"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Per un’estetica dell’intervallo.

Echi warburghiani nella regia lirica di Federico Tiezzi

Biagio Scuderi

English abstract

E pure sono, quegli scomparsi da lungo tempo, in noi,
come disposizione, come peso sul nostro destino,
come sangue che mormora e gesto che s’alza
dalle profondità del tempo
Rainer Maria Rilke

Non il vedere per primi qualcosa di nuovo,
bensì vedere come nuovo l’antico,
ciò che è già anticamente conosciuto
e che è da tutti visto e trascurato,
contraddistingue le menti
veramente originali
Friedrich Nietzsche

Le pratiche teatrali e le arti figurative sono, da sempre, terreni contigui in un rigoglioso paesaggio unitario. Da una prospettiva aerea le geometrie dei confini si presentano costantemente cangianti: al rigore del segno si sostituisce la mobilità di un solco che diviene frontiera senza dogana. Uno sguardo critico e obliquo non deve però fermarsi alla contemplazione di una “flora” fatta di piante “profumate e belle”, idolo di un’estetica edonista; ciò che più conta è intercettare “la circolazione della linfa”, prassi dischiusa “solo a chi è capace di esaminare la vita nel suo intreccio sotterraneo di radici” (Warburg 2002, 3). Per far ciò è necessaria una schisi, un taglio mediano che renda visibile – in sezione – la continuità celata del fondo; operazione faticosa che non garantisce la decifrazione quanto, semmai, l’incontrollata proliferazione di rebus, ma che si rivela altresì ineludibile se non, addirittura, attrattiva: “Et quid amabo nisi quod rerum aenigma est?” annota De Chirico sullo stipite del suo autoritratto (1911). La complessità non va ridotta o sfuggita bensì esposta e “montata” in nastri di cellulosa: la memoria è al contempo macchina da presa e tavolo di regia, intrico e forbice, deposito di sequenze mai risolte ottenute scavando faglie nel continuum della storia; il suo scopo è quello di consentire passaggi “tra ordini di realtà eterogenei che vanno tuttavia montati insieme” (Didi-Huberman 2006, 458).

Tutti i fenomeni di memoria si presentano come intrichi – di campi, di senso, di tempi. Ora, se si vuole guardare a ciò che accade all’interno di un intrico, se si vuole conoscere l’intimità viva di un mucchio di serpenti, si scopre che il movimento dei corpi aggrovigliati delinea tutta una rete di intervalli a loro volta in movimento. Ecco pressappoco ciò che Warburg voleva fare studiando un affresco, un rituale votivo o una credenza astrologica. Prestare attenzione agli intervalli significava darsi un’opportunità di osservare come si abbracciano e si separano, come si combattono e si mescolano, come si allontanano e si scambiano gli elementi di un intrico (Didi-Huberman 2006, 460).

Il corpus teorico di Warburg emerge pertanto come “memoria al lavoro”, e non stupisce che un regista già storico dell’arte, come Federico Tiezzi, vi faccia riferimento. Scopo di questo contributo è rinvenire le trame warburghiane che concorrono, insieme all’ordito drammaturgico, a formare il textus-spettacolo di Tiezzi. 

Federico Tiezzi manifesta la sua vocazione al teatro sin dagli anni del liceo (frequentato ad Arezzo all’ombra di Piero della Francesca) dove costituisce, insieme ad alcuni colleghi, la “Compagnia dei tre”: Loriana Nappini (in arte Marion D’Amburgo) e Sandro Lombardi, saranno i primi compagni di scena e in seguito i cofondatori del “Carrozzone” (poi “Magazzini Criminali”), sodalizio che si impone – con La donna stanca incontra il sole (1972) – come una delle esperienze di punta dell’allora nascente “Teatro-Immagine" [1]. La componente visiva degli spettacoli diventa ἀρxή, fulcro generativo dell’intera drammaturgia, un esito di certo condizionato dalla parallela formazione universitaria di Tiezzi e Lombardi: sotto l’egida di Roberto Salvini ambedue si laureano, a Firenze, in Storia dell’arte; Lombardi con una tesi su Jean Fouquet (Lombardi 1983), Tiezzi con una ricerca iconologica sulla teatralità nella scultura di Claus Sluter, ispirata alle teorie di Warburg e Panofsky. Sono questi gli anni in cui le teorie warburghiane divengono fonte privilegiata di ispirazione, corridoio per giungere sulle tavole del palcoscenico: “Sono arrivato al teatro attraverso la storia dell’arte. E sono arrivato al testo teatrale per questa stessa via” (Tiezzi 1990, 231).

La drammaturgia del regista aretino si colloca quindi nell’intervallo tra le quinte di scena e le tele d’autore, ma rimarremmo in superficie qualora ci limitassimo a registrare una similarità di apparenze: non è l’uso di una grammatica marcatamente figurativa o l’accurato innesto di citazioni che afferiscono alla più nobile tradizione delle arti che qui si vuole mettere a tema, quanto il metodo di costruzione del personaggio su sfondo intertestuale e lo studio dell’espressività del gesto. Paradigmatico risulta, a tal proposito, l’allestimento di Norma al Teatro Comunale di Bologna nel 2008 [2]. Il capolavoro belliniano, invero, era stato già messo in scena da Tiezzi nel 1991 al Teatro Petruzzelli di Bari, destando particolare interesse per i fondali commissionati a Mario Schifano [3]; ma è sul palcoscenico bolognese che esso giunge a più compiuta maturazione, tanto nella cornice scenica (in continua tensione tra la pulsionalità naïf di Schifano e il compassato neoclassicismo di Bisleri) quanto nel quadro performativo.

Un cantante deve avere poche indicazioni, ma a fuoco, una partitura di movimenti nello spazio, di gesti, di intenzioni recitative, che lo ancorino al palcoscenico, gli diano una struttura matematica equivalente a quella musicale, alla quale appoggiarsi. Stabilita quella che chiamo, per amore di Aby Warburg, tavola d’orientamento, non solo iconografica ma, direi, anche sintattica, il cantante ha a disposizione un piano di riferimento da usare come perno del suo lavoro sulla scena, come struttura di riferimento attraverso la quale far passare l’anima della musica e il suo pensiero: in altre parole la sua interpretazione. (Gavezzeni 2008, 65)

Torneremo più avanti sulla partitura di movimenti e gesti che deve ancorare il cantante alla scena come una scultura al suo piedistallo. Vorrei invece soffermarmi, dapprincipio, sulla “tavola di orientamento” di matrice warburghiana che, non solo sul piano figurativo ma anche su quello sintattico, diviene perno e struttura da cui procede l’interpretazione. Può essere proficuo, allora, accendere i riflettori direttamente sul palcoscenico per dare corpo, voce e figura alle teorie. 

Emblematiche sono le sequenze iniziali di Norma: dopo il Coro d’introduzione e la Cavatina di Oroveso si apre la seconda scena con l’ingresso di Pollione e Flavio. I due sopraggiungono di spalle e con l’attenzione rivolta esclusivamente all’off-stage; i profili si stagliano sul fondo nero della scena, come figure in bassorilievo prelevate da un gesso di Canova, ma ciò che più conta non è tanto l’eco della scultura neoclassica, quanto lo squarcio semantico (e sintattico) che ne deriva: il loro atteggiamento – una mano tesa verso l’off-stage – se decifrato dall’occhio di chi guarda restituisce a ciò che è fuori campo una vitalità drammaturgica inusitata. Come afferma Tiezzi: “Loro entrano dalle quinte di spalle, da un mondo che indicano e che lasciano a fatica” [4]. Il “mondo” di riferimento dei personaggi, dunque, non è solo quello circoscritto in campo:

Quello è una parte. Come all’interno di una casa di bambole, cioè di una casa strutturata con molteplici stanze, loro sono una stanza, ma c’è tutto il resto, loro provengono da un’altra stanza e quindi vengono con i pensieri di quell’altra stanza, questo è il senso. Vengono da stanze della memoria, del passato o addirittura da altri testi, ad esempio dalle stanze della tortura di Ibsen o Strindberg, o da un bosco.

Se lo stage è una “stanza” all’interno di un’ampia e potenzialmente illimitata struttura, il testo (l’opera) si trova a scaffale in una biblioteca simile a quella di Warburg, dove vige “la legge del buon vicinato” (Settis 1985, 5-38), ovvero dove i testi sono accostati (con criteri eterodossi) come tessere di un unico mosaico, con la convinzione che il sensus plenior dell’uno si colga nel contatto (sovente imprevisto) con l’altro. I personaggi a cui Tiezzi ridà vita attraversano “stanze della memoria”, alla stregua della migrante ninfa-menade warburghiana; ma si tratta di ambienti dallo statuto ambiguo: sono autonomi e interdipendenti allo stesso tempo, sono stanza e corridoio, unità e frammento, strada privata e servitù di passaggio che consente l’attraversamento tra luoghi comunicanti. Tanto il boccascena quanto le tele ‘nere’ di Warburg sono pertanto “intervalli”, segmenti che – ambiguamente – distanziano e congiungono tempi e spazi differenti; sono strisce di sutura tra lacerti figurativi (Warburg) o drammaturgici (Tiezzi) che non generano tanto un compendio di immagini quanto “un pensiero per immagini” (Didi-Huberman 2006, 416). Il palcoscenico, allora, può assumere lo stesso titolo che Warburg ha conferito sia alla biblioteca che al Bilderatlas, ovvero il nome di colei che sussume le nove muse, Mnemosyne, a suggello di un comune metodo di lavoro e, prima ancora, di una condivisa Weltanschauung. 

L’intertestualità può essere immaginata, altresì, come una galleria di specchi disposti su più registri e con diverse angolature: ciascuno restituirà un frammento dissimile del medesimo “soggetto” che la percorre, varianti possibili di un unico mito, alternativi punti di fissazione dello stesso campo tematico. Su uno specchio si scorgerà Norma, su un altro Medea, su un altro ancora Erodiàs, maschere tutte di una sola donna che Teseo seguita ad abbandonare. È un processo “di continua riscoperta della stessa cosa (la cosa stessa)” (Poli 1990, 151). Se dunque il lavoro di messa in chiave del personaggio consiste nel recupero di una “costellazione”, non stupisce che Tiezzi, studiando l’espressività del gesto, incroci la teoria warburghiana delle Pathosformeln, nata proprio con l’intento di individuare “le forme eterne dell’espressione dell’essere uomo” (Warburg-Cassirer 2003 114). Vita reale, rappresentazioni drammatiche e arti figurative sono anelli di una stessa catena, “zone di confine dove il contrabbando è all’ordine del giorno” (De Laude 2004, 144) e la mimesi una consuetudine.

Illuminiamo perciò nuovamente il palcoscenico, al fine di vincolare le ipotesi alla prassi. Ci ri-troviamo nel momento in cui Norma deve intonare la sua celebre Cavatina (“Casta Diva, che inargenti”); la didascalia di Felice Romani così recita: “[Norma] Falcia il vischio: le Sacerdotesse lo raccolgono in canestri di vimini. Norma si avanza, e stende le braccia al cielo. La luna splende in tutta la sua luce. Tutti si prostrano” (Bellini 1831, 11). Tiezzi sceglie di valorizzare (e condensare) l’ultima prescrizione del librettista: quel “Tutti si prostrano” gli offre una piattaforma su cui impiantare una teoria di pose plastiche che rimanda, anzitutto, all’impianto formale utilizzato in pittura per raffigurare tanto la preghiera del Cristo quanto l’epifania improvvisa dell’elemento divino. Propongo alcuni raffronti (a cominciare dalla foto di scena), accomunati tutti dalla presenza di personaggi dormienti o comunque atterriti da una trascendente alterità.

A destra: Raffaello Sanzio, Trasfigurazione (particolare), olio su tavola, 405 x 278 cm, 1518-1520, Pinacoteca vaticana.

A sinistra: Piero della Francesca, La resurrezione di Gesù Cristo (particolare), affresco, 225 x 200 cm, 1463, Museo Civico Sansepolcro.
A destra: Pietro Perugino, Orazione nell’orto (particolare),olio su tavola, 166 x 171 cm, 1483-1495, Uffizi, Firenze.

Ai fini della nostra riflessione conviene però soffermarsi sulla posa assunta dal figurante alle spalle di Adalgisa. Il gesto da valorizzare è il cosiddetto “braccio della morte”, ascrivibile a un’antica e persistente tradizione iconografica, il cui punto d’origine si rinviene – in alcuni sarcofagi classici – nella scena del cordoglio di Achille per la morte di Patroclo; essa servì da modello per il compianto di Meleagro divenendo una Pathosformel, un “topos figurativo” tra i più fecondi (Catoni, Ginzburg, Giuliani, Settis 2013) [5]. Lo stesso portamento, un braccio che pende verso terra per indicare un corpo esanime, si ritrova infatti canonizzato in tante deposizioni del Cristo morto, si pensi (in epoca moderna) solo a Raffaello o Caravaggio, e diverrà iconografia privilegiata per connotare il decesso di illustri personaggi; rammento almeno il Marat di Jacques-Louis David e la Cleopatra di Jean-Baptiste Regnault.

A destra: Raffaello Sanzio, Pala Baglioni (Deposizione), olio su tavola, 184 x 176 cm, 1507, Galleria Borghese di Roma.

A destra: Caravaggio, Deposizione, olio su tela, 300 x 203 cm, 1602–4, Pinacoteca Vaticana.
A sinistra: J. L. David, Marat assassiné, olio su tela, 1793, 165 x 125 cm, Musées Royaux des Beaux-Arts di Bruxelles.

C’è un ultimo raffronto che rivendica una menzione, anche perché direttamente ricavato dallo storyboard di Tiezzi: Le Radeau de la Méduse di Théodore Géricault, di cui con cura vengono studiate le vibranti pose michelangiolesche.

Théodore Géricault, Le Radeau de la Méduse, olio su tela, 491 x 716 cm, 1819, Musée du Louvre di Parigi.

Un altro esempio di ricorso alle Pathosformeln si verifica nell’ottava scena, quando si deve rappresentare l’incompiuta aggressione ai danni di Pollione. Alla fine del coro “Guerra, guerra! Le galliche selve” la tribù druidica viene disorientata dall’arrivo di un άγγελος: Clotilde sopraggiunge trafelata per denunciare che un romano ha fatto irruzione “nella sacra chiostra delle vergini alunne” (Bellini 1831, 26). I soldati scortano dunque Pollione verso la ribalta, imprevisto che genera in Norma un eccesso patetico: l’amante tradita, brandito il pugnale, si scaglia contro l’ostaggio per ferirlo, incarnando pienamente la Pathosformel che connota la tensione omicida; in essa l’aggressore con una mano afferra la vittima per i capelli, con l’altra si appresta a colpirlo avvalendosi di un’arma a lama corta. Efficace risulta il confronto con il celebre cratere di Boston.

A destra: Morte di Egisto: cratere a calice attico attribuito al Pittore della Dokimasia, 480 a.C. ca., Museum of Fine Arts di Boston.

L’ultimo esempio che vorrei proporre è incluso nel finale dell’opera. Norma ha appena chiesto al padre e a tutti i presenti di andare via “per poco”: ufficialmente per interrogare Pollione, ma con l’esclusiva intenzione di persuaderlo a dimenticare Adalgisa (“In mia man alfin tu sei”). Tutti perciò indietreggiano e vengono prontamente occultati dall’abbassamento del sipario. Sappiamo che Norma non riuscirà nei suoi intenti (vincere le resistenze di Pollione) così, dopo avergli promesso eterna infelicità, riconvoca i ministri e i sacerdoti che – nel frattempo – si sono disposti su due praticabili: risollevato il sipario i coristi appaiono cristallizzati come il fregio di un frontone capovolto. 

In basso: Frontone ovest del Partenone, Fidia e collaboratori, marmo del Pentelico, 440-432 a. C. ca., British Museum di Londra.

 Conviene notare, anzitutto, che lo schema formale alla base della composizione appare simile a quello che, nel corso del Medioevo, ha sostanziato tante versioni del “Giudizio universale”. È palese infatti la distinzione in tre registri: in primo piano vi sono i sottoposti a giudizio, Norma in primis, rinchiusi in tre recinti di luce; al centro il fregio con i coristi “giudicatori”, che vagamente richiama il cosiddetto “tribunale apostolico” sempre disposto ai lati del Cristo; in alto infine, una scheggia luminosa, eco astratta della mandorla in cui solitamente si staglia il sommo giudice e premonizione del rogo incipiente. Ma ciò che più conta valorizzare ai fini della nostra riflessione è, nuovamente, il ricorso al “gesto superlativo di pathos”: il fregio incarnato dai coristi punteggia l’azione con una serie di pose in continua tensione tra la stasi del tableau e la dinamicità del δρᾶμα. In tal modo si mette anzitutto in scena il conflitto interno alla Pathosformel, drammatizzando l’ambiguo procedere della vita verso il fossile. Questo infatti è forse il caso dove si coglie meglio la natura ossimorica delle “forme espressive della massima esaltazione interiore” (Warburg 2002, 3), le quali “dentro la formula, per sua natura ‘fredda’” custodiscono un "nucleo di pathos ‘caldo’ e capace di generare forme sempre nuove” (Settis 2004, 31). Lo scontro di “temperature” genera quindi "movimenti fossili” (Didi-Huberman 2006 309), cristallizzazioni che nell’arte pittorica Lessing definiva “momenti pregnanti” (Cometa 1991, 71) [6]. È la coincidentia oppositorum, l’armonia dei contrari che si cercano e si rincorrono in una danza inesausta e che nel teatro ha un “sovraccarico di emozione” (De Laude 2004, 136-137) perché si incarna in un corpo in tensione non già tra marmo e colore ma tra aria e carne. Tiezzi mira a fornire un corpus variegato di pose atte a esprimere, alternativamente, dolore, sdegno, vergogna. Il primo gesto che sconvolge la compostezza del fregio si verifica quando Norma confessa pubblicamente le sue colpe e si autopropone come vittima per il sacrificio. “D’orrore io gelo”, “Mi manca il cor”, “Tu delinquente!”, “Oh! mio rossor!”: sono questi i versi con cui i presenti esprimono il loro sgomento, parole che sono già disegno, hanno già cromia e che Tiezzi decide di mettere in figura recuperando quella che potremmo definire “formula del dolore” – le mani che vanno a coprire il volto – tipica delle scene di tragico compianto.

Al centro: Lamentazioni durante la prothesis, lekythos attica.
A destra: Sarcofago romano con scene della vita di Achille,160 d. C. ca, metà destra. Ostia, Museo Archeologico Ostiense.

A sinistra: Masaccio, Cacciata dei progenitori dall’Eden, affresco, 214 x 88 cm, Cappella Brancacci, Firenze.
A destra: J. L. David, La mort de Socrate, olio su tela, 129,5 x 196,2 cm, 1787, Metropolitan Museum of Art, New York.

Antonio Canova, Socrate beve la cicuta, gesso, 123 x 263 cm, 1787-90, Gallerie d’Italia Piazza Scala Milano.

Alla fine del Primo tempo (“Qual cor tradisti”) i “giudici” pretendono da Norma una discolpa: “Norma!... deh! Norma! scolpati…”, assumendo la posa che nel trattato ottocentesco di Estetica del canto e dell’arte melodrammatica di Enrico Delle Sedie manifesta “sdegno e minaccia” (Delle Sedie 1885) [7], sostanzialmente l’indice puntato verso l’accusato. Ma davanti all’evidenza di una sacerdotessa adultera e genitrice non può che riemergere – in corrispondenza dell’inizio dell’aria finale (“Deh! non volerli vittime”) – la formula del dolore. 

A sinistra: Enrico Delle Sedie, Sdegno e minaccia, da Estetica del canto e dell’arte melodrammatica
A destra: Enrico Delle Sedie, Esclamazione nel dolore, da Estetica del canto e dell’arte melodrammatica

C’è un ultimo punto di coalescenza tra le riflessioni di Warburg e Tiezzi che vorrei tematizzare; riguarda il modo di vedere l’oggetto e, segnatamente, la distanza che si frappone tra esso e l’Io che osserva. “La creazione consapevole della distanza tra l’Io e il mondo esterno è ciò che possiamo designare come l’atto fondamentale della civilizzazione umana” (Warburg 2002, 3), è questo l’incipit che Warburg consegna come introduzione a Mnenosyne e che definisce l’atto del conoscere come un continuo e consapevole produrre intervalli, interni ed esterni all’io: in interiore è la memoria che “crea spazio al pensiero”, extra moenia è l’occhio a collocarsi su traiettorie sempre mutevoli rispetto agli oggetti. Come ha osservato Bing “L’argomentazione del Warburg si fonda sulla contrapposizione fra la ‘vista da vicino’ dei dipinti fiamminghi e l’arte fiorentina della pala d’altare, la quale ha bisogno di essere guardata da una certa distanza” (Warburg [1966] 1996, XXIII). L’opera quindi – tanto la Pala di San Marco del Botticelli quanto il Ritratto dei coniugi Arnolfini di Jan Van Eyck – si colloca in un preciso contesto spaziale determinando, essa stessa (per le sue caratteristiche formali), una prossemica funzionale alla sua comprensione-fruizione.

Anche nell’estetica di Tiezzi si può recuperare (emblematicamente) una dialettica tra un vedere “da vicino”, adatto al teatro di prosa dove è necessaria “una relazione strettamente personale con gli attori e con gli elementi scenici” (Scuderi 92), e un vedere “da lontano” più consono all’opera in musica, sia per la conformazione del teatro all’italiana (ancora oggi sede privilegiata) sia per la maggior coralità e complessità dello spettacolo. C’è però una sintesi possibile (e auspicabile) tra questi due punti di visione e consiste nel pensare in prosa il teatro d’opera: “Pensare uno spettacolo lirico in prosa significa pensarlo visto da vicino piuttosto che visto da lontano, significa che i cantanti devono scendere fortemente all’interno della recitazione, devono collegare il loro sentimento musicale alle parole che vengono dette”. Nella regia lirica si condensa pertanto una sorta di paradosso “visivo”: per conferire forza e verità drammatica a uno spettacolo che nasce per essere fruito a distanza e che, di conseguenza, è da ciò segnato nella sua struttura formale, bisogna assumere in fase di costruzione uno sguardo “da vicino”, insomma, preferire i pennelli a punta fine al ventaglio. Ciò porta, chiaramente, a una fattura assai più raffinata, non già seriali e superficiali caratterizzazioni ma un coerente sistema di dettagli. Per dirla con Warburg: Gott ist im Detail.

Quanto finora esposto vuole essere un punto di partenza, non già di arrivo, nell’analisi delle corrispondenze tra il metodo di Aby Warburg e quello di Federico Tiezzi. Proviamo allora, in conclusione, a disporre in una sequenza sintetica (che rimane aperta) le tesi sin qui declinate. Due erano i focus cardinali: l’analisi del metodo di costruzione del personaggio, su sfondo intertestuale, tipico di Tiezzi e il conseguente studio sull’espressività del gesto, il tutto sviluppato dal regista come aggetto su uno sfondo warburghiano. Abbiamo cercato di dimostrare anzitutto che il processo di caratterizzazione dei soggetti (e della pièce tout court) mutua dalle tele nere del Bilderatlas le sue istruzioni: la regola d’oro, tanto per lo studio delle icone quanto per la messinscena dei drammi, è infatti quella di aprire le dogane, disporre in rete, alla ricerca del medesimo che è già altro. Si tratta, è chiaro, di un lavoro precipuamente sintattico e la tavola di orientamento, cui ambisce Tiezzi, è simile alla scala degli armonici di un suono (che non è mai “puro”): vuole esplicitare (e tematizzare) l’alterità del sé.

Lo studio del gesto che sfocia nell’uso delle Pathosformeln connota i riferimenti al repertorio figurativo non come una semplice citazione di opere note: non si tratta (l’abbiamo già detto) di un compendio di immagini quanto di un pensiero per immagini, le quali manifestano tutte profonda coerenza semantica (e sintattica) con la parola e la musica che si trovano ad accompagnare. L’accenno poi alla dialettica visiva (vicino vs lontano) propria, mutatis mutandis, sia a Warburg che a Tiezzi ci spinge ad avvalorare l’ipotesi di partenza, ovvero a valorizzare una similarità di approccio e di metodo. Tanto il regista quanto lo storico dell’arte appaiono come sensibili sismografi, volti a captare e tradurre in tracciati leggibili le onde mnestiche che “perforano il piano del presente con il loro carico di passato” (Kany 1987, 1275), cercando interstizi sempre nuovi.

Note

[1] Sul teatro di Federico Tiezzi si veda L. Mango, Teatro di poesia. Saggio su Federico Tiezzi, Bulzoni, Roma, 1994. Sul “Teatro-Immagine” si veda: S. Sinisi, Dalla parte dell’occhio. Esperienze teatrali in Italia 1972-1982, Edizioni Kappa, Roma, 1983; ID., Cambi di scena. Teatro e arti visive nelle poetiche del Novecento, Bulzoni, Roma, 1995; L. Mango, La scrittura scenica. Un codice e le sue pratiche nel teatro del Novecento, Bulzoni, Roma, 2003; S. Margiotta, Il Nuovo Teatro in Italia 1968-1975, Titivillus, Corazzano, 2013.
[2] Si è scelto in questa sede di circoscrivere l’analisi al solo allestimento di Norma anzitutto per sperimentare un nuovo metodo di indagine; in secondo luogo perché in esso (rispetto ad altri progetti di regia) i legami con le teorie di Warburg sembrano trovare il maggior grado di esplicitazione e il più efficace compimento. L’allestimento fu commissionato dall’allora Sovrintendente e Direttore Artistico del Teatro Comunale di Bologna Marco Tutino, in coproduzione con il Teatro Petruzzelli di Bari e il Teatro Lirico Giuseppe Verdi di Trieste. Regia: Federico Tiezzi; Direttore d’orchestra: Evelino Pidò; Scene: Pier Paolo Bisleri; Costumi: Giovanna Buzzi; Luci: Gianni Pollini; Cast vocale: Daniela Dessì, Kate Aldrich, Fabio Armiliato, Rafal Siwek, Antonello Ceron, Marie Luce Erard. In occasione di questa produzione è stato realizzato un DVD, prodotto da Hardy Classic e Rai Trade con la regia di Patrizia Carmine. L’allestimento è stato riproposto a Bilbao (2009 Olbe Abao), Trieste (2009 Teatro Giuseppe Verdi), Tel Aviv (2011 The Israeli Opera), Bari (2011 Teatro Petruzzelli), Messina (2011 Teatro Vittorio Emanuele). L’ultima replica è avvenuta al Teatro Comunale di Bologna nell’aprile del 2013, con la direzione d’orchestra di Michele Mariotti e il debutto di Mariella Devia nel ruolo di Norma.
[3] La produzione fu sostenuta da Giandomenico Vaccari, allora Direttore Artistico del Teatro Petruzzelli di Bari. La regia venne affidata a Federico Tiezzi, novizio sui palcoscenici della lirica; Roberto Abbado ebbe la direzione d’orchestra. Per le scene fu incaricato Pier Paolo Bisleri, cui spettò l’audace missione di far interagire i sipari e i fondali di Mario Schifano con una complessiva impaginazione neoclassica degli spazi; i costumi portavano la firma di Ruggero Vitrani, le luci di Giuseppe Ruggiero. Cast vocale: Adriana Morelli, Raquel Pierotti, Nicola Martinucci, Carlo De Bortoli, Alessandro Cosentino, Ivana Turchese.
[4] Intervista a Federico Tiezzi in B. Scuderi, La Norma di Federico Tiezzi. Un caso di ekphrasis performativa, tesi di Laurea Magistrale, Università degli Studi di Catania, anno accademico 2012-2013, pp. 89-99: 94.
[5] Sull’accostamento tra i Topoi di Curtius e le Pathosformeln di Warburg cfr. S. SETTIS, “Pathos” ed “Ethos”, morfologia e funzione, in Pathosformeln, retorica del gesto e rappresentazione cit., pp. 23-34; G. BING, Introduzione, in A. WARBURG, La rinascita del paganesimo antico. Contributi alla storia della cultura raccolti da Gertrud Bing, La Nuova Italia, Firenze, 1996, pp. IX-XXXI.
[6] "La pittura, nelle sue composizioni coesistenti, può utilizzare solo un singolo momento dell’azione, e deve perciò scegliere il più pregnante, sulla base del quale quel che lo precede e quel che lo segue si rende più comprensibile" in M. Cometa (a cura di), Laocoonte. Gotthold Ephraim Lessing, Aesthetica, Palermo, 1991, p. 71.
[7] Quest’opera prosegue la riflessione già iniziata da Delle Sedie nel trattato sull’Arte e fisiologia del canto (1876), ed era uno dei testi di riferimento per lo studio del canto insieme ai trattati di Manuel Patricio Rodríguez García (Traité complet de l'art du chant en deux parties, Parigi, 1847), e di Domenico Crivelli (L'arte del canto ossia Corso completo d'insegnamento sulla coltivazione della voce, Londra, 1841). Il quarto libro, in particolare, si presenta come un «manuale per il Cantante che vuole prepararsi alla scena» e declina ogni gesto in tre movimenti principali: "Il movimento che prepara l’azione; Quello che l’afferma; Quello che lo completa e l’accentua". Si propone il riferimento a questo repertorio non già per supporre un rapporto diretto con la riflessione di Warburg o Tiezzi quanto per testimoniare, ancora una volta, la contiguità dei “terreni”: lo studio del gesto è centrale tanto nell’ambito delle arti figurative quanto in quello del teatro.

Bibliografia 

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M. L. Catoni, C. Ginzburg, L. Giuliani, S. Settis, Tre figure. Achille, Meleagro e Cristo, Milano, 2013.

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S. Settis, “Pathos” ed “Ethos”, morfologia e funzione, in Pathosformeln, retorica del gesto e rappresentazione: Ripensando Aby Warburg, fascicolo speciale della rivista “Moderna. Semestrale di teoria e critica della letteratura”, VI, nr. 2, Pisa-Roma, 2004, pp. 23-34.

Kany 1987
R. Kany, Lo sguardo filologico. Aby Warburg e i dettagli, [1985], in “Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa”, XXV, 3, 1987, pp. 1265-1283.

Tiezzi 1990
F. Tiezzi, Il teatro di poesia e il suo ritmo, in Il teatro come pensiero teatrale, Atti del convegno (Salerno, 14-16 dicembre 1987) a cura di Rosa Meccia, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli, 1990, pp. 231-243.

Warburg [1966] 1996
A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico. Contributi alla storia della cultura raccolti da Gertrud Bing, Firenze, 1996.

Warburg 2002
A. Warburg, Mnemosyne. L’Atlante delle immagini, a cura di M. Ghelardi, Torino, 2002.

Warburg-Cassirer 2003
A. Warburg, E. Cassirer, Il mondo di ieri. Lettere, a cura di M. Ghelardi, Torino, 2003.

English abstract

Since his debut with the company “Il Carrozzone” (1970), Federico Tiezzi has stood out because of his peculiar dramaturgy which makes of figurative arts its hallmark. In fact his contemporary education as art historian entails a fruitful permeation between stage and icon which allows him to establish himself as a precursor of the so-called “image theatre”. In all the plays and operas he has put on, his rigorous visual grammar brings about suggestions and interferences that deeply innervate his scene setting. Moreover, reference to Aby Warburg’s teachings clearly shows up in his way of portraying the character on an intertextual backdrop, as well as in his pondered development of gestural expressiveness.
This essay aims at retracing the relationship existing between Warburg’s theories and Tiezzi’s theatrical poetics and it puts forward a case study: Tiezzi’s staging of Vincenzo Bellini’s “Norma” which marked his beginnings as opera producer (Petruzzelli Theatre in Bari, 1991) and distinguishes itself by its tight connection with figurative arts.

Keywords | Mnemosyne Atlas; Warburg; Performance; Gesture; Artistic act; Federico Tiezzi; Image Theatre; Figurative arts.

Per citare questo articolo / To cite this article: B. Scuderi, Per un’estetica dell’intervallo. Echi warburghiani nella regia lirica di Federico Tiezzi, “La Rivista di Engramma” n. 130, ottobre/novembre 2015, pp. 168-183 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2015.130.0004