualmente punita grazie all'intervento divino; nel Vangelo di Matteo, poi, il volo è tra le varie tentazioni che Satana suggerisce a Cristo (Mt. IV 5-7); e il volo ricompare anche in diverse storie di prodigi di Simon Mago nei Vangeli apocrifi.

L'episodio del volo di Alessandro, e in particolare le parole 'dell’angelo' che lo invitano perentoriamente a non “varcare i confini del cielo” e a tornare sulla terra, può dunque bene inserirsi nel catalogo degli esempi di superbia punita: e in questo senso viene interpretato anche in base ai testi della Sacra Scrittura.

In una parte della tradizione cristiana il volo di Alessandro viene dunque interpretato come allegoria dell’orgoglio umano punito: nell'Historienbibel, un testo divulgativo tedesco delle antiche scritture ad uso dei laici della metà del XV secolo, la Vita di Alessandro è una sorta di libro apocrifo dell’Antico Testamento, giustapposto al Libro dei Maccabei, e l'ascensione diventa un episodio in cui una voce divina interviene perentoriamente a bloccare il viaggio nel cielo. Il volo, violentemente deprecato da un angelo o da Dio stesso, diventa un episodio di superbia umana frustrata. E in questo senso Alessandro che ascende al cielo con i grifoni compare, in età medievale, nelle chiese, soprattutto di area tedesca e francese, con significato apotropaico (Frugoni 1973; Frugoni 1995).

Il volo di Alessandro a Bisanzio

Nell'iconografia bizantina alcuni elementi del testo letterario sono decisamente modificati: come si è visto gli uccelli bianchi divengono grifoni, il rozzo cesto di pelle di bue diviene un carro regale, distinto da simboli solari. Nel testo del Romanzo si menziona un'unica lancia con l'esca infilzata per fare alzare in volo gli animali: lo schema iconografico medievale e bizantino prev ede invece che l a figura di Alessandro sia in piedi su una biga (in Occidente più spesso rimane un cesto o un paniere), rappresentato frontalmente, con due lance con l'esca infilzata (non più una). Lo sdoppiamento dell'esca conferisce alla figura regale, con le braccia simmetricamente alzate, una posa araldica; anche gli stessi grifoni sono raffigurati in una disposizione araldica, simmetricamente disposti ai lati, e rivolti uno da una parte uno dall’altra. In ambito bizantino l’iconografia del volo si fissa dunque in una convenzione in cui confluiscono diverse suggestioni, di tipo trionfale e allegorico: l’immagine non è tanto metafora dell'apoteosi del princeps morto (o divinizzato ancora in vita), quanto piuttosto è una immagine archetipica del potere cosmocratico dell'imperatore che, su mandato divino e a imitazione di Cristo – unico Pantokrator – governa il cosmo, cielo e terra.

Alessandro – la sua figura, il suo ruolo di primo kosmokrator – è un elemento importante nella retorica di corte: nei discorsi in lode dei vari imperatori bizantini il paragone con Alessandro è un topos obbligato. Per l'imperatore bizantino Alessandro è il modello di straordinarie conquiste e di eccezionali qualità morali. Ma se l'imperatore bizantino diventa un alter Alexander, Alessandro stesso diventa un po' un imperatore bizantino: in alcune redazioni del Romanzo si trovano tracce di cerimoniali bizantini (ad esempio negli episodi delle ambascerie di Dario, e nelle acclamazioni per l'imperatore all'Ippodromo). La stessa ascensione che portava in cielo Alessandro con i grifoni, viene ripetuta ritualmente, quasi mimata, dall’imperatore bizantino mediante ausili meccanici. Questo il mirabolante spettacolo dell’epifania dell’imperatore bizantino e della sua ‘ascensione’, nella narrazione di Liutprando da Cremona, ambasciatore nel 949 secolo per conto di Berengario II alla corte di Costantino VII Porfirogenito:

Innanzi al trono dell’imperatore stava un albero di bronzo, ma dorato, i cui rami erano pieni di uccelli, anch’essi di bronzo dorato, di diverso genere, e ciascuno cantava facendo il verso della sua specie. Il trono dell'imperatore era fabbricato in maniera tale che un momento era al suolo, subito dopo si innalzava e via su, sempre più in alto. Due leoni di immensa grandezza, non si sa se di bronzo o di legno ma ricoperti d’oro, sembrava che lo custodissero: essi percotevano la terra con la coda, e dalla bocca aperta, con le loro lingue mobili, emettevano ruggiti. Sulle spalle di due eunuchi, fui portato così al cospetto dell'imperatore. Al mio arrivo i leoni ruggirono e gli uccelli (meccanici) cantarono con voci diverse: ma io non fui colpito né da paura né da stupore perché ero già stato informato di tutte queste meraviglie da persone che bene le conoscevano. Tre volte compii l'atto di prostrazione, inchinandomi prono ai piedi dell'imperatore; poi alzai il capo e d'un tratto l'uomo che poco prima avevo visto sul trono di poco elevato da terra, lo vidi sollevato per aria, vestito d'altri abiti e seduto quasi presso il soffitto della sala. Come ciò fosse avvenuto non riuscii a capirlo: forse lo tirarono in alto con un argano di quelli con cui si sollevano gli alberi dei torchi. 

Aenea sed deaurata quaedam arbor ante imperatoris sedile stabat, cuius ramos itidem aeneae diversis generis deauratae aves replebant, quae secundum species suas diversarum avium voces emittebant. Imperatoris vero solium erat arte compositum ut in momento humile, excelsius modo. Quam mox videretur sublime; quod immensae magnitudinis, incertum utrum aenei an lignei verum auro tecti, leones quasi custodiebant, qui cauda terram percutientes aperto ore linguisque mobilibus rugitum emittebant. In hac igitur duorum eunuchorum humeris ante imperatoris praesentiam sum deductus. Cumque in adventu meo rugitum leones emitterent, aves secundum species suas perstreperent, nullo sum terrore nulla admiratione commotus quotiam quidem ex his omnibus eos qui bene noverant fueram percontatus. Tercio itaque pronus imperatorem adorans, caput sustuli et quem prius moderata mensura a terra elevatum sedere vidi, mox aliis indutum vestibus poenes domus laquear sedere prospexi; quod quam iter fieret cogitare non potui, nisi forte eo sit subvectus argalio, quo torcularium arbores subvehuntur. (Liutprando da Cremona, Antapodosis VI, 5)

Dal X al XIII secolo, in corrispondenza con la persistente fortuna di Alessandro presso gli imperatori bizantini, l’episodio del volo ha una grande diffusione come soggetto monumentale ma anche come ornamento di piccoli oggetti preziosi, legati al cerimoniale di corte: anelli d’oro, cofanetti d'avorio, piatti smaltati. In alcuni esempi di questa iconografia (ad esempio in una cassettina d'avorio conservata a Darmstadt) vediamo due vittorie alate che porgono corone (come nel medaglione di Costanzo II). È in questo contesto che, quando Ordelaffo Falier, Doge di Venezia tra il 1102 e il 1118, commissiona a maestranze costantinopolitane le placchette di smalto per la Pala d’Oro, tra i soggetti sacri – santi e profeti – e profani (lo stesso doge e l’imperatrice Irene), arriva a Venezia anche una placchetta che raffigura schematicamente il volo di Alessandro.

Volo di Alessandro, smalto e oro, Pala d'Oro, XI secolo, Venezia, Basilica di San Marco (da Costantinopoli)

E il volo di Alessandro compare ancora, come immagine del potere cosmocratico, in un diadema regale conservato a Kiev.

Volo di Alessandro, diadema regale, XI-XII secolo, Kiev, Museo Nazionale

Tra X e XIII secolo, la fortuna positiva dell’episodio del volo in ambito bizantino si irradia anche anche in Occidente. Non sempre nelle chiese medievali ha un significato apotropaico, di monito contro la superbia umana punita, ma troviamo l'episodio dell'ascensione anche accostato a episodi biblici positivi: in un capitello di Moissac, l'ascensione di Alessandro è accostata al trionfo di Davide su Golia.

Abbazia di San Pietro di Moissac, chiostro, inizi XII secolo

Exemplum superbiae: il volo di Alessandro in ambito normanno

Contemporaneamente alla fortuna dell’immagine in chiave positiva, l’iconografia di Alessandro in volo viene ripresa in ambito normanno, nel XII secolo, come figura negativa, con un preciso ribaltamento ideologico del significato attribuito all’immagine in ambito bizantino.

Nel 1071 Roberto il Guiscardo aveva cacciato i Bizantini da Bari e per tutto il XII secolo i Normanni sono in lotta contro i Bizantini per l’egemonia sull’Adriatico. Venezia a partire dai travagliati patti con i Franchi dell’inizio del IX secolo è, di fatto, un protettorato bizantino. Sotto il profilo istituzionale, fino a tutto il X secolo:

I dogi si accontentavano di agire come funzionari bizantini, ricevendo un modesto appannaggio da Costantinopoli e risalendo i gradini della dignità della corte bizantina che l’imperatore riteneva opportuno concedere […]. Il titolo completo [di Giustiniano divenuto Doge di Venezia nel 827] era imperialis hypatus et humilis dux provinciae Venetiarum. (Nicol [1988] 1990, pp. 38-39)

Fino a tutto il XII secolo, Venezia, potenza emergente sotto il profilo militare e mercantile, di fatto contratta l’autonomia istituzionale dall’imperatore di Costantinopoli – autonomia che non era affatto garantita dal punto di vista giuridico – anche mediante il ricatto del sostegno militare. Di un intervento veneziano in Puglia, a fianco dei bizantini contro i Saraceni, già nel IX secolo, fa menzione Sa bellico:

Quando Theososio Constantinopolitano, il quale fa Michele imperador di Gretia con armata contra Mori Sarracini era fatto Capitano, venne a Venetia, dove trattò con Tradonico Doge, che i Vinitiani fessero una grossa armata contra li Barbari, i quali allhora molestarono la Puglia: la qualcosa per compiacere Michele fu conceduta et furono sessanta Galee contra Mori apparecchiate. (Sabellico 1544, 18)

Ma più precisamente, al nostro riguardo, i Veneziani appoggiarono Niceforo di Costantinopoli proprio contro Roberto il Guiscardo:

Niceforo contra le forze di Roberto [...] mandò Alessio con genti da terra a levar Durazzo di assedio. Costui [...] trattò per nome di Niceforo che i Vinitiani facessero una potente armata contra Normani. [...] Essi inimici con grande animo per il successo delle loro cose ingagliarditi si fecero contra le Galee de Vinitiani, li quali con tanto ardore s'intrarono a questa pugna che non come quelli che aiutano la dignità dell'Imperio, ma pareva che combattessero per la loro propria patria, fu combattuto assai lungamente: et il fin della vittoria era dubbio. (Sabellico 1544, 32)

Dopo la sconfitta delle forze di terra di Niceforo, Durazzo viene riconquistata dai Normanni, ed è a questo punto che lo scontro si risolve in una clamorosa sconfitta veneziana:

Hebbero i Vinitiani si fatti rotta, che gli huomini dell'armata, che erano molti [...] alcuni s'affogarono nelle acque, altro furono presi, et pochi vivi scamparono. (Sabellico 1544, 32)

Nel 1130 Ruggero è proclamato re di Sicilia, della Puglia e dell’Italia meridionale. Nelle alterne vicende di avvicinamento e di allontanamento di Venezia da Costantinopoli, e nonostante a momenti il governo bizantino metta in atto durissime ritorsioni contro l’insubordinazione e la crescente arroganza dei veneziani nei confronti dell’Impero (Nicol [1988] 1990, Ravegnani 2006), gli scontri nell’Adriatico nel XI e XII secolo, prima contro gli Arabi, poi contro i Normanni, vedono comunque schierati, sullo stesso fronte "Vinitiani e greci". E sempre i veneziani, per usare le parole di Sabellico, si comportano non “come quelli che aiutano la dignità dell'Imperio”, ma “pareva che combattessero per la loro propria patria”.

Per parte loro i Normanni conseguono e consolidano, nel corso del XII secolo, una serie trionfale di vittorie contro i Bizantini e i loro alleati veneziani. E nella seconda metà del XII secolo, nella Puglia recentemente conquistata, adottano anche nei monumentali programmi iconografici delle cattedrali da loro splendidamente rinnovate, la figura di Alessandro, considerato come ipostasi dell’imperatore bizantino sconfitto, e in particolare l’immagine del volo come exemplum superbiae punito. Trani, Otranto, Taranto, Bitonto: il programma iconografi co di committenza normanna è coerente e unitario, e nel corso degli anni ’60 del XII secolo ben tre complessi monumentali costruiti o ricostruiti ex novo ostentano l’immagine del Volo di Alessandro. Ed ecco che, come nota Chiara Frugoni, “Alessandro da imperatore bizantino diventa oggetto di un capitolo apocrifo di storia sacra, esempio di superbia luciferina” (Frugoni 1973).

Nel mosaico pavimentale della Cattedrale di Trani, datato 1160, l'episodio dell'ascensione è posto accanto alla raffigurazione del peccato di Adamo ed Eva.

Petroius (?), Volo di Alessandro, mosaico pavimentale, 1160, Cattedrale di Trani

La stessa iconografia e la stessa collocazione tra esempi biblici di superbia punita è nel (quasi completamente perduto) mosaico della Cattedrale di Taranto (1163-1165).

Volo di Alessandro, ricostruzione del mosaico pavimentale, 1163-1165, Cattedrale di Taranto

Diverse sono le interpretazioni della complessa iconografia del notissimo e mirabile pavimento musivo della Cattedrale di Otranto, ma pare tuttavia evidente che il volo in cielo con i grifoni di un ‘Alexander Rex’ abbigliato come un imperatore bizantino, sia inserito come allegoria negativa, fra altri exempla superbiae puniti della storia biblica, come il peccato di Adamo ed Eva e la Torre di Babele.

Cattedrale di Otranto, schema del mosaico pavimentale

Pantaleone, Volo di Alessandro, mosaico pavimentale, 1163-1165, Cattedrale di Otranto

In questi programmi iconografici il volo non compare, soltanto, con un significato genericamente apotropaico: lo spunto è tratto proprio dal racconto del Romanzo in cui l’‘angelo’ proibisce ad Alessandro l’accesso alle regioni del cielo e lo minaccia di morte, e così l'episodio del volo diventa nettamente allegoria del peccato di orgoglio e superbia, come la torre di Babele o la disobbedienza di Adamo e Eva.

Pantaleone, Adamo ed Eva cacciati dall’Eden, mosaico pavimentale, 1163-116, Cattedrale di Otranto

Il contesto e la datazione dei tre mosaici monumentali suggeriscono un'intenzione nettamente politico-ideologica. Nella Puglia conquistata dai Normanni, nella seconda metà del XII secolo, il significato del volo viene dunque ribaltato rispetto all’allegoresi positiva prevalente, proprio in quanto Alessandro, e il suo volo ‘divino’ e cosmocratico, è ipostasi del cosmocrate bizantino: Alessandro è seduto in trono e non sul cocchio, porta in testa la corona ed è abbigliato con la veste e i calzari che identificano l’imperatorebizantino. Il predecessore dei Basileis ton Rhomaion è raffigurato come il re superbo, nella leggenda castigato dall’angelo nella sua pretesa di mimesi dell’ascensione divina, e nella realtà storica sconfitto dalle ripetute vittorie sui Bizantini che alla fine del XII secolo assicurano ai Normanni il controllo diretto dell’Adriatico meridionale.

Ancora nel XIII secolo, dunque, a conferma della vitalità ideologica della figura di Alessandro, tra Bizantini da una parte e Normanni dall’altra si compie una battaglia per immagini intorno all’episodio del volo, già interpretato in antico come allegoria positiva, ma contemporaneamente anche letto, fin dalle prime fonti cristiane tardo-antiche come exemplum superbiae.

Il volo di Alessandro a Venezia

A proposito della lastra con il Volo di Alessandro a San Marco, resta dunque aperta la questione a cui Cicognara negava dignità e rifiutava risposte: perché Alessandro e il suo volo leggendario approdano sulla facciata settentrionale della basilica marciana? Perché quella figura va a combinarsi con altre figure,‘gentili’ e cristiane? In quale sintassi si ordina il suo significato? La traccia, scartata sprezzantemente da Cicognara, di chi rinveniva nell'immagine una "allegoria della forza della Repubblica" ha un senso che trascende l'evocazione della leggenda di Alessandro, pure nel Medioevo fortunatissima. Quella figura è certo Alessandro, quel carro è il magico carro con cui arriva ai confini del cielo. Ma non semplicemente. Non solo.

Nel 1204, con la quarta crociata, Venezia risolve traumaticamente il rapporto istituzionale con l’impero bizantino: nello scempio compiuto dai Crociati a Costantinopoli, di cui come noto Niceta Coniate ci ha lasciato la più impressionante testimonianza, oltre alle molte opere d’arte distrutte o fuse per il valore venale dei metalli, il bottino che il Doge Enrico Dandolo riporta non consiste, soltanto, negli innumerevoli spolia costantinopolitani che andranno a ornare la nuova Venezia e la stessa Capella Dogale, ma è un bottino simbolico di portata ben più fondativa. Con il sacco di Costantinopoli, Venezia strappa a forza agli imperatori bizantini il riconoscimento della autonomia del suo potere e, di più, da quella impresa, riporta come bottino una parte consistente dell’eredità istituzionale bizantina: il doge assume il titolo di Dominus quartae partis et dimidiae totius Imperii Romaniae, ‘Signore di un quarto e mezzo dell’intero Impero Romano’ (Nicol [1988] 1990, Ravegnani 2006).

È in questo contesto che si colloca la traslazione a Venezia e la collocazione nella facciata settentrionale della Basilica della lastra con il Volo di Alessandro.

Volo di Alessandro, lastra lapidea, XII secolo, Venezia, Basilica di San Marco, facciata nord (da Costantinopoli)

Da nessuna fonte risulta che a Venezia la bucherellatura che costella la veste e la tiara di Alessandro fu mai completata con l’incastonatura delle previste pietre preziose (che quasi certamente impreziosivano la lastra nel suo contesto originario); ma la presenza anche nel Sancta Sanctorum della Pala d'Oro dell'iconografia dell'ascensione di Alessandro ci conferma ad abundantiam la significatività e il pretium della collocazione della lastra con il Volo. Come si è visto, infatti, l’immagine dell’apoteosi di Alessandro – in un’accezione certamente edificante, secondo la tradizione bizant ina – compariva sul margine inferiore della cornice esterna della Pala d’Oro, parte di un gruppo di cinque placchette circolari in oro e smalto di piccole dimensioni (4,5 cm ca.) di fattura islamico-bizantina, datate al XII secolo. Scrive Francesco Sansovino:

[Nell'anno 976 il Doge Pietro Orseolo aveva ordinato] che fosse questa Pala fabricata a Costaninopoli per l'eccellenza degli artefici che all'hora fiorivano in quell'Imperio; e ridotta a perfettione con lunghezza di molti anni per diversi accidenti, fu condotta a Venezia sotto Ordelaffo Faliero Doge, che visse l'anno 1102 et collocata su l'altare. Et l'anno 1209 sotto Pietro Zano Doge fu rinovata da Angelo Faliero Procuratore della Chiesa, aggiungendovi diversi ornamenti di gioie e di perle. ( Sansovino 1513, 24)

Nel sistema iconografico della Pala d’Oro le figure sono poste in un ordine preciso di significato, che contempla scene evangeliche, santi e profeti – una Gerusalemme Celeste che splende sull’altare della Cappella Ducale. Le uniche immagini profane sono poste sulla cornice inferiore, sotto l’ultimo registro in cui compaiono l’imperatrice bizantina Irene (probabilmente la sposa di Alessio I Comneno, 1081-1118) e il doge Ordelaffo Falier (1102-1118) : qui si trovano l’immagine di Costantino il Grande e cinque placchette con episodi tratti dalle storie di Alessandro, tra cui l’immagine stilizzata di Alessandro elevatus ad aerem. Dello stesso gruppo fanno parte anche altre quattro placchette che raffigurano la stessa figura imperiale (identico il volto e il copricapo) impegnata in una regale caccia con il falcone, e una rappresentazione del mondo, visto come un giardino paradisiaco al cui centro sorge un albero circondato da due ouroboroi, i serpenti simbolici, ma anche i fiumi che circoscrivono le terre emerse: è il mondo che, nelle versioni antiche e medievali del Romanzo, Alessandro vede dall’alto, nella visione cosmica che conclude il suo mistico volo.

Placchette con scene della caccia con falcone, del Volo di Alessandro, dell’albero cosmico, Pala d’Oro, smalto e oro, XI secolo, Venezia, Basilica di San Marco (da Costantinopoli)

I cinque piccoli smalti con immagini di Alessandro come primo basileus sono posti sullo stesso rango della placchetta che ritrae il fondatore di Costantinopoli, Nea Rhome, Costantino il Grande (che tuttora, nella tradizione cristiana orientale, è per altro venerato come santo, in coppia con la madre Elena).

Cornice inferiore della Pala d’Oro: nelle placchette circolari alla base della Pala, Alessandro e Costantino il Grande, smalto e oro, XI secolo, Venezia, Basilica di San Marco (da Costantinopoli)

Dopo il 1204 il Doge assume dunque pienamente la tradizione rituale costantinopolitana in cui la simbologia religiosa interseca i suoi segni con la simbologia del potere e la traduce, anche materialmente, nel programma iconologico di San Marco.

Il pezzo più pregiato del sacco di Costantinopoli, la quadriga bronzea predata dall’Ippodromo, viene collocato nel punto simbolicamente cruciale della basilica, sopra il portale in cui poi verrà messo in opera il mosaico dell'Ascensione di Cristo. Se condo diverse fonti, il Doge per alcune cerimonie si sarebbe posto dietro i cavalli, che allora non erano sollevati su colonne ma poggiati su bassi capitelli: a raffigurare l'ipostasi terrena, e politica, dell'ascensione di Cristo, ma di fatto come per un'apoteosi. Scrive Renato Polacco come:

[...] il doge, quando dal sommo della facciata principale assisteva alle feste religiose e popolari sulla Piazza sottostante si trovasse in un podio al di sopra della quadriga, così da suscitare nella fantasia popolare un'idea della sua ascensione celeste, come quella di Alessandro Magno, favoleggiata nella tradizione antica e raffigurata nel vicino rilievo della facciata nord della Basilica. E forse per richiamare il motivo dell'ascensione, rappresentata anche nella lunetta musiva della stessa loggia esterna, riappaiono nella decorazione scultorea dell'arcone centrale tutte, o quasi, le allegorie delle virtù presenti nella cupola dell'Ascensione. (Polacco 1995)

La quadriga, come la Cappella Dogale che presto diventerà la Basilica marciana, è volta in direzione oriente-occidente, a seguire il corso del sole, ma anche a segnare la direzione del percorso che porta il potere imperiale da Costantinopoli a Venezia.

La fascia sottostante la quadriga è senza dubbio la zona più elaborata e semanticamente più connotata nel complesso programma iconografico di decorazione scultorea esterna della basilica. È evidente che un unico progetto, compatto e conseguente sotto il profilo figurale e simbolico, informa la sintassi della decorazione, e la frase reggente e principale di questa sintassi simbolica coincide con la fascia scultorea in questione, articolata nei diversi riquadri dei bassorilievi. A una prima lettura la serie dei pannelli della facciata principale parrebbe conchiusa, e nettamente circoscritta da un incipit e da un explicit precisi: i due studiatissimi Eracle che aprono e chiudono la fascia della facciata principale, antico il primo, rifatto en pendant il secondo. Tra i due Eracle, a llegorie di forza e di salvezza, sono poste le immagini di San Demetrio e San Giorgio (anche queste una originale bizantina, l’altra rifatta), già protettori dell’esercito bizantino e ora arruolati come ‘santi in armatura’ (Kantorowicz [1961] 1995) a proteggere Venezia, in quanto principale erede dell’impero bizantino.

Si tratta, come ha ben detto André Grabar, di una sorta di ‘scudo ideale’, una protezione che difende dal male, dai pericoli e dagli attacchi dei nemici, la cappella dogale e la città di Venezia:

Le fatiche di Eracle e le lotte dei santi guerrieri, il tema cioè della forza e della potenza, si uniscono in S. Marco al tema trionfale della quadriga in bronzo (lisippea?) posta, sempre nel secolo XIII davanti alla porta centrale della facciata in un simbolismo di protezione e vittoria. Una sorta di scudo ideale. (Grabar [1968] 1983)

Certo il discorso simbolico ha il suo fulcro nella facciata principale, tuttavia non si apre e non si chiude nella misura del fronte della Basilica, ma sfonda e trova un suo cominciamento già sul lato settentrionale in cui è inserito il bassorilievo con il Volo, nella sezione che parte proprio da questa lastra e scorre per tutto lo sviluppo della facciata principale. L’ipotesi è che il capo del filo simbolico continuo della decorazione coincida proprio con la lastra della figura regale sul carro, collocata in una posizione molto in vista, tra le prime inquadrature che dal probabile accesso dalle Mercerie, il cittadino o il ‘foresto’ poteva ammirare come incipit e anticipo del complesso programma iconografico della basilica; e in questo senso, come è stato sostenuto di recente, il Volo di Alessandro poteva forse anche avere un suo ruolo nei percorsi liturgici e processionali intorno alla chiesa marciana (Niero 2006).

La lastra con il carro volante potrebbe essere dunque il vero incipit del programma iconografico dell’intera fascia, una chiave di interpretazione di tutti i pannelli che si dipanano poi lungo il prospetto principale.

Iconologia, o dell’uso ideologico dell’immagine

Per quasi duemila ann i, dunque, dalle prime leggende fiorite intorno ad Alessandro già all’indomani delle sue fantastiche imprese ai confini del mondo, il significato dell’episodio del Volo oscilla violentemente da un contesto storico-culturale all’altro, precipitando in senso positivo o negativo, sempre con una forte e netta intonazione ideologica.

Agli inizi del XIII secolo a Venezia ancora una volta il Volo di Alessandro è soggetto a un utilizzo tutto ideologico dell’immagine: Venezia, in continuità con la tradizione bizantina di cui ha strappato con le armi l’eredità, ribalta il significato negativo di exemplum superbiae che, meno di cinquant’anni prima, ad ‘Alexander Rex’ trascinato in cielo dai grifoni era stato imputato nelle Basiliche della Puglia normanna. La nuova stagione di fortuna positiva dell’immagine è una conferma che il Volo di Alessandro, quando arriva a San Marco, è ancora carico di quell’alta tensione semantica che l’episodio aveva fin dalle sue origini, letterarie e iconografiche: una tensione energetica doppia, mai neutrale ma fortemente carica dell’att razione verso uno dei due poli opposti – il significato tutto negativo di un exemplum superbiae, proposto come un capitolo apocrifo della scrittura sacra; il significato tutto positivo di prefigurazione del potere imperiale.

E la lastra di Alessandro a San Marco è l’ultimo e forse il più autorevole testimone rimasto di una allegoresi politica positiva, altamente ideologica, dell’episodio del Volo, nella nuova declinazione della simbologia del potere cosmocratico che dall’effimero impero di Alessandro passa a Roma, da Roma a Costantinopoli, e da Costantinopoli a Venezia.

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Per citare questo articolo / To cite this article: M. Centanni, Il lungo volo di Alessandro, “La Rivista di Engramma” n. 76, dicembre 2009, pp. 278-306 | PDF di questo articolo