"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

121 | novembre 2014

9788898260669

Oltre la siepe: visioni estatiche nel ‘giardino’ di Derek Jarman

Stefania Rimini

Ma di cosa mi preoccupo? Del giardino, in primo luogo: il vento tagliente e il sole bruciante.
Derek Jarman, Modern Nature

A distanza di vent’anni dalla sua morte, il cinema di Derek Jarman continua a raccontare il graffio di un’anima ribelle, attraversata da pulsioni vitali e poi aggredita da un virus micidiale, che lentamente estingue visioni ed effervescenze, ma senza escludere del tutto l’esercizio dell’arte.

La predisposizione eclettica di Jarman (pittore, scenografo, scrittore, polemista, giardiniere, videomaker) fa sì che i suoi film condensino materiali, immagini, temi sempre circolanti dentro la sua produzione, in un persistente ‘trasloco’ di codici che rende la sua parabola artistica una delle più intriganti nel contesto europeo. È difficile ridurre a poche tracce la forte escursione semantica di testi tanto provocatori e conturbanti (si pensi all’audacia punk di Jubilee, al nitore omoerotico di Sebastiane, all’oltranza stilistica di Caravaggio), ma forse può bastare – almeno sul piano di una ricognizione sommaria – porre in evidenza la ricorsività di alcuni modi. Al di là della forza dei temi, infatti, il cinema di Jarman ragiona sulla forma dell’immagine, superando le convenzioni della fiction (linearità, trasparenza, drammaturgia del personaggio) e optando decisamente verso una narrazione poetica, frammentata, scissa, instabile. Lo sperimentalismo della sua scrittura visiva, pur con qualche ridondanza, offre un campionario di effetti davvero interessanti, soprattutto per ciò che riguarda gli incroci fra suono/parola e immagini, senza contare la frizione tra paradigmi pittorici (pose, colori, tableaux vivants) e figure dello sguardo filmico; i diversi stili adottati non sono mai l’esito di un mero esercizio retorico, ma corrispondono alla giusta maniera di tradurre i temi e i contenuti dell’opera. Accade così che Jarman giunga a costruire un “cinema di piccoli gesti” (Jarman 2007, p. 103) votato all’immaginazione, al dialettico confronto fra luci e ombre, fra paesaggio e corpi, lasciando in eredità un lungo poema, disarticolato e coerente, in cui l’io dell’autore non è mai fuori campo, ma entra in scena attraverso “l’alternanza di obiettivi diversi […], lo sperpero dello zoom, coi suoi obiettivi altissimi, che stanno addosso alle cose dilatandole come pani troppo lievitati, i controluce continui e fintamente casuali con i loro barbagli in macchina, i movimenti di macchina a mano, le carrellate esasperate, i montaggi sbagliati per ragioni espressive, gli attacchi irritanti, le immobilità interminabili su una stessa immagine” (Pasolini [1968] 2001, 1486). Come sostiene Dillon, nell’introduzione del suo Derek Jarman and Lyric Film (Dillon 2004, 5-12), il cinema di Jarman costituisce uno degli esempi più efficaci di quello che già Pasolini aveva definito “cinema di poesia”, intendendo con questa formula uno stile espressivo capace di riprodurre “l’originaria qualità onirica, barbarica, irregolare, aggressiva, visionaria” (Pasolini [1968] 2001, 1477) del cinema delle origini.

È proprio l’instabilità del codice visuale di Jarman l’elemento che meglio garantisce al suo repertorio un’impressione di lunga durata: sebbene la sua opera risenta del contesto, e cioè della provocatoria messa in abisso della politica, della storia e della società inglesi, la mutevole intermittenza dei quadri, dei formati, il continuo re-enactment del passato scioglie le sue opere dalla relazione diretta con quel tempo, dirottandole fino a noi, nel presente di un cinema fuori misura. Quel che colpisce oggi di tali testi è innanzitutto l’audacia con cui Jarman raffigura le pulsioni erotiche dei protagonisti, con una prevalente coloritura queer (non solo omosessuale); i corpi che illuminano i suoi schermi sono sempre desideranti, in estasi, anche quando è il martirio della carne ad accenderli e non le gioie della passione. Altro elemento di interesse è la grana delle immagini, spesso ‘sporca’, opaca, altre volte addirittura scintillante: a metà strada fra I-movie e cinema underground, lo sguardo di Jarman è proteiforme, riesce a far ‘bruciare’ la pellicola grazie a manipolazioni di ogni tipo.

Uno degli esperimenti più innovativi e controversi in tal senso è The Garden (ENG 1991), una sorta di summa di motivi e strategie linguistiche che si addensano attorno a un luogo insieme reale e metaforico: il giardino di Dungeness.

Si tratta di uno spazio che occupa larga parte dell’immaginario del regista, almeno dalla primavera del 1986 quando questi si imbatte per caso nel paesaggio scarno di Prospect Cottage, battuto dal vento e segnato dalla salsedine, e decide di comprare una casa di pescatori. Quella che sembrava una dimora provvisoria, accidentata e quasi inaccessibile, diviene nel tempo rifugio e asilo prediletto, grazie anche alla faticosa e appassionante impresa della costruzione del giardino. Basta scorrere le pagine di Modern Nature, il diario scritto nel biennio 1989-90, per cogliere la centralità di tale luogo, la forza mitopoietica che esercita sull’autore. Il talento visionario di Jarman non esclude la scrittura, come dimostrano i tanti libri pubblicati, la corposa mole di appunti, schizzi, note che ha sempre accompagnato l’ideazione di qualsiasi progetto. 

Il diario è, insieme al pamphlet, la forma più congeniale alla vena letteraria di Jarman perché si affida alla densità dell’istante, all’icastica potenza del frammento, capace di eternarsi poi nell’iperbolica dilatazione dell’esistenza. Modern nature procede con meticolosa scansione di anni, mesi e giorni, ma la progressione temporale non è lineare, bensì ellittica: molti sono gli inarcamenti, le inversioni, i tagli e le rime fra epoche diverse, il filo della memoria si intreccia in un periodare aneddotico, mentre lo stile si fa a tratti sognante pur mantenendo saldo il legame con la realtà del daffare quotidiano.

Gennaio, domenica 1

Prospect Cottage, le travi annerite dalla pece, sorge su una distesa di ciottoli a Dungeness. Venne costruito ottant’anni fa sulla riva del mare – una notte di tempesta molto tempo fa le onde mugghiarono fino alla porta d’ingresso, minacciando di inghiottirlo… […] Prospect guarda a Est attraverso una strada che brilla di riflessi argentati per la foschia marina. Una piccola macchia di ginestre si fa strada attraverso l’ocra dei ciottoli. […] Non ci sono muri né steccati. Il limite del mio giardino è l’orizzonte. In questo paesaggio desolato il silenzio è rotto soltanto dal vento e dai gabbiani che volteggiano intorno ai pescatori di ritorno dalla pesca pomeridiana (Jarman 1995, 9).

L’attenzione alle pieghe del paesaggio appartiene intimamente alla tensione figurativa di Jarman, interessato da sempre alle forme di rappresentazione dell’environment: qui – e per tutto il testo – il suo occhio non smette di posarsi sui dettagli di uno spazio periferico capace di resistere a condizioni climatiche per certi aspetti estreme, mirabile incarnazione della darwiniana struggle for life. Il diario restituisce soprattutto la sua devozione verso il giardinaggio, di cui registra minutamente ogni operazione senza esimersi dall’indicarne gli effetti sul suo stato d’animo: il gusto della semina, l’attesa del ciclo delle stagioni, l’ammirazione per la tenacia dei fiori, la necessità di porsi a contatto con la vitalità delle piante per non arrendersi al torpore della malattia.

Sulla scorta degli erbari rinascimentali, Jarman rinnova il genere della memorialistica coniugando il piano emotivo con quello tecnico e così la descrizione dei fiori si accompagna spesso all’indicazione delle loro qualità medicinali, nonché alla citazione di fabule e massime proverbiali che ne sublimano la bellezza e l’utilità.

Al di là di tassonomiche descrizioni di funzioni balsamiche (certamente godibili per varietà e competenza), a restare impresso nella mente del lettore è lo slancio con cui Jarman delinea ‘the act of gardening’, cioè una sorta di religiosa inclinazione dello spirito, un gesto perenne, capace di ricreare una dimensione assoluta.

Il giardiniere scava in un altro tempo, senza passato né futuro, inizio o fine. Un tempo che non misura la giornata con le ore di punta, i pranzi lampo, l’ultimo autobus per tornare a casa. Camminando nel giardino si passa in questo tempo – l’attimo in cui si entra è indimenticabile. Il paesaggio intorno è trasfigurato. Qui è l’Amen oltre la preghiera (ivi, 36).

È questa la premessa indispensabile per ‘leggere’ The Garden, un film saldamente ancorato al sogno di una vita edenica, in cui il giardino rappresenta uno spazio di libertà e desiderio. La struttura del testo prevede l’alternarsi sullo schermo di un mosaico di visioni che lo stesso Jarman definisce “a dream allegory”, richiamando il modello dei Canterbury Tales:

The film is structured like a dream allegory, in a poetic tradition, rather like Chaucer’s Canterbury Tales. The film is a dream allegory of the author, in this case, myself. I could have put somebody else into it but really dreams are always in the first person, though people often invent proxies. I go to sleep and go on a mental journey. Sleep can take lots of side turnings a lot of things can happen (Jarman 1991).

Si tratta di un’indicazione importante che, oltre a rendere evidente la connotazione poetica della scrittura visiva dell’autore, sottolinea il carattere dispersivo, liquido di una narrazione senza ancore, affidata a un montaggio delle attrazioni fortemente simbolico. Fin dai titoli di testa lo slancio utopico del regista-giardiniere è contraddetto dalla presenza inquietante di uomini con la macchina da presa, figure aggressive e minacciose, che incrinano l’orizzonte di quiete disegnato dal perimetro di Prospect Cottage. Del resto la voce off di Michael Gough mette subito sull’avviso lo spettatore:

I want to share this emptiness with you; not fill the silence with false notes, or put tracks through the void. I want to share this wilderness of failure. The others have built you a highway, fast lanes in both directions. I offer you a journey without direction, uncertainty and no sweet conclusion. When the light faded, I went in search of myself. There were many paths and many destinations.

Bastano pochi minuti per varcare la soglia del giardino di Jarman, al centro del film già dalle prime inquadrature, e subito si viene immessi in uno spazio-tempo allucinato, intermittente, emotivamente instabile. Non stupisce la serie insistita di piani che mostrano Jarman nel suo studio, assorto in un dormiveglia tormentato, fra statue di pietra e cristi in croce: la sequenza in bianco e nero serve a rivelare la matrice soggettiva delle immagini, la deriva fantasmatica di quella che di lì a poco si trasformerà in una laica e provocatoria via crucis. Non è certo una novità per il regista attraversare i propri film, far capolino tra un’inquadratura e l’altra, ma qui l’evidenza del suo corpo e del suo sguardo passano il segno, distillando una sensibilità davvero fuori dal comune. A marcare l’anomalia interviene – come già accennato – l’alternanza fra i colori acidi, saturi, del prologo (e del resto dell’opera) e il bianco e nero contrastato delle riprese in cui figura l’autore: tale slittamento cromatico conferma l’attitudine sperimentale di Jarman, la consistenza onirica del racconto, e perfino l’alterazione percettiva indotta dall’Aids.

La vertigine dell’interiorità è espressa attraverso un’estrema frammentazione narrativa, un accumulo di quadri ed episodi che corrispondono alle zone d’ombra della coscienza dell’autore, al suo bisogno di mettere in scena l’ennesima parabola sacrificale.

Fra i tanti sentieri tematici di cui si compone il film spicca, infatti, l’avventura sentimentale di una coppia gay che ripropone con convinzione uno dei capitoli più accesi della (auto)biografia artistica di Jarman, cioè la rivendicazione dei diritti degli omosessuali, primo fra tutti la libertà di amare. A fare la differenza qui, rispetto ad altri testi (per esempio Sebastiane o The Angelic Conversation), è l’oltranza della persecuzione subita dai due, con effetti quasi horror nella resa visiva delle torture, il clamore di un accanimento corporale e ideologico che trasforma i giovani in emblematiche figurae Christi.

Il tono evangelico, del resto, aleggia su tutto il film, che in effetti può essere considerato una sorta di Passione in salsa queer, grazie a una carrellata di personaggi che richiamano precisi archetipi religiosi ribaltandone però il carattere somatico (e con esso il significato). I primi a comparire sono Adamo ed Eva, o meglio una coppia di amanti nudi, cacciati dall’eden di Dungeness da una scatenata troupe di paparazzi: il sistema dei media diviene metafora di un’opinione pubblica intollerante, faziosa, da sempre bersaglio polemico di Jarman.

Dopo Adamo ed Eva è la volta di una splendida Madonna con bambino, interpretata da Tilda Swinton (vera e propria icona del cinema jarmaniano): vestita come una regina, con in testa una corona scintillante, si aggira per i sentieri di Prospect Cottage dispensando sorrisi e joie de vivre fino al violento attacco di due cameramen. Anche in questo caso la spregiudicatezza degli uomini, e dunque la mancanza di pietas della società, è resa tramite la retorica vampiresca dei mass media. Nonostante la presenza minacciosa e arrogante dei fotografi c’è spazio per un genuino quadro di childhood, che si colloca a mezza via tra esperienza memoriale e riscrittura evangelica. Protagonista di tale episodio è un bambino (un piccolo Derek ma anche un piccolo Gesù) che aiuta il padre a fare il bagno, in una scena di grande tenerezza, e poi viene a contatto con gli altri personaggi dell’allegoria poetica immaginata da Jarman, finché una rigida educazione scolastica non lo strappa all’idillio familiare.

Accanto al bambino troviamo anche un ‘coro’ di dodici donne, sedute attorno a un tavolo in una posa che cita platealmente L’ultima Cena di Leonardo.La rigida postura di queste donne consegna allo spettatore il ritratto di un apostolato al femminile severo come una sacra rappresentazione, con la sola eccezione di un’improvvisa sequenza di flamenco, dal tono malinconico e struggente.

Completano il novero dei personaggi di ascendenza religiosa un Giuda punk, appeso a un albero, protagonista dell’inserto più scanzonato del film (una specie di tirata anticapitalistica in cui un improbabile imbonitore inneggia al potere delle carte di credito riuscendo a coinvolgere nel canto anche lo stesso Giuda miracolosamente risorto), e un Cristo scalzo e derelitto, perennemente in cammino lungo i sentieri desertici di Dungeness. La marginalità, l’esclusione e la sofferenza di questo Gesù adulto sono il frutto dell’onnipotenza prevaricatrice della Chiesa, capace di estinguere la purezza del messaggio evangelico grazie a un’ottusa politica di controllo e repressione, responsabile della persecuzione dei diversi. È contro la degenerazione dell’istituzione ecclesiastica che Jarman si schiera, rinnovando la lezione dei vangeli alla luce di un immaginario solo apparentemente blasfemo; la densità figurativa del film è il primo indizio di un’intima adesione al modello cristologico, di cui si rivivono – seppur in altre forme – l’agonia del Getsemani, il pathos della tortura e il mistero del Golgota. La scelta di rileggere in chiave omosessuale la Passione costituisce senza dubbio un azzardo, una provocazione, ma non un’offesa, perché la coppia gay esprime semplicemente il bisogno di amare senza censure, la libertà di costruire una comunità familiare.

La modernità del messaggio di Jarman rompe lo schematismo ideologico dell’Inghilterra thatcheriana e richiama piuttosto la tensione poetica del Blake di The Garden of Love (su questo specifico aspetto si rimanda a Driscoll 1996, 65-86) . Come nel sonetto, anche nel film la dialettica fra ‘innocenza’ ed ‘esperienza’ è risolta attraverso le immagini contrapposte del giardino e della chiesa/società: gli emissari delle istituzioni infrangono la memoria del creato, sovrascrivono il tempo con gesti e azioni di una durezza esemplare, determinando così la brusca irruzione della linearità della storia dentro il ciclo eterno della natura.

Senza rinunciare del tutto al kitsch (si pensi al memorabile inserto con Jessica Martin che canta Think pink!), Jarman riconsidera l’idea di paradiso terrestre attraverso la declinazione di una serie di episodi dai gusti diversi (“One bit is sad, one bit is frightening, bits are funny”). Il film poggia su un’ampia gamma espressiva e richiede allo spettatore uno scarto interpretativo notevole: “People might think it’s a desperately seriuos film with gardens and religion, but it isn’t”.

Più che essere un film ‘con’ giardini e religione The Garden è un’opera sulla percezione, sui confini della sensorialità umana. Il corpo del regista, minato dal virus, si lascia attraversare da un flusso di visioni e tormenti che occupano lo schermo distillando lampi di bellezza accecante, oppure graffi di violenza inaccettabile. La messa in campo di effetti stilistici sorprendenti (filtri cromatici, retroproiezioni, inserti in super8) crea una tensione dinamica costante, un continuo cambio di ritmo. Questo “trance film” (Ellis 2009) esalta la liminalità dell’immaginazione, l’astrazione simbolica indotta dal sogno e dalla malattia, offrendo una trama davvero suggestiva di figure. La ricorsività dell’acqua all’interno del film rinvia al tema della nascita, dell’infanzia, e chiama in causa anche l’attrazione per lo specchio, per il doppio, tipica dell’imagery di Jarman. Di contro, il fuoco allude all’ossessione per la luce, per il sole, nel suo rapporto di reciprocità con le ombre, con l’oscurità del male e della colpa. Rispetto a un tale campo di forze il giardino appare come luogo della conciliazione degli opposti, come spazio di emancipazione e desiderio, nel quale è sempre possibile confidare nella benevolenza degli elementi primordiali.

Di fronte allo scintillare di fiori e piante, all’arida distesa di Dungeness spazzata dal vento, al montare delle onde sul bagnasciuga si resta quasi senza fiato: la potenza della natura sublima i misfatti della storia e rinnova la fiducia nell’avvenire. È questo il senso ultimo del film, come suggerisce la voce fuori campo:

I walk in this Garden
Holding the hands of dead friends,
Old age came quickly for my frosted generation.
Cold, cold, cold
They died so silently.
[…]
My gilly flowers, roses, violets blue,
Sweet garden of vanished pleasures.
Please come back next year.
Cold, cold, cold
I die so silently.

L’unicità di un film come The Garden risiede certamente nella speciale tessitura visiva, ma anche nella condensazione di elegia e humour, possibile solo a chi conosce la virtù dei veri giardinieri: l’ottimismo (“Come tutti i veri giardinieri io sono un’ottimista” – Jarman 2007, 148).

Bibliografia

English abstract

This contribution offers, twenty years after his death, an intriguing and profound overview of the film production of Derek Jarman (painter, set designer, writer, polemicist, gardener, videomaker).
Stefania Rimini focuses in particular on the English author’s most famous film, The Garden (1991). Through the writings of the director and the words of his characters, we discover a cinema with an eclectic, controversial poetic and a fragrant and polemical imagination.

 

keywords | Derek Jarman; The Garden; Movie; Flowers; Modern nature.

Per citare questo articolo / To cite this article: S. Rimini, Oltre la siepe: visioni estatiche nel ‘giardino’ di Derek Jarman, “La Rivista di Engramma” n. 121, novembre 2014, pp. 64-74 | PDF di questo articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2014.121.0006