"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

60 | dicembre 2007

9788898260058

Ricci, Lutero e il problema di tradurre Dio

Linda Badan, Andrea Padovan | Università degli Studi di Padova

Tradurre i testi sacri è da sempre impresa non facile: l’aderenza, da un lato, al testo originale e la comprensibilità, dall’altro lato, da parte dei riceventi si basa su un equilibrio assai fragile, che deve necessariamente passare per vie tortuose. Nel nostro lavoro abbiamo cercato di mettere a confronto l’esperienza della traduzione della Bibbia in due mondi completamente diversi, ma accomunati dal profondo lavoro ermeneutico del Riformatore tedesco e dell’Evangelizzatore dei popoli cinesi. Entrambi si sforzarono di utilizzare il lessico a loro disposizione evitando di creare termini nuovi ma compiendo una profonda ricerca lessicale su quelli a loro disposizione.

Ricci utilizzò principalmente il suo metodo di adattamento di termini confuciani alla luce dei concetti cristiani, come se questi ultimi non fossero estranei e lontani dal popolo cinese, ma come già naturalmente incarnati all’interno della sua cultura e tradizione. Lutero, avido lettore sia di Alto che di Basso Tedesco, compì profonde ricerche terminologiche, creando un mosaico linguistico all’interno della lingua tedesca, che prendesse i suoi tasselli dalle diverse varietà tedesche senza farne prevalere nessuna (anche se, chiaramente, alcune varietà del settentrione furono sfavorite, rispetto ai più colti idiomi del meridione o delle Cancellerie).

Ricci e Lutero si videro entrambi costretti ad abbandonare il latino, il greco o l’ebraico di partenza, anche se per motivi diversi: Ricci, per potersi avvicinare alla tradizione confuciana operando perciò delle scelte radicali; Lutero, invece, per opporsi a più generali principi umanistici secondo i quali un buon latino o un buon greco negli originali ‘parlavano da sé’. Su questa base, la traduzione poteva essere una semplice traslitterazione. Per quanto il Riformatore non fosse un democratico, era però convinto che l’uomo della strada (leggi il commerciante e non il mendicante) potesse non avere una istruzione nelle lettere classiche: le vecchie traduzioni (dei papisti), troppo vicine al testo latino, potevano pertanto essergli precluse, perché scritte in un tedesco latinizzato, una sorta cioè di linguaggio codificato ad uso e consumo dei dotti. Benché si inserissero in tradizioni diverse, entrambi gli evangelizzatori scelsero pertanto di piegare il lessico ai propri scopi, convinti – quasi in accordo ante litteram con la cosiddetta ipotesi Sapir-Whorf, secondo cui un sistema culturale-concettuale manca di un concetto se quest’ultimo non è presente, come epifenomeno, nella lingua – della necessità di ovviare alla mancanza di certe strutture concettuali in una lingua o in alcune sue varietà. Anche se oggi nessuno più confonde i sistemi culturali con quelli linguistici, è vero che ai tempi di Lutero e di Ricci un’ipotesi del genere poteva essere considerata fondata e poteva perciò essere il motore delle profonde innovazioni attuate dai due.

L’opera dell’uno contribuì al processo di unificazione della lingua tedesca, quella dell’altro costituì uno dei primi tentativi di tradurre concetti occidentali in termini cinesi per mezzo di una profonda fusione dei concetti di partenza con i corrispettivi della tradizione classica cinese, al fine di tradurre il pensiero europeo senza trasformarlo.