"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

136 | giugno-luglio 2016

9788898260812

Il Ghetto di Venezia. Esclusione, inclusione e integrazione nello spazio urbano e nelle sinagoghe (XVI-XVIII secolo)

Gianmario Guidarelli

English abstract

Oggi, il termine 'ghetto' viene usato per indicare una realtà chiusa, limitata alla parte povera e degradata della società, ma a Venezia, dove per la prima volta si utilizzò questo termine per indicare una porzione di città, la parola descriveva semplicemente un luogo precedentemente utilizzato come sede di una fonderia di rame ('geto', che in lingua veneziana significa 'metallo fuso'). È qui, in un'isola nella periferia occidentale della città, che nel 1516, il Senato decise di confinare una comunità di Ebrei askhenaziti presenti da decenni a Venezia (vicino al mercato di Rialto) e, ancora prima, a Mestre che, ancora nel XVI secolo, era un piccolo villaggio di terraferma. Dal 1508 al 1516, un'ondata di Ebrei, spinti dalla guerra di Cambrai e dalla peste, si erano rifugiati in laguna: la popolazione veneziana aveva accolto con grande preoccupazione gli Ebrei e alcune rivolte popolari convinsero il Senato a confinarli in una zona della città, in modo da essere controllati, ma anche protetti (Calabi 2016, 15-43).

I due allargamenti successivi dell’area del Ghetto (la parte originaria è l’isola del Ghetto Novo; il Ghetto Vecchio fu annesso nel 1541; il Ghetto Novissimo fu istituito nel 1633) coincisero con due delle ricorrenti ondate migratorie di Ebrei sefarditi che periodicamente interessavano la comunità ebraica di Venezia. La città, fin dalla metà del XVI secolo, perseguì una politica di accoglienza nei confronti degli Ebrei, diversa rispetto a quella impostata da altri stati d'Europa e del Mediterraneo in particolare: è per questo che le famiglie di mercanti Ebrei obbligate a spostarsi per le periodiche espulsioni in Italia o nel Mediterraneo Orientale, oppure normalmente mobili per motivi commerciali, trovarono in Venezia una destinazione sicura, dove lo Stato le segregava, ma anche le proteggeva. E Venezia, con l’invenzione e l’istituzione del Ghetto diventò un modello per altri Stati, soprattutto italiani; una politica di tolleranza e di sfruttamento delle attività commerciali e finanziarie gestite dagli Ebrei, che, nel resto d’Italia, venne però inizialmente adottata e poi abbandonata, per essere sostituita da una prassi repressiva se non apertamente esclusiva.

A Roma, per esempio, gli Ebrei spagnoli furono accettati e protetti da Alessandro VI al loro arrivo dalla Spagna ​​nel 1492; ma nel 1550, iniziò un feroce attacco contro i Marrani dello Stato Pontificio, che portò alla loro espulsione da Ancona. Lo stesso processo (tolleranza iniziale e poi persecuzione) avvenne anche a Ferrara, dove, dopo un periodo di accoglienza, alla fine del XVI secolo furono imposte agli Ebrei restrizioni residenziali e commerciali.

Invece, il Ghetto di Venezia si mantenne sempre come un luogo di relativa libertà e per questo, un importante luogo di scambi economici e culturali. La geografia delle diverse 'nazioni' che trovarono rifugio nel Ghetto di Venezia è un quadro della varietà del mondo ebraico europeo del Rinascimento e si riflette con chiarezza nella struttura di questo particolare spazio urbano, articolata nelle sue tre parti principali; inoltre, la permeabilità del quartiere ebraico rispetto al resto della città di Venezia è un segno di interazione continua (economica, culturale e sociale) tra due realtà che nelle altre città italiane erano rimaste separate.

L'architettura è fortemente influenzata da queste dinamiche socio-economiche, interne ed esterne al Ghetto, e l'adozione di alcuni tipi di edilizia residenziale, la somiglianza tra le sinagoghe di diversi culti e la gestione dello spazio, dimostrano come i diversi gruppi etnici e le differenti culture di origine coesistevano e interagivano nello spazio urbano del Ghetto.

Agli inizi del XVI secolo, le molte comunità straniere residenti a Venezia godevano di una certa autonomia amministrativa ma erano talvolta obbligate a risiedere e svolgere le proprie attività commerciali in spazi ben determinati (per esempio, i Fondaci dei Turchi, dei Persiani, dei Tedeschi: vedi Sagredo 1860; Schulz 1997; Zannini 2009; Molà 2011; Ceriana, Müller 2014; Lanaro 2014). Come hanno dimostrato gli studi di Donatella Calabi, per il governo veneziano, gli Ebrei sono una di queste comunità (Calabi 1991; Calabi 1996; vedi anche: Concina 1997; Ravid 2013). D’altronde, a Venezia le comunità straniere sono completamente integrate nella vita sociale, economica e culturale della città anche se gli stranieri non godono dei privilegi dei "cittadini originari". La relativa segregazione dei diversi gruppi etnici favoriva da una parte il controllo statale, dall'altro la tutela delle singole comunità. Per quanto riguarda le diverse 'nazioni' degli Ebrei, la creazione del Ghetto con le diverse concezioni culturali, sociali e religiosi degli ashkenaziti e dei sefarditi porta alla realizzazione di una specie di microcosmo nel sistema urbano di Venezia.

È in questo quadro che si inserisce la delibera del Senato del marzo del 1516. Il testo della risoluzione descrive a fondo le regole della vita nel quartiere e dei diritti e doveri degli Ebrei: dopo la costruzione di muri vicino l'accesso ai ponti levatoi, gli Ebrei erano obbligati a implementare una forma di monitoraggio lungo i canali e le guardie pagate da loro erano collocate vicino alle porte di accesso che dovevano essere chiuse durante la notte.

La concentrazione in un unico spazio costrinse diversi gruppi etnici (gli originari tedeschi e italiani, e poi gli spagnoli e i portoghesi) a una inedita coesistenza, e diede origine nel corso dei decenni a una particolare situazione urbana e sociale, regolata dopo pochi anni con la creazione di un unico istituto chiamato 'Università degli Ebrei' – un'organizzazione di autogoverno del Ghetto, composta da rappresentanti di tutti i gruppi etnici. Le famiglie tedesche e italiane (di origine ashkenazita) erano dedite alla "fenerazione" (un particolare prestito a usura, concesso agli Ebrei), alla medicina e alla compravendita di tele usate. Per queste attività, la prima comunità ad abitare nel Ghetto fu posta fin dal 1516 sotto la giurisdizione degli Ufficiali al Cattaver (una magistratura che vigilava sulle attività finanziarie), secondo un sistema di controllo che diventerà un modello per la gestione di altri ghetti in Italiani, a Firenze, Roma e altrove.

A questa prima comunità si aggiunsero presto alcune famiglie di Ebrei sefarditi, provenienti dalla Spagna, dal Portogallo e dal Mediterraneo orientale. La loro qualifica di “viandanti” descriveva una situazione socio-economica completamente diversa dai piccoli commercianti e banchieri askhenaziti: si trattava di commercianti in continuo movimento sulle rotte con l'Oriente, che nel 1541, indirizzarono una petizione alla Repubblica per poter ottenere uno spazio maggiore e più adatto per vivere e fare affari, proponendo in sostanza un allargamento dell’area del Ghetto.

Gli Ebrei "levantini" erano estranei alla Repubblica di Venezia e sudditi dell'Impero turco, ma erano importanti per la Serenissima come intermediari con gli Ottomani. Non è un caso che il periodo della crescita degli Ebrei spagnoli a Venezia (tra il 1540 e il 1570), coincide con quel periodo di tensioni tra la Repubblica di Venezia e l'Impero Ottomano, che sarebbe sfociato nella battaglia di Lepanto.

In seguito alla richiesta del 1541, alle famiglie di Ebrei levantini fu destinata un’area (il Ghetto Vecchio), posta tra il Canale di Cannaregio e il Ghetto Novo; parte del Ghetto Vecchio era costituito da blocchi di abitazioni, accessibili attraverso un sistema di calli e corti, con un asse principale, interrotto da un campiello, dove nel secolo successivo vennero costruite le due sinagoge sefardite. Da quel momento i due ghetti e le rispettive comunità sefardite e ashkenazite si sono evolute come due entità distinte dal punto di vista della ricchezza e delle relazioni con lo Stato. La loro rispettiva autonomia, poi, venne ulteriormente sottolineata nel 1589 con la regolarizzazione della comunità dei "ponentini", cioè degli Ebrei marrani provenienti direttamente dal Portogallo e dalla Spagna.

fig.1 | Venezia, Campo del Ghetto Novo

fig.2 | Venezia, Ghetto Vecchio

fig.3 | Venezia, Ghetto Novissimo

fig.4 | Venezia, Scola Tedesca

fig.5 | Venezia, Scola Canton

fig.6 | Venezia, Scola Ponentina (Spagnola)

fig.7 | Venezia, Scola Levantina

Le differenze sociali ed economiche tra le diverse 'nazioni' che coesistevano dentro le mura del Ghetto, hanno influenzato anche il carattere urbano delle due rispettive aree di residenza. Il Ghetto Novo ashkenazita (che coincide con un'isola e quindi naturalmente chiuso) si sarebbe trasformato in uno spazio relativamente aperto, permeabile e attrattivo per i clienti dei “banchi” e delle botteghe (fig.1). Il Ghetto Vecchio (fig.2), invece, benché fosse di più antica urbanizzazione e consistesse sostanzialmente in una rete di collegamento tra la città e il Ghetto Novo, si trasformò rapidamente in una zona residenziale riservata alle ricche famiglie di mercanti internazionali (Ravid 1975; Pullan 1985; Calabi 1991, 217-220; Calimani 2000, 52-56; Arbel 2001; Calabi 2016, 45-47) – una vocazione residenziale che è ancora oggi leggibile nella stessa topografia, con spazi pubblici spesso chiamati con il nome delle famiglie che vi abitavano (Calle dei Barucchi, calle Mocato, Corte Rodriga).

Dopo la peste del 1630, la comunità sefardita, alla ricerca di ulteriore spazio residenziale, chiese e ottenne un ulteriore allargamento che coincise con la realizzazione del Ghetto Novissimo. Il sovraffollamento d’altronde è un problema che ricorre periodicamente nelle vicende del Ghetto veneziano (Calabi 2016, 54-59 con bibliografia).

Il Ghetto Novissimo (fig.3), aperto nel 1633, è stato quasi un prolungamento della zona originaria di insediamento sefardita, un allargamento resosi necessario per poter ospitare 20 nuove famiglie in grandi condomini. Il Ghetto Novissimo contribuì così alla redistribuzione della densità di popolazione, il cui aumento, nel caso del Ghetto Vecchio e del Ghetto Novo, aveva comportato una veloce moltiplicazione del numero di piani degli edifici e dello stesso numero di abitazioni, che durante il XVII secolo era raddoppiato.

Nonostante la legislazione, che costringeva le tre comunità a vivere in modo indipendente, i tre Ghetti sono stati organizzati come un quartiere unico nel suo genere. L'area doveva essere relativamente autonoma, in particolare per quanto riguardava l'approvvigionamento alimentare, condizionato dalla disponibilità di cibo kosher. Per questo, nel corso del XVI secolo, nella zona del Ghetto Novo si erano insediati alcune botteghe di macellai, taverne, rivendite di formaggio e panetterie. Secondo le regole imposte dal governo, tutte le attività commerciali dovevano essere rigorosamente separate tra ashkenaziti e sefarditi, ma in realtà si verificava una sovrapposizione costante di interessi e identità; le regole erano spesso ignorate anche se le due comunità sono rimaste significativamente differenti per status economico, cultura di origine, costumi e lingua.

In questo senso, il contesto in cui, nel corso dei primi decenni del XVI secolo, la differenza tra sefarditi e ashkenaziti si manifestò in modo più evidente fu l’architettura delle sinagoghe, costruite separatamente da comunità diverse.

A Venezia, come anche in altre realtà (come Roma, per esempio) la sinagoga è chiamata 'Scola'; a Venezia questo avviene per affinità con il corrispondente termine dialettale che indica una confraternita laicale. L'adozione della stessa parola per le sinagoghe identifica realtà molto simili. D’altronde, a Venezia, come del resto altrove, la sinagoga è lo spazio di riunione di una comunità e, oltre che essere dedicata al servizio religioso, è il luogo dove si sviluppano un gran numero di attività parallele di assistenza, di studio e di istruzione. Per questo, anche dal punto di vista architettonico, lo spazio della sinagoga era molto simile al modello delle 'Scole Grandi' veneziane, con cui condivideva l’assetto polifunzionale: un piano terreno con numerosi ambienti per le attività sociali, assistenziali e culturali; la grande sala di culto (spesso a doppia altezza) al livello superiore.

Nello spazio di una sinagoga, la Bimah è il pulpito destinato alla lettura della Torah e dove si celebra la liturgia. Nella tradizione ashkenazita, la Bimah posta al centro della sinagoga, tra i banchi dove seggono i fedeli. Nelle sinagoghe delle comunità sefardite riformate, la Bimah (o Tevah) è invece sollevata rispetto ai fedeli ed è posta a una estremità dell’aula di culto. L’Aron, invece, è l’armadio – corrispondente all’Arca dell’Alleanza – che contiene i Rotoli della Torah.

Le sinagoghe veneziane sono state ricostruite più volte nel corso della loro esistenza e tutte le diverse ricostruzioni hanno portato a una sorta di normalizzazione progressiva verso il modello sefardita, con la bifocalità tra Bimah e Aron, in un lungo processo di integrazione culturale e artistica (in generale, si vedano: Pacifici 1930; Ottolenghi 1932; Pinkerfeld 1954; Wischnitzer 1964; Cassuto 1977; Cassuto 1978; Krinsky 1985; Sullam Reinisch 1985; Liscia Bemporad 1990; Concina 1991; Segre 1996; Calimani 2000; Jarrassé 2001; Frank 2004; Gould 2006; Fortis 2014; Calabi 2016).

In effetti, la sinagoga ashkenazita della comunità tedesca ( "Scola Tedesca", fig.4), costruita nel 1528-1529, nel suo originale allestimento aveva la Bimah al centro e l’Aron ricavato in una delle due pareti minori. I banchi per i fedeli sono disposti in parallelo lungo i lati lunghi e originariamente il matroneo occupava una delle due pareti laterali. L'attuale struttura risale al 1733 quando lo spostamento della Bimah sul lato opposto a quello dell’Aron introdusse la bifocalità tipica del rito sefardita.

La stessa configurazione era stata, però, già adottata nella sinagoga Canton (fig.5); la seconda sinagoga di rito askhenazita, costruita intorno al 1531-32, su un lato del campo (chiamato dai documenti a sua volta "Canton del Madras") aveva nel XVII secolo anche una serie di ambienti accessori: un "logheto dove si insegna per amor di Dio", una camera mortuaria dove la Fraterna della Misericordia teneva le casse dei morti (Segre 1996). Nel corso del Sei e Settecento, una serie di trasformazioni dell'aula di culto ne rinnovò l’allestimento, senza però stravolgere la originaria configurazione cinquecentesca, dove era stato introdotto, qui per la prima volta, il tema distributivo della bifocalità tra Aron e Bimah. L'Aron fu ricostruito intorno al 1670 (come testimoniato dalla iscrizione dedicatoria) secondo la stessa tipologia dell'analogo elemento della Scola Tedesca. La Bimah, invece, viene riconfigurata nella stessa posizione nel 1730 insieme al matroneo da Bartolomeo Scalfarotto, in un vano absidato, con finestre laterali e lanterna cupolata; il tutto sopraelevato su quattro scalini e incorniciato da un arco trionfale sorretto da coppie di colonne tortili.

La terza sinagoga ashkenazita, costruita dalla Magnifica Università degli Ebrei Italiani giunti a Venezia nel 1555, fu costruita sopraelevando il terzo piano di un edificio quattrocentesco. La prima fabbrica, già in funzione nel 1575, era costituita da un ambiente verso il canale e una sala con un matroneo superiore. Per ottenere una sala molto vasta organizzata secondo il principio bifocale, si utilizzarono due ambienti ricavati da edifici laterali. A destra si ricavò lo spazio per la Bimah, che seguendo il modello della Scola Canton è uno spazio absidato sopraelevato su due rampe di scale, incorniciato da un arco trionfale a serliana e illuminato da una lanterna. Alcune trasformazioni di inizio XVII secolo determinarono anche l'innalzamento delle pareti per ricavare il matroneo. L'attuale aspetto dell'aula di culto, però, è in gran parte determinato dall'intervento del XIX secolo di Pier Angelo Fossati, che rifece l'arredo ligneo e in particolare l'Aron e che, pur riprendendo i modelli seicenteschi delle Scole 'Levantina' e 'Spagnola', parla già un linguaggio neoclassico (Calabi 2016, 92-93).

Le due sinagoghe sefardite ('Levantina' e 'Spagnola') erano prima di tutto importanti centri culturali, con l’attività cultuale strettamente intrecciata con quella di assistenza ai membri poveri delle rispettive confraternite. La Scola Spagnola (fig.6; vedi: Cassuto 1978, 28-53; Concina, Camerino, Calabi 1991, 122-155; Frank 2004, 279-280), a differenza di quella Tedesca, non è ricavata all’interno di un edificio residenziale preesistente, ma è il risultato di un processo di ricostruzione (concluso nel 1657) della originaria aula (risalente al 1580 circa), in un grande manufatto autonomo dove il piano terreno è costituita da un grandioso atrio, su cui si aprono la scuola rabbinica e gli ambienti di servizio, atrio che grazie a uno scalone a tre rampe è collegato alla sala di culto superiore. Qui, il grandioso Aron e la monumentale Bimah, collocati sui due opposti lati dell’aula, mantengono la caratteristica bifocalità delle sinagoghe sefardite, mentre il matroneo a pianta ovoidale sarebbe diventato il prototipo per la ricostruzione della Scola Tedesca.

In effetti, la Scola Levantina (fig.7; vedi: Cassuto 1978, 28-53; Concina, Camerino, Calabi 1991, 122-155; Frank 2004, 434-435) è un edificio molto simile a quella 'Spagnola'. Il primo edificio, costruito nel 1550, si componeva di due grandi sale: la sala d'ingresso al piano terra era destinato ad attività educative e culturali, l’aula al primo piano era una grande camera con una galleria destinata alle donne. La ricostruzione del 1683 mantenne la struttura a due piani con la posizione bifocale di Bimah e Aron.

Nonostante le contaminazioni fra i modelli spaziali che si verificano, come abbiamo visto, tra il XVI e il XIX secolo, ogni sinagoga veneziana manteneva, nella liturgia e nel repertorio melodico, significative differenze – tanto che nelle stesse due sinagoghe sefardite si usavano i medesimi libri di preghiera, ma diverse erano le melodie che accompagnavano le stesse preghiere. Un modello di integrazione, quindi, che manteneva tutte le differenze culturali e le singole tradizioni.

Referenze bibliografiche
  • Arbel 2001
    B. Arbel, Jews in International Trade. The Emergence of the Levantines and Ponentines, in R.C. Davis (ed by), The Jews of Early Modern Venice, Baltimore 2001, 73-96.
  • Calabi 1991
    D. Calabi, Il ghetto e la città 1541-1866, in Concina, Camerino, Calabi 1991, 203-301.
  • Calabi 1996
    D. Calabi, Gli stranieri e la città, in Storia di Venezia, vol. 5, A. Tenenti e U. Tucci (a cura di), Il Rinascimento, economia e società, Roma 1996, 913-946.
  • Calabi 2016
    D. Calabi, Venezia e il ghetto: cinquecento anni del "recinto degli ebrei", Milano 2016.
  • Calimani 2000
    R. Calimani, Storia del ghetto di Venezia, Milano 2000.
  • Cassuto 1977
    D. Cassuto, The Scuola Grande Tedesca in the Venice ghetto, in “Journal of Jewish art”, 3-4/1977, 40-57.
  • Cassuto 1978
    D. Cassuto, Ricerche sulle cinque sinagoghe (scuole) di Venezia: suggerimenti per il loro ripristino, Roma 1978.
  • Ceriana, Müller 2014
    M. Ceriana, R. Müller, Radicamento delle comunità straniere a Venezia nel Medioevo: "scuole" di devozione nella storia e nell’arte, in B. Del Bo (a cura di), Cittadinanza e mestieri, radicamento urbano e integrazione nelle città bassomedievali (secc. XIII-XIV), Roma 2014, 299-331.
  • Concina 1991
    E. Concina, Sinagoghe, in Concina, Camerino, Calabi 1991, 93-155.
  • Concina 1997
    E. Concina, Fondaci: architettura, arte e mercatura tra Levante, Venezia e Alemagna, Venezia 1997.
  • Concina, Camerino, Calabi 1991
    E. Concina, U. Camerino, D. Calabi (a cura di), La città degli Ebrei: il ghetto di Venezia; architettura e urbanistica, Venezia 1991.
  • Fortis 2014
    U. Fortis, Venice synagogues, New York 2014.
  • Frank 2004
    M. Frank, Baldassare Longhena, Venezia 2004.
  • Gould 2006
    G. A. W. Gould, Architecture and sculptural decoration of the Venetian synagogues, MA dissertation, University of Oregon, 2006.
  • Jarrassé 2001
    D. Jarrassé, Synagogues: une architecture de l’identité juive, Paris 2001.
  • Krinsky 1985
    C. H. Krinsky, Synagogues of Europe: architecture, history, meaning, Cambridge/Mass 1985.
  • Lanaro 2014
    P. Lanaro, Essere straniero in una città di stranieri: Venezia, secoli XIV-XVIII, in R. Tamborrino e G. Zucconi (a cura di), Lo spazio narrabile, Macerata 2014, 93-107.
  • Liscia Bemporad 1990
    D. Liscia Bemporad, Ceremoniële kunst uit Venetië (Venetian Ceremonial Art), in Venetië het getto en de stad 1541-1797 (Venice, the ghetto and the city 1541-1797), in J-M. Cohen (onder redactie van), Het getto van Venetië, Ponentini, Levantini e Tedeschi 1516-1797, ’s-Gravenhage 1990, 68-85.
  • Molà 2011
    L. Molà, Fondaci, mercanti, artigiani : le comunità dei Tedeschi e dei Turchi a Venezia, in G. Barbieri (a cura di) Venezia e l’Europa : l’ eredità della Serenissima, Cittadella 2011, vol. 2, 229-243.
  • Ottolenghi 1932
    A. Ottolenghi, Per il 4. centenario della scuola Canton : notizie storiche sui templi veneziani di rito tedesco e su alcuni templi privati con cenni della vita ebraica nei secoli 16.-19: commemorazione tenuta nella Scuola Canton la sera del 6 decembre 1931-26 Chislev 5692, Venezia 1932.
  • Pacifici 1930
    A. Pacifici, I regolamenti della Scuola Italiana a Venezia nel secolo XVII, in “La rassegna mensile di Israel” 5/ 1930, 392-400.
  • Pinkerfeld 1954
    J. Pinkerfeld, The synagogues of Italy: their architectural development since the Renaissance, Jerusalem 1954.
  • Pullan 1985
    B. Pullan, Gli ebrei d'Europa e l'Inquisizione a Venezia dal 1550 al 1670, Roma 1985.
  • Ravid 1975
    B. Ravid, The establishment of the Ghetto Vecchio of Venice, 1541, in Proceedings of the Sixth World Congress of Jewish Studies, Jerusalem, 1975, vol. II, 161-166.
  • Ravid 2013
    B. Ravid, Venice and its minorities, in E. R. Dusrsteler (ed by), A companion to Venetian History, 1400-1797, Leiden 2013, 449-485.
  • Sagredo 1860
    A. Sagredo, Il Fondaco dei Turchi in Venezia. Studi storici ed artistici di Agostino Sagredo e Federico Berchet con documenti inediti e tavole illustrative. Milano 1860.
  • Schulz 1997
    J. Schulz, Early plans of the Fondaco dei Turchi, in: "Memoirs of the American Academy in Rome", 42,1997 [vere: 1998], 149-159.
  • Segre 1996
    R. Segre, La Scuola Canton e la nazione tedesca a Venezia nella prima metà del Seicento, in Daniel Carpi Jubilee Volume. A collection of studies in history of the Jewish people presented to Daniel Carpi upon his 70th birthday bi his colleagues and students, Tel Aviv 1996, 69-90.
  • Sullam Reinisch 1985
    G. Sullam Reinisch, Il ghetto di Venezia: le sinagoghe e il museo, Roma 1985.
  • Wischnitzer 1964
    R. Wischnitzer, The architecture of the European synagogue, Philadelphia 1964.
  • Zannini 2009
    A. Zannini, Venezia città aperta: gli stranieri e la Serenissima, XIV-XVIII sec., Venezia 2009.
English abstract

The purpose of the paper "The Ghetto of Venice: exclusion, inclusion and integration in urban space and in the synagogues (XVI-XVIII centuries)" is to demonstrate how the Ghetto of Venice was not only a site of exclusion, but rather an area of integration between cultures, rituals and economic and social systems. In the context of a city that is friendly with foreign communities, the establishment of the Ghetto (1516) is first and foremost an attempt to protect the Jews and to control their economic activities. The Venetian Jewish community, however, is not unified but made up of "nazioni" from different backgrounds, from different cultures and with different religious traditions. The architecture of synagogues reflects these different traditions, but also the ability to integrate different spatial models of different origin. Hence, synagogues, in their successive reconstructions, all begin to look alike but also to look like a typical Venetian architectural model, that of the "Scuole Grandi", with whom they share the multi-functionality and the spatial complexity.

keywords | Venice; Venetian Jewish community; Ghetto; Urban space; Synagogue.

Per citare questo articolo: Gianmario Guidarelli, Il Ghetto di Venezia. Esclusione, inclusione e integrazione nello spazio urbano e nelle sinagoghe (XVI-XVIII secolo), “La Rivista di Engramma” n. 136, giugno/luglio 2016, pp. 171-181. | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2016.136.0008