"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

1 | settembre 2000

9788894840001

Struttura dei saggi e stile di scrittura di Aby Warburg

Katia Mazzucco

English Abstract

Ad aprire i saggi di Aby Warburg è una presentazione del tema, una sorta di dichiarazione di intenti in forma di quesito, di presupposto, a volte mascherata da semplice descrizione. Come per la soluzione dei problemi di matematica, Warburg espone immediatamente il percorso che intende seguire — e ha seguito — e le regole che intende applicare per ottenere il risultato, cioè la dimostrazione dell’ipotesi iniziale.

Ciò che colpisce immediatamente in questi scritti è la densità dei contenuti. Nel leggerli si ha la sensazione di percorrere un sentiero indicatoci sin dalle prime righe con chiarezza ma che si rivela ad ogni passo più ramificato. Un sentiero che l’autore ha battuto, attraversando anche luoghi poco frequentati dalla cultura convenzionale.

Il saggio del 1893 su La Nascita di Venere e La Primavera di Botticelli, ad esempio, inizia con l’intento, espresso nella “Osservazione preliminare”, di porre a confronto le due opere con il panorama culturale della loro epoca. Il fine dichiarato è quello di capire quali elementi dell’antichità attraessero gli artisti del Quattrocento. Attraverso questo confronto è possibile osservare come nel Quattrocento si guardasse agli antichi per raffigurare il moto fisico mediante la rappresentazione di forme accessorie in movimento. Assieme a questa anticipazione leggiamo una riflessione di respiro più ampio, “prova per l’estetica psicologica”: attraverso gli esempi scelti è possibile “osservare nel suo divenire la sensibilità per l’atto estetico della ‘compenetrazione’ come potenza creatrice di stile”.

L’esposizione dell’argomento, poi, avviene passando di documento in documento, attraverso una traccia che sembra a volte allontanare dallo scopo iniziale, ma che percorre il tragitto più tortuoso solo per non trascurare alcun indizio e creare una rete fittissima di riferimenti ai più svariati campi della cultura e dell’esistenza, nessuno di questi considerato tanto trascurabile da non poter fornire qualche indicazione. Queste voci, più o meno note, vengono pazientemente ascoltate da Warburg e riportate senza essere tradite, di modo che il lettore possa dialogare mentalmente con esse.

Ciò che impedisce di perdersi tra le numerose finestre aperte sul passato, è, con le parole di Gertrud Bing, il “legame strettissimo che nelle opere di Warburg unisce descrizione e interpretazione. Egli si serve di un linguaggio singolarmente serrato, evidentemente plasmato ad hoc, che gli consente di lasciar intravedere i suoi punti di vista più generali senza separarli dalla trattazione del caso singolo”. Sempre a proposito di questa singolare capacità di Warburg, Ernst Gombrich parla di “una specie di contrappunto verbale” che gli permette di “far risuonare un tema e al tempo stesso di combinarlo con il motivo che gli fa da contrappunto”.

Solo dopo questo argomentare a più voci, troviamo nelle righe conclusive la riflessione che chiude e risolve il lavoro ma non l’argomento. Durante il tragitto, infatti, l’autore ha posto nuovi interrogativi e creato numerosi link. Incisi e note dei saggi sembrano profeticamente elaborati come file di ipertesto e questa stessa mobilità sarà caratteristica dell’ultimo progetto di Warburg, l’Atlante di immagini. Ciò che leggiamo nelle ultime parole dei saggi è una sorta di c.v.d. (come volevasi dimostrare, alla fine di una dimostrazione matematica) formulato alla luce delle prove addotte ma anche, e soprattutto, una conferma di quello che già durante il percorso, senza bisogno di formulazione, era emerso tra le righe. In alcuni casi queste conclusioni assumono una forma aforistica, in grado di contenere di nuovo per intero, ma in un linguaggio ermetico, le riflessioni precedenti. In altri casi — o contemporaneamente — esse hanno valore ‘propositivo’ e invitano a proseguire il cammino intrapreso.

Siamo nell’età di Faust, nella quale lo scienziato moderno, oscillando fra pratica magica e matematica cosmologica, cerca di conquistare al proprio pensiero lo spazio fra se stesso e l’oggetto per una contemplazione spassionata. Occorre sempre di nuovo salvare Atene da Alessandria […]. Che menti chiare e dotte, cui sia concesso giungere più lontano di me, possano trovarsi insieme ad un tavolo comune di lavoro nell’officina di una storia delle arti figurative svolta come parte di una scienza della civiltà! (Divinazione antica pagana in testi ed immagini dell’età di Lutero, 1920).

Per seguire un imperativo assoluto di chiarezza, evidente nella struttura circolare — ma non viziosa! — dei suoi saggi, Warburg evita i sensazionalismi senza adottare mai un linguaggio aridamente scientifico. Si avvale, infatti, di un ricchissimo vocabolario formato da termini provenienti da tutti i campi del sapere. È proprio alle parole che Warburg attribuisce un valore fondamentale: esse vengono caricate di significato e combinate in frasi dense, a volte reiterate come formule. Lo sforzo è quello di creare un linguaggio evocativo, il più vicino possibile alle proprietà della vista, dotato quindi di simultaneità: una sorta di “matrimonio alchemico”, come lo definisce Kurt Forster, tra immagine e concetto.

A questo proposito si veda uno fra i numerosissimi esempi possibili dello “scrivere per immagini” di Warburg. In Arte del ritratto e borghesia fiorentina, del 1902, leggiamo che la committenza borghese di fine Quattrocento considerava l’artista come un abile artigiano nato sotto il segno di Mercurio: “Non si andava dall’artista astratto, per sentire con lui, in simpatizzante posa estetica sotto la luce nord dello studio, i sentimenti discordanti dell’uomo di cultura stanco”. Le immagini della malinconia saturnina e di tutti gli studioli di intellettuali giunte sino a noi, balzano agli occhi in un lampo, velate da una sottile ironia che gioca in favore della concretezza e dell’abilità di chi cercava Mercurio.

Questa complessità — Warburg stesso, nel 1906, definisce il proprio stile “zuppa d’anguilla” — giustifica chiaramente la difficoltà e la riluttanza a ridurre in forma scritta e conclusa le proprie ricerche. Non è un caso che egli faccia così spesso ricorso negli appunti a veri e propri diagrammi e che, già nel 1905, pensi a un’opera costituita direttamente da immagini: il futuro Atlante della memoria. Mnemosyne.

Aby Warburg ha pubblicato relativamente poco nel corso della sua carriera scientifica e la maggior parte dei suoi saggi nasce come conferenza. La revisione di questi materiali per la stampa prevedeva un severa ricerca formale che evitasse la riduzione o il congelamento delle idee in formule immutabili e la perdita del potere comunicativo della parola parlata, pronunciata di fronte al pubblico. Questo personalissimo rigore metodologico è assente nell’affascinante relazione del 1923 su Il rituale del serpente, che infatti non è un testo scientifico destinato alla pubblicazione, ma un abbozzo nato per essere esposto al pubblico non specialistico della clinica di Kreuzlingen.

L’opera complessiva di Aby Warburg, concretizzatasi nella forma della Biblioteca, dell’Atlante e degli scritti, interagisce con chi vi si connette innescando un processo d’interrogazione. Oggi più che mai quella “legge del buon vicinato”, rivista alla luce delle potenzialità dei mezzi telematici, evoca le parole di Giorgio Pasquali:

Gli storici dell’arte e gli scienziati della cultura hanno il dovere di rendere fruttifera l’opera del Warburg, lasciando che essa operi su loro, cioè trasformandola.

English Abstract

Aby Warburg’s essays unfold like intricate paths, mixing description and investigation, leading the reader through cultural labyrinths. His method, akin to mathematical problem solving, reveals layers of meaning, linking different fields and inviting constant dialogue. Warburg's works embody the fusion of research and introspection.

keywords | Gertrud Bing; Ernst Gombrich; Mnemosyne.

Per citare questo articolo / To cite this article: K. Mazzucco, Struttura dei saggi e stile di scrittura di Aby Warburg, “La Rivista di Engramma” n. 1, settembre 2000, pp. 59-61 | PDF 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2000.1.0015