"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

La miniera memetica di Warburg

Collegamenti fra Mneme, memi e capelli mossi

Antonella Sbrilli

English abstract

Uno studioso è soltanto un modo in cui una biblioteca crea un’altra biblioteca
Daniel C. Dennett

Che il pensiero e l’azione conoscitiva di Warburg siano una miniera senza fondo è provato dalla quantità di indagini peculiari condotte da studiosi di varia provenienza intellettuale e dalla presenza diagonale del suo nome in simposi scientifici dedicati agli argomenti più diversi:

La duttile densità delle ricerche warburghiane è suscettibile di incontrarsi con tanti diversi paradigmi di metodo contemporanei (e certamente futuri), di supportare cortocircuiti interpretativi che producono spesso dei circoli virtuosi, degli anelli di conoscenza, in grado di rivelare al contempo: alcuni aspetti storici del lavoro dello stesso Warburg, alcune direzioni della cultura attuale, alcuni isomorfismi dell’attività cognitiva ed espressiva umana (HOFSTADTER [1979] 1984).

Per esempio, nel convegno “Types of phylogenic memory: the intersecting theories of memetics, morphic fields, semiotics, collective agency and theatrum mundi” (Spagna-Austria 2004-2005), Warburg è richiamato non solo in un saggio specifico (S. Lutschinger, Mnemic Inversions. A Lecture on Warburg’s Cultural Semiotics), ma anche, se pur di sfuggita, nell’ampia introduzione ai lavori, là dove Mnemosyne viene segnalato fra gli antenati del termine ‘memetica’ (Phylogenic memory 2004-2005).

La memetica (memetics in inglese) è una disciplina di recente fondazione, sviluppatasi nel corso degli anni ottanta e novanta del Novecento e che riguarda, in prima approssimazione, la diffusione per via imitativa di idee, linguaggi, pattern comportamentali ed espressivi. La memetica studia l’affermazione di pensieri, idee, figure, parole, lingue, atteggiamenti, come il risultato di strategie riproduttive di singole unità di trasmissione culturale, di mattoncini di informazione (in qualche metaforico modo analoghi ai geni) a cui è stato dato per l’appunto il nome di memi. La trasmissione culturale si compirebbe, da questa prospettiva, come riproduzione selettiva di singoli memi (luoghi comuni, idee, abitudini) o di complessi di memi (linguaggi, religioni, stili), in lotta per la replicazione.

Ammessa l’esistenza, o almeno l’operatività, dei memi nella trasmissione della cultura, la memetica indaga, ancora in analogia con la teoria genetica ed evoluzionistica, l’affermazione, la regressione, la mutazione, la sopravvivenza dei memi stessi, si interroga su quali siano i canali di replicazione e diffusione, cerca di individuare le aree del cervello coinvolte in quest’attività e da ultimo, se è mai possibile, tenta di riscontrare la natura fisica del meme.

Il concetto di ‘meme’ è apparso per la prima volta nel 1976, nel libro Il gene egoista del biologo evoluzionista inglese Richard Dawkins (DAWKINS [1976, 1989] 1995), e da allora meme e memetica si sono diffusi a macchia d’olio, evolvendo e modificandosi, contagiando disparati campi di ricerca.

Vedremo fra poco quali sono i maggiori contributi in questo settore, cercando di risalire alle radici che gli studi sulla memetica dichiarano di riconoscere nelle ricerche passate, ma prima, ancora un’osservazione. Qualunque giudizio si voglia dare su questa nuova branca del sapere, e sull’interesse o meno di seguire un collegamento di essa con Warburg, il solo fatto che il nome dello studioso amburghese sia emerso e continui ad emergere in questo come in altri contesti può essere una prova a posteriori, o perlomeno metaforica, del carattere memetico del suo pensiero. Latente per decenni, circoscritto in enclave ristrette, è riapparso in zone diversificate della cultura; da allora è soggetto a diffusione, replicazione, mutazione. Il corpus esteso e distribuito della sua opera (indagini + Biblioteca + Mnemosyne) è continuamente sondato anche alla ricerca di idee che perdurano, di intuizioni che riemergono e operano nell’attuale, come fossero dei memi che abbiano attraversato habitat sterili o avversi e siano sbocciati con il tempo e in condizioni più favorevoli.

Un esempio: gli stenografici appunti warburghiani per la disposizione dei pannelli di Mnemosyne non hanno forse in nuce la struttura dei flow-chart, i diagrammi di flusso usati per la costruzione di documenti ipermediali? E questa affinità non è diventata riconoscibile solo in questi ultimi anni, quando cioè si è affermato il ‘meme’ dell’ipermedialità, con il concetto di collegamento (link, Verbindung)?

Riconosciamo questa parentela perché, secondo l’affascinante analisi condotta da Pinotti in Memorie del neutro, nel capitolo “Colla licenza dei posteriori” (PINOTTI 2001, pp. 125 ss.), il presente modifica il passato e l’apparire di ogni nuova opera modifica la tradizione che la precede? Sicuramente quest’intuizione borgesiana è efficace riguardo ai prodotti del genio. Dal punto di vista della memetica, invece, esistono tante piccole unità senza autore (o il cui autore non è determinante), che stabiliscono delle famiglie di linguaggi e di comportamenti, attuando strategie di diffusione e sopravvivenza al di là della dimensione del singolo.

Vediamo allora di seguire alcune analogie fra la moderna memetica e la tela tessuta dall’inventore di Mnemosyne, senza che l’analogia diventi una camicia di forza, ma sperando invece che liberi la potenza conoscitiva che da sempre racchiude, come suggerisce da ultimo la studiosa del MIT Barbara Maria Stafford nel recente saggio L’analogia visuale: la coscienza come l’arte di connettere (STAFFORD [1999] 2001).

Memoria ereditaria?

Si può derivare da Warburg un ricco thesaurus di termini che indicano le relazioni fra una cosa e un’altra, per parallelismi, accostamenti, imitazioni, per collegamenti, derivazioni, riallacciamenti, annodamenti. E si può derivare un altro thesaurus, improntato ai termini della sopravvivenza, dell’innesto, della trasmissione generazionale, del passaggio, dell’albero genealogico intellettuale, della catena, della parentela, del filamento, della regressione, della variazione.

Sono tutti termini che richiamano evidentemente un rapporto con la cultura dell’evoluzionismo e con Charles Darwin. Tale rapporto è stato preso in considerazione a varie riprese, partendo dal giudizio espresso dallo stesso Warburg sull’utilità per lui della lettura del libro dello scienziato inglese L’espressione delle emozioni nell’uomo e negli animali. L’idea di fondo che deriva dalla constatazione di tale nesso, pur con tanti distinguo, è che il sistema darwiniano abbia offerto a Warburg lo spiraglio di una piattaforma biologica su cui appoggiare le sue osservazioni sulla permanenza delle formule di pathos e sulla derivazione di gesti e di espressioni patetiche da un fondo comune dell’uomo primitivo (su questo v. DIDI-HUBERMAN 2002, sia per il rapporto Warburg-Darwin, sia per i riferimenti al pensiero dell’antropologo Edward B. Tylor, il cui approccio, sia detto per inciso, viene preso in considerazione anche dagli studi sulla memetica).

Più in generale, l’impronta darwiniana (col suo portato di concetti quali sopravvivenza, variazione, ereditarietà) è stata riscontrata nel riconoscimento dell’“agonismo delle dinamiche culturali”, della “mimetica capacità di persistenza” di immagini e segni, della forza di sopravvivenza intrinseca che alcune forme e soggetti della tradizione figurale dimostrano nel corso del tempo e dello spazio.

Ma il ‘noo-nauta’ Warburg, esploratore sia della verticalità della storia, che della multidirezionalità di mente e memoria umane, getta nell’arena un altro concetto di assonanza scientifico-genetica: proprio nell’Introduzione all’Atlante Mnemosyne (di cui si veda anche la lettura e e il commento pubblicati da Engramma e disponibili in Engramma), nomina, in un passo spesso citato, il “patrimonio ereditario della memoria” (gedächtnisbewahrtes Erbgut).

Fa riferimento cioè a un’idea, indagata da scienziati a lui coevi, secondo la quale nella memoria si fissano le tracce, le marche, le impronte, gli ‘engrammi’ (secondo il termine coniato da Richard Semon al principio del Novecento) di esperienze dell’individuo e anche della specie. Si tratta di una direzione di ricerca che considera strettamente interconnessi i fenomeni dell’ereditarietà, della memoria e dello sviluppo organico e che, dopo le proposte di Ewald Hering (La memoria come funzione generale della materia organizzata, 1870) vede proprio in Semon, biologo, zoologo e neurologo tedesco, di famiglia ebraica come lo stesso Warburg, l’esponente più assertivo.

Allievo del biologo di stretta fede darwiniana Ernst Haeckel, Semon, prima di pubblicare i due testi Die Mneme als erhaltendes Prinzip im Wechsel des organischen Geschehens (Leipzig 1904) e Die mnemischen Empfindungen (Leipzig 1909) si dedica a ricerche di zoologia, che lo portano anche in Australia, sulle tracce del Ceratodus forstieri, un genere di pesce in grado, in certe condizioni, di respirare direttamente l’aria atmosferica. Le sue pubblicazioni di argomento zoologico hanno una vasta fama e già nel 1899 vede la luce in inglese In the Australian Bush and on the Coast of Coral Sea. Il cambio del secolo e il ritorno in Germania segnano un mutamento di rotta e la concentrazione sul tema fatale (anche biograficamente) della memoria.

Nei primi anni del Novecento, Semon introduce negli studi sulla memoria alcuni neologismi e un concetto forte: la proprietà della materia vivente di memorizzare le esperienze, di richiamarle e infine di trasmetterle per via biologica viene definita come Mneme. Mneme è un concetto ampio ed inclusivo, riguarda il singolo, la specie, la materia di cui è fatto il sistema nervoso; indica “la plasticità ovvero l’elasticità organica fondamentale che permette agli effetti dell’esperienza di essere conservati non solo durante la vita dell’individuo, ma anche attraverso le generazioni” (DUPONT 2003, p. 8), collegando il passato e il presente degli esseri viventi in una unità.

I distinti aspetti o fasi dell’attività mnemonica sono individuati da Semon con i seguenti termini: engrafia, engramma ed ecforia. L’engrafia si riferisce al processo di codifica di un’informazione nella memoria, alla scrittura di uno stimolo nelle “trame nervose”; l’engramma (o anche traccia mnestica) indica la modificazione originaria, latente e perdurante del sistema nervoso prodotta da uno stimolo; l’ecforia indica il processo di recupero, innescato da un evento che risveglia l’engramma dal suo stato latente. Ogni stimolo produce un engramma, conservato (in maniera non localizzata, ma distribuita) nelle cellule cerebrali, e latente fintanto che un evento non lo riattiva. Esperienze ripetutamente immagazzinate determinerebbero, secondo Semon, delle modificazioni persistenti nelle ‘cellule somatiche’ del cervello del singolo individuo, capaci a loro volta di modificare le ‘cellule germinali’ dell’organismo ed essere così trasmesse alla progenie.

Per funzionare, la spiegazione di Semon deve ammettere come vera la precedente ipotesi di Lamarck (1744-1829), secondo cui i caratteri acquisiti da un singolo individuo possano essere ereditati, dunque trasmessi per via biologica. Ma si tratta di un’ipotesi che, al principio del Novecento, nel campo della biologia, è del tutto superata. L’impostazione di Semon viene difatti fortemente avversata da biologi autorevoli come August Weismann, e solo l’amico psichiatra August Forel sostiene l’inventore del termine engramma. Le ricerche sulla natura della memoria e della mente, come quelle sulla genetica sperimentale, andavano prendendo altre direzioni e Semon si ritrova isolato, criticato su più fronti. Per inciso, egli porrà termine alla sua vita con il suicidio, a Monaco nel 1918, dopo la morte della moglie, mentre l’Europa è sconvolta dal conflitto e da disordini epocali, lasciando incompiuta la sua ultima ricerca su coscienza e processi cerebrali.


La sua importanza, benché surclassata dalla ricerca sperimentale, dalla separazione fra discipline, dagli sviluppi delle tecniche di indagine, si mantiene a un livello carsico. Lo apprezzano singoli scienziati di diversa formazione, come lo psicologo della Gestalt Kurt Koffka, il neuroanatomista J.Z. Young, il fisico Erwin Schrödinger, Bertrand Russell che gli dedica un capitolo de The Analysis of Mind del 1921. Insigni psicologi contemporanei come Daniel Schacter o neurobiologi come Jean Pierre Changeux cercano di ‘tradurre’ nel linguaggio specialistico attuale degli studi sulla memoria alcune delle proposte di Semon, per esempio il problema se l’immagazzinamento mnemonico sia neurologicamente distribuito o localizzato o quello dei rapporti fra percezione e memoria. Gli studi di Schacter ([1982] 2001) in particolare sono assai proficui, anche da un punto di vista di storia delle idee, poiché colgono l’intreccio fra scienza, filosofia e rappresentazione della conoscenza a cavallo fra Otto e Novecento, e scelgono una terminologia pertinente e suggestiva, come ad esempio nel capitolo Heredity as Memory: Excavations of a Scientific Atlantis. Sia come sia, dal libro sulla Mneme di Semon e dalle precedenti teorie di Hering sulla capacità della materia vivente di memorizzare l’esperienza, Warburg derivò, come è noto, lo spunto e l’appoggio per la sua personale idea degli engrammi dell’esperienza emotiva e del patrimonio ereditario della memoria.

I delicati rapporti fra queste esperienze sono stati indagati negli ultimi anni in Germania da Stefan Rieger (in PETHES-RUCHATZ [2001] 2002]) e in Italia da Pinotti (PINOTTI 2001) che, nella sua ricerca sulla matrice goethiana della ‘morfologia’ di Warburg, intesse la presenza di Hering, di Semon e della Mneme. Soprattutto, per il tema trattato qui, interessa sottolineare che nel clima teorico derivato da Semon i meccanismi della memoria e quelli dell’ereditarietà sono sentiti come simili e interconnessi.

Unità di trasmissione

Warburg prefigura, nella ricostruzione dell’andamento del meccanismo complesso e della dinamica discontinua della trasmissione genetico-culturale, l’idea che il supporto e il veicolo per la trasmissione dei caratteri culturali sia una serie di veri e fisici segmenti connotati. È l’anticipazione, nell’ambito del codice culturale, di una delle scoperte più importanti del Novecento in campo biologico: la scoperta di Watson e Crick, nel 1953, del codice genetico basato sulla spirale del DNA (FORSTER-MAZZUCCO 2002, p. 171).

Come un Giano bifronte, Warburg catalizza, su un versante, il complesso del pensiero scientifico che lo precede e lo accompagna, e sull’altro può essere considerato l’anticipatore di modelli a venire, nella fattispecie, come suggerisce la citazione, racchiude in potenza l’idea della memorizzazione e della trasmissione dei caratteri ereditari grazie a un’entità dedicata.

Si tratta naturalmente di un suggerimento analogico, giacché, come detto in precedenza, non si trasmettono per via biologica i caratteri acquisiti durante la vita di un individuo, tanto meno i caratteri culturali. Eppure questo richiamo per analogia alla genetica, suggerito recentemente, consente di introdurre una disciplina nuova, nata in un certo modo da una costola ‘immateriale’ della genetica, proprio con lo scopo di sistemare in un quadro evolutivo, di lontana ascendenza darwiniana, i fenomeni della trasmissione culturale, della diffusione dei comportamenti, della sopravvivenza delle forme. La disciplina è la memetica. E il suo inventore è un darwiniano convinto, Richard Dawkins, biologo e zoologo dell’Università di Oxford, autore del provocatorio libro Il gene egoista, in cui sostiene che tutti gli esseri viventi non sono che macchine di sopravvivenza per i geni. E i geni sono unità viventi di lunghissima durata che sopravvivono passando attraverso un gran numero di corpi successivi. La storia della vita è raccontata, non senza una punta di ironia, dal punto di vista dei geni. I corpi, le coscienze, le strategie, le relazioni fra singoli e gruppi, tutto è rivisitato sotto la specie di questi replicatori universali: “l’unità fondamentale della selezione, e quindi dell’egoismo, non è né la specie né il gruppo e neppure, in senso stretto, l’individuo, ma il gene, l’unità dell’ereditarietà” (DAWKINS [1976, 1989] 1995, pp. 13-14).

Dawkins spende una quantità di esempi e di argomentazioni incalzanti per spiegare che la qualità costitutiva della vita organica è la capacità di replicarsi e che “tutte le forme di vita evolvono attraverso la sopravvivenza differenziale di entità che si replicano”.

Verso il termine della sua trattazione, Dawkins si trova ad affrontare il tema dell’analogia fra l’evoluzione culturale e quella genetica, discutendo le posizioni di pensatori come Popper, di antropologi, etologi, genetisti. Così come analizza l’evoluzione biologica a partire dal principio unitario del gene egoista, il cui solo scopo è replicarsi, allo stesso modo propone di individuare, dietro lo sviluppo culturale, l’azione concorrente di singoli replicatori non genetici, che cercano di affermarsi per via imitativa.

In estrema sintesi, Dawkins afferma che, accanto alla molecola del DNA, che è l’entità replicante che ha prevalso sulla terra, esistono altre unità replicanti, che concorrono all’evoluzione. Con le sue parole:

Io credo che un nuovo tipo di replicatore sia emerso di recente proprio su questo pianeta. Ce l’abbiamo davanti, ancora nella sua infanzia, ancora goffamente alla deriva nel suo brodo primordiale ma già soggetto a mutamenti evolutivi a un ritmo tale da lasciare il vecchio gene indietro senza fiato. Il nuovo brodo è quello della cultura umana. Ora dobbiamo dare un nome al nuovo replicatore, un nome che dia l’idea di un’unità di trasmissione culturale o un’unità di imitazione. “Mimeme” deriva da una radice greca che sarebbe adatta, ma io preferirei un bisillabo dal suono affine a “gene”: spero però che i miei amici classicisti mi perdoneranno se abbrevio mimeme in meme. Se li può consolare, lo si potrebbe considerare correlato a “memoria” o alla parola francese même. Esempi di memi sono melodie, idee, frasi, modi di modellare vasi o costruire archi. Proprio come i geni si propagano nel pool genico saltando di corpo in corpo tramite spermatozoi o cellule uovo, così i memi si propagano nel pool nemico saltando di cervello in cervello tramite un processo che, in senso lato, si può chiamare imitazione (DAWKINS [1976, 1989] 1995, p. 201).

Sia detto, per inciso, che anche Vannevar Bush, l’inventore, negli anni trenta, del Memex, una macchina per memorizzare collegamenti in un percorso di studio, porta come esempio applicativo di un’analisi storico-formale lo studio dell’evoluzione delle forme degli archi in diverse civiltà.

Ma per Dawkins sono soprattutto le idee religiose a costituire un grandioso esempio di complessi memici in grado di replicarsi, diffondersi e costituire un apparato per la loro sopravvivenza. E in generale, qualunque idea fertile colonizza il cervello in cui si trova, “proprio come un virus può parassitare il meccanismo genetico di una cellula ospite” e si espande per imitazione da una mente all’altra. Proseguendo nell’analogia genetica (e virologica), Dawkins si spinge a ipotizzare che l’evoluzione dei memi non è semplicemente analoga all’evoluzione biologica o genetica, ma è un fenomeno che obbedisce alle leggi della selezione naturale del più adatto, favorendo quei replicatori dotati di maggiore longevità, fecondità e fedeltà di copiatura e capaci di attuare le migliori strategie di diffusione.

Su questa strada procede lo studioso dell’evoluzione Daniel Dennett che, nel volume Consciousness explained del 1991, inserisce l’evoluzione memetica, accanto a quella genetica e alla cosiddetta plasticità fenotipica, fra le componenti che concorrono a spiegare la coscienza umana. Nel capitolo Il terzo processo evoluzionistico: memi ed evoluzione culturale, arriva a definire la coscienza come “un enorme complesso di memi (o meglio di effetti provocati dai memi nel cervello)”. Li definisce come “distinte unità degne di essere memorizzate”, fra le quali elenca, in una azzardata tassonomia: “ruota, indossare vestiti, vendetta, triangolo retto, alfabeto, calendario, l’Odissea, calcolo, scacchi, disegno prospettico, evoluzione per selezione naturale, impressionismo, la tarantella, il decostruzionismo” (DENNETT [1991] 1993, pp. 225 ss.).

A Dennett si devono almeno due immagini fulminanti, quella del carro con le ruote, che “non trasporta solo il grano o il suo carico da un posto all’altro, trasporta anche la brillante idea di un carro con le ruote da una mente all’altra” e quella citata in esergo, inquietantemente adatta agli studi warburghiani: “Uno studioso è soltanto un modo in cui una biblioteca crea un’altra biblioteca” (DENNETT [1991] 1993, pp. 229, 228).

Entrambe concorrono a spiegare l’evoluzione come un meccanismo dominato da entità che si replicano, veicolate da supporti diversi, materiali e immateriali, e il cui scopo non è il bene di nessuno, se non dei replicatori stessi o forse dello stesso processo di replicazione.

Fortuna e problemi dei memi

Dalla sua prima apparizione nel 1976, il termine meme si è diffuso e allargato al punto da sorprendere lo stesso Dawkins, che, anni dopo, nell’introduzione al libro di una sua ‘seguace’, Susan Blackmore, ci terrà a precisare di aver introdotto il concetto di meme come un argine all’idea che il gene egoista fosse l’essenza e il fine ultimo dell’evoluzione. La sua convinzione è che “la vera unità della selezione naturale era qualsiasi tipo di replicatore, qualsiasi unità di cui fossero prodotte copie, con errori solo occasionali, e che esercitasse una qualche influenza o un certo potere sulla probabilità della propria replicazione” (BLACKMORE [1999] 2002, p. XXVI). Lungi dal fermarsi su questo confine, gli studiosi che si sono avventurati sul terreno dei memi, vi hanno lavorato fino a proporre ipotesi di teoria della cultura e della mente umana.

E intanto il termine entrava nell’Oxford English Dictionary come “elemento di una cultura che può ritenersi trasmesso da un individuo a un altro con mezzi non genetici, soprattutto attraverso l’imitazione”.

Gli anni novanta sono stati i più affollati di tentativi di applicazioni sistematiche e sperimentali, e il 1996 in particolare è stato l’anno d’oro della memetica, con l’uscita dei libri di Richard Brodie Virus della mente. La nuova scienza del meme, di Aaron Lynch Thought Contagion, e un’accesa discussione su Memesis ­ il futuro dell’evoluzione al Festival Ars Electronica di Linz (Memesis 1996). Nell’appuntamento annuale con le frontiere creative dell’elettronica che si tiene nella cittadina austriaca, la memetica viene vista, nel ’96, come un paradigma fertile per comprendere la coevoluzione di uomo e tecnologia, l’evoluzione dei linguaggi informatici e la diffusione di idee, concetti, mode nell’infosfera delle reti. In quell’occasione i memi sono definiti “pixel cognitivi” del vasto universo dei nuovi media.

Alla fine del decennio risalgono un vendutissimo volume della psicologa Susan Blackmore La macchina dei memi ([1999] 2002), che usa la dorsale della memetica come appoggio per una sua successiva spiegazione sia dell’origine del linguaggio che dell’evoluzione della neocorteccia umana (BLACKMORE 2003); il contributo italiano di Francesco Ianneo, Meme. Genetica e virologia di idee, credenze e mode, e gli atti del convegno sulla ‘darwinizzazione culturale’ curati da Robert Aunger, autore anche nel 2002 di The Electric Meme, in cui il meme viene definito come “a distinct pattern of electrical charges in a node in our brains that reproduces a thousand times faster than a bacterium”.

La memetica a quel punto si innesta agevolmente nella cultura del cyberspazio e dell’informatica, per via dell’analogia mente/computer e di quella, più ambigua, meme/virus. Difatti, il meme viene definito come una struttura informativa dotata di proprio dinamismo e sottoposta a leggi evolutive analoghe a quelle genetiche, ma il suo stato viene anche avvicinato a quello del parassita o dell’organismo simbiotico. E i campi di studio sui virus del computer e sulla Vita Artificiale sono un buon banco di prova per la creazione di modelli e formalizzazioni dei memi come unità autoreplicanti e diffusive.

Il problema con la memetica è costituito dalla natura elusiva del meme: che cos’è fisicamente? Dove si trova? È una informazione e/o anche il supporto materiale della stessa? Qual è il sistema di codifica dell’informazione trasmessa? (con il corollario: trasmettere un’informazione vuol dire necessariamente replicarla?) E ancora: com’è possibile applicare la teoria dell’evoluzione (per la quale è necessario che un replicatore venga copiato fedelmente) nel campo della trasmissione di idee, pensieri, comportamenti, conoscenze? In che cosa un meme si distingue dal ‘segno’ della semiotica? Non sarà solo l’incursione di una suggestiva metafora nel mondo scientifico? In quale punto possono incontrarsi i vari specialismi chiamati in causa dalla memetica perché ipotesi ed esperienze vengano verificate concordemente dal punto di vista biologico, socio-biologico, neurologico, antropologico, storico, semiotico, psicologico e così via?

La memetica manca di verifica sperimentale, di una metodologia condivisa e difatti non c’è nessun accordo nel definirla una scienza. D’altro canto, un numero sorprendente di contributi di diversa provenienza mostra un sincero interesse a tirare fuori dall’idea di meme ciò che di fertile può offrire, soprattutto modelli di diffusione di idee e segni (ma anche di artefatti, tecnologie e altri fenomeni culturali) in determinati contesti, sia in orizzontale, in termini di propagazione epidemiologica, sia in verticale, da una generazione all’altra.

Alberi genealogici della memetica

La speculazione sulla memetica è accompagnata dalla produzione di una galassia di neologismi, termini e locuzioni coniati per affinare l’area semantica del meme stesso, da mnemone, a mnemotipo, a istruzione elementare di auto-replicazione.

Nell’albero genealogico del termine meme è piuttosto frequente il riferimento alla Mneme di Semon (come anche alle teorie monistiche di Hering). Così come, specularmente, non è raro il riferimento a Semon nelle critiche alla memetica, che rimproverano a entrambi (lo studioso tedesco e la disciplina) in gradi diversi, un carattere lamarckiano e la carenza di dati sperimentali.

Mneme risulta altrettanto elusiva e attraente del meme e soprattutto collegata ad esso da un vincolo para-etimologico (segnalato dallo stesso Dawkins) che mescola la somiglianza, l’imitazione, il singolo ricordo e la condizione della memoria. Una breve comunicazione pubblicata su Journal of Memetics (LAURENT 1999) sottolinea la parentela fra i due termini e anche se non è particolarmente aggiornata sulla figura di Semon, tuttavia offre uno spunto laterale alla riflessione. In essa viene segnalato il fatto che il poeta, saggista ed entomologo belga Maurice Maeterlinck, in un saggio del 1926 sulla vita delle termiti, fa riferimento a Semon e a Mneme (MAETERLINK [1926] 1991, p. 243).

L’autore di Pelléas et Melisande, premio Nobel nel 1911, ispiratore di tanta pittura e grafica simbolista, chiama in causa Semon nel capitolo dedicato a “L’istinto e l’intelligenza delle termiti”. In un paragrafo in cui contesta l’approccio ‘tecnico’ al problema dell’automatismo del comportamento animale, inserisce gli “engrammi della mneme individuale” e le “ecforie” di Semon in quelli che considera tentativi tautologici (vi compare anche Bergson!) di definire l’intelligenza istintiva. La sua spiegazione, di tono socio-spirituale, vede l’istinto come emanazione dell’anima universale, che fa del termitaio un individuo perdurante, dotato di memoria unica e di immortalità collettiva.

Il collegamento fra memetica e Mnemosyne di Warburg viene chiamato in causa di solito, in ordine cronologico, dopo quello alla Mneme di Semon e alle teorie di Hering, e prima del richiamo a Jung, alla memoria collettiva di Halbwachs e alla memoria culturale di Jan e Almeida Assmann.

Il quadro problematico nel quale viene proposto tale collegamento riguarda l’esistenza di unità di trasporto della memoria, con attenzione sia all’analogia fra modelli di funzionamento della memoria, architettura del computer e sistemi di codifica delle informazioni, sia all’approccio socio-culturale di studi sulla trasmissione della cultura. In entrambe le prospettive, il richiamo all’energia mnemica di Warburg cade a proposito, come un concetto di singolare densità che consente di dare conto della genesi, della trasmissione, della latenza, della durata, del recupero di segni e significati nella storia delle culture.

Wolfgang Ernst, in uno studio sull’archeologia mediale delle tecniche di trasmissione culturale, sottolinea inoltre l’attenzione di Warburg ai mezzi di trasporto delle informazioni (arazzi, panni dipinti, quadri, stampe) e con acume afferma che il personale medium memetico di Warburg era costituito dalla fotografia (ERNST 2001-2002). Lo studioso, che insegna archeologia dei media all’Università Humboldt di Berlino, si serve della terminologia della memetica lasciando sempre aperti i dubbi sul suo statuto teorico e sperimentale, ma riuscendo al contempo a costruire una rete fitta di percorsi che collegano la genetica con la scienza dei computer e la Vita Artificiale, gli studi psico-neurologici sulla memoria con la storia della cultura, la ricerca di unità di trasmissione culturale con l’arte combinatoria, la prospettiva del recupero del frammento archeologico con il concetto di neghentropia (entropia negativa, che crea strutture ordinate) della termodinamica.

La rete dei collegamenti, come si può intuire da questi accenni, è estremamente ampia e ampliabile, perfino disorientante e di certo frustrante, poiché, per seguirne i percorsi in modo non amatoriale occorrono molteplici competenze specialistiche. E interi settori disciplinari rischiano di sfuggire dalla vista, mentre si producono sovrapposizioni e ridondanze di metodi. E allora?

Personalmente, dopo aver cercato con fatica di districarmi nel tema, credo che la memetica consenta ancora una volta una nuova parafrasi del lavoro di Warburg, “sotto la specie del meme”, parafrasi da cui sicuramente può trarre profitto in primo luogo la memetica stessa.

In questo senso: alcune parti di Mnemosyne possono essere il terreno di prova della definizione di meme. Se i memi sono definiti come unità minime, indivisibili, essenziali di trasmissione della memoria che si fanno strada per il mondo e nel tempo, appostate in una sorta di memoria esterna a ogni singolo individuo ma in grado, una volta insediatesi in una mente, di diffondersi per imitazione e se Mnemosyne offre un inventario di “preformazioni documentabili che hanno richiesto al singolo artista il rifiuto o l’assimilazione”, allora il materiale delle tavole costituisce la miniera dove provare a rinvenire l’unità minima di trasmissione. Qual è l’elemento indivisibile di una forma che innesca il processo di conservazione, imitazione, recupero? Esistono i memi di un’immagine? Una volta individuate queste unità, si possono modellizzare i percorsi compiuti da esse in termini evolutivi? 

L’immagine come condensato memetico

Una tale operazione forse non aggiungerebbe molto alla comprensione di Warburg, ma se ne gioverebbero da una parte la memetica, con un modello visualizzato, e dall’altra la storia dell’arte con la formalizzazione genetico-evolutiva di certi passaggi iconografici, valutando fattori come la ‘fedeltà di copiatura’ e le diverse strategie di sopravvivenza dei singoli fenomeni.

Sicuramente ne deriva però anche una riflessione: come ogni essere vivente ha miliardi di anni, così ogni immagine prodotta da un artista ha una sua storia genetica e memetica sorprendentemente compressa. I suoi caratteri sprofondano nella preistoria delle espressioni animali, attraversano i millenni acquattati dentro e fuori l’essere umano, consegnati a supporti imitabili, nascosti, contraffatti, finché non riemergono nel momento opportuno. Ogni immagine è una capsula del tempo, una ricombinazione di elementi già comparsi che trovano una riconfigurazione attuale, così come l’artista che la produce è una ricombinazione di atomi e codice genetico.

Scrive Warburg nel 1928:

“Estrarre l’elemento figurativo, nella sua forza plasmante, dallo stato di conservazione oggettivato della tradizione e scambiarlo con l’immagine evocata dallo stimolo di un istante è una magia che svela leggi di svolgimento ancora sconosciute, se ci si fa incontro ad essa con l’armamentario dell’intreccio storico di parola, immagine e azione” (Mnemosyne [1929] 1998, p. 105).

Nuovi armamentari di metodo e di indagine si sono affinati dal tempo di Warburg, anche e proprio lavorando sulla sua stessa esperienza. E chissà che l’idea della coevoluzione genetica e memetica non costituisca una ulteriore attrezzatura per svelare le leggi di svolgimento, di propagazione, di successo e di estinzione di quelle che chiamiamo ‘immagini’.

Ninfe sintetiche e capelli mossi xVorrei concludere, nello spirito della rivista Engramma, con un’addenda virtuale all’analisi della raffigurazione del “moto fisico attraverso accessori come fogge e capigliature”, in particolare del movimento dei capelli, a cui Warburg dedica le celebri pagine del saggio sulla Nascita di Venere.

L’addenda riguarda un episodio sorprendente legato alla realizzazione del film in computer animation “Final Fantasy” (Final Fantasy 2001: http://www.filmup.com/trailers/finalfantasy.shtml). Il film deriva da un fortunato videogioco per console dal medesimo titolo, prodotto da Square Soft in nove episodi, che sviluppano storie mitico-avventurose disgiunte fra di loro. Il film, ideato, diretto e prodotto dallo stesso autore del videogioco, il giapponese Hironobu Sakaguchi, si concentra su una trama (salvare l'anima mundi del pianeta terra da forze distruttive aliene), focalizzando singoli personaggi. Fra questi, emerge con forza la dottoressa Aki Ross, una fanciulla sottile dallo sguardo malinconico che ha il compito di riconnettere gli spiriti della terra, lottando contro nemici e sogni inquietanti.

Nel film tutti gli elementi, scenari ed attori, sono virtuali, prodotti cioè dalla sintesi grafica computerizzata. La sfida per questo genere di produzioni è la rappresentazione naturalistica degli attori, che devono dare l’illusione di muoversi in modo fluido ed espressivo. Per rendere credibili i personaggi, l’aspetto decisivo è il movimento della testa e soprattutto dei capelli. Consapevoli di ciò, gli autori hanno sviluppato un software che programmasse il movimento dei 60.000 capelli castani della protagonista Aki Ross, uno per uno. A questa impresa è stato dato ampio risalto; non c’è recensione in cui non venga sottolineato lo sforzo di programmazione dedicato alle capigliature, si legga per tutte quella nel Dizionario dei Film 2004. Il Mereghetti (MEREGHETTI 2003): “è il primo film d’animazione digitale con protagonisti umani creati al computer: i movimenti sono sbalorditivi (specie i capelli della protagonista)”.

Non si può non pensare alle raccomandazioni tecniche dedicate secoli prima da Leon Battista Alberti ai sette movimenti che “piace nei capelli vedere” e all’insistenza di Warburg nel sottolineare la rilevanza, per la cultura rinascimentale, “di questa minuta elaborazione delle mobilità”, su cui torna a più riprese ne la “Nascita di Venere” e la “Primavera” di Sandro Botticelli (WARBURG [1932,1966] 1996, passim).

Se poi si considera la computer animation come la frontiera della mimesi contemporanea, i capelli mossi (“capelli in movimento”, “movimenti transitori nei capelli”) continuano ad essere la prova del nove della percezione della verosimiglianza animata, il motivo attraverso il quale ancora adesso, come ai tempi di Botticelli, si cerca di “cogliere in ciò che vive l’istante di un moto esterno”, affidando a degli elementi plastici il mistero dell’energia vitale dell’attimo. Non si tratta più però di copiare le immagini del movimento da modelli antichi, o da singoli esempi moderni, e neanche di riprendere attori vivi nel falso movimento del cinema, ma di simulare artificialmente il moto con le tecnologie informatiche, di scrivere il codice del movimento.

Si potrebbe dire che “capelli mossi” sia una sorta di meme, un’unità di trasmissione culturale, che riemerge come un tratto necessario dell’espressività narrativa e mitopoietica. La zona di riemersione attuale di questo elemento è la grafica per computer e il suo pubblico di milioni di individui sparsi per il pianeta, di migliaia di programmatori/artisti il cui scopo è ancora “raffigurare il moto fisico”, in un modo che sia al contempo naturale ed esemplare, illusorio e catturante.

E così la piccola e fascinosa Aki, che in fondo è una specie di Ninfa in tuta spaziale, che sembra essere anche lei giunta a “consapevolezza del mondo esteriore destandosi da un sogno” (WARBURG [1932,1966] 1996, p. 57) acquisisce la sua capigliatura che appare sempre mossa da una brezza leggera, e che attira ipnoticamente lo sguardo come di certo non farebbero più i capelli di un’attrice in carne ed ossa al suo posto. Benché sia il frutto di un’aggiornatissima tecnica di programmazione, Aki è vecchia quanto il meme, o la formula, o l’engramma dei capelli mossi, è un archivio ricombinato di pezzi antichissimi che a sua volta danno vita a una nuova unità che prosegue la sua strada nel mondo. E compie la sua opera di diffusione proprio là dove trova un pubblico vasto e recettivo, fra i giovani utenti di computer, in grado di assorbire il racconto mitico sincretico della saga e di trasformarlo in azione di gioco. Per la storia universale delle immagini, o delle configurazioni espressive, o degli engrammi, è un’altra tappa, che sposta verso l’Oriente (il Giappone che tanta empatia prova per Botticelli) e verso la sintesi grafica computerizzata, “la rinascita del paganesimo”. Dal punto di vista del meme, qualunque cosa esso sia, è una buona strategia per la sopravvivenza.

Nota bibliografica sulla memetica

Per partire da una definizione enciclopedica, molto densa e informata, si legga la voce ‘meme’ di B. Laser, in N. Pethes, J. Ruchatz, Dizionario della memoria e del ricordo, [Rowohlt Taschenbuch Verlag, Reinbeck 2001] tr.. it. a cura di A. Borsari, Bruno Mondadori, Milano 2002. Sulla memetica, una recente raccolta di interventi, che fa il punto sullo stato delle ricerche, è a cura di R. Aunger, Darwinizing Culture: the Status of Memetics as a Science, Oxford University Press, Oxford-New York 2000, autore anche di The Electric Meme, The Free Press, New York 2002. In Italia, uno dei maggiori esperti è Francesco Ianneo, che ha pubblicato nel 1999 il libro Meme. Genetica e virologia di idee, credenze e mode, Castelvecchi Editore, e cura un sito applicativo di metodi derivati dalla memetica ai temi della comunicazione e del marketing. Per inquadrare il tema nel contesto scientifico degli studi sulla memoria e l’ereditarietà, si veda la recensione di Gilberto Corbellini al libro di Ianneo (e al testo di Dan Sperber, Il contagio delle idee, ed. it. Feltrinelli, Milano 1999) sul sito de “Il Sole 24 Ore”.
La rivista ufficiale degli studi sulla memetica è il “Journal of Memetics. Evolutionary Models of Information Transmission”: http://jom-emit.cfpm.org, fondata nel 1997 e diretta da un team interdisciplinare.

Bibliografia
English abstract

This essay considers the relationship between mnemetics and Aby Warburg's “nameless science”.

 

keywords | Wavy hair; meme; Warburg; Mneme; Memetics.

Per citare questo articolo: A. Sbrilli, La miniera memetica di Warburg. Collegamenti fra Mneme, memi e capelli mossi, “La Rivista di Engramma” n.37, novembre 2004, pp. 19-34 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2004.37.0006