"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

1 | settembre 2000

9788894840001

Introduzione al metodo di Aby Warburg 

Giovanna Pasini

English Abstract

Nel 1889, mentre preparava la sua tesi sulla Nascita di Venere e la Primavera di Botticelli, Aby Warburg si rese conto che qualsiasi tentativo di comprendere l’opera di un pittore del Rinascimento era futile se il problema veniva accostato esclusivamente da un punto di vista formale. In questa scelta metodologica si avverte uno strappo rispetto alle ricerche già innovative di Wölfflin, che nei suoi Concetti fondamentali della storia dell’arte ipotizzava una disciplina autoreferenziale, la quale potesse essere studiata come “storia degli stili”.

Per tutta la sua vita Warburg conservò una “onesta ripugnanza” per la storia dell’arte meramente estetizzante: non un’indifferenza per gli aspetti formali e tecnici dell’opera, bensì cura per il pathos che si fa forma, segno dai contorni netti. Emerge così il concetto di Pathosformel, che designa un indissolubile intreccio tra carica espressiva e formula iconografica. Non si tratta di una contrapposizione fra storia dello stile e storia della cultura, ma del tentativo di superare i confini disciplinari.

Nella scelta metodologica di Warburg un ruolo fondamentale ha avuto il concetto di memoria sociale, per il quale ebbe particolare influenza lo studio del neurologo Richard Semon, Mneme (1908): ciascun evento agisce sulla materia cerebrale lasciando su di essa una traccia, l’engramma. L’analisi che Semon applica al sistema nervoso dell’individuo viene estesa da Warburg alla memoria culturale. L’engramma diventa, così, simbolo e immagine in cui si imprimono una carica energetica e un’esperienza emotiva che sopravvivono come eredità trasmessa dalla memoria e si fanno reattive attraverso il contatto con la volontà selettiva di una determinata epoca. I simboli-engrammi si concretizzano nelle Pathosformeln o formule del pathos, espressioni di un sentimento o di un’attitudine spirituale che, in quanto riconducibili all’antica emotività della dimensione mitica, derivano, piu o meno consapevolmente, dall’antico.

In questo modo Warburg ascrive alla classicità quell’irrequietezza patetica che verrà poi cancellata dal Neoclassicismo imperturbabile e imbiancato del Settecento: “Il gruppo di dolori del Laocoonte il Rinascimento, se non lo avesse scoperto, avrebbe dovuto inventarlo, proprio per la sua sconvolgente eloquenza patetica. [...] Questa irrequietezza classica è una qualità essenziale dell’arte e della civiltà antica. [...] L’ethos apollineo germoglia insieme con il pathos dionisiaco, quasi un duplice ramo da un medesimo tronco”. Si tratta della riscoperta del fondamento tragico, antinomico, della cultura greca, in virtù del quale il mondo antico può vivere una Nachleben o ‘vita postuma’ che si perpetua attraverso le varie epoche.

Gli antichi dèi non sono soltanto un espediente retorico umanistico ma anche “una costante antropologica” nella loro capacità di trasmettere emozioni (Dal Lago 1984). Il soffio della passione degli antichi dèi non si dissolve, ma si traveste e, perdurando come un impulso della rappresentazione, traccia una linea discontinua, a tratti carsica, nella trasmissione dei temi e delle figure dall’antichità classica alle rapsodiche riemergenze nel tessuto della memoria occidentale. Il simbolo antico resta scisso nella sua tragica ambiguità e solo l’artista può conciliare quelle forze in modo unico e originale. Per questo motivo la prospettiva di Warburg non può avere un esito conciliante né rassicurante. La sua visione della cultura occidentale è tragica in quanto risultato di tendenze conflittuali e oscillazioni spirituali che si muovono dal polo magico-religioso a quello della contemplazione scientifico-matematica e viceversa.

L’eredità di Warburg, l’estetica della dimensione simbolica, determinata dalla dialettica tra l’immagine e i suoi significati, verrà dispersa nei suoi successori con accezioni sempre più distanti; verrà sacrificata in direzione di un’accentuata preminenza della dimensione del significato e del completo congedo dell’immagine da esso: con Panofsky l’immagine è ridotta sempre più a un crittogramma che attende dall’esterno una decodificazione con la riconversione dell’‘imaginale’ nel verbale, in una perenne consumazione dell’arte ad opera della parola e nella riduzione della storia, che rimane senza memoria.

La “scienza senza nome” di Warburg, invece, spinge la sua ricerca nelle profondità dello sviluppo della cultura occidentale in un movimento spiraliforme, come dimostrano in modo esemplare i due temi centrali della sua indagine: la ninfa e l’astrologia rinascimentale.

Nella sua tesi di laurea sulla Primavera e la Nascita di Venere del Botticelli la figura femminile in movimento con le vesti svolazzanti, mutuata dai sarcofagi antichi, è individuata nel nuovo tipo iconografico della ninfa. Questa chiarisce il soggetto dei dipinti e mostra come il Botticelli facesse i conti con l’idea che la sua epoca aveva degli antichi. Sulle orme di Nietzsche e per la prima volta nel campo della storia dell’arte, attraverso il concetto delle Pathosformeln si palesa la polarità dionisiaca dell’arte classica e rinascimentale: la ninfa diventa così, con la sua carica orgiastica, il segno di un profondo conflitto spirituale nella cultura rinascimentale e la cifra di una polarità perenne della tradizione occidentale.

Analogamente avviene per il tema delle immagini astrologiche. Il cerchio più ristretto, quello propriamente iconografico, coincide con l’identificazione del soggetto degli affreschi di Palazzo Schifanoia, in cui Warburg riconobbe le figure dei decani ricordate da Albu Ma’Shar.

Sul piano della storia della cultura si tratta della scoperta della rinascita dell’astrologia nella cultura rinascimentale e della sua ambiguità in contrasto con il concetto corrente. Nell’estrema voluta della spirale tale tematica diventa il sintomo della schizofrenia dell’età moderna.

Il circolo ermeneutico warburghiano, dunque, si può esemplificare come una spirale che si svolge su tre piani: quello dell’iconografia e della storia dell’arte, quello della storia della cultura e quello definito “scienza senza nome”, ovvero l’analisi della memoria culturale dell’uomo occidentale. Potremmo dire che, con visione anticipatoria, Warburg scopre la complessa struttura elicoidale del codice genetico culturale della memoria d’Occidente. Quasi il progetto di una futura “antropologia della cultura occidentale in cui filologia, etnologia, storia e biologia convergono con una iconologia dell’intervallo, in cui opera l’incessante travaglio simbolico della memoria sociale”. È quindi probabile che la scienza di Warburg dovrà restare senza nome finché ad essa non sarà data la possibilità di scardinare le divisioni settoriali tra le diverse discipline di ricerca: divisioni che si sono affermate nell’Ottocento e poi congelate nel corso del Novecento in settori di ricerca via via sempre più separati tra le discipline umanistiche e la scienza.Forse la frattura che divide poesia e filosofia, arte e scienza, ‘parola-che-canta’ e ‘parola-che-ricorda’, non è che un aspetto di quella schizofrenia della civiltà occidentale che Warburg aveva riconosciuto.

Quando ‘la parola-che-canta’ ricorda e ‘quella-che-ricorda’ canta, saremo veramente in grado di dare un nome alla Scienza di Warburg: MNEMOSYNE.

English Abstract

Aby Warburg’s methodology transcended the formal analysis of art, emphasising pathos over style. He pioneered the concept of the pathos formula, interweaving the expressive charge with the iconographic formula and merging art history with cultural analysis. With the Mnemosyne Atlas, he laid the foundations for the study of Western cultural memory through symbols and images.

keywords | Engram; Mnemosyne; Pathosformeln.

Per citare questo articolo / To cite this article: G. Pasini, Introduzione al metodo di Aby Warburg, “La Rivista di Engramma” n. 1, settembre 2000, pp. 55-57 | PDF 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2000.1.0016