"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

70 | febbraio/marzo 2009

9788898260157

Esplorazioni, estensioni, costellazioni. Aspetti della memoria in Joseph Cornell

Paolo Castelli, Antonella Sbrilli

Il rapporto fra l'arte della memoria e l'artista americano Joseph Cornell (1903-1972) è suggerito dal poeta Charles Simic nel suo Il cacciatore di immagini (Simic, 1992), uno dei pochi testi reperibili in italiano dedicati alla figura di questo artista, celebre per le sue scatole di oggetti assemblati, i collage di materiali diversi e i precoci esperimenti filmici, anch'essi basati su collage, paradossi temporali, evanescenze, così importanti, nella loro inattualità, per le ricerche coeve e a venire.

Citando dal volume di Frances Yates, L'arte della memoria (1966), Simic chiama in causa il Teatro della Memoria di Giulio Camillo, così come descritto da Viglio Zwichem a Erasmo da Rotterdam. E questo paragone serve a evocare, delle scatole di Cornell, sia l'aspetto che le lega alla struttura architettonica del teatro sia quello che rimanda all'allestimento di uno spazio per la raccolta e la messa in scena di oggetti percepibili, che agiscano da condensatori di associazioni, combinazioni, cortocircuiti nella dimensione ineffabile della mente. Mentre il tema della memoria (e del tempo) nel suo complesso è riconosciuto ampiamente all'interno della bibliografia internazionale sull'artista, quello specifico dell'arte della memoria è più sfuggente, ma non per questo, anche grazie al suggerimento poetico di Simic, meno fertile, permettendo riflessioni che intrecciano i campi degli studi della mente e della moderna memoria artificiale.

 Dal libro di Charles Simic, Il cacciatore di immagini, s. p.: 
Joseph Cornell, L'Egypte de Mlle Cléo de Mérode cours élémentaire d'histoire naturelle, 1940
Joseph Cornell,Medici Slot Machine, 1942

 Un altro appiglio per la collocazione di Cornell all'interno degli studi delle tradizioni mnemotecniche si trova nella mostra itinerante del 1998, dal titolo Deep Storage (Deep Storage, 1998), che affronta in maniera per allora in gran parte inedita i temi della classificazione, dell'archiviazione, della musealizzazione e del collezionismo d'artista come possibili modi di espressione creativa nel contemporaneo.

A questo punto si può fare accenno al fatto che una sorta di mnemotecnica è necessaria anche agli archivisti del Joseph Cornell Study Center (Washington D. C.) che devono recuperare documenti all'interno di una ingente mole di materiale disomogeneo (carte, oggetti, scatole), la cui classificazione segue a sua volta criteri associativi (parole-chiave, icone, rimandi) e le tracce di percorsi esperienziali al suo interno, differenti o complementari rispetto a quelli dell'artista.

Tornando alla mostra Deep Storage, nel catalogo il lettore trova trattati, nella apparente neutralità gerarchica dell'ordine alfabetico, l'Atlas di Warburg e le raccolte di oggetti, ritagli, fotografie, francobolli di Cornell. Questa "buona vicinanza" fra le due figure, accomunate da una fortuna postuma sempre crescente e interdisciplinare, pur non dimostrata da documenti, consente una riflessione sui pattern della memoria che non solo le avvicina, ma fa emergere degli elementi sintattici tipici di una memoria alle prese con la sistemazione di materiali disparati, provenienti anche dalla storia dell'arte. Sono note infatti le indagini di Cornell sull'arte del Rinascimento italiano e fiammingo, suffragate dalla sua raccolta di numerose monografie su artisti come Piero della Francesca, Paolo Uccello, Carpaccio, Giorgione, molte delle quali scritte da storici dell'arte italiani; così come dalla manipolazione seriale di riproduzioni di dettagli da Bronzino, Dosso Dossi, Memling e molti altri pittori della tradizione europea.

Quanto all'arte della memoria in senso stretto è anch'essa chiamata in causa, nel medesimo catalogo, da un saggio indicizzato alla voce Wunderkammer, dove alcuni artifici mnemonici della tradizione medievale, in particolare quelli con struttura "a cella" (alveari, colombari, gabbie), ovvero la metafora stessa della memoria come scrigno di preziosi, rimandano in modo sorprendentemente puntuale ad alcune opere di Cornell. 

Catalogo della mostra Deep Storage. Collecting, Storing and Archiving in Art, 1998

Un accenno precoce al nesso fra la scatola e la memoria artificiale dei calcolatori (passando per il teatro) si trova nella brochure della prima delle pochissime mostre dedicate a Cornell in Italia (Cornell Torino 1971), in cui il curatore Luigi Carluccio annota:

La scatola ed il suo corollario naturale: il casellario. La scatola del resto è la forma della finestra, della porta, della stanza, della casa, del rifugio, del nascondiglio. Il casellario è il palazzo, il magazzino, l'archivio, la "memoria" nel senso dei calcolatori elettronici. La scatola è, ancora, una valva, una teca, un'urna. E' soprattutto un teatro. Un teatrino da tenere come un livre de chevet.

In questo elenco si ritrovano numerose metafore della memoria, aggiornate all'esperienza ancora giovane del calcolatore elettronico, in un percorso oscillante fra i poli dell'incasellamento e del recupero delle immagini mentali, che rimanda alla trattazione degli sviluppi delle mnemotecniche dal Rinascimento ai computer (vedi l'articolo di François Quiviger in questo stesso numero).

A questo proposito si può notare che, fra gli anni Trenta e Quaranta, un altro americano, lo scienziato del MIT Vannevar Bush (morirà nel 1974, due anni dopo Cornell), elabora il progetto del Memex (Memory+Extender) un dispositivo automatico per il recupero di dati. 

"As we may think"

Nel celebre articolo pubblicato da Bush nella rivista "The Atlantic Monthly" del luglio 1945, dal titolo Come potremmo pensare, in cui descrive per l'appunto il Memex, l'autore offre una ipotesi del funzionamento della mente sulla base di associazioni di concetti e immagini mentali, elaborata nel corso degli anni precedenti e che si sarebbe rivelata sempre più pregnante con l'evolvere delle tecnologie informatiche e degli studi neurologici. Definito come un'estensione della memoria umana e dei processi associativi che la mente compie attraverso le informazioni, il Memex si pone come uno strumento indirizzato sia alla dimensione pubblica, per esempio delle biblioteche, sia, soprattutto, a quella privata del singolo che nel corso della sua ricerca costruisce delle reti di collegamenti fra dati, concetti, immagini, appunti, riflessioni che non solo andrebbero facilmente smarrite senza un sistema di memorizzazione connettiva, ma perderebbero anche quel surplus di significato che deriva dalla loro stessa interconnessione:

The human mind [...] operates by association. With one item in its grasp, it snaps instantly to the next that is suggested by the association of thoughts, in accordance with some intricate web of trails carried by the cells of the brain. It has other characteristics, of course; trails that are not frequently followed are prone to fade, items are not fully permanent, memory is transitory. Yet the speed of action, the intricacy of trails, the detail of mental pictures, is awe-inspiring beyond all else in nature.

Man cannot hope fully to duplicate this mental process artificially, but he certainly ought to be able to learn from it. In minor ways he may even improve, for his records have relative permanency. The first idea, however, to be drawn from the analogy concerns selection. Selection by association, rather than indexing, may yet be mechanized. One cannot hope thus to equal the speed and flexibility with which the mind follows an associative trail, but it should be possible to beat the mind decisively in regard to the permanence and clarity of the items resurrected from storage.

Consider a future device for individual use, which is a sort of mechanized private file and library. It needs a name, and, to coin one at random, Memex will do. A Memex is a device in which an individual stores all his books, records, and communications, and which is mechanized so that it may be consulted with exceeding speed and flexibility. It is an enlarged intimate supplement to his memory.

Queste frasi di Bush sembrano anche adattarsi, almeno in parte, al modo di procedere di Cornell che nella sua vita ha esplorato dei temi (il balletto romantico, la ninfa, 'principi' e 'principesse' Medici, le stelle e le star del cinema etc.) espandendoli in personali reti di associazioni reificate da oggetti, ritagli, riproduzioni che potevano trovare la loro collocazione definitiva nelle scatole oppure restare latenti nei dossier cartacei e negli archivi oggettuali.

Il personale allestimento mnemonico di Cornell, finalizzato non già al recupero di un singolo dato, ma alla ricostruzione di un complesso di dati che entrassero in risonanza, è a suo modo (un modo che pertiene al linguaggio creativo) un calco dei processi non lineari della memoria umana, un dispositivo per allargare, implementare, ripercorrere flessibilmente i sentieri intricati della memoria, interpretabile, anche, come una singolare forma di ars memoriae.

I percorsi associativi dall'esperienza alla creazione

“Who knows what those objects will say to each other?” [JC]

Tra gli oggetti assemblati all’interno di un’opera di Joseph Cornell si percepisce l’esistenza di un silenzioso dialogo e l’equilibrio formale che sostanzia l’insieme sembra reggere questa rete di corrispondenze nascoste, raggiungendo la sua compiutezza nel momento in cui arriva a consentire ai vari elementi di sintonizzarsi. Di questa tensione verso una forma definitiva, verso la ricostruzione di un equilibrio chiuso tra oggetti di diversa provenienza ma destinati a trovare un rifugio e un senso all’interno di una dei suoi boxes, Cornell ha lasciato diverse testimonianze. Approfondire il suo metodo di lavoro e le dinamiche interiori che guidavano le sue scelte, può aiutare a definire alcune delle esigenze (di poetica) cui rispondeva la natura e la struttura delle sue creazioni e a comprendere come si generi quella “white metaphysics of ephemera” che le anima.

Cornell è prima di tutto un esploratore, un viaggiatore. I suoi viaggi sono tuttavia molto limitati geograficamente e assumono piuttosto un’ampiezza, una profondità temporale. È su questa quarta dimensione che si allarga enormemente il raggio d’azione delle sue peregrinazioni. La città di New York che resta, fisicamente, l’unico orizzonte della sua flânerie per quasi mezzo secolo (tra gli anni ’30 e i ’70) si stratifica della topografia di altre città e arriva così ad includere altre epoche e altri luoghi: la Parigi fin de siècle, l’Italia rinascimentale, l’America vittoriana e quella hoolywoodiana. Questa metamorfosi si compie attraverso la frequentazione di quei luoghi d’elezione di una rêverie nostalgica che sono i negozi di rigattieri e di antiquari, i cinema e i teatri, i penny arcade, ma è soprattutto alimentata da un movente letterario e mentale. Cornell compie il suo Grand Tour senza muoversi da New York, trascorrendo giornate intere alla Public Library, immergendosi nella lettura delle migliaia di testi della sua biblioteca, raccogliendo libretti d’opera, invitando Duchamp e gli altri artisti espatriati per un tè a Utopia Parkway e inseguendo costantemente le sue ossessioni culturali.

In ogni cosa vede e cerca, cerca e vede riferimenti alla cultura europea, costruendo singolari catene di associazioni come, per fare un solo esempio fra molti, quando registra una "metamorfosi del segno" da una pubblicità del pesce affumicato a un dettaglio di fiori di Bernardino Luini: "It is as though the FLORAL STILL-LIFE on the wagon flashed by again with a 'parading' of other symbol-images" [JC] (Caws 1993, p. 106).

Una costante sovrapposizione tra contenuti dell’immaginazione e della realtà giunge a diventare quasi una distorsione percettiva che trasfigura gli elementi della quotidianità newyorkese come un filtro sovrapposto al reale. Si tratta, in realtà, di una intensa risorsa poetica che può generare accostamenti di potente carica espressiva tra i materiali della contemporaneità statunitense e le forme della tradizione culturale europea. Assistiamo quindi a un processo di sovrapposizione culturale ma anche e soprattutto temporale. Sembra che Cornell rifugga in qualche modo il presente o che possa viverlo soltanto fondendolo con la dimensione mitica di un passato prossimo (letterario/europeo) come se attraverso questo filtro riuscisse a dare una prospettiva e quindi un senso alle cose. In realtà Cornell ha scoperto con l’esperienza che questo filtro è un sostegno, una sorta di catalizzatore, per un processo di natura più profonda.

Bernardino Luini (bottega), Madonna con bambino (particolare),
prima metà del XVI sec., Hermitage, San Pietroburgo.

"The shining hour"

Il bisogno che egli avverte con maggiore intensità è quello di inseguire degli stati di grazia, di una serenità ineffabile, intensa, che potremmo definire delle epifanie. Sono momenti brevi o prolungati, anche di alcune ore a volte, generati dalle contingenze più impensabili: l’aver mangiato una certa cosa, la lettura di un poeta, l’aver visto una figura di "ninfa" in un'adolescente, l’aver riconosciuto, soprattutto l’aver riconosciuto, nelle contingenze della realtà qualcosa di legato a queste sue esplorazioni letterarie e culturali. A questo dunque serve la dimensione letteraria e fantastica, ad aumentare le probabilità di imbattersi in una trama di circostanze capace di generare quella dimensione estatica e a rendere più possibile che ciò riaccada da un momento all’altro. Ma si tratta di momenti comunque passeggeri che svaniscono, evaporano (parola che ricorre nei diari). La scoperta più grande: si possono riprodurre. Si può ripercorrere nella memoria  ciascuno di essi raccogliendo (recollection è il termine inglese per indicare questo tipo di ricordo) tutti gli elementi che lo hanno accompagnato e generato. Come si può rivivere il passato delle città europee e la sua atmosfera scomparsa, così si può rivivere il proprio passato e le sue emozioni transitorie. Allora, nel momento in cui una di queste epifanie si manifesta, la cosa più importante è cercare di preservare il mental moment con tutte le contingenze che lo hanno prodotto. Ogni più piccolo dettaglio può essere importante, può essere risultato determinante nell’innescare il processo. Non bisogna perdere o tralasciare niente. “Keep clear the shining hour” [JC].

Dalle scatole ai diari

Cornell inizia a tenere i suoi diari in modo più regolare a partire dal 1940 e prosegue per tutta la vita, producendo una quantità enorme di appunti. Appunta le cose più diverse: esperienze visive principalmente, ma anche sogni, passi estrapolati dalle sue letture, rumori, impressioni, sensazioni propriocettive esperienze legate alla sua adesione alla Christian Science e alla concezione dell'eterniday, "eterna quotidianità", fusione di attimo presente e dimensione atemporale, di vivi e trapassati, attualità e storia. Per la maggior parte, gli appunti nei suoi diari funzionano come mementos, come note per ricordare in seguito un’emozione suscitata da piccoli particolari percettivi. Ogni volta che riesce a registrare una shining hour sui suoi diari, la contrassegna con una stella (*). I diari non servono a registrare tutto quello che gli succede, ma sostanzialmente il bello e le emozioni che in seguito potrebbero consolarlo e diventare oggetto di speculazioni o di piacevoli recollections. I diari rappresentano dunque una selezione estetico-emotiva della realtà quotidiana, ma non solo. Col tempo si avverte anche una sorta di forzatura in questa rilevazione condotta con l’orecchio sempre teso, strizzando gli occhi per cercare quello che si vuole trovare a tutti i costi: una registrazione attiva guidata dall’aspettativa che ha, per molti versi, il carattere dell’ossessione. Non si tratta soltanto di preservare quei momenti di estasi ma di riprodurli, di riversarli nel presente, cercando di fare del tempo presente una continua riproposizione di essi. Il desiderio di rivivere l’essenza emozionale di episodi trascorsi, collegando le esperienze esterne a quelle interiori, porta a una costante sovrapposizione di passato e presente. Cornell finisce così per riciclare incessantemente le sue esperienze e per trasformare la realtà in questo assemblaggio di frammenti.

“Collage=REALITY” [JC].

Dai diari alle scatole

L’artista si accorge della possibilità di trasformare questi elementi, raccolti in forma di annotazioni nei diaries in materiali analoghi, dotati, se assemblati in un certo modo, della proprietà di suscitare le stesse emozioni che gli ha procurato un luogo in particolari circostanze. Si mette perciò alla ricerca di materiali. Scopre che può registrare il momento anche con prelievi fatti direttamente dalla realtà e che è questa la strada più logica e diretta per ricostruire, analogicamente, quell’insieme di particolari che l'hanno suscitato. Le sue registrazioni non si limiteranno più alle sole annotazioni, ma alla collazione di oggetti e immagini da luoghi reali e letterari, del presente e del passato.

Il diary è una forma di registrazione della exploration; quest'ultima definizione di Cornell denota qualunque ricerca egli conduca in luoghi reali della città e in luoghi stampati. Un primo prodotto di questo tipo di esplorazioni è da considerarsi l'extension, conglomerato di idee, scritti e ritagli intorno a un argomento cogente sviluppato in raccoglitori, espandibili nel caso in cui nuovi elementi si presentassero in seguito a successive esplorazioni. Nel momento in cui due o più raccoglitori rivelano affinità e associazioni vengono inseriti uno dentro l'altro, come fossero uno la ramificazione dell'altro, generando così catene di interconnessioni (cross-indexing). Da questo processo di compenetrazione si generano quelle che lo stesso Cornell chiama "constellations", pattern di associazioni, che prendono il nome da alcune costellazioni favorite quali Cassiopea o Andromeda e fanno riferimento a cluster di illuminazioni individuabili per mezzo di questa identificazione. 

Sebbene tutte queste attività forniscano materiali per le scatole intese come opere finite, queste ultime rappresentano il distillato definitivo e non più espandibile di un'attività incessante e potenzialmente senza fine.

Un'arte delle memorie
Palinsesto o magazzino?

Nella tradizione rappresentativa della memoria occidentale esiste una metaforica che ha prodotto, nel corso dei secoli, un susseguirsi di immagini in grado di rappresentarne il funzionamento. Queste metafore variavano in funzione di due aspetti principali: il modello teorico-scientifico dominante nell’interpretazione della memoria e l’evoluzione tecnologica dei sostegni per l’archiviazione e la scrittura. Tuttavia la gran parte di esse si può inscrivere in due filoni principali: quello della lavagna e quello del magazzino. Secondo il primo, i ricordi lasciano delle impronte nella mente, simili a quelle di un sigillo sulla cera o della scrittura su un sostegno, per il secondo, la memoria funziona come un contenitore che raccoglie i diversi oggetti della percezione sensoriale. Esistono altri ambiti metaforici, forse meno fortunati, o parzialmente affini a questi ma con alcune significative varianti.

Uno dei più interessanti è quello del palinsesto, proposto da Thomas De Quincey e ripreso poi da Freud nella sua immagine del Notes magico. In questo caso, è la metafora della lavagna o tavoletta cerata a essere aggiornata attraverso l’aggiunta della dimensione temporale: i ricordi scritti nella mente non presentano le caratteristiche di stabilità e permanenza di un testo trascritto, ma si manifestano in modo intermittente e rischiano di scomparire o di riemergere in modo inaspettato e fuori dal controllo individuale. Una metafora che renda appieno questa alternanza di presenza-assenza è stata elaborata appunto da Thomas De Quincey in un saggio del 1845, The Palimpsest of the human brain, in cui paragona il cervello umano a un palinsesto: come il prezioso rotolo di pergamena veniva riutilizzato scrivendo sopra al testo precedente, così la memoria inscrive nuovi contenuti sopra i precedenti rendendo illeggibile quanto registrato in precedenza. Il procedimento del ricordo, secondo De Quincey, è simile all’azione di un solvente che, chimicamente, riesce a restituire gli strati di testo antecedenti.

De Quincey è uno degli autori amati da Cornell e dell’interesse di quest’ultimo per i suoi saggi abbiamo prove nei diari. Del resto, la metafora del palinsesto si addice perfettamente alla sovrapposizione costante di passato e presente e alla pratica della continua annotazione di eventi e stratificazione di emozioni, tipica delle explorations e dei diaries. La metafora del palinsesto sembrerebbe dunque definire al meglio la concezione e il funzionamento della memoria in Cornell, almeno per quanto riguarda i diari e, in qualche misura, anche le extensions e le constellations, con le loro infinibili stratificazioni e ramificazioni.

Tuttavia, dalle scatole di Cornell sembra provenire un messaggio diverso. Qui è l’oggetto materiale, analogo della realtà, il protagonista; qui è il contenitore che raccoglie e mette in relazione, spaziale e dinamica, gli elementi del ricordo. In questo caso sembra che la metafora del magazzino sia più calzante nella descrizione di una prassi di sistemazione di materiali disparati. Inoltre Cornell, nel momento in cui non si limita a conservare solo annotazioni scritte nei suoi faldoni, ma raccoglie anche ritagli, ephemera, minutiae... oggetti insomma, ricorre all’utilizzo di scatole anche nella fase di archiviazione di quella che sarà materia prima per le opere. Le chiama habitat e le conserva nel suo archivio-laboratorio, il seminterrato della casa di Utopia Parkway. Alcune conterrano materiale associato analogicamente, secondo personali associazioni, come succedeva con i raccoglitori di extensions, altre conterranno gli elementi che confluiranno nei boxes, ordinati per tipologie: biglie, boccette di vetro, tappi di sughero, pipe per bolle di sapone ecc. Le due metafore, del palinsesto e del magazzino, sembrano allora entrambe valide nel descrivere il lavoro sulla memoria che Cornell svolge infaticabilmente, ma quale delle due sarà allora più calzante? Questi due costrutti, in realtà, non si devono considerare come contraddittori, come affermato da  Harald Weinrich, secondo il quale "la dualità nel campo simbolico della memoria è una costante della storia delle idee occidentale e dipende, probabilmente, dalla duplicità del fenomeno mnemonico: la metafora del magazzino si condensa prevalentemente attorno al polo della memoria; quella della lavagna attorno al polo del ricordo".

Si può allora sostenere che entrambi gli archetipi possano coesistere in un’interpretazione del lavoro di Cornell. L’uno, quello del palinsesto, a definire più compiutamente il lavoro di recupero svolto attraverso i diari e i raccoglitori, come strumenti per la registrazione di eventi e dettagli (ricordo); l’altro, quello del magazzino, a rappresentare il ruolo della scatola, dell’opera definitiva, come messa in scena di questi elementi e delle loro relazioni (memoria).

Colombari e alveari

Nel catalogo della mostra Deep Storage si legge:

Perhaps no project illustrates the tension between medieval and Renaissance models of thought more deeply than that of Joseph Cornell. We often view in his work the emblems of medieval thought beneath or behind a gridded surface.

S. Stewart, An After as Before, in Deep Storage 1998, p. 29

Il riferimento è ai topoi dell’immaginario mnemonico medievale e agli artifici mnemotecnici ad essi connessi. Il modello metaforico del magazzino conosce in epoca medievale una serie di declinazioni in diverse forme e immagini, ad esso più o meno correlate. In particolare, nel caso di Cornell, vanno prese in considerazione quelle della colombaia, dell’alveare e dello scrigno.

Illustrazione di una colombaia da una rivista dell'epoca consultata dallo stesso Cornell

Joseph Cornell, Untitled
(Window Façade), 1953-56

Le metafore della colombaia/alveare e dello scrigno derivano da un’estensione della metafora della cella. La parola latina cella aveva una varietà di significati in epoca medievale, alcuni di carattere più generale, tra cui quello di memoria in senso lato o di vero e proprio magazzino (da cui l’inglese cellar = cantina) altri più specifici, legati a una complessa area semantica che includeva lo stoccaggio, lo studio, la meditazione, la sepoltura. Le cellae erano i nidi costruiti per gli animali domestici e per gli uccelli. Di qui la parola assunse il significato traslato di piccola stanza o rifugio anche per l’uomo (ad esempio, in ambito monacale, le celle di un monastero/chiostro). Inoltre, fin dal latino classico, le colombaie erano chiamate cellae colombarum e cellae erano anche i compartimenti interni di un alveare. Una lunga tradizione collega le figure degli uccelli e delle api alla memoria.

L’allevamento e la custodia di uccelli (di colombi in particolare) e la produzione di miele da parte delle api sono stati per secoli associati al funzionamento di una memoria organizzata (la memoria artificiale dei sistemi mnemotecnici) che allestisce spazi in cui collocare ogni immagine del ricordo. A sua volta, la memoria artificiale è stata  accostata metaforicamente a una biblioteca. Forse per questo tramite, le stesse librerie, o meglio, le nicchie in cui venivano collocati nell’antichità e nell’alto medioevo i volumina (di forma cilindrica), cioè i libri di allora, venivano anch’esse chiamate con i nomi che si usavano per le colombaie e gli alveari. Va inoltre ricordato che, nell’inglese moderno, si chiamano proprio pigeon-hole gli scompartimenti di un armadio o di una scrivania in cui vengono sistemati e conservati i documenti scritti (sul Pocket Oxford Italian Dictionary, pigeon-hole = casella, incasellare).

Un’intera serie di scatole di Cornell ha per titolo Dovecote (colombaia), un’altra serie, Aviary (uccelliera/voliera) e una dei primi box, Beehive (alveare). Le Dovecote sono scatole strutturate a nicchie, molto regolari, dipinte tendenzialmente di bianco, talvolta vuote, altre volte contenenti una serie di oggetti simili o uguali tra loro. Ricordano da vicino le bianche strutture che, ancora ai tempi di Cornell, venivano usate nelle fattorie per l’allevamento di colombi e piccioni. Tra i file dell’archivio compaiono numerose fotografie, da riviste, di questi allevamenti di uccelli. Gli uccelli (colombi, piccioni, pappagalli e gufi in particolare) hanno un ruolo molto pervasivo nell’opera di Cornell e si possono considerare come uno dei lemmi più frequenti nel lessico della sua poetica. Ritagliati da riviste di etologia/naturalistiche e incollati su silhouette di cartone o legno, oppure impagliati, compaiono in un gran numero di sculture, non solo all’interno delle serie appena citate. Per quanto la struttura e il titolo di queste opere abbiano varie origini, non è da escludere, e anzi, dalle considerazioni fatte, sembra molto probabile, che un ruolo fondamentale nella scelta di questi soggetti sia stato rivestito dal loro valore di metafore mnemoniche. Cellar poi, lo scantinato o seminterrato, è il luogo dove Cornell conserva i suoi archivi e dove lavora alle sue scatole, nella casa in cui abitò gran parte della vita, all'indirizzo 3708 Utopia Parkway, Flushing, New York.

The House on the Hill

The House on the Hill (Malba) 8/21/47

This part of my journal is the most profuse and overflowing so cluttered in memory received with endlessly unfolding experience the mecca of a hundred rides (each with their rich “cross indexing” of varying mood). Although not the “first love” it – this house – now  stands a lone surviving sentinel (from its vantage point) a sanctuary for all my chaotic treasure – a celestial repository. [JC]

In questo, che è uno dei passi dei suoi diari in cui più chiaramente descrive il processo mentale che lo porta a metamorfizzare i dettagli della realtà in immagini della memoria, Cornell adopera l’espressione all my chaotic treasure. Il caotico tesoro, naturalmente, è quello di tutte le sue endlessly unfolding experience (si tratti di esperienze di vita vissuta, o soltanto letta, contemplata e immaginata) cluttered in memory, sparpagliate nella memoria. The House on the Hill (Malba House, Garden Center 44, un luogo in cui Cornell si reca per lavoro nel '44) ricorre nei diari come uno dei topoi condensatori di ricordi, attorno al quale egli crea una delle sue più corpose e ramificate extension, una vera constellation. Cornell definisce questa casa un sanctuary, un celestial repository per il suo caotico tesoro. L'edificio viene descritto come una sentinella solitaria che si erge superstite e permette di contemplare, dal suo punto di osservazione, i contenuti sparsi della memoria. Una delle tematiche collegate alla Malba House che più spiccano nelle extension GC 44 è quella delle Floral Still Life, le nature morte floreali. Un tema che nell’archivio mnemonico (e in quello materiale) di Cornell trascina con sé una quantità di immagini mentali (e di ritagli cartacei), in particolare desunte da dipinti italiani e fiamminghi. C’è una ragione per questo collegamento tra la casa e un siffatto tipo di immagini. Cornell infatti associa mentalmente alla House on the Hill la riproduzione di un dipinto di fiori fiammingo, appeso in una delle sue stanze.

Impossibile non paragonare questo procedimento mentale che ricorre a un luogo e alle immagini ad esso associate per creare dei sistemi di interconnessioni tra ricordi, ai procedimenti della mnemotecnica classica. Nell’archivio mentale di Cornell, come in quello materiale, esistono dei nodi, dei cluster, degli hot spots, condensati intorno all’immagine di luoghi fisici (Malba House ad esempio, ma anche Union Square a Manhattan dove gira il suo film Aviary o la 4th Avenue), luoghi che egli frequenta abitualmente e dove torna con la speranza e la certezza di riuscire a rievocare certi particolari stati d’animo. A questi luoghi infatti è associata una serie di immagini che hanno la capacità di suscitare in Cornell delle forti emozioni, addirittura degli stati di grazia, sono cioè delle imagines agentes (nel caso della Malba House, il dipinto fiammingo). Nel momento in cui Cornell fisicamente o virtualmente si reca nell’intorno di quei loci, le imagines ad essi correlati iniziano ad agire sulla fantasia e influenzano le sue fantasticherie in una direzione, piuttosto che in un’altra (recandosi alla Malba House, Cornell vede in una pubblicità del pesce affumicato una natura morta floreale o, in un’altra occasione, il Polittico dell’Agnello Mistico di Van Eyck). Egli sistematizza questo fenomeno dandogli un carattere di stabilità che ne fa un processo non più naturale ma artificiale: battezza quei luoghi con nomi determinati e icastici, etichetta raccolte di appunti nei diari e di materiali nei faldoni e nelle scatole d’archivio con quegli stessi nomi, ritorna in in quei luoghi varie volte con l’aspettativa di ritrovare quei contenuti che vi ha associato, fonda la sua recollection sull’emozione che quelle immagini possono suscitare in lui. Crea, insomma, un sistema di luoghi e di immagini alimentato ad emozione. Esattamente secondo i principi dell’arte della memoria. Persino le regole sui loci che prescrivono i trattati classici di arte della memoria, come la Rhetorica Ad Herennium o l'Institutio Oratoria di Quintiliano, sembrano essere rispettati. I loci in cui sistemare i ricordi, sotto forma di imagines agentes, per poterli ritrovare nel momento in cui se ne abbia bisogno, devono essere luminosi, ampi, possibilmente collocati in posizioni ben visibili, isolati. La casa sulla collina, che è uno dei loci cornelliani, sembra proprio rispondere anche a questi requisiti.

Scrigni, libri d'ore e studioli

La metafora del tesoro della memoria usata da Cornell nell'appunto di diario appena visto è di antica tradizione. Essa si lega a quella dello scrigno, dei gioielli e delle monete come espressioni figurate dei ricordi e, attraverso l’evoluzione topologica dei forzieri in stanze del tesoro, e il sincretismo tra queste e i luoghi di studio e meditazione privata (biblioteche e celle monastiche), arriva a legarsi anche all’immagine dello studiolo rinascimentale.

Abbiamo visto come l’ambito metaforico del magazzino, se riferito alla memoria, aggregasse una serie di metafore correlate, immagini con le caratteristiche trasversali del contenimento e dell’archiviazione. Tra queste metafore dobbiamo inserire anche quella del thesaurus. In epoca medievale la parola thesaurus si riferiva sia al contenuto del forziere che al contenitore stesso. Dalla forma a scatola del forziere originerà poi quella del baule, dell’armarium e infine della stanza del tesoro, in un graduale accrescimento della scala dimensionale. Se inizialmente il thesaurus era il contenitore di una varietà di elementi eterogenei: dai gioielli, al denaro, dalle reliquie religiose ai documenti ufficiali, ai libri, col tempo la funzione di raccolta di questi diversi contenuti si specializzerà e nasceranno strutture tipologicamente distinte. Molto legata alla metafora del thesaurus è, fin dall’antichità, quella dello scrinium (da cui l’inglese shrine = santuario, sacrario; mentre l’italiano scatola deriva dall’antico tedesco skatt, moderno Schatz = tesoro, poi passato nel latino scàtum, onde scàtula; l’inglese box deriva dal latino tardo buxis indicante oggetti realizzati con legno di bosso). Persino un oggetto utile al trasporto di oggetti preziosi come documenti e monete divenne una metafora della memoria e metafore dei ricordi i suoi contenuti: il sacculus, il borsello di cuoio in cui si tenevano principalmente monete. Ugo da San Vittore, dedito alla pratica delle mnemotecniche, nel XII secolo paragona la visualizzazione dell’immagine mentale di un ricordo al conio di una moneta con una somiglianza tale da conferirle il valore e l'autenticità di una valuta corrente.

Le monete ricorrono nell’opera di Cornell, inserite nelle scatole o nei collage, o alluse, nel momento in cui la scatola, simulando una slot machine o un gioco da penny arcade, o un oggetto da dime store, necessita dell’inserimento di una moneta per funzionare e per attivare quell’alchimia che ne trasformerà il contenuto, come suggerisce il titolo originale del testo di Simic citato in apertura, Dime-Store Alchemy (Il cacciatore di immagini). In inglese esiste da secoli l’espressione “a penny for your thoughts” e questo sembra ciò che le scatole di Cornell richiedono: un penny per i ricordi in esse nascosti. Sembra cioè che quell’equazione tra monete e ricordi sia particolarmente pregnante se attribuita ai casi in cui esse ricorrono nelle opere dell’artista americano. Se varie scatole sono concepite come macchine a gettone, molte altre sono invece dei veri propri scrigni come il Taglioni's Jewel Casket.


 Joseph Cornell, Taglioni's Jewel Casket, 1940

Altre ancora ricorrono all’inserimento di vere e proprie monete all’interno dell’opera stessa, come nel caso di alcuni splendidi collage tra cui Untitled (Penny Arcade with Horse) del 1965 e Untitled (Penny Arcade with Sun Face).

La ricercatezza cromatica di questi ultimi, unita al senso di preziosità accentuato dalla stessa presenza delle monete, ricorda le pagine dei manoscritti miniati dei codici medievali. Perché non dare un’occhiata?

In inglese le miniature presenti nei codici miniati sono chiamate illuminations. È, questo, un termine che ricorre nei diari di Cornell, proprio a designare quelle epifanie e quei momenti in cui si affacciano alla memoria dell’artista, in modo nitido, quelle associazioni tra oggetti del presente e del passato che producono le trasfigurazioni di cui si è a lungo parlato. Le constellations, prendono questo nome proprio in quanto “illuminations grouped together” (Caws 1993, p. 221).

Il manoscritto belga del Libro d’ore di Caterina di Cleves, riportato nel testo di Mary Carruthers, The book of memory (Carruthers 1990), è un codice tardo-medievale, realizzato intorno al 1440, che contiene alcune illustrazioni di notevole interesse per chi ha negli occhi le immagini delle opere di Joseph Cornell. Proviamo a sovrapporre queste immagini, con uno di quei processi mentali che abbiamo visto caratteristici dell’artista americano, scopriremo interessanti affinità.

Monete come metafore della memoria
sui margini di una pagina
del Libro d'ore di Caterina di Cleves, ca. 1440
Pierpont Morgan Library, New York

Joseph Cornell, Untitled (Penny Arcade with Horse),
collage, 1965

 Nei margini di numerose pagine di questo come di altri libri d’ore sono rappresentate molte delle metafore della memoria a cui abbiamo fatto riferimento. Monete e gioielli dipinti (oro, perle, rubini) circondano le miniature a centro pagina e le parole del testo. Sono raffigurate api che portano il nettare agli alveari e producono miele, come dovrebbe fare un buon lettore che da varie letture estrae il meglio (il florilegio) da depositare in memoria per farne cultura. Uccelli vengono rappresentati in gabbie e voliere, quegli uccelli (in particolare piccioni, colombi e pappagalli) che sono sempre stati un’allegoria dell’anima e della memoria, e che, come i ricordi, devono essere cacciati e poi racchiusi in gabbie o uccelliere. Queste raffigurazioni non sembrano avere un valore illustrativo rispetto al testo del codice ma hanno essenzialmente la funzione di ricordare al lettore quale sia la funzione di un libro in generale: quella di contenere materiale che deve essere considerato prezioso e perciò messo via e custodito nei propri contenitori di memoria, nelle proprie celle, extensions, scatole.

Una copia originale del Libro d’ore di Caterina di Cleves fu acquistata nel 1965 dalla Pierpont Morgan Library di New York, ma già prima esistevano, nella stessa biblioteca, testi che raccoglievano riproduzioni delle più belle pagine dei libri d'ore tardomedievali. Nell’esempio della pagina del libro d’ore decorata con monete, la somiglianza con Untitled (Penny Arcade with Horse), opera del 1965, non riguarda solo i contenuti ma anche l’aspetto generale dei due prodotti artistici. Si rimandano la scelta dei colori, lo sfondo bianco, il supporto della pagina, la disposizione delle monete intorno a una figura centrale. Persino il realismo con cui le monete sono rappresentate nel codice quattrocentesco richiama l’effettiva concretezza delle monete inserite da Cornell, marcando, in entrambi i casi, una distanza rispetto alla natura più rappresentativa delle altre immagini della composizione.

Resta da fare un ultimo confronto. La raffigurazione di uccelli in gabbie e voliere ai margini del Libro d’ore di Caterina di Cleves, metafore di una ritenzione mnestica di contenuti sfuggenti conquistata con fatica e ingabbiata, alimentata, allevata,  condivide lo spirito delle rappresentazioni allestite da Cornell negli Aviaries e nelle Dovecote, dove l’animale è protagonista di uno spazio ritagliato intorno ad esso a proteggerlo, più che ingabbiarlo e da dove, talvolta, sembra essere riuscito a volare via. “Gli uccelli sono gli intelligenti collaboratori di Cornell, spirituali ed opposti alla materialità, simboli del pensiero e dell’immaginazione” sostiene Kynaston McShine (McShine, 1980). Questa visione degli uccelli come “intelligenti collaboratori” ricorda anche la presenza di queste figure all’interno degli studioli umanistici, in particolare in quelli di Federico da Montefeltro, nelle decorazioni dei quali ricorrono pappagalli e altri volatili, dentro le teche intarsiate sulle pareti.

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Gabbie e uccelliere come allusioni alla memoria
sui margini di una pagina
del Libro d'ore di Caterina di Cleves, ca. 1440,
Pierpont Morgan Library, New York

Copertina della mostra Joseph Cornell,
Firenze, Palazzo Vecchio, 1981
con particolare de Il Califfo di Bagdad, 1954 c.

Pappagallo in gabbia in una teca intarsiata
nello studiolo di Gubbio di Federico
da Montefeltro, ca. 1479-82,
Metropolitan Museum of Art, New York

Tra il 1939 e il 1967 lo studiolo di Gubbio di Federico da Montefeltro si trova esposto a New York, acquistato dal Metropolitan Museum. Dal ’67, per circa trent’anni, rimane giacente nei magazzini di questo enorme museo e solo da pochi anni è tornato nelle stanze del museo. Il Metropolitan Museum si trova sulla Quinta Strada, nel centro di Manhattan, non lontano dal Museo di Scienze Naturali di cui Cornell era assiduo frequentatore. Sicuramente egli ha potuto vedere, anche direttamente, lo studiolo di Federico da Montefeltro traendone varie suggestioni.

Ogni tarsia negli studioli federiciani ha un suo ruolo all’interno di una complessa allegoria umanistica. Tutti gli elementi cercano di produrre, agli occhi dello spettatore, un insieme armonioso, il cui senso si può comprendere con l’interpretazione delle allusioni e l’osservazione delle relazioni tra gli oggetti. L’ambiente raccolto e la sua destinazione a luogo di meditazione, di studio e di conservazione di oggetti preziosi, così come la raffigurazione di teche, armadi, scaffali con il loro contenuto di oggetti che diviene silenzioso protagonista della stanza e che rimanda a tutto un mondo esterno di armonia e di conoscenza, sono caratteristiche che Cornell sente vicinissime ai suoi interessi e alla sua ispirazione. Il mondo rinascimentale, l’Italia delle corti e l’arte del Quattro e Cinquecento erano del resto uno dei luoghi della memoria di Cornell.

Molti oggetti ricorrenti nelle 'stanze' miniaturizzate di Cornell ricordano l’arredo degli studioli: i piccoli cassetti, i frammenti di specchi, gli orologi sembrano citare i corrispondenti armadi, specchi circolari e clessidre che costituivano il corredo dell’umanista. Negli studioli umanistici sono rappresentati anche numerosi strumenti astronomici: sfere armillari, bussole e orologi, tra gli altri. In quel contesto culturale il sistema tolemaico non è stato ancora messo in discussione ed è imperante la simbiosi tra astronomia e astrologia. Cornell tenta spesso nelle sue teche di inscatolare l’universo, e lo fa con processi metonimici: utilizzando piccole sfere e anelli di metallo per rappresentare i pianeti e le orbite, oppure inserendo bussole e rose dei venti, o, più spesso, frammenti di mappe celesti tratte da libri di astronomia. Si tratta, per lo più, di piante astronomiche prese da testi moderni e aggiornati, ma in alcuni casi, ricorrono antiche rappresentazioni del sistema tolemaico. A queste illustrazioni provenienti da trattazioni scientifiche talvolta mescola e sostituisce però le immagini astrologiche delle costellazioni.

I pappagalli che, si diceva, compaiono in mezzo a tutti questi oggetti simbolici rappresentati nelle teche degli studioli, erano preziosissimi al tempo di Federico da Montefeltro ed erano posseduti solo da personaggi molto importanti o molto doviziosi, come una sorta di status-symbol. Nell’iconografia del tempo  simboleggiavano la saggezza se associati a personaggi o luoghi di grande dignità. Negli studioli lasciano intendere la presenza-assenza del principe, protagonista alluso dell’ambiente.

I pappagalli di Cornell sono stati spesso interpretati come i vivaci ed esotici animali da compagnia delle dive che egli adorava, simboli della luce, del calore tropicale e della femminilità. Si può dire che gli uccelli rappresentassero, per l’artista, un’ulteriore costellazione di metafore: dell’immaginazione, della libertà, della femminilità… ma forse anche, e soprattutto, della memoria, i cui ricordi restano sempre inafferrabili e restii a ogni tentativo di registrazione definitiva, come quei colombi sfuggiti alle celle delle Dovecote.

Illusionismi della memoria

Per finire, una parola sull'illusionista Splendini nel film Scoop (2006) di Woody Allen. Nella storia, è un mago da avanspettacolo che non solo smaterializza le persone in grandi cabine colorate, ma fa anche sfoggio di una approssimativa mnemotecnica, un sistema che chiama "pneumonico". Per ricordare la combinazione dell'apertura di una stanza segreta (una sorta di Wunderkammer con strumenti musicali e carte dei tarocchi), associa dei numeri a imagines strampalate (16: cavalli blu, 12: dirigibili, 21: ballerini nani, in mezzo a belle mugnaie e faraone nere). La tecnica è astrusa e parodistica, ma alla fine efficace,  a riprova che la memoria non è un magazzino con una capienza data, ma una costellazione di connessioni che entrano in risonanza per vie imprevedibili.

Woody Allen mnemonista è richiamato qui anche per suggerire un confronto fra il regista e Cornell, egli stesso regista incantato da Manhattan, dai film in bianco e nero, dalle dive bionde e sottili del cinema degli anni Trenta e Quaranta, con le cui icone intratteneva una corrispondenza fra reale e immaginaria, e nella cui infanzia aveva avuto una grande importanza la magia bianca del mago Houdini; i reperti di antiche tecniche di manipolazione e illusione si incontrano, nelle sue opere, con  il  desiderio di controllo sui dati sfuggenti della percezione, dell'esperienza e del ricordo, dando origine a un linguaggio capace di intercettare a suo modo anche l'arte della memoria.

Riferimenti bibliografici

Carruthers 1990
M. Carruthers, The book of memory. A Study of Memory in Medieval Culture, Cambridge University Press, Cambridge 1990

Caws 1993
M. A. Caws, Joseph Cornell. Theater of the Mind. Selected Diaries, Letters and Files, Thames & Hudson, New York 1993

Cornell Torino 1971
Catalogo della mostra Joseph Cornell, a cura di L. Carluccio, (Torino, Galleria Galatea, 15 ottobre-13 novembre 1971)


Cornell Roma 1977
Catalogo della mostra Joseph Cornell. Boxes & Films, a cura di F. Sargentini, I. del Frate, M. Sotis, (Roma, Galleria L'Attico, 2-21 dicembre 1977)

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Cornell Papers (presso Smithsonian Archives of American Art)

Deep Storage 1998
Catalogo della mostra Deep Storage: Collecting, Storing, and Archiving in Art, a cura di I. Schaffner e M. Winzen (mostra itinerante  a cura della Haus der Kunst di Monaco), Prestel Verlag, Munich & New York 1998

Hartigan 2007
Catalogo della mostra Navigating the Imagination a cura di L. Roscoe Hartigan (Smithsonian American Art Museum, Washington 17 novenmbre 2006-19 febbraio 2007; Peabody Essex Museum, Salem 28 aprile 2007-19 agosto 2007; San Francisco Museum of Modern Art, San Francisco 6 ottobre 2007-6 gennaio 2008)

McShine 1980 (1990)
Catalogo della mostra Joseph Cornell, a cura di K. McSchine, (New York, The Museum of Modern Art), Prestel Verlag, Munich & New York 1980 (ristampa 1990)

Shadowplay Eterniday 2003
L. Roscoe Hartigan, R. Vine, R. Lehrman, Joseph Cornell. Shadowplay Eterniday, Thames & Hudson, New York 2003

Simic 1992
Charles Simic, Dime-Store Alchemy. The Art of Joseph Cornell (1992), tr. it. A. Cattaneo, Il cacciatore di immagini, Adelphi, Milano 2005

Solomon 1997
D. Solomon, Utopia Parkway. The Life and Work of Joseph Cornell, MFA Publications, Boston 1997

Waldman 2002
D. Waldman, Joseph Cornell: Master of Dreams, Harry N. Abrams, New York 2002