L’avvincente biografia di una statua: la ‘Penelope’ di Persepoli*
Alessandro Poggio
English abstract
Nel 330 a.C. le truppe macedoni razziarono e incendiarono Persepoli:
ὁ δὲ τιμωρήσασθαι ἐθέλειν Πέρσας ἔφασκεν ἀνθ’ ὧν ἐπὶ τὴν Ἑλλάδα ἐλάσαντες τάς τε Ἀθήνας κατέσκαψαν καὶ τὰ ἱερὰ ἐνέπρησαν, καὶ ὅσα ἄλλα κακὰ τοὺς Ἕλληνας εἰργάσαντο, ὑπὲρ τούτων δίκας λαβεῖν.
Alessandro, però, andava dicendo che intendeva così prendere vendetta sui Persiani che avevano distrutto Atene e bruciato i templi al tempo della spedizione in Grecia, e che intendeva punirli per tutti gli altri danni che avevano arrecato ai Greci.[1]
Tra le vittime della presa della reggia persiana ci fu in realtà anche una statua greca in marmo a tutto tondo, databile verso la metà del V sec. a.C., la cosiddetta Penelope, oggi conservata al Museo di Teheran (fig. 1).[2] Il torso della scultura danneggiata e la mano destra frammentaria furono scoperti negli anni Trenta del XX secolo all’interno dell’edificio del Tesoro, rispettivamente nel Corridoio 31 e nella Sala 38 (Schmidt 1939, 65-67; 1953, 177; 1957, 66-67; si veda ora Razmjou 2015). Come attestano le fonti, gli uomini di Alessandro Magno devastarono gli arredi degli edifici:
Lacerabant regias vestes ad se quisque partem trahentes, dolabris pretiosae artis vasa caedebant, nihil neque intactum erat neque integrum ferebatur, abrupta simulacrorum membra, ut quisque avellerat, trahebat.
Facevano a pezzi le vesti reali tirandole ciascuno dalla sua parte, spezzavano con le asce vasi di fattura raffinata, nulla restava intatto e intero di quel che si portava via, c'era chi si trascinava dietro membra infrante di statue così come le aveva strappate. [3]
La distruzione di Persepoli, pertanto, rappresenta per la statua un chiaro terminus ante quem, in seguito al quale essa non fu più visibile, sepolta tra i resti dell'edificio. In considerazione di questo dato, la presenza di copie di età romana certifica la fortuna del tipo in epoca più tarda, probabilmente grazie a una seconda versione sostanzialmente aderente a quella di Persepoli, come ribadito recentemente da Tonio Hölscher (Hölscher 2015, 120).[4]
Gli studiosi hanno opinioni discordanti riguardo alla ricostruzione degli episodi storici che portarono la statua marmorea nel centro persiano, sostenendo che si trattasse di un bottino di guerra, frutto delle razzie persiane in territori greci, o di un dono diplomatico greco offerto ai Persiani.[5]
Secondo Olmstead, la scultura di Persepoli sarebbe stata depredata dai Persiani in Ionia e le copie di età romana discenderebbero da una seconda versione realizzata in sostituzione della statua razziata (Olmstead 1950). Si tratterebbe della medesima situazione dei Tirannicidi di Antenor, portati via da Atene dai Persiani nel 480 a.C. e rimpiazzati pochi anni dopo dal gruppo di Kritios e Nesiotes, ma non abbiamo dati utili a chiarire il meccanismo di ri-creazione di un originale razziato (Langlotz 1951, 158). La statua di Persepoli, dunque, non sarebbe stata restituita dopo la caduta dell’Impero Persiano, come avvenne invece per i Tirannicidi e l’Apollo Philesios di Didima (Lapatin 2010, 255-257; Strocka 2002).
Agli antipodi è la posizione di coloro che invece vedono nella statua l’incarnazione di rapporti diplomatici, interpretandola come un dono di un'area greca offerto al Gran Re. Palagia, che in base all’ipotetica identificazione dell’origine del materiale interpreta la statua come prodotto interamente tasio, la considera un omaggio dell’isola dell’Egeo settentrionale al Gran Re (Palagia 2008). Secondo Hölscher, invece, la scultura sarebbe un dono diplomatico ateniese. Lo studioso tedesco affronta la questione delle copie di epoca romana sostenendo che la stessa bottega o addirittura il medesimo artista crearono intenzionalmente due esemplari: uno sarebbe stato esposto sull’Acropoli di Atene, l’altro sarebbe stato portato in Persia dall’ambasciatore ateniese Callia nella sua missione attorno alla metà del V sec. a.C. (Hölscher 2011 e 2015).[6]
Guerra e pace, dunque, si pongono come due poli opposti, scanditi da grandi eventi storici attraverso i quali vengono letti i rapporti tra mondo greco e mondo persiano. Il recente sviluppo degli studi che riguardano la Persia svela però una moltitudine di casistiche grazie alle quali l’interazione con il mondo greco si fa più intensa, in un continuo dipanarsi all’ombra della storia evenemenziale. E proprio in quest’ottica, a mio avviso, è utile tentare di definire una possibile biografia della statua rinvenuta a Persepoli.
L’interpretazione dell’opera di Persepoli come Penelope è basata su altri media artistici, dove lo stesso schema è riferito chiaramente alla consorte di Odisseo. Attorno alla metà del V sec. a.C. la formula è infatti associata a Penelope su alcuni rilievi melî (fig. 3), su uno skyphos attico da Chiusi (fig. 4) e su un anello d’oro riferito all’ambiente dorico per l’iscrizione ΠΑΝΕΛΟΠΑ (Ohly 1957; Gauer 1990, 32-36; Hausmann 1994; Parisi Presicce 1996; Germini, Kader 2006, 29-31; Hölscher 2015, 121). Questa diffusione in ambito greco è confermata dalla fortuna dello schema fin dal V sec. a.C. anche per figure non direttamente identificabili con Penelope: si pensi alla stele funeraria da Cipro, oggi al Metropolitan Museum di New York (fig. 5; Karageorghis 2000, 218, n. 349; Hermary, Mertens 2014, 344, Cat. 479), e a quella frammentaria conservata a Heraklion, a Creta (Clairmont 1993, 267-268, n. 1.216).[7]
La diffusione di questa iconografia in tutto il mondo greco impone una certa cautela nell’individuazione del luogo di produzione della scultura di Persepoli. Neanche le osservazioni stilistiche sono di aiuto poiché l’opera potrebbe essere attribuita a un artista itinerante di formazione ionico-insulare: il mantello della statua di Persepoli presenta morbide increspature, determinate dalla posa della donna, che sul retro risaltano in un disegno apparentemente casuale, ma in realtà ordinato; gli orli del mantello, inoltre, formano una trama sinuosa, in volute sovrapposte. Tratti stilistici simili possono essere riscontrati nei panneggi delle peplophoroi di Xanthos, in Licia, databili al secondo quarto del V sec. a.C. (fig. 6, 7, 8; Poggio 2010, con bibliografia precedente). Questo esempio ci ricorda che tali scuole artistiche erano attive in un’ampia area dell’Egeo, e dunque non è possibile stabilire con certezza la provenienza della statua di Persepoli.
La scultura presenta diversi elementi insoliti rispetto al contesto di ritrovamento. Il rilievo appare la tipologia più diffusa nell'arte ufficiale di ambito persiano, probabilmente sulla scia delle grandi realizzazioni neo-assire (Nylander 1970, 121 nota 315). Tuttavia, nonostante la 'Penelope' di Persepoli sia trattata come una vera e propria scultura a tutto tondo, la resa volumetrica generale privilegia la visione frontale, e in questo senso la statua permetteva un punto di vista non dissimile dalle consuetudini percettive del contesto di Persepoli. Non meno insolito è il materiale stesso, un marmo insulare o microasiatico, le origini del quale, finora dedotte solo su base autoptica, hanno spesso condizionato l'interpretazione globale della scultura (Palagia 2008).[8] Indubbiamente, già l'osservatore antico a Persepoli doveva riconoscere questo marmo come estraneo al mondo iranico e alcune persone avrebbero forse potuto identificare la scultura come un prodotto dell'area greca. In ogni caso, la sua presenza nel Tesoro di Persepoli, la cui funzione è stata recentemente sottolineata da Razmjou, rivela che fu indubbiamente attribuito un valore significativo a questo manufatto (Razmjou 2015, 126).
Si può dire di più sul modo in cui la scultura arrivò nel cuore della Persia? In situazioni di razzia le statue in bronzo erano senza dubbio più facilmente trasportabili: in quanto cave, erano più leggere (Langlotz 1951, 157-158). Lo dimostrano altri esempi di sculture prese dai Persiani come bottino di guerra: i già menzionati Tirannicidi di Antenor da Atene e l'Apollo Philesios di Kanachos di Sicione da Didima, tutti in bronzo. La praticità di trasporto di opere bronzee sembra inoltre confermata dalla notizia di una statua bronzea razziata ad Atene dai Persiani e poi ritrovata a Sardi da Temistocle, che l’aveva commissionata in patria:
Ὡς δ’ ἦλθεν εἰς Σάρδεις καὶ σχολὴν ἄγων ἐθεᾶτο τῶν ἱερῶν τὴν κατασκευὴν καὶ τῶν ἀναθημάτων τὸ πλῆθος, εἶδε καὶ ἐν Μητρὸς ἱερῷ τὴν καλουμένην ὑδροφόρον κόρην χαλκῆν, μέγεθος δίπηχυν, ἣν αὐτὸς ὅτε τῶν Ἀθήνησιν ὑδάτων ἐπιστάτης ἦν, ἑλὼν τοὺς ὑφαιρουμένους τὸ ὕδωρ καὶ παροχετεύοντας, ἀνέθηκεν ἐκ τῆς ζημίας ποιησάμενος.
[Temistocle] Giunto a Sardi, nei momenti di ozio andava a contemplare gli arredi dei santuari e la gran quantità delle offerte votive, fra cui scorse anche, nel santuario della Madre degli dei, la cosiddetta Portatrice di acqua: una fanciulla in bronzo, alta due cubiti, fatta fare ed offerta da lui stesso, quando ad Atene era sovrintendente delle acque, con le multe inflitte a chi le sottraeva e le deviava.[9]
È quindi lecito calare lo spostamento della scultura di Persepoli in una dimensione pacifica, ricordando che il rapporto tra mondo greco e persiano si nutriva di contatti continui, in particolare in Asia Minore, da dove provenivano, per esempio, alcune figure di interpreti tramandate dalle fonti, come il cario Gaulites, che conosceva sia il greco che il persiano o l’aramaico (Thuc. VIII 85.2; Asheri 1983, 20–22; Salmeri 1994, 92–93). In Asia Minore, come in altre province persiane, le corti satrapiche, Sardi e Daskyleion, erano centri politici e amministrativi importanti, in quanto sedi decentrate del potere persiano centrale.[10] Queste capitali erano in costante rapporto non solo con il cuore politico dell’Impero, grazie a un efficiente sistema di comunicazione, ma anche con il mondo greco (Kuhrt 2014).
Mi sembra interessante la notizia di Erodoto, secondo il quale Dario fece trasportare i beni di Orete, che era stato satrapo di Sardi, a Susa, una delle capitali dell’impero: tra gli schiavi di Orete figurava un medico di Crotone, Democede, il quale aveva prestato servizio presso Policrate di Samo ed era stato trattenuto dal satrapo di Sardi dopo che questi fece uccidere il tiranno; alla corte del Gran Re, per la sua abilità di medico, Democede ottenne grandi onori (Herod. III 129-131). Nel percorso che condusse il medico da Samo, isola ionica, alla Persia, la corte di Sardi fu una fondamentale tappa intermedia. Per richiamare come confronto il ruolo di altre province dell’Impero Persiano, si può menzionare il caso dell'Egitto, che prese parte a scambi con il centro dell’impero. Lo dimostra la statua di Dario, abbigliata alla persiana, ma di impronta egizia, che fu mandata a Susa (Razmjou 2002; Yoyotte 2010). Non sarebbe improprio pensare a situazioni simili nel caso dell’Asia Minore; conosciamo infatti il ruolo significativo rivestito dalle maestranze provenienti da Sardi e dalla Ionia per l’architettura achemenide (Nylander 1970; Curtis 2005). L'Asia Minore, pertanto, deve aver giocato un ruolo importante per la ‘Penelope’ di Persepoli e per l'esemplare che avrebbe ispirato le copie romane.
Se si ipotizza la presenza di un esemplare perduto della ‘Penelope’ da cui derivano le copie romane, bisogna interrogarsi sul suo rapporto con la statua di Persepoli. È stato ipotizzato che la statua di Persepoli fosse la copia in marmo di un originale bronzeo (Langlotz 1951, 168). Poiché l'esemplare giunto fino a noi, quello di Persepoli, è in marmo, bisogna osservare che se la duplicazione delle ‘Penelopi’ fosse stata pianificata fin dal principio, allora sarebbe stato più facile ed economico procedere con la fusione in bronzo di entrambi gli esemplari, in maniera tale da produrre due opere sostanzialmente identiche con un dispendio di tempo ed energia inferiore.[11] Tali considerazioni potrebbero favorire l’ipotesi di una riproduzione della statua di 'Penelope' non pianificata, anche se realizzata a una distanza temporale ravvicinata.[12] La ‘Penelope’ di Persepoli poteva essere il celebre prototipo da cui fu realizzata la replica andata perduta, prima che l’originale fosse trasportato nella capitale persiana in un momento non precisato tra V e IV sec. a.C. Oppure, la statua di Persepoli era la replica di una scultura riconosciuta come meritevole di essere riprodotta, molto visibile perché collocata, per esempio, in un santuario famoso dell’Asia Minore.[13] Successivamente, la statua forse confluì in una capitale satrapica e poi a Persepoli. Non si può escludere definitivamente, infine, che le due ‘Penelopi’ fossero multipli di una stessa creazione, anche se questo processo non fu necessariamente pianificato dall’inizio (Settis 2015b).
In Asia Minore non mancavano sedi conosciute al pari dell’Acropoli di Atene in grado di offrire alla 'Penelope' che avrebbe ispirato le copie romane la visibilità necessaria per la fama e la fortuna nei secoli successivi: si pensi soprattutto ai grandi santuari, motori della mobilità di artisti. Per esempio, sono emblematiche le Amazzoni del concorso presso l’Artemision di Efeso: conosciamo queste statue, realizzate nel terzo quarto del V sec. a.C., grazie alle copie di età romana, una fortuna certo legata alla celebrità degli artisti, ma anche al luogo della ben nota competizione (Papini 2014, 158-171; si veda anche Østergaard 2015, 116).[14] Un passo straboniano, che approfondirò in altra sede, afferma l’esistenza di una statua di Penelope, realizzata da Trasone, un artista di incerta cronologia che aveva lavorato anche nell’Artemision di Efeso.[15] Non è sicuro che quest’opera fosse presente nel santuario, in ogni caso Strabone ne certifica la memoria fino ai suoi tempi (I sec. a.C. - I sec. d.C.). È suggestivo che l’espressione "tanta marmoris radiatio est" ("tanto è lo splendore del marmo"), riferita da Plinio il Vecchio, in un passo controverso, forse proprio a un’opera dello scultore Trasone, sembri descrivere l’effetto luminoso conferito dai cristalli di grana media della ‘Penelope’ di Persepoli (Plin. NH XXXVI 32 [trad. da Ferri 1946]).
Alla luce dei dati finora esposti, bisogna dunque considerare due possibilità per l’identificazione della statua di Persepoli. Da una parte, è lecito domandarsi se le rappresentazioni sicuramente identificabili come Penelope rappresentino l’utilizzo di un’iconografia già esistente - quella della dolente, che si addice all'eroina ignara della sorte del marito - o se sanciscano la fortuna di una nuova formula iconografica. Entrambe le ipotesi, a mio avviso, non implicano che tutte le figure femminili caratterizzate da questo schema rappresentino necessariamente delle ‘Penelopi’.[16] Le pratiche di bottega dell’epoca, infatti, facevano ricorso a schemi riadattabili e replicabili anche in diversi media artistici e formati, con variazioni iconografiche a seconda delle esigenze.[17] La scultura di Persepoli, pertanto, potrebbe rappresentare una dolente generica, secondo lo schema usato per l’iconografia di Penelope e diffuso attraverso diversi media come le stele funerarie. Dall'altra, però, ipotizzando che la ‘Penelope’ di Persepoli e la sua versione perduta fossero collegate all'Asia Minore, la notizia di Strabone, attestando la presenza di una statua con questo soggetto realizzata da un artista attivo nell’Artemision di Efeso, non esclude che la scultura del Tesoro rappresenti proprio la consorte di Odisseo.
Bottino di guerra o dono diplomatico sono interpretazioni che non possono essere escluse fintanto che non emergeranno nuovi dati, tuttavia presuppongono una visione in cui i rapporti tra mondo greco e persiano sono scanditi in gran parte da conflitti e trattati di pace. Ritengo invece che la statua di Persepoli, pur nella sua eccezionalità, debba essere analizzata tenendo conto di una realtà più fluida nell’ambito delle complesse dinamiche culturali e politiche dell’Impero Persiano. I santuari e le corti satrapiche dell'Asia Minore giocavano in tal senso un ruolo di primo piano.
* Il presente contributo è una versione rivista del saggio Tra guerra e pace. Riflessioni sulla ‘Penelope’ di Persepoli del catalogo della mostra di Teheran A Statue for Peace: The Penelope Sculptures from Persepolis to Rome, Teheran, Museo Nazionale dell’Iran. Le osservazioni qui proposte sono parte di uno studio più ampio di prossima pubblicazione.
Note
1. Arr. An. III 18.12 (trad. da Sisti 2001).
2. La cronologia della statua è largamente accettata; Langlotz (1961, 78) proponeva una datazione attorno al 400 a.C. Sulla distruzione di Persepoli e sulla sua data, si vedano Briant 1996, 871 e 1073-1074; Kuhrt 2007, 420-421 e 450, n. 30 (iv); Waters 2014, 214.
3. Curt. V 6.5 (trad. da Atkinson 1998).
4. Sulle copie di età romana, si veda T. Hölscher in Settis, Anguissola, Gasparotto 2015, 226-227, nn. 53-58.
5. Soluzioni alternative sono proposte da Langlotz 1951 e 1961; Fleischer 1983.
6. Sugli originali multipli, Settis 2015a. Si veda inoltre Anguissola 2015. Per riflessioni metodologiche sul tema della replica nella storia dell'arte e in epigrafia, Elsner 2015. Per la statua di Persepoli come dono, si veda anche Eckstein 1959.
7. Per la rappresentazione di Penelope in Licia nel IV sec. a.C., Poggio 2007.
8. Per le ipotesi sul marmo: Olmstead 1950, 10 (isole Egee); Eckstein 1959, 145 (insulare); Langlotz 1961, 72 (area tra Izmir ed Efeso); Palagia 2008, 228-229 (Taso).
9. Plu. Them. 31.1 (trad. da Carena, Manfredini, Piccirilli 1983).
10. Su Sardi, Dusinberre 2003; su Daskyleion, Kaptan 2002. Sull'Anatolia in età persiana, Dusinberre 2013.
11. Per alcune considerazioni sulla produzione bronzistica, Mattusch 2015.
12. Strocka (1979, 157) ha ipotizzato che in area ionica alla metà del V sec. a.C. si replicassero rilievi in marmo.
13. Si veda anche Eckstein 1959: 149; Fleischer 1983, 35.
15. Str. XIV 1.23. Su Trasone, Kansteiner, Lehmann 2014; si veda anche Hiller 1972: 65; Mactoux 1975: 89-90, n. 1; Tagliabue 2013. Su alcuni artisti attestati nell'Artemision, Engelmann, İçten, Muss 2014.
16. Si veda anche Langlotz 1961. Sulla fortuna della formula, Settis 1975, 12-13.
17. Per il ruolo delle botteghe nel processo di replica, Elsner 2015, 56.
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English abstract
This article aims at suggesting an alternative perspective that can overcome the dialectic of War / Peace between the Persian and Greek worlds as to the interpretation of the so-called Penelope of Persepolis. This marble statue, which can be classified as Greek both for style and material, was found in a fragmentary state in the Treasury of Persepolis. The first extensive essay on the sculpture interpreted it as a Persian loot from the Greek world, whereas the most recent theories have suggested that it arrived at Persepolis as a diplomatic gift from the Greeks. This article, following an approach to the statue already attempted in the past decades, aims instead at reconsidering the biography of the ‘Penelope’ in light of the frequent contacts between Greek and Persian worlds, especially in Asia Minor. Furthermore, the article suggests to recontextualise the iconographical scheme of the statue, which was employed also for mourning figures not necessarily recognisable as representations of Penelope. These observations, which will be followed by a broader study, aim thus at inviting to reconsider the widest range of evidence in order to reconstruct the intriguing biography of the statue from Persepolis.
keywords | Exhibition; Fondazione Prada; Milan; Venice; Serial/Portable Classic; Serial Classic; Penelope; Sculpture; Statue; Greek culture.
Per citare questo articolo / To cite this article: A. Poggio, L’avvincente biografia di una statua: la ‘Penelope’ di Persepoli, “La Rivista di Engramma” n. 129, settembre 2015, pp. 45-58 | PDF of the article