"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

145 | maggio 2017

9788894840209

“Scrivere significa costruire il linguaggio, non spiegarlo”

La manovalanza di Adriano Spatola verso una poesia totale

Giuseppe Cavatorta

English abstract

... ma il testo è un oggetto vivente fornito di chiavi
la cruda resezione il suo effetto l’incredibile osmosi.
Adriano Spatola, La composizione del testo

Il seme del verso alligna e matura nel caos.
Adriano Spatola, Un po’ di rigore

“Scrivere significa costruire il linguaggio, non spiegarlo”. L’assunto di Max Bense che lo stesso Spatola aveva scelto come epigrafe ai suoi Zeroglifici tornerebbe sicuramente utile se si volesse provare a racchiudere in una definizione il rapporto tra Adriano Spatola e la poesia. Perché a costruirlo, quel linguaggio, Spatola ha dedicato la sua intera vita. Sembrerà pure una frase fatta, d’occasione, sfruttata ad arte ogniqualvòlta un poeta viene a mancare, ma nel caso di Spatola non si rischierebbe, applicandola, di cadere in un’iperbole di circostanza. Il ritratto che nel suo Esoterico biliardo ne fa Giulia Niccolai, poetessa e compagna per undici anni del poeta, gli anni del celeberrimo mulino, spazzerebbe via qualsiasi dubbio a proposito:

"Ancora oggi, quando penso ad Adriano, l’immagine che mi si presenta alla mente è quella di un Titano condannato a spingere un masso in salita. Il masso erano le sue opinioni, anche e soprattutto quelle della sua poesia, da lui vista come unica possibile salvazione. Solo, sentiva di non potersi staccare dal macigno e continuava a spingere per paura di rimanere stritolato. Egli sperava di raggiungere alfine la vetta della montagna, di vedere il masso che rotola giù per l’alto versante e di ritrovarsi libero" (Niccolai 2001, 84).

Fig. 1 | Adriano Spatola e Giulia Niccolai al Mulino, da: Quando al Mulino di Bazzano c'era la Repubblica dei poeti, "La Repubblica", edizione di Parma, 24 novembre 2015.

E poco più avanti:

"Per sua stessa ammissione, Adriano viveva 'sotto una campana di vetro' […]. Adriano viveva 'di' e 'per' la poesia, con l’illusione che se egli vi si fosse dedicato anima e corpo, tutto il resto, di conseguenza, si sarebbe sistemato da solo" (Niccolai 2001, 85).

Poesia che in quegli anni, non lo si può dimenticare, ritrovava aperti davanti a sé, improvvisamente, vasti territori, largamente inesplorati, che sottintendevano di volta in volta nuove avventure (e, naturalmente, nuove etichettature). Sono anni in cui la parola “poesia” raramente compare da sola, preferendo piuttosto essere affiancata da un aggettivo qualificante. Lo stesso Spatola ricorda, nel suo Verso la poesia totale, che secondo un inventario redatto da Anna e Martino Oberto, comunque già lacunoso per la sua datazione e per il continuo divenire dello sperimentalismo poetico, la poesia si poteva presentare in quegli anni come “visiva, concreta, aleatoria, evidente, fonetica, grafica, elementare, elettronica, automatica, gestuale, cinetica, simbiotica, ideografica, multidimensionale, spaziale, artificiale, permutazionale, trovata, simultanea, casuale, statistica, programmata, cibernetica [e] semiotica” (Spatola 1978, 14-15). E Spatola, sebbene non abbia necessariamente operato all’interno di ogni variante qui menzionata, si è posto nei loro confronti in un atteggiamento di genuina apertura, anche perché tutte queste sperimentazioni non erano comunque altro per lui che il sintomo di uno stesso problema, “che non è più quello di trasformare la poesia in qualcosa di nuovo rispetto alla tradizione della poesia ma soprattutto quello di far sì che la poesia, attraverso questa trasformazione, si proponga come arte totale” (Spatola 1978, 15). Una poesia, insomma, che non poteva più limitarsi, sempre parafrasando Spatola, né al tentativo di modificare gli strumenti consueti del fare poetico, né tantomeno all’abbattimento delle barriere linguistiche, ma che si prefiggeva di “farsi un medium totale, di sfuggire a ogni limitazione, di inglobare teatro, fotografia, musica, pittura, arte tipografica, tecniche cinematografiche e ogni altro aspetto della cultura, in un’aspirazione utopistica al ritorno alle origini” (Spatola 1978, 15).

Si può ipotizzare che i primi contatti spatoliani con la poesia non lineare siano avvenuti grazie alla frequentazioni e all’amicizia con Emilio Villa in primis, quindi con Mario Diacono e Stelio Maria Martini, le cui riviste, "Ex" e "Linea Sud", sono state una vetrina preziosa per la promozione delle sperimentazioni di quegli anni. Da qui in poi, e soprattutto dalla metà degli anni Sessanta fino alla morte, la figura di Adriano Spatola diventerà centrale per il mondo della sperimentazione visuale e sonora sotto il profilo creativo e un punto di riferimento imprescindibile per quanto ne concerne la promozione.

Il suo Verso la poesia totale resta, ancora oggi, uno degli studi più importanti sulle sperimentazioni poetiche di quegli anni, capace allo stesso tempo di rintracciarne i prodromi, delinearne gli sviluppi correnti e illustrarne le prospettive future. Ma più che nella critica e nella saggistica la promozione viene fatta sul campo: sporcandosi le mani, insomma. Ricordare l’infinito elenco di manifestazioni e mostre organizzate, di riviste da lui fondate o dirette, di creazione di luoghi di e per la poesia, è più un lavoro da tesi di laurea che non materiale per un breve intervento esplorativo; ma per comprendere quanto Adriano abbia contribuito in questo senso sarà opportuno ricordarne almeno alcuni esempi.

Per quanto riguarda le manifestazioni, o se vogliamo gli happenings neoavanguardistici, è tassativo soffermarsi almeno su Parole sui muri, rassegna artistica organizzata insieme a Claudio Parmiggiani e Corrado Costa, raccontata splendidamente da Eugenio Gazzola nel suo Parole sui muri. L’estate delle neoavanguardie a Fiumalbo. Fiumalbo, un piccolo centro dell’appennino modenese, venne 'occupato' dall’8 al 18 agosto del 1967 da un centinaio di artisti, invitati dal sindaco per una mostra di manifesti che si allargherà presto a un vero e proprio happening che letteralmente riscrisse il paesino con versi dipinti sui muri, performances sonore e visive, poetry readings e opere ambientali, che lo trasformarono in una sorta di enorme opera collettiva. L’opera che divenne simbolo della manifestazione è “l’albero poema”, un albero senza foglie, morto, a cui era stata data nuova vita, facendolo germogliare non di fiori o frutti ma di lettere dell’alfabeto. Un intero paese, unitamente ai suoi scenari collinari, interamente da ri-scrivere, una fuga dalla schiavitù del libro, della tela.

Fig. 2 | Il manifesto di Parole sui muri, da: E. Gazzola, Parole sui muri. L’estate delle avanguardie a Fiumalbo, Reggio Emilia 2003, 165.

Fig. 3 | Copertina del numero 1 di "Geiger" (immagine di proprietà dell'autore).

Credo che l’esperienza di Fiumalbo sia stata la scintilla che farà nascere in Adriano la convinzione che una città, una civiltà della poesia fosse praticabile. A Mulino di Bazzano, prima, e poi a Sant’Ilario d’Enza, nella Cabianca, con le sue “repubbliche della poesia”, non avrebbe fatto altro che provare a riprodurre, del resto, il clima di quei 10 giorni sulle colline modenesi e instaurare una vera e propria “poetocrazia”. Si tratterà pure di una coincidenza, oppure si limiterà a un omaggio alla nuova compagna Bianca Maria Bonazzi, ma mi riesce difficile non vedere una strizzatina d’occhio spatoliana nel sovrapporsi dell’immagine di Fiumalbo, un intero paese trasformato in tela intonsa o, se vogliamo, in pagina bianca su cui operare, e il nome dato all’ultima delle sue repubbliche poetiche, Cabianca, appunto.

Il Mulino e Cabianca sono centri di cui si crea un network di relazioni internazionali impensabile in quegli anni e in cui si sperimentano attività editoriali che sfuggono sia alle vie consolidate del mercato sia alle logiche culturali dell’accademia. Sarà proprio quel network che permetterà di mantenere vivo l’esperimento "Geiger" – la sua seconda rivista dopo l’esperienza giovanile dei due numeri di "Bab Ilu" (tra il ‘60 e il ’61) – in cui pubblicano artisti da tutto il mondo e che, a oggi, io credo, rimane il prodotto più strabiliante del tentativo di integrazione tra le arti e un oggetto che non si limita a promuovere tentativi (e tentazioni) visuali e verbali, ma che riesce a diventare anche un’esperienza tattile per la natura stessa con cui era stata concepita e assemblata: richiedere a un manipolo di artisti (intorno alla cinquantina per ogni numero) l’invio di trecento copie di un’opera esemplare della loro ricerca sperimentale in un formato specifico che sarebbero poi state messe insieme dai fratelli Spatola (oltre ad Adriano, Maurizio e Tiziano), rilegate con una cucitrice da ufficio e completate da una copertina incollata e messa sotto pressa. Ogni pagina insomma, con una consistenza diversa, con un colore diverso, con un suono, al momento di sfogliare le pagine, diverso: un’esperienza per le mani, per l’occhio, e persino per le orecchie.

Nel 1971, al Molino vedrà poi la luce, grazie al sodalizio con Giulia Niccolai, la rivista "Tam Tam", che si affiancherà così a "Geiger". Entrambe saranno accompagnate da collane di poesia dove verranno ospitati centinaia di poeti e artisti da tutto il mondo, tra cui spiccano i nomi di Nanni Balestrini, Claudio Parmiggiani, Irma Blank, Jiří Kolář, Julien Blaine, Giulia Niccolai, Emilio Villa, William Xerra e di un’esordiente Milli Graffi. Di Cabianca, che ho avuto la possibilità di 'vivere' personalmente, conservo gelosamente la memoria dell’organizzazione bimensile delle presentazioni dei libri delle sue collane o delle mostre nella stalla adiacente alla casa, ristrutturata e trasformata in laboratorio/studio da una parte, spazio espositivo dall’altra (non so quanti artisti sono riuscito a incontrare in quelle occasioni – Corrado Costa su tutti – e, per quanto riguarda le mostre, la mente non mi soccorre benissimo, ma restano nitidi i ricordi delle esposizioni di Paolo Albani, Tom Raworth, Julien Blaine, Franco Beltrametti e Giosetta Fioroni).

Fig. 4 | I numeri 1 e 2 di "Tam Tam" (immagine di proprietà dell'autore).

Fig. 5 | Una delle copertine di "Cervo volante" (immagine di proprietà dell'autore).

Chiudo questa minima rassegna con due riviste storiche e che rinforzano, se ce ne fosse bisogno, l’immagine di questo Spatola verbovisionario. La prima è "Cervo Volante", che diresse per diversi numeri, giocata ancora una volta sull’idea dell’interazione tra le arti, figlia in qualche modo di Parole sui muri, e che a sua volta molto doveva all’idea di poème affiche caro alle avanguardie storiche. In ogni numero, un poster che presenta la collaborazione tra un poeta e un pittore e che si apre anche a una possibile doppia destinazione: la parete, in quanto 'poster', e la biblioteca, in quanto 'libro'. L’altra è "Baobab", il cui sottotitolo, "informazioni fonetiche – il dolce stil suono", ne rivela immediatamente l’ambito. Se con le altre riviste si era dato un ampio spazio alla poesia lineare, visuale e concreta, questa rivista in audiocassetta colma lo spazio, fino ad allora lasciato vuoto, destinato alla poesia sonora. Da qui si potrebbe immediatamente passare alle performance spatoliane, dove gesto e corpo aggiungono un ulteriore strato alla sua poesia sonora, ma mi riservo di tornarci più avanti.

Nonostante questo turbinìo di iniziative la produzione creativa non si può dire sembri risentirne. Una produzione eclettica che si sottrae a una compartimentalizzazione stagna. Dai testi lineari di Spatola, infatti, non solo si possono evincere numerose dichiarazioni di poetica applicabili sia ai testi lineari sia a quelli visuali, ma si possono anche sottolineare tecniche compositive che li inquadrano come parti di un percorso unico e non come sperimentazioni allòtrie ai risultati visuali e sonori. L’ultima quartina di Poema Stalin ne è un esempio efficace:

un poema Stalin dovrebbe essere scritto senza aggettivi
senza virgole né decimali senza opportune parentesi
l’esclamazione un veleno l’interrogazione una stanca orditura
ma niente di meno accettabile dell’ingiuria del punto fermo

Fig. 6 | Il numero 1 di "Baobab" (immagine di proprietà dell'autore).

Si noti in primo luogo l’ultimo verso in cui, in linea con una felice immagine lasciataci da Pagliarani, si mantiene che una seria sperimentazione poetica non porterà a risultati su cui potersi adagiare troppo a lungo (l’“ingiuria del punto fermo”) implicando, piuttosto, brevi soste per tirare il fiato e continue ripartenze, superando di volta in volta gli ostacoli che ci si trova davanti (che questi impedimenti siano poi le 'regole' canonizzate dalla tradizione, o il libro stesso come contenitore, non importa): “i poeti, gli artisti sono quelli che si buttano e non c’è da fare gli schizzinosi se chi approda per una sosta – perché si approda solo per momentanee soste, finché si fa, in arte – sarà stracciato e recherà magari solo sabbia ed alghe tra le mani” (Pagliarani 1963, 40). Si noti, inoltre, la tendenza alla riduzione del materiale linguistico, qui evidenziato dalla serie di “senza”, e che Spatola metterà in essere nella sua poesia attraverso percorsi eterogenei. L’esempio classico, a cui mi rifaccio spesso, è quello de La fossa delle Filippine, caratterizzato dall’incessante ritornare di immagini e lessemi giocati su di una ripetizione stemperata da minime variazioni:

1.
come gridano i cani sdraiati sulla luna
bavosa sorridente padrona delle chiavi della diga
contro cui gettano sassi a baionetta innestata
gli alberi alcoolizzati agitati dal vento
così pulsano i corpi gonfi che muovono le dita
dei feroci abitanti del cranio trafitto dagli spilli
mentre risale dal pozzo con la testa piena di succo d’arancia
verso la quale pregano con la bandiera a mezz’asta
i pesci neri supini nel sogno dell’acqua

[…]

4.
ma chi è l’abitante del cranio infestato dai chiodi
o dagli alberi alcoolizzati agitati dal vento
che fa il rumore del mare e oh che splendido mare
al quale abbaiano i cani sdraiati sulla luna
ma sono loro a gridare corpi gonfi affioranti dall’acqua
dentro la quale si muove il marine in assetto di guerra
sulla cui pelle attecchisce il polline portato dal vento
che è questa mano di legno dentro il sacchetto di plastica
mentre dal pozzo risale la faccia piena di tagli

Fig. 7 | Cremaschi, Parmiggiani & Spatola, Zeroglifico, immagine da "Linea sud" III, 3-4 (1966).

Un altro esempio è costituito dalla levità di certi testi che, svuotati di qualsiasi forma verbale – se si eccettuano quelle nominali –, mettono in posizione di rilievo le proprie qualità ritmiche e, se vogliamo, anche visuali, piuttosto che quelle linguistiche, nelle quali, comunque sia, prevalgono accostamenti brutali che offrono possibilità nuove alla parola, disincrostandola dal proprio significato acquisito, accettato, e svincolando così (o almeno tentando di farlo) il linguaggio, aprendolo a una possibile ri-semantizzazione. Si veda in questo caso Etruria:

Il viaggio l’eutanasia l’isterica quiete
stile di ombre e di sommerse ricongiunzioni
la sabbia previdente l’impronta nel cunicolo
il lievitato banchetto sprangato del terrore.

Vale la pena di soffermarsi, ora, su questa predilezione spatoliana per la riduzione, perché è attraverso di essa che si potrà meglio apprezzare come tra i suoi lavori lineari e quelli concreti e visuali si possa passare in maniera del tutto naturale. I più noti contributi spatoliani alla ricerca verbovisuale, pubblicati in due straordinari libri-cofanetto dall’editore Sampietro nel biennio 1965-1966, sono sicuramente Poesia da montare e, quindi, Zeroglifico. Da sottolineare che prima dell’uscita a stampa sia il termine "zeroglifico" che l’idea dietro Poesia da montare (“puzzle poem”) erano stati utilizzati da Spatola in installazioni creative realizzate con Claudio Parmiggiani e, nel caso di Zeroglifico, anche con Carlo Cremaschi nel 1965.

Fig. 8 | Il libro-cofanetto di Poesia da montare (immagine di proprietà dell'autore).

Poesia da montare è costituito da 32 cartoncini sciolti (due con il titolo, uno con una nota introduttiva di Spatola, uno con un disegno di Giuliano Della Casa e ventotto con poesie visuali da comporre). Come dirà Giovanni Fontana:

“con Poesia da montare, ideato come congegno poietico rimaneggiabile, ogni convenzione di carattere grammaticale e sintattico è superata in chiave ludica”.

Chiaro il riferimento allo Tzara di Per fare una poesia dadaista:

Prendete un giornale.
Prendete un paio di forbici.
Scegliete nel giornale un articolo che abbia la lunghezza che voi desiderate dare alla vostra poesia.
Ritagliate l’articolo.
Tagliate ancora con cura ogni parola che forma tale articolo e mettete tutte le parole in un sacchetto.
Agitate dolcemente.
Tirate fuori le parole una dopo l’altra, disponendole nell’ordine con cui le estrarrete.
Copiatele coscienziosamente.
La poesia vi rassomiglierà.
Ed eccovi diventato uno scrittore infinitamente originale e fornito di una sensibilità incantevole, benché, s’intende, incompresa dalla gente volgare.

L’operazione però si può considerare in linea alle tante sperimentazioni combinatorie di quegli anni, dai testi raccolti in Come si agisce del primo Balestrini a I novissimi di Giulia Niccolai. Si veda, ad esemplificazione, uno dei testi poetici di quest’ultima, creati assemblando spezzoni di frase pescate dall’introduzione di Alfredo Giuliani all’omonima antologia:

Sul piano intrecciato, frammenti
per le parti, per la supremazia,
ritagliati, mescolati, frantumati.
Nella casa da gioco, nella
misura del respiro. Tutto
sommato tendenti a fissarsi,
distratti gli aspetti, distratti
i propri strumenti, il contatto restaurato
e la confusione.

Fig. 9 | Il libro-cofanetto di Zeroglifico.

Tuttavia con Poesia da montare si compie un’ulteriore sganciamento e si farebbe meglio a parlare di poesia concreta, visto che con ogni singola cartella l’attenzione si sposta in maniera drammatica dalla semanticità delle parole, dal loro significato, al loro intrinseco valore grafico e visivo.

Con il successivo Zeroglifico Spatola va aldilà delle sperimentazioni dei pionieri del concretismo svizzeri e brasiliani, da Eugen Gomringer al Gruppo Noigadres, che nelle loro sperimentazione non si erano mai spinti oltre il limite del grafema verbale. Nelle 12 tavole sciolte raccolte in questo libro-cofanetto – in verità 15 se si vogliono considerare anche il frontespizio, la bionota preceduta da un breve scritto sulla poesia concreta e il colophon) – si assiste a uno sfacelo grafico in grado d’apportare una distruzione semantica ancora più profonda perché esacerbata dalla sua illeggibilità. Dalle incisioni sacre egiziane (hieros, 'sacro', e glyphein, 'incidere, scolpire') si passa a quelle “azzerate” da Spatola a colpi di forbice, distruggendo così il messaggio semantico per amplificare, conseguentemente, quello iconico. Spatola nel retro del cofanetto illustra l’operazione e le sue ragioni:

"I testi di Zeroglifico sono stati ottenuti mediante la frantumazione programmata di un materiale linguistico preesistente, scelto e utilizzato per una sua latente e funzionale tendenza a farsi (con le sue sole forze) poesia concreta. Se infatti è accettabile, come è per forza di cose accettabile, l’assunto di Max Bense, secondo il quale i testi concreti si avvicinano spesso, data la loro dipendenza tipografica, a testi pubblicitari, deve allora essere in qualche modo verificabile anche il contrario: i testi pubblicitari sono cioè già, almeno tipograficamente, progetti di poesia concreta. Il materiale linguistico preesistente sul quale si è ritenuto opportuno operare rappresenta dunque in "zeroglifico" qualcosa di più di un semplice strumento: è, per così dire, il risultato (sociologicamente garantito) di un metalinguaggio dotato di sue proprie essenziali regole grafiche, tanto che, in un caso come questo, nell’ambito della poesia sperimentale, verrebbe voglia di parlare di poesia ideografica".

Fig. 10 | Algoritmo da: Algoritmo, Torino, Geiger, 1973 (immagine di proprietà dell'autore).

Nel Catalogo dell’esposizione Scrittura visuale in Italia 1912-1972, tenutasi alla Galleria Civica d’Arte Moderna di Torino nel 1973, Luigi Ballerini, che l’aveva organizzata, scriveva:

"Adriano Spatola tende a smembrare elementi grammaticali e lessicali […]. I suoi ‘morceaux de language’ sono tessere […] di un giuoco di pazienza composto dal caso: le sagome a stampa appartengono a parole che si sono troppo avvicinate ai nostri occhi".

Per chiudere la carrellata sui 'gioielli' della sperimentazione verbo-visuale di Spatola non si potrà fare a meno di soffermarsi con attenzione su Algoritmo, raccolta di testi concreti uscita nel 1973 per le edizioni Geiger in cui per la prima volta vediamo i famosi testi a chiasmo, costituiti da due sostantivi indicanti l’azione e l’attore, che fungeranno da 'spartito' visuale per le performance sonore di Spatola (ai famosi Seduction/Seductor e Variation/Variateur, si potranno aggiungere Vibration/Vibrator, Reaction/Reacteur, Violation/Violateur e Composition/Compositeur). Si tenga anche presente che nonostante il volume esca nel 1973, come ci ricorda Giovanni Fontana, alcuni testi risalgono alla metà degli anni Sessanta:

“Il testo concreto 'variation/variateur' inaugura la serie delle composizioni 'a chiasmo' da cui Spatola prenderà spunto per le sue future performance. L’idea di questo testo, contenuta nelle carte inedite relative al progetto della 'Maison Poétique' risale ai primi giorni del 1966”.
(Fontana 2008, 14-15)

Fig. 11 | Testo a chiasmo (immagine di proprietà dell'autore) da: Algoritmo, Torino, Geiger, 1973, p. 11.

Algoritmo, a ben vedere, è lo snodo cruciale da cui si dipartono le due strade che portano da un lato alla produzione visuale e, quindi, agli zeroglifici, e dall’altro alla sperimentazione sonora. Con i testi a chiasmo, infatti, si arriva all’ultimo grado possibile di riduzione del linguaggio cominciato nei testi lineari, mantenendo ancora in vita, seppure in maniera assai flebile, l’aggancio all’area semantica. Andare oltre significa affidarsi ai singoli fonemi, alle singole lettere o, e in questo lo Spatola degli zeroglifici è un pioniere, a frammenti delle stesse, spostando immediatamente i riflettori unicamente su ambiti sonori e visuali. L’attenzione alla dimensione tipografica, caratteristica fondamentale di tutta la poesia concreta, è evidente nei testi a chiasmo per la particolare disposizione delle parole sulla pagina, ma alla fine, anche qui, è l’aspetto sonoro che viene esaltato nei testi spatoliani. Non sorprenderà, allora, che finanche nei testi visuali par excellence della sua produzione, gli zeroglifici, Giulia Niccolai giustamente vi trovi una spiccata vocazione sonora:

"Direi allora che, grazie forse alla divulgazione che ha avuto dalla metà degli anni Sessanta il lavoro della nuova musica (da Cage fino a Chiari) o quello di operatori visuali in relazione a spartiti “non convenzionali” che possono o debbono venire “interpretati” in senso grafico, questi zeroglifici si sono man mano caricati delle connotazioni di ipotetiche note musicali, di riduzione segnica (come da spartito) di un componimento musicale. Per otto di questi testi l’evidenza con la quale il materiale di partenza è stato ritagliato in strisce disposte poi le une accanto alle altre con scansioni di bianchi e di neri, non può che portare per associazione alla visualizzazione di una tastiera di pianoforte, alla quale si sovrappone la raffigurazione dei suoni che i tasti producono, con effetti di risonanza visuale" (Niccolai 1975, s.p.).

Fig. 12 | Due zeroglifici “sonori”, da: Zeroglifico, Bologna, Sampietro, 1966 (immagine di proprietà dell'autore).

Fig. 13 | La prima pagina dello spartito per Aviation/Aviateur, da: "Malebolge" 1, 1967, p. 18 (immagine di proprietà dell'autore).

E i testi a chiasmo sono a tutti gli effetti spartiti 'non convenzionali', visto che le performance sonore spatoliane si basano in maniera letterale su di essi. La loro particolare struttura apre al lettore, e naturalmente al performer, nuovi territori, liberandoli dai vincoli della lettura tradizionale da destra a sinistra, che potrà comunque ancora essere sfruttata, e invitandoli a sfruttare le infinite varianti che una simile composizione permette. Se visti da questa prospettiva, sarà anche importante notare come i due versi obliqui di questi 'spartiti' possano essere intesi come indicazioni musicali in linea con spartiti tradizionali (dove leggeremmo ‘crescendo’ o ‘diminuendo’) e che, altrimenti, in poesia, seguendo la lezione del paroliberismo futurista, venivano espresse attraverso la crescita o la diminuzione progressiva del corpo del carattere di stampa.

A questo punto, per completare in qualche modo il ragionamento sulle sperimentazioni sonore e visuali di Spatola, mi trovo costretto a riprendere, a volte, letteralmente un mio intervento di alcuni anni fa, senza il quale non sarebbe possibile riabilitare in qualche modo l’aspetto performativo dell’attività poetica spatoliana, spesso relegata a momento ludico, goliardico e raramente trattata seriamente dalla critica. Operazione assolutamente necessaria perché credo che nei suoi due cavalli da battaglia da un punto di vista sonoro e performativo, Aviation/Aviateur e Variation/Variateur, le cancellature/i tagli che contribuiscono alla progressiva de-semantizzazione avvengano in maniera assolutamente peculiare rispetto agli altri testi sonori spatoliani; queste cancellature/tagli, infatti sono situabili come momento antecedente, da un punto di vista visuale, alla disgregazione operata negli zeroglifici, ma ben più profonde quando ci si concentri sul rapporto tra lingua scritta e resa sonora, e dunque rappresentano in qualche modo un punto d’arrivo (non finale, naturalmente) del suo viaggio attraverso la riduzione del linguaggio e la sua riqualificazione.

Fig. 14 | Variation/Varietur (1a versione), da: Algoritmo, Torino, Geiger, 1973, p. 5 (immagine di proprietà dell'autore).

In Aviation/Aviateur l’esecuzione spatoliana è tutta incentrata sulle due parole del titolo pronunciate in modo da riprodurre il suono di un aereo che si libra nell’aria e poi scende in picchiata. Il finale esplode in una scarica di mitragliatrice che dall’aereo miete le sue immaginarie vittime. L’aspetto curioso di questo pezzo sonoro è che Spatola ne aveva offerto la “partitura” (non a chiasmo in questo caso) rendendo ovvio l’abisso che si apriva tra quella e la resa performativa. Inutile sarebbe cercare una corrispondenza tra parola scritta e parola declamata come anche tentare di decifrare le nuove fonetizzazioni spatoliane. In un’operazione non troppo differente da quella dei suoi lavori visuali, la frantumazione dei singoli vocaboli in fonemi incapaci d’articolare un qualsiasi dettato spinge a visitare zone antecedenti l’espressione. La cancellatura avviene a due livelli differenti: la prima, sul testo stesso, dove vengono lasciati solo brandelli di parole; la seconda, in maniera più profonda, tra testo e articolazione sonora. Muoversi in questa direzione, rendendo indecifrabili le parole, rappresenta forse il Logos, come condizione di possibilità, in un momento che precede l’espressione.

Variation/Variateur, se possibile, sposta ulteriormente il baricentro. I testi-spartito si moltiplicano (sono 4 in Algoritmo) e la voce che in Aviation/Aviateur faceva da interprete al testo cancellato viene affiancata dal battito ritmato del microfono sul corpo del poeta, dai suoni differenti che le varie parti del corpo su cui si muove producono (il corpo diventerà elemento essenziale anche per un’altra sua performance sonora, l’Omaggio ad Edgar Varèse, dedicato a uno dei primi compositori a considerare il suono come massa, con un peso legato alle proprie caratteristiche timbriche e, quindi, tenendo in mente composizioni quali Ionisation (1931), antesignano delle ricerche sonore di quegli anni.

Fig. 15 | Variation/Varietur (2a versione), da: Algoritmo, Torino, Geiger, 1973, p. 14 (immagine di proprietà dell'autore).

Dal visuale, al sonoro, al corporale, la poesia continua ancora una volta a esistere aldilà del testo, della scrittura. E se, come afferma Roland Barthes, “la crittografia sarebbe dunque la vocazione stessa della scrittura”, e se “l’illeggibilità ben lungi dall’essere lo stato debole, mostruoso, del sistema scrittorio, ne sarebbe al contrario la verità (forse l’essenza di una pratica si trova nel suo limite, non al centro)” (Barthes [1994] 1996, 13), non sarà difficile intravedere quale direzione prendono le strade che Spatola ha battuto con insistenza, nel tentativo di arrivare a una pacificazione tra simbolico e reale, in prospettiva naturalmente asemantica.

Bibliografia

Barthes [1994] 1996
R. Barthes, Variazioni sulla scrittura [Paris, 1994], Genova 1996.

Fontana 2008
G. Fontana, In forma di libro. I libri di Adriano Spatola, Modena 2008.

Niccolai 1975
G. Niccolai, Una proposta di interpretazione degli zeroglifici, in A. Spatola, Zeroglifico, Torino, Geiger, 1975, s.p.

Niccolai 2001
G. Niccolai, Esoterico Biliardo, Milano 2001.

Pagliarani 1963
E. Pagliarani, Poesia ideologica e poesia oggettiva, "Nuova corrente" 31 (1963), pp. 37-40.

Spatola 1969
A. Spatola, Verso la poesia totale, Torino 1978.

English abstract

Adriano Spatola has been one of the major players of the neo-experimental milieu that first gathered around the journal il Verri, and whose members, after 1969, pursued different paths to continue their literary experimentations. In a period in which poetry saw the possibility to expand its boundaries beyond the written word, Spatola is one of the few who tried to broaden the spectrum of his investigations with continuity, mainly in the areas of concrete, visual, and sound poetry. The essay Scrivere significa costruire il linguaggio, non spiegarlo: la manovalanza di Adriano Spatola verso una poesia totale [To Write Means to Construct Language, Not to Explain It: Adriano Spatola’s Labor Towards a Total Poetry] aims at identifying a common denominator that is able to link together Spatola’s linear works and his concrete, visual, and sound experimentations. Based on textual analysis, Cavatorta suggests that all of his work can be seen as a progressive descent into the reduction of language that culminates, with his sound poetry, in the disappearance of the linguistic sign.

keywords | Poesia verbovisionaria; Avant-Garde; Adriano Spatola; Total poetry.

Per citare questo articolo: Giuseppe Cavatorta, “Scrivere significa costruire il linguaggio, non spiegarlo”. La manovalanza di Adriano Spatola verso una poesia totale, “La Rivista di Engramma” n. 145, maggio 2017, pp. 203-218. | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2017.145.0000