La violenza è normale? L’occhio fotografico di Ernst Jünger*
Maurizio Guerri
Dalla Mobilitazione totale alla società dei controlli
Passeggiando per le vie di una città qualsiasi ci si imbatte sempre più spesso nell’immagine stilizzata di una videocamera che ci avverte: “Area sottoposta a controllo video per motivi di sicurezza”. In ogni paese del mondo è possibile osservare con una notevole frequenza cartelli che avvisano di essere sottoposti a questo genere di registrazioni, non solo all’interno di siti militari, banche, esercizi privati, nelle stazioni, negli aeroporti, ma addirittura nelle scuole, nelle università, nelle vie e nelle piazze. Non solo i tradizionali metodi di controllo di carattere poliziesco, ma anche tutti i nuovi strumenti forniti dalle più recenti tecnologie nel settore delle riprese video, della biometria, dell’informatica sono sempre più ampiamente impiegati per aumentare i controlli finalizzati alla produzione della nostra sicurezza. Tutto ciò che compriamo con una carta di credito, i siti che visitiamo navigando in Internet, i messaggi di posta elettronica, le chiamate telefoniche, i messaggi SMS e gli spostamenti registrati da un navigatore satellitare, tutto è potenzialmente registrabile e conservabile e può costituire il materiale per produrre l’identità di ognuno di noi. Società finanziarie, gruppi bancari, agenzie di pubblicità, compagnie telefoniche assemblano, acquistano, scambiano questi profili per i motivi più disparati. Come hanno recentemente osservato Alessandro Dal Lago e Salvatore Palidda questo genere di “schedatura virtualmente universale” alla quale siamo costantemente esposti non implica che “qualche Grande Fratello sia perennemente in ascolto per registrare le nostre vite”1; queste pratiche rispondono a una “irrazionalità complessiva della società dei controlli” e “all’alea di sistemi basati sull’anarchia del profitto e dello scambio”, piuttosto che dipendere da una ossessione centralizzatrice. Più che alla centralità dello Stato, la società dei controlli in cui ci muoviamo dipende da una illimitata rete di interessi pubblici e privati e risponde alla logica accentrata del capitalismo globale.
Evidentemente le sempre più numerose informazioni finalizzate al controllo sono oggetto di scambio commerciale, di mercificazione come qualsiasi altro prodotto e questo è già all’origine di una produzione continua di insicurezza. Occorre però domandarsi se in linea di principio questo imperativo della security a ogni costo sia o meno effettivamente fonte di sicurezza, se serva davvero a sconfiggere il terrore, quel terrore che pare ormai essere diventato il sentimento più diffuso sia a livello individuale che collettivo. I mezzi di informazione, i politici, i cosiddetti opinion leader ci ripetono quotidianamente che orde di stranieri spingono alle nostre porte, che qualche epidemia planetaria stroncherà milioni di vite umane, che la nostra pacifica democrazia è sotto l’attacco di “nemici dell’umanità”; che occorre prevenire tutto ciò, aumentando i controlli, limitando i movimenti, schedando, informatizzando, registrando, riprendendo. E spesso anche intraprendendo “operazioni di polizia internazionale”, interventi di peace keeping, guerre contro quelli che di volta in volta sono individuati come “Stati canaglia”. Siamo in presenza di un sempre più diffuso terrore quotidiano per ciò che può far crollare le nostre certezze, terrore per un invisibile nemico che dall’esterno distrugge la nostra democrazia, la nostra pace, o addirittura la nostra stessa vita.
Ma siamo davvero assediati dall’esterno? Il terrore che ci insidia proviene davvero da ciò che è rappresentato dalle pratiche sicuritarie come Altro rispetto a noi stessi? La democrazia figlia del progresso illuministico deve guardarsi da pericoli esterni o forse è proprio l’impero del capitale e del lavoro che produce queste forme di terrore sistematicamente al proprio interno? In che misura la società dei controlli contribuisce in maniera essenziale alla produzione del terrore che scorre al suo stesso interno?
Ernst Jünger inizia a porsi questo genere di domande a partire dalla fine della Prima guerra mondiale. Una delle questioni essenziali che affronta in quegli anni è la seguente: in che modo la Prima guerra mondiale ha costituito l’inizio di una età del mondo caratterizzata dal lavoro e da un’inedita violenza bellica, non più controllabile dagli Stati? In altri termini: quale è la genealogia del terrore che caratterizza sempre più la vita dei singoli e dei popoli?
Giunta a termine la Prima guerra mondiale, l’Europa si presentava come un ammasso fumante di cadaveri e macerie. Dov’era finita la civilissima Europa, con il suo raffinato diritto internazionale, i suoi sottili rapporti diplomatici, che ne era della sua arte e della sua filosofia? Quel conflitto che per la prima volta aveva trascinato in guerra l’intero pianeta, che aveva guadagnato un ulteriore elemento, l’aria, per lo svolgimento dei conflitti, che aveva spinto sistematicamente la morte fin dentro le case, che aveva saputo convertite l’illimitato apparato tecnico in una incontrollabile macchina da guerra, che aveva mutato lo scontro armato in una serie diffusa di atti terroristici, da dove proveniva? E ora, firmati i trattati di pace, l’epoca di terrore e violenza sarebbe finita?
Questo genere di questioni costituiscono il nucleo del pensiero di Jünger, come testimoniano scritti quali La Mobilitazione totale (1930), L’operaio (1932), Sul dolore (1934), che oggi appaiono di fondamentale importanza per la lucidità delle analisi storiche e per la forza prognostica della comprensione filosofica: le ostilità dichiarate del primo conflitto mondiale si erano concluse, ma quella violenza e quel terrore non cessavano di abitare il mondo; non solo in quanto si preparava una nuova e ancor più terribile guerra, ma soprattutto perché la violenza e il terrore avrebbero assunto una forma tale da rendere possibile la loro penetrazione nel tessuto della società in stato di pace, fino a non essere più percepiti come tali, fino a essere sentiti come normali. La Mobilitazione totale, ovvero il fenomeno che caratterizza l’esplosione bellica tra gli Stati nella Prima guerra mondiale, per Jünger è essenzialmente questo: un processo di fusione di guerra e lavoro che non dà come risultato la semplice somma delle due attività, ma segna una svolta epocale, una “mutazione” genetica della storia, un nuovo scenario spazio-temporale fatto di normalità violenta in guerra e di violenza normalizzata in pace. Questo è il “mondo mutato” di cui Jünger cerca di raccogliere le immagini.
La Mobilitazione totale che inizia a operare allo stesso modo sui fronti e nelle retrovie della Prima guerra mondiale sancisce la totale convertibilità del soldato in Lavoratore, trasforma gli Stati in un unico mondo liscio dove è annullato il confine fra la guerra e la pace, fra la dimensione pubblica e la sfera privata, tra il nemico esterno e il criminale interno. Questi confini sono risucchiati dalla dimensione normale e seriale del lavoro che irrompe nella sfera fino ad allora circoscritta, limitata e rituale della guerra.
Le guerre mondiali furono dunque comprese da Jünger come modalità di dispiegamento e di imposizione di un nuovo modo di vivere sotto il segno del lavoro “come totalità dell’esistenza”. Quella nuova dimensione del lavoro basata sulla riduzione della natura e dell’essere umano a mera riserva utilizzabile, fondata sulla normalità del rischio e che aveva saputo rendersi totalmente disponibile al dispiegamento delle forze militari, avrebbe d’ora in poi continuato a riprodursi sotto forma di violenza normale e di terrore quotidiano anche terminati gli scontri dichiarati.
“Il mondo mutato”: anestesia dello sguardo e terrore
Passando in rassegna i titoli dei volumi fotografici curati da Jünger, è possibile osservare immediatamente che le questioni affrontate dai principali scritti degli anni Trenta sono anche i temi delle raccolte di fotografie: Luftfahrt ist Not! [L’aviazione è necessaria], Vaterländischer Buchvertrieb Thankmar Rudolph, Leipzig 1930; Das Antlitz des Weltkrieges. Fronterlebnisse deutscher Soldaten [Il volto della guerra mondiale. Esperienze sul fronte dei soldati tedeschi] e Hier spricht der Feind. Kriegserlebnisse unserer Gegner [Qui parla il nemico. Esperienze di guerra dei nostri avversari] editi rispettivamente nel 1930 e nel 1931 dall’editore Neufeld & Henius di Berlino. Nel 1931 viene pubblicato anche Der gefährliche Augenblick. Eine Sammlung von Bildern und Berichten [L’attimo pericoloso. Una raccolta di immagini e resoconti], Junker und Dünnhaupt Verlag, Berlino, mentre nel 1933 esce probabilmente il testo fotografico più importante curato da Jünger Die veränderte Welt. Eine Bilderfibel unserer Zeit [Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo], W.G. Korn Verlag, Breslau 19332.
I primi interrogativi che sorgono prendendo in considerazione l’opera fotografica di Jünger sono i seguenti: per quale ragione lo scrittore e filosofo Jünger si impegnò così a fondo in un confronto con la fotografia che lo portò a pubblicare ben cinque raccolte fotografiche nel giro di quattro anni? Per quale motivo sentì il bisogno di unire la fotografia alla riflessione storica e filosofica sul rapporto tra guerra, lavoro, terrore e civilizzazione mondiale?
Nel 1931 Jünger scrive un’introduzione per il volume Der gefährliche Augenblick3 dedicato alla raccolta di “immagini e resoconti” di quei tipici “attimi pericolosi” di cui è intessuta l’esistenza quotidiana del Lavoratore; in queste righe incontriamo una prima spiegazione del motivo per cui Jünger si dedicò con intensa passione all’elaborazione di volumi fotografici. Il volume in questione si compone di un centinaio di fotografie che accompagnano i racconti dei testimoni di “attimi pericolosi”. Nell’introduzione Jünger osserva:
Quel che caratterizza in maniera particolare il tempo nel quale ci troviamo, e in cui ogni giorno più profondamente ci addentriamo, è la stretta relazione che sussiste tra il pericolo e l’ordine. La cosa si può esprimere solo rendendo evidente come il pericolo appaia quale un’altra faccia del nostro ordine. L’intero composto dalle due facce assomiglia alla nostra rappresentazione dell’atomo: al tempo stesso assolutamente mobile e assolutamente stabile4.
Dunque secondo le parole di Jünger il modello di visione in grado di fissare e di registrare questa inedita relazione che si instaura tra mobilità e stabilità, “pericolo” e “ordine”, “coscienza” ed “elementare” è la visione del “tipo” realizzata attraverso l’occhio fotografico. Attraverso lo sguardo fotografico il pericolo viene normalizzato, il mobile e il caotico inserito in una struttura rappresentativa dinamica che è funzionale alla realtà ordinaria del “sistema-lavoro”, ciò che è “assolutamente mobile” può essere fissato come se fosse “assolutamente stabile”.
Nel processo di Mobilitazione totale il lavoro e la guerra perdono i rispettivi confini, arrivando a rendere insignificante la divisione netta tra le forme della pace e della guerra che vengono rifuse nell’unico “processo del lavoro”; così, analogamente, la registrazione fotografica tende a coniugare e a tradurre su un altro piano rispetto al passato il rapporto tra pericolo e ordine, tra coscienza ed elementare, al punto che la particolarità dello sguardo fotografico muta fino ad assumere i caratteri dello stile normale di una visione per la quale le tinte dell’“ordine” e del “pericolo” non risultano più inaccostabili: “Fin d’ora è difficile che accada un processo che sembri agli uomini di qualche significato, senza che l’occhio artificiale della civilizzazione, l’obiettivo della macchina fotografica, vi appunti il proprio sguardo”5. Ciò che ha “significato” non esiste se non nella misura in cui è analizzabile e riproducibile tecnicamente secondo le regole dello sguardo meccanico. La regola della corretta visione è riprodotta in serie dall’obiettivo della visione “telescopica”. Nella educazione globale allo sguardo fotografico quella visione fatta di “immagini di demoniaca precisione matematica” si impone come lo statuto stesso della visione, come visione obiettiva in assoluto. Questo stile obiettivo della visione emerge nella società borghese, nel “mondo dell’individuo egocentrico e querimonioso”6, ma nella rappresentazione del rischio come condizione normale della esistenza del lavoratore, la fotografia finisce per imporsi come la destituzione della concezione borghese del pericolo in base a cui esso era concepibile solo in quanto “insolubile contraddizione dell’ordine, dunque come qualcosa di insensato”7. L’“attimo pericoloso” registrato dall’obiettivo fotografico cessa di essere il ritratto di un istante irripetibile, la fisionomia di una storia e finisce per diventare la rappresentazione normale, e illimitatamente riproducibile, di ciò che accade nella vita del lavoratore, il solo apparentemente impossibile congiungimento di “comfort” e “pericolo”: “La storia delle invenzioni ci sottopone costantemente la questione se l’obiettivo finale della tecnica stia uno spazio di assoluto comfort o in uno spazio di assoluto pericolo”8.
Alla estromissione degli eventi dalla zona della sensibilità corporea, o meglio alla riproduzione degli eventi dolorosi in una zona esterna all’ambito corporeo, cui corrisponde la produzione di un nuovo tipo oggettività, sono associati un aumento di “crudeltà”9 e una crescita della quantità di dolore che può essere sopportata dalla massa disciplinata dei lavoratori. Tale capacità di sopportazione è connessa secondo Jünger alla rimozione del dolore all’esterno dei limiti corporei e alla sistematica rappresentazione del dolore come ciò che è altro rispetto al soggetto telescopico. Questa radicale modificazione percettiva, sottolinea Jünger, è testimoniata da alcuni atteggiamenti che sono assunti come naturali dagli sguardi educati alla fotografia e al cinema, ma che sono comportamenti incomprensibili o addirittura patologici se considerati da chi è estraneo allo stile visivo meccanico: si pensi, scrive Jünger, alla “violenta risata che accompagna le scene comiche dei film, basate per lo più su un accumulazione di situazioni penose e crudeli”10 o alla “maggiore freddezza” che ci permette di sopportare sempre più frequentemente la “vista della morte”. Ma si pensi anche al “sorprendente sincronismo” per cui tra “due filmati di soggetto gradevole e rilassante si vedono interpolate le immagini di una catastrofe che in quel momento sta devastando il pianeta”11. Qui ciò che più colpisce è la reazione silenziosa del pubblico, un silenzio “astratto e crudele” ben più inquietante della “frenesia selvaggia” che possiamo ancora oggi osservare nelle “arene meridionali”, là dove “la tauromachia ha conservato fino a oggi un residuo degli antichi giochi”12. Il “silenzio” come reazione emotiva dinanzi a scene violente o catastrofiche mostra invece che l’assenza di ritualità coincide da un lato con la perdita di esperienza e dunque di senso dell’evento doloroso e dall’altro con l’aumento della “crudeltà” del sistema culturale; lo spettatore ora risulta disposto ad accettare la rappresentazione del dolore – in una forma né esperibile né comprensibile – in misura sempre crescente. Si comprende così come sia possibile, in modo apparentemente contraddittorio, che proprio nell’era della trasformazione della violenza bellica in normale lavoro quotidiano la nichilistica rappresentazione ideologica della guerra possa arrivare a considerare gli eventi bellici al pari di “incidenti stradali di grandissime dimensioni, che tutti si sforzano di evitare”13.
C’è un’immagine utilizzata da Jünger nel saggio Sul dolore che aiuta a comprendere il nuovo tipo di rapporto che si istituisce tra corpo, dolore, anestetizzazione e intrusione tecnica nella vita umana, in coincidenza della rappresentazione fotografica:
Si ricorderà infine come anche in medicina il corpo sia diventato in larga misura un oggetto [Gegenstand]. Anche qui compare l’ambiguita [Doppelsinngkeit] di cui si parlava in precedenza. Così ad esempio l’anestesia si presenta da un lato come un affrancamento dal dolore [Befreiung vom Schmerz], mentre dall’altro essa trasforma il corpo in un oggetto [Objekt] che rimane aperto [offensteht] per l’intervento meccanico come materia senza vita14.
Il procedimento anestetico cui è sottoposto il corpo umano dalla tecnica medica è un’immagine del processo di stabilizzazione e normalizzazione della Mobilitazione totale e della violenza deritualizzata nel suo complesso. L’anestesia è eliminazione del dolore solo nella misura in cui il corpo umano è reso oggetto aperto e disponibile alla violenza dell’intervento tecnico. Ciò che all’uomo è risparmiato sotto forma di esperienza individuale e diretta del dolore, si ripresenta come sistematica, inconsapevole e socialmente accettabile intrusione dell’elemento tecnico nella sfera della vita. Oppure come “educazione” spaziale alla sopportazione telescopica del dolore. E ancora come disciplina temporale di sospensione del dolore attraverso una sua “dilazione” o “diluizione” sub specie psychologica, tutti tratti leggibili come segni di una avvenuta modificazione di un precedente stile percettivo. In questo senso l’anestesia è il simbolo della normalizzazione della violenza e del terrore funzionale alla logica del lavoro, all’interno del corpo della società. A questo modello corrisponde evidentemente anche la fotografia, strumento di visione congenere al tipo di “aggressività” della Prima guerra mondiale.
Su questi temi Jünger torna con ulteriore chiarezza molti anni dopo – a testimonianza del costante interesse per la visione fotografica – nelle pagine del breve saggio Philemon und Baucis. Der Tod in der mythischen und in der technischen Welt (1974): il “rimanere aperto” (offenstehen) del corpo de-invidualizzato, tipizzato, strappato all’esperienza del dolore – e in questo senso anestetizzato – corrisponde sul piano della rappresentazione visiva del tipo del Lavoratore all’Abnehmen della fotografia:
Fotografare [Photographieren] una volta si diceva Abnehmen [comunemente “togliere”, “portare via”, “sottrarre”, ma anche “asportare”, “amputare” in senso chirurgico, oltre che, appunto, “fotografare”]. Si asporta [nimmt ab] una sorta di parvenza esteriore, l’aspetto [Schein] stesso dell’uomo, come se gli si togliesse una maschera. Per questo il corpo nudo perde in una immagine fotografica [Lichtbild, letteralmente “immagine luminosa”] – non solo se confrontata a un’opera d’arte, ma anche se paragonata alla vita – sia in splendore erotico, che in attrazione sessuale15.
Fotografare è un “asportare” dal corpo, quella parte sensibile, luminosa dell’apparenza umana che esprime la forza erotica, l’esperienza vitale, l’espressione del singolo. La fotografia costituisce sul piano della visione un’anestetizzazione della esperienza della visione analoga a quella narcosi che in ambito medico, sospendendo il dolore dal corpo e riducendolo a cadavere, rende possibile l’“intervento meccanico” del chirurgo: fotografare significa anestetizzare la visione al dolore della violenza tecnica, separarla dalla sua capacità di fare esperienza, e rendere possibile invece il “restare aperto” dell’occhio alla intrusione dell’opera del lavoro, il quale è ora disciplinato a vedere come obiettiva, corretta e normale la continua esposizione all’“intervento meccanico” e al “pericolo”.
D’altra parte la fotografia non è solo un modo di vedere che corrisponde alla soppressione della diretta esperienza del dolore, ma essa stessa si pone già come fondamentale “atto di aggressione” (Angriffsakt)16. Jünger pensa sul piano storico all’uso della fotografia come “arma offensiva applicata in politica”17, alla “prassi di usare le fotografie dei militanti assassinati nella lotta politica trasformandole in manifesti”18, e più in generale al fatto che con la diffusione dell’uso delle immagini fotografiche la “sfera privata” è ininterrottamente “alla merce’ della fotografia”19. La fotografia rappresenta il prototipo di quel controllo diffuso e accentrato che secondo Jünger avrebbe sempre più caratterizzato la società contemporanea: una maggiore intrusività degli strumenti tecnici nell’esistenza dell’uomo percepita come normale proprio nella misura in cui la sua diffusione è di massa e il suo uso è democratico.
Per la prima volta lo sguardo fotografico che fissa obiettivamente i propri targets è riprodotto sistematicamente sui campi di battaglia della Prima guerra mondiale come specifico strumento ottico finalizzato all’esercizio di una nuova tecnica di conduzione della guerra: “Una certa postazione”, ricorda Jünger, “diventava indifendibile nel momento stesso in cui poteva essere individuata sulle foto dei ricognitori”20. E ancora: “Già oggi esistono armi da fuoco munite di cellule ottiche, e perfino proiettili, aerei e sottomarini, guidati otticamente”21. Ma si pensi anche alla nascita del reportage informativo di guerra, quale testimonianza oggettiva all’altezza della violenza bellica del lavoratore”22. Susan Sontag nel suo ultimo saggio Regarding the Pain of Others (2003) ha osservato: “Le condizioni che regolano l’uso delle macchine fotografiche e delle cineprese al fronte per scopi non militari si sono fatte molto più rigide man mano che la guerra è diventata un’attività esercitata con strumenti ottici sempre più precisi per il rilevamento del nemico”. Non c’è guerra senza fotografia, osservò nel 1930 un insigne esteta della guerra, Ernst Jünger, perfezionando così l’irresistibile identificazione tra macchina fotografica e arma da fuoco, tra atto di “mirare” a un soggetto e quello di mirare a un essere umano. Fare la guerra e scartare fotografie sono attività assimilabili: “La stessa intelligenza che produce armi in grado di localizzare con estrema precisione il nemico nel tempo e nello spazio” scrisse Jünger “si applica anche a conservare nei minimi dettagli i grandi eventi storici”23. Ancora una volta Jünger torna a sottolineare il carattere tipizzante dello sguardo fotografico, l’unico in grado di farsi davvero “obiettivo” attraverso il proprio distacco dalla “zona della sensibilità” (Zone der Empfindsamkheit)24 e dalla esperienza umana, e che può indagare “spazi preclusi al normale occhio umano”25: “L’occhio artificiale penetra i banchi di nebbia, la foschia atmosferica e il buio, la resistenza stessa della materia; le cellule ottiche lavorano negli abissi oceanici e negli spazi rarefatti dei palloni-sonda”26.
Al dispiegamento totale del modello della visibilità fotografica, corrisponde anche l’esigenza di difendersi dall’atto di aggressione visivo attraverso una risposta altrettanto aggressiva, secondo il modello dell’attacco e del contrattacco di tipo terroristico efficacemente descritto da Peter Sloterdijk:
Non c’è nessun acte gratuit terroristico, nessun “che il terrore sia” originario. Ogni attacco terroristico si comprende come un contrattacco entro una serie che, ogni volta, viene descritta come avviata dall’avversario. Per questa ragione si può anche dire che il terrorismo stesso sia costituito in modo anti-terroristico – e ciò vale anche per la “scena originaria” sul fronte dell’Ypern nel 191527.
Alla caduta del confine tra pace e guerra, pubblico e privato, ordine e pericolo connessa alla Mobilitazione totale, Jünger fa corrispondere un processo di visibilizzazione totale che passa attraverso il modello di visione fotografica che tende a sottomettere ogni aspetto della vita alla “obiettività” degli strumenti di precisione. Posso difendermi dalla visibilità totale soltanto controllando che nessuno mi osservi. Al terrorismo ottico dello sguardo telescopico sembra che si possa rispondere solo con un contrattacco che non fa che infittire le trame della rete entro cui l’essere umano è costretto, che non fa altro che mutare sempre di più il singolo in un volenteroso collaboratore al controllo di se stesso.
Il senso di ordinaria normalità con cui sono accolte le forme di sperimentazione in ogni ambito – comprese quelle relative alla modificazione in laboratorio della vita – in nome delle ragioni della scienza, è espressione del cedimento di ogni antico nomos28 e della sempre maggiore “conducibilità” (Leitfähigkheit)29 della logica dell’esperimento funzionale allo spazio del lavoro. Nel Mondo Mutato c’è una pagina dedicata all’“uomo di vetro”, il modello di essere umano costruito con materiale trasparente, presentato alla Hygiene-Austellung di Dresda negli anni Venti, che permise per la prima volta di osservare il corpo dando l’illusione di un suo controllo totale grazie a un modello di visibilità che Jünger definisce di tipo fotografico. In questo caso, si legge nella didascalia dell’immagine, possiamo osservare che il “rapporto dell’uomo con il suo corpo assume un carattere cosale. L’amministrazione e il controllo delle sue prestazioni ricorda l’esattezza che caratterizza gli strumenti di precisione”30. Nulla suscita più stupore, la scienza presenta un esperimento, la coscienza comune lo accetta in modo sempre più ampio e convinto. La sicurezza – sul piano igienico-sanitario e politico – sembra poter essere garantita soltanto da una sempre maggiore controllabilità della vita. Per Jünger, la fotografia ha annunciato nell’ambito della visione questo processo di normalizzazione nella coscienza dell’intrusione della sperimentazione e del controllo che annulla ogni precedente limite, che sradica un “evento” dal proprio attimo e dal proprio luogo per renderlo “trasmissibile”, riproducibile e controllabile indefinitamente:
C’è in noi una tendenza, strana e difficile da descrivere, a conferire all’evento vivo [dem lebendigem Vorgang] il carattere di un preparato scientifico. Ovunque oggi accada qualcosa, è subito accerchiato dagli obiettivi e dai microfoni e dai lampi dei flash. In molti casi l’avvenimento stesso sparisce dietro la sua “trasmissione” [Uebertragung], e diventa perciò un puro oggetto [es wird in höhem Maße zum Objekt]. Abbiamo visto così processi politici, sedute parlamentari o gare sportive il cui unico significato è quello di essere trasmesso su scala planetaria. L’avvenimento non è più legato a uno spazio o un tempo particolari, poiché lo si può riprodurre a piacere e infinite volte in ogni luogo31.
Ogni evento non appena accade è estratto dal proprio contesto per essere immesso nella macchina della trasmissione che muta l’evento in un “puro oggetto”, lo riduce a “preparato”, lo conduce in una uniforme dimensione sperimentale per essere controllato. L’evento in quanto tale assume come unico significato la propria riproducibilità o trasmissibilità e in tal modo diviene “inaccessibile alla nostra sensibilità”32 ed è sottratto alla possibilità di divenire istante e luogo di esperienza. Ma in questo circolo della riproducibilità è inserito l’uomo stesso come “puro oggetto” che rimane “aperto” all’intervento sperimentale quale corpo anestetizzato33.
Importante è la piena consapevolezza dimostrata da Jünger fin dagli anni Trenta della portata imperialistica di questo processo insito nella riproducibilità e della trasmissibilità degli eventi, che si muove al di sotto e ben più in profondità rispetto alle differenze culturali, alle appartenenze religiose, alle contrapposizioni politiche: nel saggio Sul dolore si legge: “Una città come La Mecca nel momento in cui può essere fotografata, entra a far parte della sfera coloniale”34. Nel 1959, nelle pagine di An der Zeitmauer torna a riflettere sullo stessa questione: “È molto più faticoso costringere un arabo ad accettare la croce che non una macchina fotografica. Non sempre sarebbe andata così; è tipico di un’epoca. In tal modo la Mecca finisce per diventare un luogo della terra come tutti gli altri”35. La possibilità di ridurre un evento – sia esso un’azione umana o meno – a “puro oggetto”, la possibilità di renderla mero elemento di sperimentazione si raggiunge attraverso la sua inattingibilità a livello di esperienza cui il mondo perviene attraverso differenti modalità di visione obiettiva di cui la fotografia è il paradigma.
Vedere la genealogia dell’ordinamento automatico
L’opera di “mutazione” dei luoghi e delle culture del pianeta in un unico spazio uniformato e funzionale alla sperimentazione del sistema-lavoro non avviene in prima istanza mediante un’azione imperiale di conquista bellica, bensì attraverso un’invalidazione effettiva di tutti i nomoi da parte della logica del lavoro. Nell’esempio ricordato da Jünger non è necessario che la Mecca sia conquistata o distrutta ma è sufficiente che l’“effetto della presentazione [Vorweisung]”36 contenuto nella immagine fotografica, quale modalità di visione conforme alla logica del lavoro, esista e operi. Nel momento in cui è stato accettato che l’aura sacra della Mecca fosse strappata dall’occhio meccanico, essa di fatto è stata conquistata al sistema-lavoro e ridotta a un punto funzionale al piano di mobilitazione.
Evidentemente questa posizione jüngeriana apre prospettive di grande interesse per poter sviluppare una riflessione sul cosiddetto clash of civilizations cui qui è possibile solamente accennare: il movimento di mobilitazione al lavoro e alla sperimentazione opera al di sotto delle regole politiche, delle religioni storiche, degli ideali morali e in generale di tutto ciò che è civilization, sicché considerare fondamentale la strutturazione di poli culturali contrapposti in quanto luoghi originari dei conflitti appare del tutto inadeguato a comprendere la portata del processo di mobilitazione globale in corso e il tipo di tutti i conflitti successivi alla Prima guerra mondiale.
Il mondo mutato è per tutti gli aspetti che abbiamo sin qui affrontato, il volume fotografico più importante curato da Jünger. Nel suo complesso, questa opera fotografica è concepita come un sillabario di immagini in cui si esprimono sul piano ottico gli eventi essenziali che caratterizzano la logica imperiale del lavoro e attraverso cui è possibile dare forma a un nuovo atlante della vita contemporanea. In particolare, Il mondo mutato rappresenta la concretizzazione dell’idea jüngeriana che l’obiettivo della macchina fotografica sia un punto di vista privilegiato per poter cogliere le espressioni degli uomini e delle cose sotto la pressione dinamica di un’unica forza, prodotta dalla fusione di guerra e lavoro. Attraverso un viaggio nelle immagini scopriamo che cosa stavamo diventando: gli antichi ordinamenti (i sistemi politici, gli assetti giuridici, i valori morali) continuano a essere efficaci solo nella misura in cui sono funzionali al dispiegamento planetario della produzione del lavoro e del controllo delle masse. Che l’obiettivo fissi le parate fasciste, le manifestazioni degli operai sovietici o le sfilate lungo le strade di New York, assistiamo sempre e comunque a un’analoga disciplina delle masse, a una mobilitazione che diventa tanto più impressionante quanto più la società ha adottato un sistema politico democratico: qui a livello collettivo e individuale l’ordinamento è automatico, l’essere umano si muta attraverso una miriade di pratiche di vita in un collaboratore al controllo di se stesso.
La dimensione “intrusiva”, “violenta”, attribuita da Jünger allo “sguardo telescopico” deriva, dunque, dalla intuizione che la fotografia costituisce l’archetipo di un modello di visione la quale per sua essenza tende ad abolire l’esperienza, la separazione tra pubblico/privato e compie il primo passo verso la realizzazione di una controllabilità globale, che si impone come unica risposta al terrore politico, sociale, igienico che assedia la vita contemporanea.
Jünger guarda attraverso l’occhio estraniato della macchina fotografica i volti degli esseri umani, dei paesaggi, delle cose in questo nuovo mondo forgiato dal fuoco della guerra per comprendere la provenienza di quella forza distruttiva che aveva definitivamente “mutato” la forma e il senso del mondo. Jünger dunque non tratta la fotografia come sintomo di decadenza, non giudica con tono moralistico, ma anzi la utilizza come modalità di comprensione privilegiata del mondo di cui è espressione. In tutti i volumi curati da Jünger, la fotografia non è assunta come “dimostrazione oggettiva”, come “strumento informativo”, ma come espressione simbolica di questo mondo mutato dalla guerra mondiale e come traccia della genealogia di questa inedita violenza che nasce all’interno della civiltà occidentale.
Oggi ci domandiamo spaesati da dove provengano le diverse forme di terrore da cui ci sentiamo assediati, ci domandiamo chi o che cosa intenda porre fine alla nostra sicurezza, in che modo dall’esterno veniamo aggrediti nella nostra pace, nella nostra democrazia, nella nostra vita. Jünger fu in grado di mettere a fuoco con chiarezza fin dagli anni Trenta che se vogliamo comprendere la genealogia del terrore dobbiamo guardare dentro la nostra storia: alla storia della nostra guerra, alla storia della nostra politica, alla storia della nostra scienza, alla storia della nostra economia. Solo allora inizia a essere comprensibile che la situazione di terrore in cui viviamo non è provocata da un fantomatico Altro che ci assedia, ma appartiene alla democrazia nella sua fase globalizzata e ha la propria genesi nell’ultimo atto della storia occidentale della politica statale.
Il mondo mutato è la testimonianza del tentativo di comprendere uno degli attimi fondamentali della genesi di questa situazione anche sul piano estetico, concependo la “visione dell’occhio artificiale” come lo sguardo adeguato a indagare lo spazio planetario della mobilitazione, in cui i limiti di guerra e pace, Stato e società, pubblico e privato sono annullati per riprodurre un’unica dimensione globale del lavoro. La fotografia costituisce il pendant ottico del pericolo e del terrore divenuti elementi normali nell’impero mondiale del lavoro.
Note
I numeri tra parentesi nei riferimenti bibliografici rinviano all’edizione tedesca di E. Jünger, Sämtliche Werke, Stuttgart 1978-2003; gli scritti esclusi dalle Sämtliche Werke e raccolti a c. di S.O. Berggötz con il titolo Politische Publizistik. 1919-1933, Stuttgart 2001 (tr. it. di A. Iadicicco, Scritti politici e di guerra, 3 voll., Gorizia 2003-2005) si citano con la sigla pp. seguita dal numero di pagina.
1. A. Dal Lago, S. Palidda, Presentazione, in Un mondo di controlli, Milano 2007, p. 7.
2. Sul volume fotografico Il mondo mutato si vedano in primo luogo: N. Sánchez Durá, Rojo sangre, gris de máquina, in Id., a c. di, E. Jünger, Guerra, técnica y fotografìa, Valencia 2000; B. Werneburg, Ch. Phillips, E. Jünger and the Transformed World, “October” 62, (Autumn, 1992), 42-64; B. Werneburg, Die veränderte Welt: Der gefährliche Anstelle des entscheidenden Augenblicks. Ernst Jüngers Überlegungen zur Fotografie, “Fotogeschichte Beiträge zur Geschichte und Ästhetik der Fotografie”, 14, 31 (1994); J. Encke, Augenblicke der Gefahr. Der Krieg und die Sinne. 1914-1934, München 2006, 15-108. Cfr. anche H. Christians Gesicht, Gestalt, Ornament. Ueberlegungen zum epistemologischen Ort der Physiognomik zwischen Hermeneutik und Mediengeschichte, ; M. Biro, The New Man as Cyborg: Figures of Technology in Weimar Visual Culture, “New German Critique”, 62 (Spring - Summer, 1994), 71-110; infine, mi sia concesso rinviare al mio E. Jünger. Terrore e libertà, Milano 2007, capp. 4 e 5. Sul ruolo svolto da Jünger nella selezione delle immagini e nella concezione del volume, Durá sostiene che per quanto concerne Der gefährliche Augenblick e Die veränderte Welt “la responsabilità nella ideazione dei libri, la selezione delle immagini e i testi sono di Jünger. Ciò mi è stato confermato da Georg Knapp, ultimo segretario di Jünger”. Cfr. N. Sánchez Durá, Lontano dagli occhi lontano dal cuore: conciencia técnica y critica del pacifismo en el joven Jünger, “Logos. Anales del Seminario de Metafisica”, 3, 2001, 144, n. 5. Anche Friedrich Georg Jünger collaborò con Schultz a un volume di immagini e scritti, intitolato Das Gesicht der Demokratie. Ein Bilderwerke zur Geschichte der deutschen Nachkriegszeit, a c. di E. Schultz, con un saggio di F. G. Jünger, Leipzig 1931 (ora in ristampa anastatica Archiv-Edition, Viöl/Nordfriesland 2005). Su Edmund Schulz, amico Jünger e co-curatore del volume, cfr. E. Jünger, Giardini e strade, tr. it. di F. Federici, Milano 1942, 20, 51. Un paragrafo dedicato a Schultz in A. Mohler, Die Konservative Revolution in Deutschland 1918 - 1932. Ein Handbuch, Darmstadt 1989.
3. Il volume fu pubblicato dall’editore Junker und Dünhaupt di Berlino nel 1931 e, almeno ufficialmente, il curatore è Ferdinand Bucholtz.
4. E. Jünger, Scritti politici e di guerra. 1919-1933, tr. it. di A. Iadicicco, Gorizia 2005, vol. III, 227-28 (c.vo nostro) [PP, 625].
5. Ivi, vol. III, 228 [PP, 626].
6. E. Jünger, Sul dolore, in Id. Foglie e pietre, tr. it. di F. Cuniberto, Milano 1997, 153 [7, 159].
7. E. Jünger, Scritti politici e di guerra. 1919-1933, cit., vol. III, 223 [PP, 620].
8. Ivi, p. 227 [PP, 624].
9. Sul rapporto tra registrazione fotografica e “crudeltà” si vedano anche le considerazioni di S. Sontag in Sulla fotografia, tr. it. di E. Capriolo, Torino 2004, 13 e sgg. Sulla relazione tra fotografia e morte cfr. R. Barthes, La camera chiara, tr. it. di R. Guidieri, Torino 1978. Per una storia dell’immagine, con importanti considerazioni sulla funzione dei moderni strumenti di comunicazione R. Debray, Vita e morte dell’immagine. Una storia dello sguardo in Occidente, tr. it. di A. Pinotti, Milano 1999.
10. E. Jünger, Sul dolore, in Id. Foglie e pietre, cit., 178 [7, 184].
11. Ivi, 178 [7, 184].
12. Ibid.
13. E. Jünger, Oltre la linea, in E. Jünger, M. Heidegger, Oltre la linea, ed. it. a c. di F. Volpi, Milano 1989, 56 [7, 243-44].
14. E. Jünger, Sul dolore, in Id., Foglie e pietre, cit., 182 [7, 188].
15. E. Jünger, Philemon und Baucis [12, 471]. Sulla fede in un potere magico dei ritratti cfr. A. Pinotti, Estetica della pittura, Bologna 2007, cap IX.
16. E. Jünger, Sul dolore, in Id., Foglie e pietre, cit., 176 [7, 182].
17. E. Jünger, L’operaio. Dominio e forma, tr. it. di Q. Principe, Parma 1991, 110 [8, 126].
18. E. Jünger, Sul dolore, in Id., Foglie e pietre, cit., 177 [7, 183].
19. Ivi, 177, [7, 182]. “Non occorre essere dotati di una visione profetica per prevedere che presto qualsiasi accadimento verificatosi in qualsiasi luogo, potrà essere visto e udito”. E. Jünger, Scritti politici e di guerra, cit. vol. III, 228 [PP 626].
20. E. Jünger, Sul dolore, in Id., Foglie e pietre, cit., 176 [7, 182].
21. Ivi, 176 [7, 182].
22. Si pensi alla grande diffusione di immagini fotografiche e ai volumi dedicati alla fotografia di guerra tra cui Krieg dem Kriege! di Ernst Friedrich. Tra le prime immagini cinematografiche di guerra destarono particolare impressione quelle di Abel Gance che nella pellicola J’accuse (1938) mostrava les gueules cassées, i “musi rotti”, dei sopravvissuti della Prima guerra. Su questi temi cfr. J. Encke, Augenblicke der Gefahar, cit.; S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, cit., 12 e sgg. e A. Gibelli, L’officina della guerra, Torino 1998. Una storia della rappresentazione fotografica della guerra è Voir ne pas voir la guerre. Histoire des représentations photographiques de la guerre, Paris 2001. Sul rapporto tra perdita di esperienza e (tele-)visione della guerra fondamentale è il testo di A. Scurati, La letteratura dell’inesperienza, Milano 2006.
23. S. Sontag, Davanti al dolore degli altri, tr. it. di P. Dilonardo, Milano 2003, cit., pp. 57-58. Sul rapporto tra guerra e produzione di immagini, cfr. N. Mirzoeff, Guardare la guerra. Immagini del potere globale, tr. it. di M. Bortolini, Roma 2004.
24. E. Jünger, Sul dolore, in Id., Foglie e pietre, cit., 176 [7, 182].
25. Ivi, 176 [7, 181-82].
26. Ivi, p. 176 [7, 182].
27. P. Sloterdijk, Terrore nell’aria, tr. it. di G. Bonaiuti, Roma 2006, 20. A proposito della logica che produce terrore Igino Domanin osserva: “Abbiamo cominciato a credere che abbiamo trovato il limite che separa l’umano dall’antiumano. Abbiamo così costruito la barriera. I nostri nemici, perciò possono essere d’ora in avanti solo dei barbari, dei negatori dell’umanità in quanto tale. Tra noi e loro c’è uno scontro che può condurre soltanto a una soluzione escatologica: Il Giorno del Giudizio in cui il Bene e il Male saranno definitivamente separati”. Cfr. I. Domanin, Apologia della barbarie. Considerazioni ostili sulla condizione umana in tempo di guerra, Milano 2007, 82.
28. Scrive Jünger in Al muro del tempo tr. it. di A. La Rocca e A. Grieco, Milano 2000, 231 [8, 598-99]: “È chiaro che i confini scompaiono non solo in quanto fenomeni, ma nel loro stesso significato, nel loro intrinseco valore. E con essi scompare il nomos, la potenza deputata a loro salvaguardia. Qui e non nella minaccia fisica, va cercato l’abisso di quel brivido che coglie l’uomo alla vista della creazione di Proteo. In ciò egli presagisce più della mera distruzione di forma creata, che del resto anche Ia morte distrugge, presagisce i messaggeri di un attacco generato dal fondo originario. È lo stesso brivido che lo assale alla vista del serpente”.
29. Ivi, 230 [8, 598].
30. Sulla storia e sulla funzione dell’uomo di vetro si veda R. Beier, M. Roth, a c. di, Der gläserne Mensch – eine Sensation. Zur Kulturgeschichte eines Austellungsobjekts, Stuttgart 1990. È interessante osservare che nella lingua tedesca contemporanea Gläserner Mensch è proprio alla base di una serie di espressioni (Gläserner Bürger ecc.) che fanno riferimento alla condizione di assoluta trasparenza e fragilità cui è ridotto il singolo essere umano nella società dei controlli.
31. E. Jünger, Sul dolore, in Id., Foglie e pietre, cit., 177, [7, 183].
32. Ibid.
33. La concezione jüngeriana della fotografia, mostra notevoli affinità con le riflessioni di Walter Benjamin e in particolare con i saggi L’opera d’arte nell’era della sua riproducibilità tecnica e la Piccola storia della fotografia. Per un esauriente confronto tra Benjamin e Jünger sulla questione della guerra e della tecnica e una puntuale ricostruzione della ricezione benjaminana di Jünger cfr. G. Gurisatti, Divergenze parallele. Appunti su guerra e tecnica fra Benjamin e Jünger, in M. Guerri, a c. di, La mobilitazione globale. Tecnica, violenza, libertà in E. Jünger, Milano - Udine, pp. 91-118.
34. E. Jünger, Sul dolore, in Id., Foglie e pietre, cit., 177 [7, 183].
35. E. Jünger, Al muro del tempo, cit., 230 [8, 597].
36. Ivi, p. 268 [8, 655].
*da E. Jünger, E. Schultz, Il mondo mutato. Un sillabario per immagini del nostro tempo, a c. di M. Guerri, Milano 2007, volume pubblicato in occasione della mostra La violenza è normale? L’occhio fotografico di E. Jünger (ex chiesa di San Carpoforo, Accademia di Belle Arti di Brera, Milano).
Per citare questo articolo / To cite this article: Maurizio Guerri, La violenza è normale? L’occhio fotografico di Ernst Jünger, “La Rivista di Engramma” n. 127, maggio-giugno 2015, pp. 289-305 | PDF dell’articolo