"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

4 | dicembre 2000

9788898260980

Iconoclastia e potere delle immagini

Dirck Volkertszoon Coornhert, incisore olandese

Francesca Martinuzzi

English abstract | Compendium

In dodici incisioni cinquecentesche si rispecchia il panorama culturale di un’epoca: conoscenze classiche e rinascimentali, dubbi religiosi, storia, pratiche alchemiche e vita quotidiana di un umanista. L’autore, l’olandese Dirck Volkertszoon Coornhert, è noto in patria più per la sua opera letteraria che per la ricca produzione di immagini; un’analisi più attenta delle allegorie che animano queste tavole apre ora la strada alla rivalutazione del linguaggio iconografico. La scelta di narrare l’iconoclastia per mezzo di immagini ha, alla fine del Cinquecento, un valore eversivo che non può essere sfuggito ad un intellettuale rigoroso e lontano dalle mode ideologiche qual è Coornhert. Per il letterato, l’uso del bulino è molto più di un ripiego dovuto alle difficoltà economiche: è una scelta consapevole e rischiosa, forse perfino necessaria.

Nel Prentenkabinet del Rijksmuseum di Amsterdam si conserva una serie di stampe dal titolo De ontaarding van de katholieke geestelijkheid oftewel de achtergronden van de opstand en de Beeldenstorm (“La degenerazione del clero cattolico ovvero le origini della rivolta e della furia iconoclasta”), esemplare integro risalente al 1604. Le incisioni, realizzate tra il 1572 e il 1576 dall’umanista olandese Dirck Volkertszoon Coornhert su disegni di Adriaan De Weert, appartengono all’edizione tarda di Hendrik Hondius. Le dodici tavole interpretano le vicende politiche e religiose che interessarono i Paesi Bassi nella seconda metà del XVI secolo, soprattutto lo scontro crudo e violento tra la chiesa cattolica e le nuove sette e chiese riformate.

Le dodici tavole interpretano le vicende politiche e religiose che interessarono i Paesi Bassi nella seconda metà del XVI secolo, soprattutto lo scontro crudo e violento tra la chiesa cattolica e le nuove sette e chiese riformate.

All’inizio, la scena è pacifica e familiare: una Pietas in vesti classiche governa un mondo rurale e raccolto, dove l’operosità di chi lavora si accompagna al bene vivere di quanti si dedicano a opere di carità.

Il Favore viene a compensare tanta virtù con premi tangibili; il villaggio si estende, le opere sono ripagate con ricchezze e potere.

E proprio da questi ultimi, Divitiae Potentiaque, provengono i primi squilibri: il villaggio diviene città, mentre il fasto del potere romano chiede e ottiene l’ossequio dei re. 

Entrano in scena i vizi, che ottengono accesso perfino ai conventi. 

Ormai la degenerazione è compiuta: le Delitiae carnis strangolano la Pietà che le ha generate e la seppelliscono all’esterno delle mura, prima di entrare trionfalmente in città.

Il Volgo, che non sa o non vuole vedere, si lascia docilmente trascinare in rovina dalla Seduzione di tanti discorsi. Qualcuno continua ad adorare le antiche immagini votive, che somigliano fin troppo ai nuovi idoli che attraggono le folle; solo uno – e sembra l’unico segno di speranza in tanto sfacelo – volge le spalle al disordine e si allontana in silenzio. 

È il tempo dell’Ipocrisia e dei falsi profeti, dei lupi vestiti da pecore. Qualcuno continua ad adorare le antiche immagini votive, che somigliano fin troppo ai nuovi idoli che attraggono le folle; solo uno – e sembra l’unico segno di speranza in tanto sfacelo – volge le spalle al disordine e si allontana in silenzio.

Le tenebre dell’Ignoranza avvolgono un paesaggio abbandonato, dove solo una Pax Falsa rimane a governare, adagiata sull’instabile giaciglio rigonfio di simboli di strage e superstizione.

Vengono Lutero ed Erasmo a smascherare l’Abuso mostruoso e i falsi profeti: il Volgo si stupisce, ma è tardi ormai per cambiare le cose. Abuso e Inquisizione sono da tempo i consiglieri del re, quel Filippo II di Spagna che ancora si inchina di fronte al potere papale. 

La Persecuzione non trascura alcun mezzo per tormentare gli innocenti: annegamenti, roghi, impiccagioni, torture, tutto si mostra sulla scena. Ed è la fine (tav. 12). I monaci vengono cacciati, le immagini sono distrutte nelle chiese. L’unità spirituale si è spezzata per sempre, generando una sorta di androgino mostruoso, le cui due metà continueranno a cercarsi, ma soltanto per odio.

Per quanto la prima tavola della serie indichi come autore dei disegni il pittore olandese Adriaan De Weert (A de weert Invent), una quantità di indizi ha portato la critica a ritenere, con fondate ragioni, che l’ideatore del soggetto sia stato Dirck Volkertszoon Coornhert [DVC f(ecit)], umanista originario di Amsterdam, noto agli studiosi olandesi soprattutto per la sua attività politica e per la copiosa produzione letteraria. Coornhert fu autore di numerosi scritti polemici, tra i quali il poderoso Van de Predestinatie, Verkiezinge en Verwerpinghe Godes ontwarringe (“Chiarimento sulla predestinazione, sulle scelte e sui rifiuti di Dio”) dove sono raccolte le sue confutazioni delle teorie di Calvino. Ma scrisse anche versi in neerlandese e varie traduzioni: pubblicò la versione del De Officiis di Cicerone, del De Beneficiis di Seneca, di buona parte dell’Odissea, del De consolatione Philosophiae di Boezio; tradusse anche, dal francese, cinquanta novelle del Decameron di Boccaccio. Zedekunst, dat is Wellevenskunste (“Arte morale, o arte del bene vivere”) è la sua opera principale, uno scritto etico uscito nel 1585.

Nella produzione di Coornhert si trovano anche dieci commedie allegoriche di argomento moralizzante: una di queste, la Comedie van Israel, presenta diversi e significativi punti di contatto con la serie di tavole qui presa in esame. Nella Comedie vediamo il protagonista Israel (indicato nella lista dei personaggi come ’t Volck, il popolo) perdersi nel labirinto del peccato. Appaiono in scena la menzogna, il buon consiglio, il signore della ricchezza e del lusso, i cattivi consiglieri del re che governano in sua vece; compaiono oggetti dai poteri quasi magici come gli occhiali, episodi di idolatria e iconoclastia, richiami alla debolezza della carne e alla pratica alchemica – tutti elementi riscontrabili con esattezza anche nelle tavole. Datata 1575, e probabilmente mai andata in scena, la Comedie van Israel non è necessariamente la fonte delle immagini, ma testimonia quanto meno una consonanza nei processi tra creazione iconografica e letteraria. La trama della Comedie infatti è più articolata rispetto al messaggio delle tavole, i personaggi sono più numerosi, e meno complessi, in quanto figure univocamente allegoriche, costruite in una sintassi moralizzante che ha chiara e immediata funzione didattica. La serie di dodici tavole si svolge in maniera abbastanza lineare, nel rappresentare alcune delle allegorie presenti nel testo scenico, ma l’apparenza nasconde una trama densa di rimandi iconografici, letterari e culturali.

Coornhert aveva cominciato a praticare l’arte del bulino spinto da necessità economiche; e tutte le circa trecento incisioni da lui realizzate si basano su disegni altrui; tutto ciò sembra aver convinto gli studiosi che la produzione di immagini sia sempre stata un ripiego, un’attività secondaria, basti pensare che le uniche ricerche specifiche su Coornhert incisore risalgono soltanto a quindici anni fa. Tuttavia, numerosi indizi ci inducono ad approfondire l’analisi delle incisioni, che sembrano rivelare una complessità degna di maggiori attenzioni. Come è già stato osservato da altri, le numerose corrispondenze e somiglianze tra stampe prodotte in periodi lontani, e realizzate in collaborazione con artisti diversi, suggeriscono che il ruolo di Coornhert non fosse soltanto riprodurre in segni e immagini idee altrui; nel caso della collaborazione con De Weert, già Van Mander nel 1604 parlava di incisioni realizzate “secondo Coornhert”. L’ideazione di forme e allegorie rispecchia infatti pienamente la sua personale cultura, propria di un umanista capace di filtrare in sé gli stimoli esterni e di offrire poi, distillato, il suo punto di vista sul mondo.

Sulla scena di questa Comedie per immagini compaiono diversi personaggi allegorici. 

Il Lupo in veste d’agnello, che nel Nuovo Testamento indica il falso profeta, la malvagità celata sotto un’apparenza mite e modesta; nella tavola 6 allude quindi ai numerosi predicatori che, nonostante i pacifici tentativi che la reggente Margherita di Parma compiva per trattenerli, vagavano a quel tempo per le Fiandre e l’Olanda incitando alla rivolta. Non a caso l’uomo accanto al Lupo ha l’abito monacale e porta con sé la Bibbia. La natura infera di alcuni personaggi può essere smascherata da caratteristiche bestiali come zampe, coda o corna: il sospetto sulla natura diabolica del falso sacerdote si insinua alla vista degli zoccoli che si intravvedono sotto la veste.

    

Il Lupo compare ancora sullo sfondo della tavola 9 in una scenetta in lontananza che rimanda, come contrappunto, a quella in primo piano: la struttura è la stessa: un personaggio che ‘svela’, un truffatore svelato, e lo stesso spettatore stupito, Vulgus. In primo piano è smascherato Abusus, in fondo sotto le vesti di predicatore, si scopre il Lupo. Nella tavola 6: il ‘Lupo in veste d'agnello’ e il ‘Demonio in veste di monaco’ sono entrambi falsi profeti, con chiaro riferimento biblico. La tavola 9 è più complessa: le due figure, sebbene diverse, di Abusus e del Lupo si sovrappongono creando uno slittamento di forma e significato: risulta uno strano personaggio, un lupo in veste di monaco, non pedissequo al testo biblico, ma portatore di un significato del tutto perspicuo. Il senso di questa scena ‘secondaria’ non è ancora esaurito. I predicatori itineranti per i Paesi Bassi erano per lo più neoconvertiti alle chiese protestanti e difficilmente avrebbero indossato ancora un abito che li distinguesse come membri e pastori della chiesa corrotta appena abbandonata. Si potrebbe ipotizzare che qui Erasmo smascheri un predicatore calvinista e faccia da contraltare a Lutero, che rivela il mostro celato sotto il Papa cattolico. Ma Coornhert nella sua opera non si limita mai a questo: non mira a smascherare la Chiesa cattolica sostenendo quella riformata o viceversa, per lui simili fazioni sono irrilevanti. Coornhert non è più cattolico, ma non troverà mai sufficienti ragioni per entrare a far parte di una setta, e questo perché riconosce valore a una sola e unica chiesa, quella spirituale. Dal suo punto di vista il clero cattolico corrotto e i riformati intolleranti sbagliano allo stesso modo, e diventa quindi superfluo cercare di capire da che parte stia il falso profeta: predica come un calvinista, veste come un cattolico, si occupa comunque di sottigliezze dottrinali e vuole imporre la propria opinione su questioni non conoscibili, almeno non in questa vita.

Un’altra figura attorno alla quale si raccoglie un nucleo forte di significato, è certamente Seductio. Coornhert ha già visto altrove immagini di amanti sedotti e incarcerati: ad esempio nell’emblema XCIII del Théâtre des bons engins di Guillaume de la Perrière dove lo sposo ha gli occhi bendati e i polsi legati da una corda strettamente annodata, per simboleggiare la follia dell’uomo nel voler contrarre matrimonio, una catena gli pende dal collo e lo unisce alla donna che gli sta di fronte, mentre un monaco si accinge a celebrare le nozze.

È evidente che il fascino di Seductio non sta nell’avvenenza fisica e nemmeno nella purezza spirituale che pure dovrebbe trasparire nell’aspetto. La sua è capacità di legare a sé con la forza delle parole, è potenza trascinante dell’eloquio: ecco infatti la fune uscire dalla bocca della donna e avvincere la vittima. Quali richiami culturali si trovino dietro questa iconografia, molto più complessa di quella del lupus, è cosa da chiarire per gradi.

La fonte più diretta di Coornhert deve essere stata una delle numerosissime edizioni degli Emblemata di Andrea Alciato: l’emblema Eloquentia fortitudine praestantior presenta un’iconografia analoga, con un uomo anziano e male in arnese, coperto di pelle di leone, armato di clava e arco, che trascina una folla con delle corde uscite dalla sua bocca e allacciate alle orecchie degli astanti.

L’illustrazione risale al testo lucianeo dell’Ercole Ogmios, tradotto in latino da Erasmo da Rotterdam nel 1506. Luciano descrive proprio un Ercole anziano, adorato dai Galli come dio dell’eloquenza. Dalla sua bocca escono catene, i cui anelli raffigurano il susseguirsi delle parole e delle parti del discorso: iconografia di una certa fortuna nel Rinascimento, che si trova anche in un’altra versione degli Emblemata. Dalla stessa radice hanno origine le analoghe figure create da Dürer, nelle quali il dio che trascina per le orecchie la folla di ascoltatori con catene che gli escono dalla bocca non è Ercole, bensì Mercurio, il tradizionale tutore dell’eloquenza.

Tutto ciò in polemica con Erasmo, secondo il quale le opere d'ingegno sono i veri Herculei labores:

Quod si ullis hominum laboribus hoc cognominis debetur, ut Herculani dicantur, eorum certe vel maxime deberi videtur, qui in restituendis antiquae veraeque litteraturae monimentis elaborant. Quippe qui cum sudores incomparabiles suscipiant, propter incredibilem negocii difficultatem, tamen vulgi summa in se concitant invidiam.

L’Ercole gallico avrà un’ampia fortuna anche come figura mitico-simbolica rappresentativa dell’identità nazionale: in questo senso sarà adottato dalla casa reale francese e dalla nascente nazione d’Olanda. Si suppone a ragione che Coornhert non potesse essere insensibile a questa valenza: anni dopo, in un’incisione di Goltzius (brillante allievo di Coornhert) comparirà un Ercole possente, un Gallo biondo e nerboruto (come tipologia convenzionale della razza) avvolto da una pelle di leone con un enorme scettro spezzato e un corno al posto della clava e dell’arco, pronto a difendere l’autonomia dell’Olanda dalla prepotenza del sovrano spagnolo.

Nell’interpretazione di Coornhert altri fattori intervengono ad arricchire e complicare ulteriormente l’allegoria della Seduzione. Oggetti simbolici come le maschere, gli occhiali e gli scacciapensieri indicano rispettivamente la doppiezza e la falsità, la vista miope di chi non sa riconoscere il vero, i vani allettamenti della musica del mondo, e fanno rientrare Seductio nel panorama delle figure allegoriche ‘da manuale’, tanto diffuse e catalogate nel Cinquecento. Il fatto che qui l’Ercole sia divenuto donna, rimanda a un’ambiguità, a un’atmosfera di incantamento. percepibile anche altrove nelle tavole. 

    

Infine il Vulgus tricipite evoca un’eco mitologica che lo apparenta al mostro ctonio Cerbero: qui traspare il Coornhert umanista autodidatta, traduttore di classici, sempre alla ricerca di una radice e di un significato antico e originario che vede perdersi nelle lotte faziose tra chiese e sette del suo secolo.

Abbiamo visto come Coornhert tratti una figura di origine biblica, come ne trasformi e rielabori un’altra di ascendenza classica e rinascimentale; ora osserveremo come, nelle stampe, trovino posto anche personaggi storici. Seduzione, menzogna, ignoranza, pace apparente costituiscono un circolo senza via di uscita, che confonde la vista e toglie ogni prospettiva all’uomo. “Quaenam beata sors – si chiedeva Boezio – esse potest ignorantiae caecitate?”. Un’oscurità, una notte profonda simile a quella che nell’Apocalisse sorge dal baratro spalancato sugli abissi, dal quale “salì un fumo come il fumo di una grande fornace; il sole e l’aria si offuscarono per il fumo della voragine” (Ap. 9,2).

A spezzare la cecità e a sollevare iveli dell’ignoranza ) compaiono, nella tavola 9, Martin Lutero ed Erasmo da Rotterdam , mentre si adoperano a smascherare davanti al popolo le reali fattezze del Papa e dei predicatori. Un contadino, appoggiato alla vanga, legge un libro – la Bibbia – senza curarsi di ciò che accade attorno a lui si tratta di un episodio chiave dei rivolgimenti religiosi e culturali dell’epoca: l’attenzione alla lettura personale e privata del testo sacro riesce a dissipare le tenebre dell’ignoranza in cui la Chiesa cattolica tiene soggiogati i fedeli. 

    

L’interpretazione di Coornhert pare riflettere un punto di vista storico ed estraneo alle dispute dottrinali, che riteneva irrisolvibili dalle conoscenze umane. Erasmo e Lutero ricoprono, nella stessa tavola, ruoli analoghi ma non identici: il riformatore tedesco è raffigurato in primo piano davanti al Papa, come attore principale della storia, mentre sullo sfondo agisce Erasmo, con minor clamore. Vulgus, spettatore di entrambe le scene, viene a conoscenza della verità e si stupisce. Coornhert sapeva bene che il divario tra i due riformatori non era stato sempre incolmabile: Erasmo pur rivendicando l’autonomia dal pensiero luterano, non nega un’originaria affinità. L’umanista si allontana dalla Riforma dal momento in cui diventa evidente che essa porta allo scisma della Chiesa; Lutero spezza ogni legame mentre Erasmo rimane all’interno del cattolicesimo. Coornhert sceglie di mantenere la sua fede al di fuori di ogni chiesa; eppure possiamo immaginare di sentirlo dire, con le parole di Erasmo:

Cum heresiarchis mihi nihil est negotii, tantundem cum schismaticis ac seditiosis. […] Ego pacis & concordiae perpetuus fui buccinator, & sum.

Questa tavola fu considerata invece ‘prova’ del luteranesimo di Coornhert e della sua appartenenza alla chiesa riformata. La torcia che Lutero porta in mano significa, secondo gli oppositori cattolici di Coornhert, che egli conosceva la vera interpretazione della Bibbia, e che con essa illuminava la buia ignoranza del Papa. La sua reazione scritta a tale accusa è un documento prezioso sotto diversi aspetti: Coornhert risponde in prima persona, assumendosi tutta la responsabilità di ciò che è illustrato nelle incisioni: storicamente i documenti della disputa forniscono un termine ante quem per ricostruire la datazione della serie; ma soprattutto, rivelano il pensiero di Coornhert rispetto al luteranesimo. Egli ha troppa fede nelle facoltà umane, per credere che la salvezza dipenda soltanto dalla grazia. Lutero, rappresentato con la fiaccola, ha secondo Coornhert il merito di aver scoperto gli atroci errori del papato, non si può dedurre che egli sia illustrato dall’incisore come guida della vera religione.

Cristianesimo, classicità, storia: non sono ancora esauriti i mondi a cui Coornhert allude, mostrandoci l’apparenza dei suoi personaggi. Ancor più che in Seductio o in Abusus, l’eco della tradizione grottesca dei paesi del Nord si ritrova nella figura che chiude la serie, la Seditio. 

  

Presentata in primo piano al centro della scena, ormai esplicitamente ambientata su un palco teatrale, ha la forma dell’androgino, l’essere sia uomo che donna noto sin dall’antichità, e assurto a nuova gloria con la diffusione delle pratiche alchemiche. Dalla fine del Cinquecento e per tutto il secolo seguente, le immagini raffiguranti androgini si moltiplicano nei testi di alchimia, pratica che Coornhert condanna nella Comedie van Israel, chiamandone i maestri Amal e Marma (Rabbia e Inganno), che tuttavia sembra conoscere molto bene. Nei trattati alchemici si trovano numerose corrispondenze puntuali per l’iconografia di Seditio; tra i precedenti più significativi ricordiamo una delle miniature di una copia tre-quattrocentesca del trattato Aurora consurgens. L’essere qui illustrato ha due busti: quello a sinistra è femminile, quello a destra maschile; ha tre gambe: quella centrale in comune ai due esseri siamesi; essi si osservano e si abbracciano. Quest’ultimo è l’elemento di principale distanza dalla Seditio di Coornhert: le sue due metà sono in aspra lotta, armate di pesanti mazze chiodate, e si scambiano sguardi feroci. L’androgino alchemico è invece un simbolo di unione: rappresenta il congiungimento di due principî opposti nel processo che dovrebbe portare a una conoscenza superiore. Il frutto del connubio è una creatura che assume in sé le caratteristiche di entrambi gli esseri d’origine.

    

È esplicita ed evidente la parentela dell’Androgino alchemico con l’Ermafrodito classico: un’edizione secentesca dell’Atalanta fugiens raffigura Venere e Mercurio nell’atto di abbracciarsi, mentre accanto a loro Cupido gioca con la faretra e sullo sfondo incombe l’individuo che genereranno.

    

La contaminazione tra l’iconografia dell’androgino e il mito dell’ermafrodito è produttiva e feconda: nell’emblema nuziale di Sambucus, le gambe degli sposi sono avvinte tra loro a tal punto da sembrare parte di un unico corpo che si sdoppia all’altezza della vita; l’iconografia che ne risulta è analoga a quella dell’androgino dei trattati alchemici, ma scopriamo che dalle caviglie dell’uomo spuntano delle ali che lo identificano come Ermete. Dunque, la donna è Afrodite, e l’androgino è quello del mito antico? Ma allora perché nel cielo splendono contemporaneamente il sole e la luna, simboli appena incontrati e che rappresentano i principi opposti?

L’androgino e l’ermafrodito sono entrambi simboli di unione e di avvicinamento: la Seditio immaginata da Coornhert invece rappresenta il dissenso, la divisione, la rivolta. L’incisore utilizza dunque un simbolo convenzionalmente semantizzato per significare il suo esatto contrario. Ciò che qui vediamo dividersi è il corpo della chiesa ‘cattolica’ – nel senso di ‘universale’ – così come fu immaginata da Erasmo: “Ecclesia catholica […] non solum est una civitas, verum etiam unum corpus”. Coornhert è realmente preoccupato dalla divisione della cristianità, di quella chiesa invisibile e spirituale unita dalla fede, oltre i ritualismi. Ancora una volta riconosciamo l’eco erasmiana:

Nihil est seditione perniciosius. Haeretici ac Schismatici semper conati sunt Ecclesiam discindere: […] qui moniti nolunt ab impiis sectis ac seditionibus conatibus respicere, hos fine monet Gehennae incendium. Nec omnino falsum est, quod dicunt quidam, invisibile esse Ecclesiam Solus enim Deus introspicit corda hominum, ac vere novit, qui sint ipsius.

Dal vacillare dell’ottimismo intellettuale di Coornhert nasce quest’immagine. L’umanesimo rinascimentale, di stampo platonico, ha creduto nell’esistenza di un essere originario, composto dei corpi di un uomo e di una donna che, separati, continuano a cercarsi e chiamano questa ricerca ‘amore’. Ma Seditio ha perso ogni memoria di tutto ciò. Le due metà del corpo che si va sdoppiando, se mai continueranno a cercarsi, lo faranno con le intenzioni peggiori, animate da ribellione e vendetta.

Sullo sfondo della tavola 12, si assiste alla rappresentazione storica di questo tracollo. La corruzione ha fatto il suo ingresso trionfale nella chiesa cattolica, coincisa fino allora con la cristianità intera, contaminata dai vizi, l’unità si è spezzata e ora assistiamo e le conseguenze sono illustrate: il clero è cacciato dalle chiese e dai conventi, gli edifici sono distrutti, le immagini abbattute. 

    

Quest’ultima tavola è giocata, forse più delle altre, sull’ambiguità tra scene reali e immagini allegoriche. Seditio è una figurazione simbolica, mentre la cacciata del clero sulla sinistra è un evento storico, la scena di destra, che rappresenta l’iconoclastia, è insieme allegoria e realtà. Il Beeldenstorm è un episodio ampiamente documentato: immediatamente dopo gli avvenimenti dell’estate del 1566 compaiono numerosissime stampe con funzione ‘giornalistica’, cronache veritiere di episodi accaduti nelle Fiandre. La forza di certi dettagli realistici nelle incisioni di Coornhert, come ad esempio le corde legate alle statue più alte per poterle più facilmente abbattere, è da ascrivere alla sua conoscenza di illustrazioni come quella di Hogenberg, ma anche e soprattutto alla sua partecipazione a fatti analoghi. 

Nel 1566 infatti Coornhert era Stadssecretaris di Haarlem; e all’avvicinarsi dei disordini iconoclastici, d’accordo con il principe Guglielmo d’Orange, chiuse le porte della città e, per proteggere le opere d’arte da eventuali focolai interni, le fece trasportare in sedi più sicure; alcune immagini della chiesa più vicina furono tratte in salvo nella sua stessa casa. Proprio dopo questi episodi Coornhert ritenne prudente scegliere la via dell’esilio volontario. In seguito, paradossalmente, il governo spagnolo cattolico e iconofilo lo ritenne corresponsabile delle violenze e lo condannò al carcere e, dopo la fuga, all’esilio.

Queste tavole, che Coornhert realizza alcuni anni dopo il Beeldenstorm, sono il ricordo di quegli episodi e allo stesso tempo la loro rielaborazione simbolica. Secondo Coornhert, la rivolta olandese poteva essere portata a buon termine solo da un popolo unito dalla concordia e guidato dall’ideale della tolleranza. Egli si sentiva in dovere di intervenire ovunque fossero minacciate la libertà religiosa e di pensiero, e lo fece in molti casi, anche con diversi suoi scritti: Aengheheven dwang in der conscientiën binnen Hollandt (“La coercizione delle coscienze in Olanda”, 1579), Synodus of van der conscientiën vryheyt (“Sinodo, ovvero della libertà di coscienza”, 1582), Wortel der Nederlantsche oorloghen (“Radici delle guerre nei Paesi Bassi”, 1590), Proces van ’t ketter-dooden (“Processo all’uccisione degli eretici”, 1590), Verantwoordinghe van ’t proces (“Responsabilità del processo”, 1590).

Dopo aver messo a rischio la propria incolumità nascondendo opere d’arte in casa, in esilio Coornhert si guadagna da vivere producendone di nuove. Ricercato da cattolici e riformati per le sue idee scomode e difficilmente inquadrabili, esce di scena: esule e ridotto al silenzio, sceglie di utilizzare un linguaggio ‘difficile’ per un messaggio altrettanto difficile. è indicativo che, privato di altri mezzi di espressione, egli utilizzi proprio le immagini stampate per affrontare la questione della validità del linguaggio figurativo. Coornhert non compare esplicitamente come autore ma si riserva il compito di scriverne le didascalie (versi trilingui in latino, francese e neerlandese). Ironiche più che aggressive, non costituiscono il testo d’origine dei disegni, ma un’aggiunta, un commento garbato al racconto iconico. Immagini e parole scorrono in parallelo, fornendoci dettagli diversi; ma, mentre le prime sono di per sé complete e ricche di significati letterali e simbolici, i versi risultano quasi insensati se letti autonomamente. Già nelle commedie, Coornhert stesso aveva programmaticamente sostenuto di voler scrivere in forma di dipinto, descrivendo i suoi personaggi in maniera tanto accurata e minuziosa da farceli vedere. Quando poi, con il bulino, parla per immagini, intesse il racconto di significati tratti dalla vita, dalla storia, dalla temperie culturale dell’epoca.

Un’ultima considerazione riguarda l’uso delle parole e delle immagini. Mentre con i suoi scritti Coornhert ‘grida’ e affronta direttamente in maniera violenta gli avversari (è famosa la sua disputa con Calvino, che all’accusa di cieco dogmatismo risponde con una serie di insulti – “ce brouillon, ce porceau, ceste beste sauvage, ce chien mastin”), le sue immagini parlano un’altra lingua. Coornhert in esse sceglie, apparentemente, la discrezione, ma è una discrezione attiva, umanistica, di impronta erasmiana. Ridotto al silenzio, si oppone al clamore, non compare mai ma interviene comunicando per allusioni, e lasciandosi trasportare dal suo gioco, si potrebbe anche scoprire che neppure questa volta l’umanista ha voluto, o saputo, rimanere dietro le quinte. E forse nell’uomo con il corno che volge le spalle alla follia , e che esce di scena in silenzio, si può riconoscere la firma di un Coornhert celato di nuovo da un gioco linguistico, un autoritratto sotto forma di rebus.

Fonti
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    Andreae Alciati Emblemata denuo ab ipso Autore recognita, hac, quae desiderabantur, imaginibus locupletata, accesserunt nova aliquot ab Autore Emblemata suis quoque eiconibus insignita, Lugdunum, apud Mathiam Bonhomme (rist. anast. Aldershot-Hants 1996).
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  • 1703-1706
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Compendium | Dirck Volkertszoon Coornhert, batavus, imaginum impressarum caelator: humanitas versus iconoclastiam, in figuris. 

Amstelodami, in Rijkmuseum Pretenkabinet custoditur imaginum impressarum corpus, cuius inscriptio est “De corruptione cleri catholici sive de origine revolutionis et iconoclastiae”. Humanista batavus Dirck Volkertszoon Coorhert has duodecim imagines impressit inter annum 1572 et 1576, studia humanitatis, disputationes religiosas politicasque atque Reformatae aetatis tempestatem restituens. In scaenam prodeunt, tamquam in theatrum, figurae allegoricae sacrae et profanae: lupus sub specie agni, Seductio, Ignorantia, Androginus bellicosus, sed etiam aliqui viri illustres qui sexto decimo saeculo vixerunt, ut Erasmus et Luterus. Coornhert doctrina et eruditione clarus, adhuc arte impressoria obscurus est; verum, ipsius ratio iconographica pluris aestimanda videtur praesertim in his exquisitis tabulis allegoricis.  Nam temporibus illis iconoclastiam describere idem valebat ac seditiosum esse: de qua re Coornhert non inscius, tamen temporis morumque crudelitati non serviebat sed humanitatis studiis imbutus, tolerantiae temperantiaeque sensum spiritum imaginibus impressis vulgabat. Tum ipse caelatura usus est non tantum ad lucrum faciendum quantum ad opiniones suas vulgandas (ut Erasmus magister fecerat), etiamsi libertas ipsa periculosa esset.

English abstract

In the Prentenkabinet of the Rijksmuseum in Amsterdam is preserved a complete set of prints entitled De ontaardig van de katholieke geestelijkheid oftewel de achtergronde van de opstand en de Beeldestorm (The Degeneration of Catholic Clergy, or the Background of Revolt and Iconoclasm). The twelve engravings, carved by the dutch humanist Dirck Volkertszoon Coornhert between 1572 and 1576, mirror the cultural outlines of the time: classical and Reinassance knowledge, religious doubts, history, alchemical practice and everyday life of a humanist. In these engravings, as on a stage, a number of sacred and secular allegories (the wolf in lamb’s disguise, Seduction, Ignorance, a belligerent androgyne) turn up, as well as historical figures such as Erasmus from Rotterdam and Martin Luther. The engraver is better known for his literary work than for the rich production of images, but a careful insight of the allegories that bring life to these plates leads now to revalue his iconographical language. His choice to tell the story of iconoclasm through images brought along, at the end of the XVI century, a revolutionary meaning that couldn’t be missed by a severe scholar, far from coeval ideological mainstream such as Coornhert. For the man of letters, the use of burin is not a mere makeshift solution due to his financial problems: it is a conscious and perhaps hazardous choice, though an urgent one.

keywords | Dirck Volkertszoon Coornhert; Iconoclasm; Engravings; Rijksmuseum in Amsterdam.

Per citare questo articolo / To cite this article: F. Martinuzzi, Iconoclastia e potere delle immagini. Dirck Volkertszoon Coornhert, incisore olandese, “La Rivista di Engramma” n. 4, dicembre 2000, pp. 1-25 | PDF