"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

127 | maggio/giugno 2015

9788898260720

L’inchiostro fosforescente di Jünger, Warburg e Brecht

Peppe Nanni

La descrizione del misterioso con mezzi logici
può riuscire solo ove si faccia uso di inchiostro fosforescente
Ernst Jünger, Epigrammen da Blätter und Steine, 1934

Seguendo le impronte del percorso di Jünger, Warburg e Brecht comprendiamo presto di trovarci nella scia di tre diversi tracciati di rilevamento sismografico che registrano, con strumentazioni, figurazioni e apparati poetici differenziati, la stessa morfologia delle trasformazioni che sovvertono e spaesano il panorama di una Terra fino a quel momento “ben fondata”.

La gamma degli strumenti messi in opera nelle officine dei tre intellettuali corrisponde alla molteplicità delle linee di frattura che si propagano dalla conflagrazione della Prima guerra mondiale e che non potrebbero più essere affrontate con le armi ormai spuntate di un patrimonio, stancamente tramandato, di antiquati criteri morali scientifici o artistico-letterari.

Nel clima di estrema pressione esercitata dagli eventi, l’intelligenza umana pare sollecitata a tentare un salto esponenziale, per dotarsi di un nuovo armamentario, un habitus di più acuta sensibilità estetica intrecciata con i meccanismi della tecnica. Lo scenario di sfida che si è così improvvisamente aperto non potrà trovare risposte adeguate se non nella difficile e sempre precaria sintesi di nuovi mezzi materiali e innovate facoltà intellettuali, in un atto di creazione tendente a superare contemporaneamente sia le aporie del vecchio umanesimo sia i limiti del più ingenuo positivismo e progressismo.

Si inaugura allora un mondo nuovo, pericoloso perché energetico, ma anche energetico perché pericoloso. Sotto il nome fascinoso e terribile di “mobilitazione totale” i nostri autori presagiscono l’inquietudine costitutiva del paesaggio lunare che le prime vampate della Grande Guerra insediano eruttivamente nel cuore di un’Europa ingessata nel clima da operetta della Belle Époque, in una più o meno felice, più o meno ipocrita, vacanza dalla Storia (un cliché peraltro ricorrente, come sappiamo, e sempre destinato a infrangersi in bruschi risvegli).

Come spesso succede, di fronte all’ansia ingenerata da una situazione di pericolo estremo e dai contorni sfuggenti, molti hanno invocato soluzioni irrimediabilmente troppo semplici e troppo facili: richiamare la saggezza e il buon senso di epoche trascorse, illudendosi irenisticamente che l’apocalisse potesse essere sventata dall’appello al buon cuore degli esseri umani e alla volontà comunitaria di religiosa fraternità, condita con qualche maiuscola dichiarazione sui Diritti dell’Uomo. Altri, al contrario, si sono abbandonati all’istinto barbarico proveniente dagli strati geologicamente più antichi del cervello, assecondando un primordiale istinto predatorio e omicida. Ma il più delle volte, le due strade si sono dimostrate esattamente parallele e le declamazioni idealistiche hanno coperto il rumore degli spari, in perfetta sincronia. Infatti, nello svolgimento storico successivo, sarà proprio la piatta inadeguatezza di soluzioni troppo semplici e troppo unilaterali a mantenere il demone della mobilitazione totale in uno stato di ingovernabilità letteralmente disastroso.

Contemplando lo spettacolo incredibile degli episodi di immane distruzione dell’ultimo secolo, non vale l’atteggiamento di chi vorrebbe rannicchiarsi in attesa che passi l’ondata, oppure trincerarsi cinicamente nella vita confortevole che il rapido susseguirsi di applicazioni tecnologiche ha consentito negli ultimi decenni: tutti siamo comunque coinvolti, ci ricorda Maurizio Guerri, e stiamo vivendo un cocktail micidiale di comfort e terrore. Con le parole di Jünger:

L’uomo tende a rimettersi agli apparati e a far loro posto anche quando dovrebbe attingere alle proprie intime risorse. Da prova in tal modo di mancanza di immaginazione. Eppure dovrebbe conoscere i punti in cui non è lecito mercanteggiare la propria sovrana libertà di decisione. Fintantoché regna l’ordine, l’acqua scorre nelle tubature e la corrente arriva alle prese. Non appena la vita e la proprietà sono in pericolo, come d’incanto un allarme chiama i vigili del fuoco e la polizia. Ma il grande rischio è che l’uomo confidi troppo in questi aiuti e si senta perduto se essi vengono a mancare. Ogni comodità ha il suo prezzo. La condizione dell’animale domestico si porta dietro quella della bestia da macello. (E. Jünger, Il trattato del ribelle [1951] 1990, 40)

È un fatto notorio che chi antepone la sicurezza alla libertà finisce col perdere l’una e l’altra. La percezione falsificata della realtà provoca un ottundimento psichico e un’estroflessione violenta del disagio, che vela allo sguardo le ricadute della violenza tecnologica sugli altri, apparentemente lontani e distanti perché la vicinanza dell’umanità è filtrata da un sistema mediatico sempre più pervasivo e perciò sempre più implicato in strategie di comunicazione egemoniche e implicitamente totalitarie che, nel momento stesso in cui connettono realtà geograficamente distanti, allontanano dalla sensibilità nervosa ed emotiva gli effetti dell’esercizio sistematico della violenza su scala planetaria.

Tecnica e globalizzazione. Come avevano già preconizzato Warburg, stigmatizzato Brecht, e visto lucidamente – nelle sue profetiche visioni – Jünger, la tecnica non è mai neutrale ma è sempre attraversata dal conflitto: non a caso Internet nasce come sistema di collegamento militare; e il processo di straordinaria appropriazione democratica che ne sancisce lo sviluppo trova contrasto nei crescenti ostacoli normativi al suo esercizio, nonché nella vantata diffidenza conservatrice di quanti giacciono inariditi nell’Ade della imaginatio. L’accasamento in abitazioni sempre più domotiche convive con la sistematica distruzione di dimore altrui, non solo di ‘nemici’ ma addirittura di familiari di ‘nemici’, secondo codici ancestrali di vendetta parentale praticati con droni sempre più sofisticati, in una miscela di arcaico e supermoderno.

Certo che è una via impraticabile quella del ritorno alla società preindustriale, che era funestata da altri demoni, i quali, soltanto per essere stati dimenticati, non erano meno feroci di quelli che oggi ci troviamo ad affrontare. Il dilemma che pone un mondo energeticamente mobilitato non può essere risolto una volta per tutte, ma chiede di essere affrontato come un compito che esige una continua mobilitazione delle energie civili. Nel cuore dell’universo tecnico l’obiettivo è, ancora, prendere distanza dai demoni, convertire la loro energia e, anche in forza di quella potenza – come insistentemente indica Giacomo Marramao – “reincantare politicamente il mondo”.

Ma come incantare i nuovi demoni radioattivi – si chiedono Warburg, Jünger e Brecht già agli inizi del secolo scorso – e convincerli a mutare di segno, a diventare benevoli verso la Città? Il metodo suggerito dall’approccio degli ‘Atlanti’ è quello di coltivare una cartografia psicologica delle scoscese altitudini e latitudini dell’umanità contemporanea, in movimento di fronte alle vibrazioni, così intense e contraddittorie, provocate da uno scenario sconosciuto nel quale hanno fatto irruzione energie immense, prima impensabili. Che possono essere decifrate e riportate a un ordine umanamente leggibile solo con l’uso di tutte le risorse intellettuali, frequentando contemporaneamente prospettive, saperi, tecniche, poetiche di diverso orientamento.

Gli autori qui in dialogo hanno rinominato le figure del Mito, il nucleo di un logos avvezzo a trattare quelle energie elementari a lungo ignorate e che nel corso del Novecento sono scaturite con slancio simultaneo sia dalla profondità della psiche, sia dalle particelle della fisica, in cui amavano nascondersi. L’apparecchio con cui gli scienziati catturano le misure di quest’ultime è lo spettroscopio, un nome che potrebbe adeguatamente indicare anche la strumentazione della psicoanalisi. Da Acheronte si sono mosse forze titaniche, che rifuggono da ogni Forma compiuta:

Nonostante le onnipresenti prove di flagrante titanismo che abbiamo intorno, loro, i Titani, sono invisibili, come il nero cielo notturno di Urano, il loro terribile padre, nascosti dalla madre Gaia nella profondità del suo ventre. A volte sono immaginati in forma di fantasmi. Operano invisibilmente nell’oscurità e in impulsi e fantasie che affiorano dal profondo. […] I Titani, poiché sono invisibili, ovvero non hanno immagini, appunto per questo non hanno limiti. Privi di immagine, diventano pura espansione. (J. Hillman, Figure del mito, [2007] 2014, 13)

L’atteggiamento di Hillman nel trattare il materiale uranico che agita il sottosuolo della contemporaneità è perfettamente consonante con il metodo della “scienza senza nome” di cui Warburg ha fornito le coordinate nella sintesi suggestiva di Atene e Alessandria: tecnica e persuasione magica, logos e insieme pathos. Una tessitura compatta dove la geometria logica sostiene la produzione di immagini capaci di dare forma al Mondo, sbrogliando il groviglio di tremendo e di fobico che si alimenta con i flussi di energie ancora indeterminate, che paiono sottrarsi all’intellegibilità umana.

Per essere all’altezza della situazione, occorre costruire concetti e creare immagini adeguate a contenere e indirizzare il magma che ha rotto la crosta della vecchia civilizzazione, di una normalità ottocentesca che non ha retto più la struttura di un mondo geologicamente mutato, con altre scale di intensità e più alte temperature sociali, estetiche, culturali e materiali.

A maggiori pericoli corrispondono maggiori possibilità. Irrigidirsi nella paura e nel lamento impotente, ostinarsi nella sterilità di posture consumate, rinunciare all’istinto progettuale, significherebbe perdersi. Ma questa condizione di tensione esistenziale è rischiarata anche da una sua luce particolare in cui si esprime la difficile bellezza dell’avventura umana. Come dice Bertolt Brecht – in un brano della poesia An den Schwackenden (A chi esita) ripreso con la voce di Toni Servillo nel film di Roberto Andò, Viva la libertà (2013) – questa risposta così politica “non può essere quella di un altro, può essere solo la tua”.

L’appello alla risposta personale è il necessario punto di partenza. La prima responsabilità spetta all’impegno critico soggettivo, almeno da quando le bussole dell’età precedente si sono rivelate inservibili, da quando è conclamata la morte dei luoghi comuni, da quando è evidente che il re non solo è nudo, ma che è un “Vecchio malato, dal cuore indurito che spesso si traveste ed è indistinguibile da un Vecchio saggio infermo” (James Hillman). Quel duro principio di autorità – che ancora abita, in figure diverse, i palazzi del potere, ma che è ancora bene insediato al centro della nostra psiche – va smascherato e definitivamente detronizzato. Però in questo immenso scenario da soli non ci si salva: la mobilitazione delle risorse interiori acquista senso e fruttuosa efficacia se si mette generosamente al servizio di una causa più vasta, dove le intuizioni soggettive si incontrano nella riscoperta di un’impresa condivisa – impresa corale e politica, non la vana arroganza di un gesto solitario e onnipotente che avrebbe, nuovamente, carattere titanico.

Secondo la prognosi dei nostri autori, per non cedere alla tentazione del solipsismo titanico e comunque per non cadere vertiginosamente vittima dei Titani – per non vivere i suoi ultimi giorni – l’umanità deve trovare nuovi occhi e adeguare il pensiero all’ampiezza di una percezione sensoriale ed estetica più intensa e profonda. E non è detto che il repertorio ufficiale della tradizione abbia trattenuto in sé elementi utili per una situazione senza precedenti come quella che si profila: meglio scommettere sulle latenze meno scontate, sulle risorse più eccentriche che hanno clandestinamente viaggiato nel tempo con il Dna culturale, nell’ombra del Canone, spesso in posizione antagonista rispetto alla retorica anestetizzata del senso comune. Per esorcizzare i Titani, per dare corpo e limiti al loro aspetto fantasmagorico e terrorizzante, le nozze di Immaginazione e Intelletto dovranno essere sorprendenti, scintillanti e incantevoli. Già Giordano Bruno aveva avvertito:

Si presentano a noi cose, segni, immagini, spettri, ovvero fantasmi. [...] Non senza motivo Socrate definì l’oblio come una perdita di percezione; ma se per la stessa ragione avesse definito anche il seme del memorabile sparso e non concepito dalla memoria, egli avrebbe certo indagato il tema più in profondità. Se infatti la fantasia non bussa con vivacità sufficiente avvalendosi di immagini sensibili, la facoltà cogitativa non apre le porte e, se la facoltà cogitativa che è la custode non apre la porta, la madre delle Muse, sprezzando simili immagini non le accoglierà. (Giordano Bruno, Sigillus sigillorum ad omnes animi dispositiones comparandas, 1583, 11, 19-20)

Di fronte alla fragorosa e colossale avanzata dei Titani, siamo inermi perché siamo smemorati. La linea di fuga dallo scacco pretende l’attivazione di un raccordo con il linguaggio e le immagini del mito, filtrato con le lenti della modernità avanzata. Si chiede ancora Hillman, nella stessa prospettiva dei nostri autori:

Perché toccò a Zeus salvare il mondo dai Titani? Non per la sua forza, secondo me, per i suoi fulmini, per la sua intelligenza scaltra né per la sua funzione di legge e ordine, bensì piuttosto per la sua capiente immaginazione. […] La gamma della sua fantasia era inclusiva, ampia, generosa e differenziata. Zeus era davvero un dio del cielo; copriva tutto con l’ampiezza della sua facoltà immaginativa, era pari, nella sua grandiosità articolata, alla enormità titanica. La smisuratezza titanica può essere abbracciata e contenuta soltanto da una capacità altrettanto vasta di creare immagini. [...] La coscienza improntata a Zeus è attiva; terragna, aperta, presente. Zeus genera attivismo e militanza, il che ci insegna qualcosa su come far fronte al titanismo: non con il ritiro, la meditazione, la psicoanalisi, né con la speranza nel Regno a venire. (J. Hillman, Figure del mito [2007] 2014, 134)

I Titani – l’onda indifferenziata e omogenea del gigantismo, la sua brutale semplicità – possono essere imbrigliati dalla grandiosità articolata e complessa, da un ordine pluriverso congegnato per contenere e catturare le insorgenze telluriche nella tessitura ifologica di una rete elastica e strutturata, di un sistema di canali e chiuse nei quali convogliare e dosare le energie elementari, mutando il veleno in antidoto. Per vincere l’orrore serve generosità immaginativa, pensiero includente, strategia dell’accoglienza che si realizza assegnando un posto nel Mondo anche a quelle potenti forze, che, intanto, è giusto combattere, riconoscendo anche a Marte quel che è di Marte.

Le parole opportune scandite al momento opportuno e le immagini che producono incanto e persuasione: letteralmente, un dispositivo ideo-logico. Un eroico furore che fonde insieme rigore e passione, persistenza strategica e sorpresa tattica, fredda precisione chirurgica e intuizione folgorante. Questa è la coraggiosa arte politica che Jünger, Warburg e Brecht mettono in campo con sguardi e voci stereoscopici, confidando – nel ricordo di Cadmo che sconfigge il Titano Tifone, quando Zeus giace a terra, ormai battuto – che alla fine spetterà ancora all’uomo, non agli dèi, salvare l’armonia del Mondo, per un interminabile istante.

Per citare questo articolo / To cite this article: Peppe Nanni, L’inchiostro fosforescente di Jünger, Warburg e Brecht, “La Rivista di Engramma” n. 127, maggio-giugno 2015, pp. 289-305 | PDF dell’articolo