"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Il ricordo iconico bizantino nelle Madonne di Paolo Veneziano e di Giovanni Bellini

Elisa Colla

English abstract 

Lo studio svolto dal maestro trecentesco Paolo da Venezia e le innovative proposte iconografiche rinascimentali avanzate da Giovanni Bellini sul soggetto figurativo della Vergine col Figlio scandirono il passaggio attraverso il quale il Medioevo bizantino consegnò all’Occidente le sue matrici iconografiche a tema mariano. Il lavoro di questi due artisti sulla elaborazione formale dell’immagine si configura come testimonianza principe di una interferenza del canone bizantino sulla produzione pittorica lagunare.

L’intero corpus delle loro opere potrebbe essere oggetto di un’analisi comparativa in questa direzione, ma alcuni esemplari, sui quali si vuole richiamare l’attenzione, offrono la possibilità di sciogliere in maniera più esplicita il rebus dei prestiti orientali. Tra queste, in primis, la Madonna col Bambino e committenti di Paolo Veneziano  e la Madonna Contarini di Giovanni Bellini , ambedue conservate presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia.

 

Nel primo caso siamo di fronte a una delle opere più monumentali di Paolo Veneziano: decisamente orientale nell’iconografia, la tavola raffigura la Vergine in trono, dotata di un clipeo entro il quale è raffigurata l’immagine del Bambino benedicente rivolto verso i committenti, che si trovano in ginocchio sulla sinistra della figurazione. Mentre lo svolgimento stilistico assume i caratteri tipici di un’immagine occidentale, per via dei morbidi passaggi chiaroscurali del viso e della sinuosità delle pieghe del vestito, che scandisce un ritmo lineare di ascendenza gotica, l’impronta iconografica, seppure decisamente tradita, recupera l’ascendente bizantino ortodosso della Madonna Blachernitissa o Vergine del Segno, pur se sovrapposta all’immagine, più comune in Occidente, di una Vergine in trono. Si tratta di una tipologia mariana fortemente simbolica: la presenza del disco con l’immagine del Salvatore posto all’altezza del ventre della Madonna, infatti, allude direttamente al ruolo riconosciuto alla Vergine Maria quale veicolo terreno per la venuta di Gesù Cristo. Tale precisazione iconografica ne farebbe il contrassegno rispetto al dogma dell’Incarnazione.

  

La comparsa figurativa dell’immagine della Madonna, d’altronde, fu da sempre strettamente legata al tema cristologico: storicamente solo in seguito alla proclamazione dell’Unità del Verbo incarnato, avvenuta nel 431 d.C. in occasione del III Concilio ecumenico riunitosi ad Efeso, le fu attribuito legittimamente l’appellativo di Theotókos, ovvero Madre di Dio. Da allora in tutto il mondo cristiano si ammise la sua rappresentazione con il Bambino in braccio all’altezza del grembo in qualità di significante rispetto al suo ruolo di mediatrice terrena.

L’immagine della Vergine col Bambino in grembo della tavola di Paolo Veneziano propone dunque un modello iconografico mariano ampiamente diffuso, ma la presenza del disco, in virtù della sua eloquenza morfologica, aggiunge un’ulteriore precisazione riguardo la paternità e la cronistoria della matrice, legandola indissolubilmente al retaggio bizantino di epoca ortodossa: fu questa, infatti, una delle icone mariane appartenenti al corpus di figurazioni sacre di ascendenza orientale che nel IX secolo furono dichiarate legittime in occasione della Proclamazione dell’Ortodossia, avvenuta nell’843 a seguito della disputa iconoclasta. In risposta alla confusione iconologica venutasi a creare nei secoli, la Chiesa orientale era intervenuta codificando una precisa sintassi figurativa che facesse delle immagini la traduzione grafica dei principi dogmatici cristiani. In questo caso, infatti, l’effigie del Cristo Bambino trasportata entro il clipeo posto all’altezza del ventre della Madonna palesa l’idea della potenziale maternità di Maria (Sendler 1992-1995).

Nella sua Madonna con Bambino e committenti, dunque, Paolo Veneziano si appoggiò alla tipologia della Madonna in Maestà, tanto cara alle committenze occidentali di inizio Trecento, ma ne tradì la morfologia in virtù di una commistione con la matrice della Blachernitissa, aggiungendovi il clipeo con l’effigie del Bambino benedicente.

Al tempo stesso, però, il modello subisce uno scarto ulteriore: la postura dell’Uno e dell’Altra si scosta da quell’allineamento dei corpi suggerito dal prototipo, nel quale metaforicamente era posto ad indice dello stretto vincolo tra i due: questo semplice accorgimento contribuisce ad ammortizzare il modello bizantino togliendo ieraticità all’immagine in favore di una maggiore scioltezza e umanità della coppia.

Seppure la paternità del recupero resta palese, fu proprio in virtù di quest’ultimo accorgimento ‘traditore’ dell’iconografia originale che Paolo riuscì, in questo come in tanti altri casi, a gestire la grammatica figurativa ortodossa e ad accompagnarla all’incontro con l’Occidente trecentesco.

Un fenomeno di contaminazione analogo per intensità, ma profondamente diverso nella forma, avviene nel caso della Madonna Contarini di Giovanni Bellini, sempre alle Gallerie dell’Accademia. Qui la tipologia ortodossa rivisitata è quella della Vergine Kyriotissa o Madonna Stante.

L’ipotesi secondo la quale per la realizzazione di quest’opera Bellini rivolse il suo sguardo ai prototipi d’oltremare assume maggiore spessore se si prende in considerazione la committenza. Osservata da sola, questa Vergine viene frequentemente associata dalla critica alla Madonna con Bambino dell’Accademia Tandini, opera del padre oggi conservata a Lovere (Bergamo). Non è da escludersi, invece, che dovendo rispondere a una commissione della famiglia Contarini, Bellini si sia ispirato all’iconografia di una statuetta costantinopolitana di loro proprietà: secondo la leggenda, più di un secolo prima i fratelli Contarini avrebbero portato dall’Oriente un’immagine scolpita della Madonna per donarla alle sorelle presso il monastero di Santa Maria della Celestia (Guppernberg [1657] 1839-1847, 468). La piccola statua, della quale oggi si è persa ogni traccia, doveva essere (Guppernberg [1657] 1839-1847, 470) una Madonna che porta il Bambino benedicente leggermente scostato sulla sua destra (dunque dexiokratousa), molto cara alla famiglia patrizia e alla stessa cittadinanza veneziana, perché si credeva fosse dotata di poteri miracolosi. Bellini potrebbe avere qui risposto alla committenza recuperando proprio l’iconografia bizantina originale nella posa frontale del Bambino benedicente e nella postura delle mani della Vergine. Il contrassegno orientale si rivelerebbe anche nella bicromia dell’abito della Madonna, che si accosta a una consuetudine cara all’ortodossia bizantina.

La fortuna iconografica della tipologia della Kyriotissa in seno alla produzione figurativa di Giovanni Bellini fa sì che molti altri esemplari simili convergano verso il medesimo prototipo iconico, permettendo una più sicura identificazione dei prestiti iconografici: l’abitudine del pittore a una produzione seriale, infatti, aiuta enormemente un’analisi di tipo warburghiano, rivelando l’incidenza della matrice anche dove altrimenti non la si sarebbe riconosciuta. Molto attento alla corporeità dei due soggetti, il maestro quattrocentesco trovava in questa tipologia la possibilità di esprimere il gioco dello spostamento di peso del Bambino in braccio alla Madre e la fisicità dell’abbraccio di quest’ultima nel tenerlo stretto al proprio petto.

In realtà tutte le matrici bizantine recuperate dal Bellini furono sempre proposte in maniera nuova: non più la Vergine col Figlio inverosimilmente sospeso all’altezza del petto, come accadeva nell’icona orientale. Il pittore ricorse al sussidio di un parapetto marmoreo, sul quale appoggiare il Bimbo, costruendo così un’immagine finale a mezzobusto: il profilo della sua figura rimaneva incorniciato dal petto della Madre, ma il peso della sua nuova corporeità trovava utile ausilio nel freddo piano d’appoggio, sul quale poteva muoversi assumendo, così facendo, diverse posture. Il gioco di pose passava anche attraverso diverse morfologie spesso volutamente similari a quelle delle sorelle orientali, ma sempre l’iconografia originale si ammorbidiva perdendo la rigida fermezza congelata dell’icona in favore di una maggiore umanità della coppia.

Nonostante la copiosità delle varianti proposte in seno al corpus di opere belliniane, fu tale la fortuna della tipologia della Kyriotissa che si potrebbe a ragione circoscrivere un’intera famiglia di Madonne con Bambino da essa dipendenti. È nell’abbraccio della Vergine che stringe il piccolo Gesù che si rivela la chiave dell’identificazione e si ripristina l’autorevole paternità iconografica. Tra queste immagini, alcune rispettano ampiamente la matrice, soprattutto nella figura del Bimbo, il quale viene ritratto in posa sostanzialmente frontale e in atto di benedire alla greca: tra queste sono ad esempio la Madonna del Pollice delle Gallerie dell’Accademia di Venezia e la Madonna con Bambino benedicente del Rijksmuseum di Amsterdam.

 

In altri casi lo scarto è maggiore: tre Madonne col Bambino, conservate rispettivamente ad Amsterdam, Berlino e Verona, rispettano la teatralità dell’abbraccio, ma sciolgono la coppia in una torsione che in parte licenziosamente modifica e in parte esplicitamente recupera il prestito iconografico di altre tipologie mariane, seppure sempre di origine ortodossa.

Ulteriore conferma dell’interferenza bizantina contestualmente alle scelte figurative di Giambellino viene messa in evidenza da un’altra tavola, la cosiddetta Madonna Greca, un tempo custodita presso l’Ufficio dei Regolatori alla Scrittura nel Palazzo Ducale di Venezia e oggi conservata presso la Pinacoteca di Brera a Milano. Sebbene in questa Kyriotissa la stretta della Madre e la postura del Bambino siano diverse dalle precedenti, l’opera si inserisce in maniera legittima in un discorso di erudita citazione della matrice, recuperando, insieme all’abbraccio materno, altri elementi di ascendenza bizantina: dalla bicromia dell’abito della Vergine, alla comparsa di un telo di sfondo il quale, citato a simulazione della morfologia di un’icona, coerentemente ai modi ortodossi, legittima la presenza del monogramma mariano.

Infine, i caratteri distintivi della Kyriotissa si trovano svolti in maniera nuova in un’altra immagine che la propone sempre in coppia e in allineamento col Bambino benedicente, ma voltata verso sinistra rispetto all’osservatore. È il caso di due tavole molto simili, databili verso gli anni ottanta del Quattrocento: la Madonna col Bambino tra i santi Pietro e Sebastiano del Musée du Louvre di Parigi e la Madonna col Bambino benedicente della collezione Northampton di Castle Ashby nel Northamptonshire.

 

L’autorevolezza del recupero resta dunque evidente in ambedue i casi: sebbene con esiti diversi, tanto Paolo Veneziano quanto Giovanni Bellini seguirono nella loro carriera un atteggiamento altalenante tra citazione e negazione dell’iconografia e dell’estetica bizantina, stimolato dalla suggestione dialettica dell’ambiente veneziano. La città a partire dal XIII secolo pullulava di immagini iconiche, riprodotte in loco da una lunga tradizione di maestranze oppure giunte in originale dall’Oriente perché trafugate in occasione della IV Crociata. Tra queste ultime, ad esempio, risponderebbe all’iconografia citata dal Veneziano la famosa icona marmorea di Santa Maria Mater Domini, arrivata in quell’occasione a Venezia insieme a molti altri esemplari analoghi raffiguranti la Blachernitissa. Parallelamente la stessa icona Nicopeia di San Marco costituirebbe un valido precedente iconografico della Kyriotissa tanto cara a Giovanni Bellini.

  

Si tratta di matrici mariane molto rigorose che solo in Occidente avrebbero potuto prescindere dalla loro forma originale. L’impostazione iconografia ortodossa, infatti, codificava la portata simbolica della figurazione cristallizzandone le pose, i gesti e i rispettivi messaggi. In particolare, gli ortodossi erano convinti che il momento primo e più autorevole della manifestazione della sacra venuta di Cristo fosse quello del concepimento attraverso l’intervento dello Spirito Santo nel ventre di Maria. Per questo risposero a una tendenziale confusione iconografica sviluppatasi tra V e IX secolo ribadendo e intensificando una grande attenzione alla coppia Madre-Figlio attraverso la costruzione di un intero sistema di mezzi simbolici posti a vincolo della raffigurazione. Nacquero così quelle dodici tipologie iconiche della Madonna con Bambino, che tanto limitarono gli artisti in Oriente e che più tardi condizionarono la fantasia di molti altri nell’Occidente cristiano.

Dodici tipologie iconiche

In realtà il fenomeno fu molto più vasto di quanto possa sembrare a un primo sguardo: l’incidenza di una Maniera Greca aveva interessato nel XII e XIII secolo l’intera penisola, ma il fenomeno a Venezia fu molto diverso (Alpatov 1973, 1). Si trattò, innanzitutto, di un evento tardivo rispetto al resto dell’Italia: mentre altrove la moda bizantineggiante fu precoce e si limitò a una breve parentesi – presto superata per intraprendere il sentiero della spazialità e dell’umanizzazione del figurato – Venezia assimilò più tardi ma più profondamente quell’influenza che da sempre l’aveva interessata, seppure nelle forme di una silente filiazione.

Tuttavia, fu proprio in virtù di questo anacronismo che il panorama figurativo veneziano poté vantare un sostrato di suggestive compresenze, apparentemente antitetiche ma in realtà profondamente legate, in quanto figlie di uno stesso humus culturale: da una parte un riuso continuo dei moduli ortodossi – passivamente ripresi e riproposti – che nei secoli successivi prenderà maggiore coscienza di sé, venendo ulteriormente stimolato per mano della scuola cretese-veneziana dei madonneri (Bettini 1933, 51); dall’altra, un atteggiamento di non totale sottomissione rispetto ai modi bizantini in virtù di un’emancipazione figurativa capace di portare l’arte veneziana e la sua tradizione secolare di stilemi bizantini a un punto d’equilibrio con le nuove suggestioni figurative provenienti dall’entroterra (Lasareef 1965).

Appartennero a questa seconda corrente Paolo Veneziano e Giovanni Bellini, i quali si fecero portavoce rispettivamente della percezione culturale trecentesca e di quella quattrocentesca. A rendere anticonformista e per questo assolutamente rivoluzionaria la loro opera rispetto a quella dei loro coetanei fu non tanto il grado di apertura nei confronti di quell’autorevole eredità, quanto piuttosto la capacità di gestione della stessa. Seguendo due percorsi, diversi tra di loro ma ugualmente efficaci, essi codificarono fra Tre e Quattrocento le prime vere formule di parafrasi occidentale della tradizione bizantina giunta da Oriente.

La diversa contingenza storico-culturale fu sicuramente un utile incoraggiamento ai fini di questa rielaborazione. Analogamente a quanto avveniva per le icone bizantine, anche nel quadro occidentale il preannuncio della futura Passione di Cristo fu sempre un topos della raffigurazione della Madre col Figlio, ma profondamente diverse erano le modalità della comunicazione di questo messaggio. Isolato entro i confini di un oggetto simbolico o entro la parentesi di uno studiato gioco di sguardi dei soggetti, esso veniva reso esplicito senza che per questo l’intera raffigurazione ne fosse condizionata. Esaurita così la comunicazione, l’artista non si trovava più vincolato dal rispetto di una posa convenzionalmente portatrice di significato e poteva contemporaneamente fare appello a più tipi iconici, scegliendoli nel ventaglio dei modelli bizantini, o attingere alla propria fantasia.

Un’ampia esemplificazione permette di leggere nel corpus delle opere di entrambi una gamma di soluzioni originali nate come rielaborazioni sistematiche della morfologia ortodossa, ma non necessariamente legate al loro significato semantico originale.

Promotore e al tempo stesso primo codificatore di questa sapiente mescolanza fu proprio Paolo Veneziano, capace di trasporre in maniera creativa il retaggio bizantino combinandolo con le innovazioni gotiche che al principio del XIV secolo avevano rapidamente permeato l’arte veneziana (Lasareef 1954, 77). Con lui l’arte bizantina scivolò dolcemente in un primo incontro vero con la cultura trecentesca: il merito del maestro fu, infatti, quello di non essersi mai appropriato interamente di quell’eredità, della quale la città era tanto ricca, ma di averne derivate separatamente le diverse componenti, modificandole in senso gotico e quindi occidentale (D’arcais 1992, 25).

Nella pratica egli orientò il suo intervento a una rielaborazione interna alla matrice che potesse andare incontro ai tempi, a una società non ancora pronta al soverchiamento di un patrimonio tanto radicato: la sua scelta semplicemente ricadeva su quelle tipologie mariane che risultavano essere più inclini a suggerire un’umanizzazione dei soggetti, su quei tipi iconici cioè che, meno ieratici, già in sé si avvicinavano a quello ‘scarto’ di frontalità precedentemente citato (cfr. Madonna col Bambino e committenti delle Gallerie dell’Accademia).

L’intera produzione figurativa di Paolo Veneziano, dunque, si inserisce in maniera più che legittima nella traccia di questa analisi. Di questo grande pittore, considerato il padre del Trecento veneziano, conosciamo in realtà solo un brevissimo catalogo di dipinti sicuri (Muraro 1969, 103). L’assemblaggio di più matrici, pur nel rispetto sostanziale della grammatica bizantina, permise a Paolo Veneziano di ovviare al conservatorismo diffuso muovendo i soggetti delle figurazioni e cominciando a dare loro una certa fisicità.

Stilisticamente, dunque, la nuova fluenza della linea da lui proposta, che lasciava quasi immutata la somatica esterna, riusciva a conferire nuovi contenuti alle sue figurazioni, in armonia con le suggestioni derivanti dalla lezione giottesca, attivate in laguna attraverso l’arte padovana e riminese: l’allungamento delle figure, i lineamenti dei volti più incisivi, l’ammorbidirsi delle pieghe degli abiti, sempre più sinuose grazie alla perdita delle rigature dorate di origine bizantina, traslarono le matrici ortodosse in immagini trecentesche occidentali. Paolo rinunciò inoltre alla forma dell’antependium e dell’icona sostituendole con le forme tradizionali trilobate desunte dai polittici gotici.

Dal punto di vista iconografico, invece, egli continuava a dimostrarsi particolarmente fedele alle matrici di ascendenza bizantina. Mauro Lucco definì questo fenomeno come una sorta di "ispessimento improvviso delle cose", di "lievito occidentale […] entro i limiti inevitabili della vecchia morfologia bizantina" (Lucco 1986, 180) che diede alla pittura veneziana proprio questa validità di espressione ambivalente alla quale essa da sempre naturalmente inclinava.

Questa formula dette vita a una svariata gamma di soluzioni differenti. In seno all’intero corpus, però, un assemblaggio in particolare sembrava accontentare le esigenze del maestro trecentista, risultando di conseguenza di gran lunga preferita rispetto alle altre: vincolato da committenze decisamente conservatrici che chiedevano immagini in maestà, egli riusciva a svolgere in maniera più morbida il soggetto ponendo in trono la tipologia della Periblepta (c.1), variante ammorbidita della Odighitria (c.). Seguendo questa matrice, la coppia perdeva il suo ieratico allineamento per incontrarsi in una torsione delle pose e lo stesso gesto enfatico e funereo della Vergine poteva facilmente essere celato, secondo la prassi figurativa occidentale, dalla presenza di un oggetto, comunque codificato come simbolo della Passione di Cristo, nella mano della Vergine o del Bambino. Parallelamente, alla teatralità bizantina suppliva l’espressione patetica di una Madre che Paolo Veneziano voleva più umana, addolorata per il futuro del Figlio. Coerentemente con questa esigenza il maestro fece appello a un ulteriore prototipo iconico che si contraddistingueva per la sua espressione compassionevole: quello della Vergine Eleousa  (d.).

     

Se in Paolo Veneziano, come si è visto, l’elemento bizantino risulta ancora fortemente vincolante, lo stesso non si potrà dire un secolo dopo per Giovanni Bellini: analogamente al maestro trecentesco, Giambellino raccolse l’eredità bizantina e la propose all’Occidente in una veste nuova. Certamente la diversa contingenza culturale fece sì che gli esiti figurativi del maestro quattrocentesco fossero molto differenti da quelli del trecentista. Il clima culturale nel quale egli si trovò ad operare gli permise di liberarsi dalla gabbia dello stile gotico, che aveva invece tenuto prigioniero Paolo Veneziano, dimostrando una maggiore tolleranza nei confronti delle nuove sperimentazioni figurative dovuta all’incidenza della sensibilità umanistica e rinascimentale. Bellini, dunque, disponeva di una maggiore possibilità di traslazione stilistica dell’immagine in senso occidentale, alimentata anche dalla considerazione della diversa valenza delle immagini religiose in Occidente sulla base della quale nessuna ragione fu trovata perché si rispettasse per forza la sintassi della matrice orientale.

La teoria dell'icona secondo Uspenskij

Di conseguenza il suo filtro selettivo poté estendersi anche alle tipologie più ieratiche che furono sottoposte ad una radicale metamorfosi formale: alla semplice assimilazione e ripetizione del modello, già ampiamente compromessa dal Veneziano, si passava così definitivamente alla sua traslazione attraverso il filtro della lezione umanistica.

La possibilità d’intervento aprì a Bellini la strada per la formulazione di una versione nuova e decisamente occidentale dell’icona bizantina. Egli però amava il recupero di quella così autorevole eredità e fu molto attento a rendere la sua traduzione spiritualmente compatibile con i prototipi costantinopolitani. A ragione Peter Humfrey, che lo definiva il più innovativo tra i pittori veneziani del XV secolo:, disse che vi era "un elemento arcaico nella sua arte, fors’anche rintracciabile nell’iconica lontananza […] dell’eredità bizantina nella pittura veneziana" (Humfrey 1987, 184).

La presentazione della coppia divina rivelava la paternità del modello, ma contemporaneamente perdeva quella teatralità enfatica che ne aveva fatto in Oriente un’immagine irreale, palesemente disturbata dal messaggio di predestinazione, e si avvicina a quella di una vera madre che regge e gioca col figlio. Non più, quindi, la dichiarata offerta della Basilessa e della Blachernitissa, che portano in grembo il Salvatore e lo mostrano all’umanità; non più il funesto preannuncio dell’Odighitria, che indica al Figlio il suo futuro di Passione. In sostanza, era la grammatica dell’immagine ad essere diversa, in quanto totalmente slegata non solo dalla sintassi iconica, ma anche dal vincolo della sensibilità formale di ascendenza gotica.

Quell’avvicinamento al Divino, che nelle immagini orientali era favorito da una veste grafica e bidimensionale in grado di stimolare la trascendenza della preghiera, Bellini lo ottenne seguendo il percorso inverso: egli volle appoggiarsi ai sensi e creare una dimensione spirituale invitando il fedele in una particolare contingenza terrena. Egli negava il grafismo ortodosso e i pesanti fondali dorati delle icone per affidare invece l’idea del Divino a una fisionomia più umana, quotidiana e discreta, resa eterea perché immersa nella luce impalpabile di cieli limpidi e paesaggi collinari dell’entroterra veneto.

La religiosità piena di Bellini umanista quattrocentesco si realizzava allora nell’interiorità del fedele. Il ricordo iconico di un colloquio esclusivo con la dimensione del Sacro si tradusse in una relazione di tipo prossemico con l’immagine: il connubio sigillato da Bellini tra l’arte veneziana e l’arte ortodossa prevedeva infatti, a fianco di una serie di licenze stilistiche e formali, anche un discreto rispetto della vita mistica dell'immagine iconica. Seduta con il Figlio in grembo o appoggiata a un davanzale, la Vergine appariva in realtà isolata dal contesto paesaggistico, con il quale non dimostrava instaurare alcuno scambio, proprio in virtù di un rapporto frontale con lo spettatore.

La presenza di un telo sospeso a mezz’aria dietro le sue spalle sanciva la sua dichiarata separazione dallo sfondo avvicinandola prepotentemente all’osservatore e inquadrandola in una cornice che ricordava decisamente il profilo di una tavoletta bizantina, accompagnata talvolta anche dal monogramma mariano. A ragione Renato Ghiotto disse che "dietro alle figure il paesaggio, tagliato a metà e costretto in bande laterali o tutto spiegato a cielo aperto, ci dice che la Madre di Dio è scesa dalle icone" (citato in Pignatti 1969, 7). Assorbite in questo contesto, le numerose Madonne belliniane diedero vita a una nuova dimensione figurativa dell’immagine devozionale, una vera e propria ‘icona belliniana’. Pur accogliendo la consuetudine dell’uso di oggetti simbolici in allusione alla Passione di Cristo (la mela, la pera, il melograno, ecc.), le ‘nuove icone’ rifiutarono tutto ciò che era superfluo e ornamentale per articolare il figurato in una varietà di pose ed espressioni che risultassero più umane, come in una personale meditazione dell’artista sul mistero della maternità.

Lo si è visto parzialmente nel caso principe della Vergine Kyriotissa, ma lo si può constatare in maniera più puntuale in seno a molte altre immagini. Un primato esemplificativo per l’icona belliniana spetta alla Madonna col Bambino benedicente che si conserva a Milano presso la Pinacoteca di Brera.

Come da prassi, Bellini recuperava una tipologia bizantina tradendone la canonicità: essa, infatti, raffigura la Vergine in Maestà (a.) con il Bambino benedicente alla greca in piedi sulle sue ginocchia (p.) e spostato sulla destra rispetto alla Madre (dx). Datata negli anni a cavallo tra Quattro e Cinquecento, quest’opera illustra in maniera più che esplicita tutte le caratteristiche topiche della ‘nuova icona’ di cui detto sopra. In questo caso, inoltre, il prelevamento della coppia dal paesaggio risulta in evidenza non solo per via del telo che la sospinge in primo piano, ma anche grazie a un’illuminazione particolare che, proveniente da sinistra, risulta esclusiva del primo piano ed estranea rispetto alla luce diffusa dei campi retrostanti.

Come ultimo esempio al termine di questa lunga carrellata, per chiudere la parabola iniziata dal Veneziano e completare degnamente il confronto evolutivo con la produzione quattrocentesca del Giambellino, si propone qui proprio l’analisi della versione belliniana della tipologia della Periblepta, che si è visto essere particolarmente gradita a Paolo Veneziano. Si tratta della Madonna Morelli, conservata alle Gallerie dell’Accademia.

In questa tavola il paesaggio è drasticamente ridotto a favore di un inquadramento quasi esclusivo dell’immagine devozionale: torna quindi prepotentemente il parapetto marmoreo in presenza del quale la figurazione recupera il profilo di un soggetto a mezzobusto dalla morfologia tipicamente iconica. Osservando bene, infatti, si potrà notare che la postura del Bambino, scostato a sinistra e girato di tre quarti, e la mano della Madre, posata appena sul suo pancino, recuperano i caratteri topici di una Periblepta (c.1), seppure tradita nella sua gestualità enfatica.

Concorre in questo riconoscimento il ricordo visivo della Madonna Crespi del Fogg Art Museum di Cambridge. In accordo con la matrice ortodossa il Bimbo perdeva la sua frontalità per lasciare in evidenza il gesto-guida della Vergine mentre in alto, stampato sulla tela sospesa, compariva il monogramma mariano.

Se da un lato, quindi, Bellini dichiarava un umile rispetto per la paternità del modello, parallelamente egli rivelava qui la chiave di lettura del suo tradimento, utile strumento per la decodificazione di molte altre sue Madonne Mirabili. Analogamente a quanto era avvenuto nell’adattamento occidentale dell’abbraccio della Kyriotissa, così fu pure per il gesto della Periblepta: il gesto di 'Conduttrice' (c.) veniva ammortizzato dall’incontro con la mano del Bambino acquisendo di conseguenza una funzione di sostegno e quindi un senso realistico nel contesto della figurazione.

Fu questo il segreto di Bellini, il passo ulteriore che accompagnò quello già percorso un secolo prima dal Veneziano: al di là della traslazione stilistica, la morfologia bizantina sposava una fisionomia umana e come tale era necessario cercare una giustificazione verosimile alle sue posture: Bellini si dimostrò un eccellente avvocato in questa direzione.

La tradizione bizantina aveva trovato così una via d’ingresso legittimo nel mondo occidentale, lasciando una traccia di sé in una costellazione di movenze particolari. Uno sguardo panoramico sulle diverse Madonne belliniane permette di arrivare a una ricostruzione in parallelo dell’insieme delle tipologie iconiche ad esse corrispondenti, nonché di individuarne la mise en scène nelle opere del maestro: la vitalità di sentimenti e di azioni offerta dall’artista alle sue figurazioni ammortizzava nelle sue Madonne la gestualità canonizzata dell’icona bizantina, lasciandone solo l’impronta nascosta.

Bellini riuscì in questo modo a tessere una così sottile trama di riferimenti da fornire alle matrici orientali la veste adeguata affinché esse potessero essere rese conformi al gusto di un nuovo pubblico ed essere quindi consegnate a un’eredità più estesa nel tempo e nello spazio.

  English abstract

The passage by which the Byzantine Middle Ages delivered its iconographic Marian matrices to the West is permitted by the study of Paolo Veneziano and the iconographic innovations proposed by Giovanni Bellini.
Thanks to Paolo da Venezia, were born twelve iconic types of the Madonna and Child which influenced many artists in the Christian West;  Giovanni Bellini whereas is credited for having created an iconographic typology that, through some references, allowed the oriental matrices to conform to Western taste without leaving the Byzantine tradition. 

keywords | Bellini, Veneziano; Virgin; iconography

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Per citare questo articolo/ To cite this article: E. Colla, Il ricordo iconico bizantino nelle Madonne di Paolo Veneziano e di Giovanni Bellini, ”La Rivista di Engramma” n. 19, settembre 2002, pp. 7-24 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2002.19.0002