"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

127 | maggio/giugno 2015

9788898260720

Ad occhi (aperti) chiusi

Presentazione del video “Figli di Marte”

Stefania Rimini

Ma questo ronzio, questo ticchettio perpetuo, si dice
che non è naturale tutta questa furia turbinosa,
tutto questo guizzare e scomparire d’immagini.
Luigi Pirandello, I quaderni di Serafino Gubbio operatore (1925)

L’immaginario di guerra è saturo, a causa di una lenta, inesorabile, accumulazione di tracce iconiche. YouTube è un deposito eccezionale di scorie visive, il generatore di un infinito intrattenimento panottico. Tutti noi abbiamo lo sguardo invaso da pictures of war, al punto da aver quasi maturato una sorta di nausea che però – lungi dal proteggere la mente e gli occhi – rischia di renderci ciechi di fronte all’orrore. Ha ragione Leonardo Sciascia quando scrive che bisogna imparare a “leggere le immagini” e in fondo la stessa premura anima i fototesti di Warburg, Jünger e Brecht che costituiscono l’anima di questa mostra. Soltanto riconoscendo la pregnanza espressiva delle immagini, il loro specifico codice di senso, è possibile esercitare fino in fondo l’atto di vedere.

La scelta di affidare la conclusione provvisoria del percorso espositivo a un video si lega al bisogno di mettere alla prova gli effetti del cinema-dinamite di cui parla Walter Benjamin – di testare cioè la capacità del cinema di rinnovare l’esperienza della modernità. Il video si ispira al principio bressoniano del ‘trapianto’ (“Le immagini e i suoni si rafforzano trapiantandoli”) e così prova a costruire un racconto fatto di innesti, di tagli, di rime.

Il dettaglio degli occhi prelevato dal Ballet mécanique di Fernand Léger è una sorta di Leitmotiv che guida lo spettatore alla ricerca di uno spazio-finestra da cui osservare lo spettacolo della strage e della tecnica: il cinema, come già la fotografia, convoca chi guarda ponendolo di fronte a un gesto di responsabilità, cioè l’assunzione di un punto di vista. La prospettiva messa in campo dai “Figli di Marte” è senz’altro ambigua, eccentrica, eterodossa – del resto la singolarità di Warburg, Jünger e Brecht risiede anche nell’assunzione di una posizione dialettica rispetto al proprio tempo – e allora la domanda radicale da cui prende le mosse il racconto per immagini ha a che fare con la scelta di un luogo e di una modalità di messa a fuoco del mondo. Non a caso accanto allo sguardo ubiquo di Léger, ai suoi occhi aperti chiusi, si situa il Kinoglaz (Cineocchio) di Dziga Vertov, emblema di una straripante eccedenza visiva a servizio di una “cinematizzazione delle masse”. Per Vertov il cinema non recitato consente di cogliere il “ritmo interno” delle cose, i “movimenti necessari” che de-limitano l’accadere della vita: l’elogio della macchina non è fine a se stesso ma si spiega alla luce della possibilità del medium di far vedere l’invisibile. La riproducibilità tecnica del cinema diviene, nell’ottica vertoviana, principio di conoscenza, condizione essenziale della colluttazione delle immagini con la realtà.

L’omaggio a Vertov, alla sua utopia di cinema politico, non si esaurisce in rapide epifanie di occhi e trivelle ma sostanzia l’intero puzzle costruito a partire dalla relazione tra forme espressive e mondo reale, e soprattutto a partire dal rapporto tra il carattere testimoniale della registrazione meccanica e quello creativo e costruttivo del montaggio. Convinti con Delluc che il cinema sia industria espressiva capace di tendere “alla perfezione simultanea dell’arte e del traffico”, abbiamo cercato di creare una continuità di attrazione fra immagini di grana diversa nel tentativo di restituire l’opacità del mondo mutato dal conflitto e insieme il fulgore di un’umanità attiva, in grado di resistere allo schianto. In questa alternanza fra devastazione e energeia si fa largo la lieve parabola chapliniana, nella doppia declinazione di soldato e operaio: l’incantata leggerezza del suo corpo-marionetta dispiega istanti di pura grazia, che valgono a riscattare il destino della terra desolata.

Gli appunti visivi giocano con immagini di repertorio, fotografie, quadri, sequenze di film, che diventano brani di una fantasmagoria in progress, in attesa di nuove annotazioni, di più audaci transizioni. Il dialogo con l’ambiente sonoro costituisce un’ulteriore deriva di senso, che assegna a ciascun visitatore una irripetibile esperienza audiovisiva, un personalissimo intervallo di sguardo e di ascolto. La voce delle immagini è altrove, nel fuori campo del mondo, nei rumori di fondo che confliggono con la banalità del quotidiano.

L’asimmetria fra tracce acustiche e frammenti visuali è l’esito di quel bombardamento percettivo che ha segnato profondamente il Novecento, e che oggi rischia di condurci a un punto di non ritorno. L’antidoto all’alienazione è l’anarchia di un’intelligenza mobile, aperta, plurale: per questo abbiamo provato a ‘riciclare’ le immagini, a liberarle dall’abitudine del tempo e a rimontarle secondo una logica della variazione, della contaminazione. Per cogliere il “tremendo amore della guerra” serve la libertà di occhi aperti chiusi, ancora una volta eyes wide shut.

Sequenze tratte da:
Shoulder Arms, di Charlie Chaplin (1918); Modern Times, di Charlie Chaplin (1936); Ballet mécanique, di Fernand Léger, Dudley Murphy (1924); Человек с киноаппаратом, Chelovek s kino-apparatom, di Dziga Vertov (1929); Der Himmel über Berlin, di Wim Wenders (1987); Full Metal Jacket, di Stanley Kubrick (1987); 2001: A Space Odissey, di Stanley Kubrick (1968).

da un’idea di Monica Centanni e Stefania Rimini
montaggio di Simona Sortino e Angelica Basso