"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

145 | maggio 2017

9788894840209

“Se si scrive / lepre...”

Performatività del testo in Corrado Costa (due esempi)

Marco Berisso

English abstract

I versi che ho messo come titolo del mio intervento sono quelli iniziali di una delle più note, credo, poesie di Corrado Costa, Collocazione dei nomi, contenuta in Le nostre posizioni (raccolta edita da Geiger nel 1972).

Se si scrive
lepre
non è detto se si scrive lepre che sarà una lepre
che correrà sull’erba
non è detto che ci sarà dell’erba se si scrive
erba erba erba erba erba erba erba
(Costa 2007, 72)

È una poesia nota, dicevo, e credo lo sia per la sua esemplarità. Proprio Collocazione dei nomi pone infatti, all’interno della raccolta di apertura della seconda stagione della poesia di Costa, una serie di nodi cruciali che possiamo riassumere nel rapporto problematico tra testo poetico e referenza. La nominazione verbale del testo, infatti, non crea i propri referenti (o meglio, come dice Costa, con i suoi consueti deplacements ironici, “non è detto” che li crei: potrebbe anche crearli, insomma) ma resta confinata, in qualche modo, sulla pagina. Nello stesso tempo, però, il testo verbale origina una sorta di competizione con la realtà. L’ultimo verso, con quell’“erba” ripetuta come in un tappeto (e, nello stesso tempo, ribadita come fosse un sortilegio da cui ci aspetta la realizzazione di una magia), e che però “non è detto” che crei davvero l’erba, pare quasi evocare la tradizione dei calligrammi, l’ambizione di una poesia che sia insieme senso e figura.

Non sono, naturalmente, temi nuovi e non sono neppure temi solo di Corrado Costa: la messa in discussione e quindi, in qualche modo, in crisi del nesso poesia-referente è aria comune respirata da più di uno in quegli anni e soprattutto proprio nei dintorni del Mulino di Bazzano. A questa crisi del referente, comunque, Corrado Costa reagisce, a ridosso delle Nostre posizioni e poi con sempre maggiore frequenza nei due decenni Settanta e Ottanta, intensificando il lato performativo del testo. Con una cautela, però: quello che distingue evidentemente Costa da altri esperimenti di quegli anni è un’attenzione alla semantica ‘diretta’ del testo che non si dissolve mai. Voglio dire che, in qualche modo, Costa è sempre il poeta denso e ‘politico’ di Pseudobaudelaire anche quando gli risulterà evidente come quella tipologia testuale rischi di essere un limite. Il sovrapporsi del suono (sia esso la voce o lo strumento), dell’immagine, del gesto sono, appunto, sovrapposizioni, valori aggiunti che, di fatto, potranno in qualche caso mutare col tempo anche se applicati allo stesso testo (così che esso diviene trama puramente sonora o sviluppa delle implicazioni visuali o, ancora, funziona da ‘sfondo’ per una performance) e mutare, talvolta, in parallelo con una variantistica che rende il testo a sua volta instabile. In questa direzione la sphragìs di questa stagione della produzione costiana è l’intervento autografo, che si innesta sulla pagina a stampa: segno della mobilità del testo e della sua provvisorietà ma anche, nel contempo, segno grafico e nota per l’esecuzione.

Per esemplificare queste procedure ho deciso di portare qui due esempi piuttosto diversi, Il fiume e Il violinista di Chagall. E per focalizzare appunto le diversità, cominciamo col notare che sono due testi cronologicamente molto lontani. Se il primo, infatti, è databile almeno nel suo nucleo originario a prima del dicembre 1974, anno in cui appare in una prima stesura molto ridotta nel depliant che accompagna una mostra dell’artista di origine armena Yervant Gianikian tenutasi appunto dal 9 dicembre 1974 all’8 gennaio 1975, Il violinista di Chagall, da quello che risulta dal dattiloscritto che lo riporta, è invece un testo dell’aprile 1988. Inoltre, se Il fiume è stato più volte pubblicato, parzialmente o integralmente, sino a essere riprodotto nella più recente delle sillogi dedicate a Costa (Costa 2007, 205-225), Il violinista di Chagall è rimasto praticamente inedito, se si eccettua la riproduzione video della performance contenuta nel cd allegato proprio a quella raccolta. Ed è anche la permanenza nel tempo, diciamo così, che è diversa. Dal 1974 in poi, infatti, Il fiume viene ripreso e rielaborato più volte sino almeno al 1987, e anche più oltre, se consideriamo la performance elaborata dal gruppo teatrale modenese Koinè con l’autorizzazione e collaborazione di Costa. Al contrario, la vicenda del Violinista di Chagall è circoscritta all’anno della sua composizione, il 1988, in cui viene ‘eseguito’ in varie situazioni pubbliche insieme a Giuseppe Caliceti, che a quel testo ha collaborato, per essere poi abbandonato.

Se gli elementi cronologici e la storia interna dei due testi li differenzia profondamente, entrambi sono però accomunati dalla presenza di una pluralità di elementi che agiscono al loro interno, in contemporanea o distribuiti in fasi successive, e che potrei sintetizzare così, avvertendo che la successione non è assolutamente da intendere in senso gerarchico:

A) testo ‘lineare’
B) testo ‘lineare’ modificato con interventi autografi
C) addizioni visuali di diversa natura, che vanno dal disegno al collage per sfociare nel libro d’autore vero e proprio
D) realizzazione sonora (realizzata attraverso la lettura di Costa), autonoma o legata al momento performativo
E) performance vera e propria

Non tutti i livelli sono compresenti in ogni momento dei due testi e non tutti hanno la stessa centralità in entrambi, naturalmente. Se ad esempio gli elementi sonori e performativi risultano decisamente più tardi nel Fiume e sono forse addirittura un portato proprio della performatività che Costa persegue soprattutto dalla seconda metà degli anni Ottanta, gli aspetti visuali sono in buona sostanza solo impliciti nel Violinista di Chagall, visto che il testo di fatto non è stato mai pubblicato e quindi la pur complessa partitura visuale dell’originale rimane, diciamo così, solo implicita. Ma quel che importa qui è che entrambi, con le modalità distinte che ho detto, cercano comunque di interrogare il rapporto tra testo e referente.

Partiamo da Il fiume. Come spesso accade con Corrado Costa, il poemetto si forma nel tempo da una aggregazione e rielaborazione, anche molto ampia, di testi precedentemente autonomi. La prima pubblicazione riconducibile a questo poemetto è quella che ricordavo prima, avvenuta in occasione dell’esposizione di Yervant Gianikian alla Galleria del Cavallino di Venezia (la si può vedere riprodotta, col titolo redazionale e fondamentalmente arbitrario di La scarsa conoscenza, anche in Costa 2007, 157). Non una stampa accessoria, come si capisce dalla breve nota in quarta pagina del depliant, dove Gianikian scrive:

“Nel seminario dell’isola degli Armeni in Venezia, dove ha studiato, ha conosciuto Hair Vahan diventando suo discepolo e condividendo la teoria dei fiumi che entrano nel mare e rimangono intatti, approfondita con Corrado Costa nell’aprile del 1974”.

Fig. 1 | Depliant di accompagnamento della mostra personale di Yervant Gianikian alla Galleria del Cavallino di Venezia, 9 dicembre 1974-8 gennaio 1975.

Premetto che non ho ancora avuto modo di indagare le modalità e i tempi in cui si è sviluppato il rapporto tra Costa e Gianikian. Quello che sinora sono riuscito a trovare è un articolo-intervista di Bruno Di Marino all’artista uscito su “Alias – Il manifesto” del 10 dicembre 2016 in cui Corrado Costa viene ricordato come colui che fece conoscere nel 1974 a Gianikian quella che è ancora oggi la sua compagna e coautrice, Angela Ricci Lucchi (Di Marino 2016). Quello che è evidente dal depliant è che il lavoro di Gianikian, in quegli anni, è ancora lontano dalla produzione cinematografica che ha caratterizzato e caratterizza ancora oggi la sua ricerca artistica. Detto questo, conta sottolineare che il testo presentato nel catalogo è una sorta di versione in nuce del futuro poemetto (versione che comunque verrà recuperata, con vari aggiustamenti, anche in seguito), e mostra da subito la compresenza con un parallelo testo visivo (le piccole pseudo-placche di metallo ‘avvitate’ sulla pagina) che peraltro non credo sia da attribuire a Costa.

Questo testo visivo mostra tanto oggetti collegati all’acqua quanto altri la cui funzione è meno perspicua: nell’insieme, gli inserti sottolineano, coprendo i vuoti della scansione in strofe, le partizioni interne della poesia. Siamo insomma a un rapporto comunque ancora piuttosto tradizionale, in cui l’immagine ‘commenta’ in qualche modo il testo. Già in due pubblicazioni del 1975 alcune sezioni de Il fiume mostrano comunque già modalità più complesse di interazione tra stesura tipografica, intervento manoscritto e illustrazione, questa volta sicuramente d’autore.

Sul n. 9 di “Tam Tam”, nella primavera 1975, Costa ripubblica a distanza di qualche mese dalla mostra veneziana i versi di cui parlavo, intitolandoli Non copiare dagli occhi (D. Vertov), prima apparizione di quello che diventerà da un certo momento in poi l’esergo del poemetto. Il materiale verbale è grosso modo lo stesso, anche se viene dislocato differentemente (la strofa 3 viene inserita tra la 5 e la 6), ma, soprattutto, come si può vedere, a essere riutilizzata in “Tam Tam” è proprio la stampa del depliant, come dimostrano i medesimi caratteri di scrittura. così che l’impaginazione assume la forma di un collage (si confronti ad es. il ritaglio parziale che troviamo a p. 16 con l’originale del 1974).

Fig. 2 | Corrado Costa, Non copiare dagli occhi (D. Vertov), “Tam Tam”, n. 9 (primavera 1975).

Fig. 2bis | Depliant di accompagnamento della mostra personale di Yervant Gianikian alla Galleria del Cavallino di Venezia, 9 dicembre 1974-8 gennaio 1975.

L’intervento di Costa si completa poi con una serie di integrazioni o di cassature autografe che, in molti casi, hanno un preciso valore semantico e la funzione di modificare o deviare il testo originale. Si veda ad esempio come nella sezione iniziale il «mi piace» manoscritto che introduce il testo per poi precisarsi subito dopo in «mi piace raccontare che» interagisca sia con il verso che lo precede (“ci / permette di raccontare per esempio”) sia, con straordinario effetto di negazione, col verso successivo (“non possiamo raccontare”); oppure a p. 18 si noti l’intervento sulla strofa 3, dove “foce” manoscritto sostituisce “margini” della stampa (e, parallelamente, determina l’eliminazione della citazione da Franco Beltrametti presente nella versione sul depliant).

Fig. 3 | Corrado Costa, Non copiare dagli occhi (D. Vertov), “Tam Tam”, n. 9 (primavera 1975).

Fig. 4 | Corrado Costa, Non copiare dagli occhi (D. Vertov), “Tam Tam”, n. 9 (primavera 1975).

Altri interventi invece hanno un valore puramente iconico, come, rimanendo a questa stessa pagina, i ritocchi e le correzioni su “E” in alto o il gioco su è/é al centro. Ma per quanto apparentemente desemantizzati, questi interventi non si rivelano mai come puramente grafici. La serie di p. 18, ad esempio, rifunzionalizza la prima versione del testo, quella a stampa, ritagliando l’impaginato originale (asportando, ad esempio, la è dal verso “è rimanere intatto”) e correggendolo per fornire una nuova realizzazione e scansione “È questo | che chiamiamo | deserto || Questo | che chiamamo | rimane intatto | è || Questo | che chiamiamo scorrere | è rimanere intatto | il fiume di cui si parla” ecc.) che sfrutta, peraltro, la fondamentale ambiguità sintattica dell’originale e la sostanziale assenza di punteggiatura. I due livelli coesistono e si realizzano dinamicamente, uno non sostituisce l’altro ma gli si sovrappone.

Fig. 5 | Reggio Emilia, Biblioteca Comunale Panizzi, Archivio Corrado Costa; f. 40, fasc. 2, prima unità, c. 3.

In questo senso la pagina iniziale del poemetto nella versione su “Tam Tam”, con “mi piace” scritto in cima e in fondo a essa ma cassato la seconda volta, rappresenta bene questa compresenza di affermazione e negazione e, sostanzialmente, di duplicità. Ed infine, ma non da ultimo, Corrado Costa dà qui visibilità alle modalità di correzione e revisione del testo poetico da lui stesso seguite nei suoi manoscritti e che sono abituali a chi frequenta le sue carte, provocando da un lato una emersione del laboratorio autoriale, che diventa, da privato, pubblico, ma dall’altro, con effetto paradossale, una negazione di ogni possibile versione ultima e definitiva, trasformando ogni realizzazione anche a stampa del testo in una minuta o in un abbozzo.

A riprova di quanto ho appena detto segnalo che tra le carte dell’Archivio Corrado Costa conservate alla Biblioteca Comunale Panizzi di Reggio Emilia (f. 40, fasc. 2, prima unità cc. 1-18) si ritrova una versione manoscritta che è probabilmente il primo tentativo di sistemazione di tutti i testi e frammenti di testo sin lì pubblicati in un poemetto organico (è la prima occasione, a quel che ho potuto vedere, in cui appare il titolo Il fiume). Databile a dopo il 1977 (visto che contiene, come segnala il catalogo del fondo, alle cc. 16-18 la riproduzione della stampa di una sezione edita nel catalogo della quinta rassegna “Si va per cominciare” tenutasi a Pavia nel settembre di quell’anno), il manoscritto in questione si presenta come un insieme di diversi supporti (dattiloscritti, ritagli su carta e cartoncino, testi a stampa rimaneggiati ecc.). Alla c. 3, comunque, possiamo vedere come Costa intervenga con nuove aggiunte manoscritte su un ritaglio dell’edizione di “Tam Tam” modificando appunto il testo ma, nello stesso tempo, operando con una sovrapposizione rispetto agli interventi manoscritti già presenti nella stampa. Il testo scritto, insomma, cerca di superare così la cristallizzazione sulla pagina per trasformarsi in qualche modo in evento performativo.

Sempre nel 1975, a ottobre, esce sul primo numero della rivista “North” (sottotitolata non per caso “Laboratorio di poesia e sperimentazione visiva”) una poesia intitolata Per un fiume e che confluirà anch’essa nella versione finale del poemetto. Per un fiume si presentava in una redazione interamente manoscritta e con una evidente correzione al v. 3, portando dunque il manoscritto ‘di lavoro’ direttamente alla riproduzione tipografica. Per di più, per la prima volta, il testo è accompagnato da alcuni disegni d’autore, aprendo così la strada a quella che sarà una modalità di interazione tra testo e segno grafico/immagine autoriale che porterà nel 1987 all’edizione definitiva, che si fregia appunto nel frontespizio dell’indicazione “con cinque disegni dell’autore” (la si può ritrovare riprodotta in anastatica, come ricordavo, in Costa 2007).

Nel 1987, a differenza di quanto accadeva nel 1974, l’elemento iconico instaura col testo un rapporto di interazione che, pur non essendo illustrativo (non è infatti, se non vagamente, figurativo, indirizzando semmai verso il pittogramma), sviluppa lo stesso un movimento della pagina che, di nuovo, determina spesso interazioni con il versante verbale. L’esempio migliore è quello della quarta sezione (corrispondente alla prima del vecchio testo del 1974), in cui i due pittogrammi (per altro simmetrici) si innestano sulla correzione manoscritta di un refuso e sulla cassatura del “mi piace” a fondo pagina, funzionalizzando così i tratti grafici in una sorta di evocazione del flusso fluviale (Costa 2007, 208). C’è però un’ulteriore tappa significativa, ed un’ulteriore metamorfosi di questo testo, prima di arrivare al volume dell’87. Nel 1981 Costa aveva infatti utilizzato Il fiume come base verbale su cui costruire uno di quei libri d’artista a cui lavora con maggiore frequenza proprio durante gli anni Ottanta. L’opera in questione è formata da 21 pagine ricavate da un foglio a soffietto su cui Costa agisce incollando frammenti di testo (quindi con un ulteriore ricorso alla tecnica del collage) e intervenendo poi con la scrittura manoscritta e con l’elemento grafico, che qui include anche il ricorso al colore. Noi peraltro abbiamo oggi la possibilità di verificare nel dettaglio il processo di sovrapposizione tra il lavoro iconico-pittorico e quello propriamente testuale poiché nel già ricordato Archivio Costa (f. 40, fasc. 2, seconda unità, cc. 1-23) ritroviamo un fascicolo pinzato che costituisce il testo-base, ritagliato e utilizzato per la creazione del libro. Come si può vedere, la forma testuale attestata nel dattiloscritto viene scomposta e rimpaginata in funzione del nuovo supporto, spesso conservando qualcosa della propria originaria collocazione (ad esempio nella fig. 6  si nota il recupero del testo uscito su “North”, come rivela il permanere del numero di pagina originario in basso al centro nella pagina di sinistra), giocando con l’apparato grafico anche in funzione paratestuale (si vedano le due frecce rosse nella fig. 6ter che ricollocano al posto “giusto” due frammenti di testo altrimenti dislocati ma perfettamente leggibili anche lì dove si trovano).

Fig. 6 | Corrado Costa, Il fiume (libro d’artista, 1981).

Fig. 6bis | Reggio Emilia, Biblioteca Comunale Panizzi, Archivio Corrado Costa; f. 40, fasc. 2, seconda unità, cc. 8-9.

Fig. 6ter | Corrado Costa, Il fiume (libro d’artista, 1981).

È chiaro insomma che la vicenda del Fiume, così come l’ho delineata per quanto un po’ velocemente sin qui (ci sono dei passaggi che andrebbero in realtà meglio indagati, ma la sostanza credo non muterebbe) ci mostra Corrado Costa che, alle prese con la fluidità semantica del testo e con i suoi poli compresenti e paradossali (immobilità/movimento, avanti/indietro, adesso/dopo), cerca di sfondare, per così dire, la pagina scritta per muovere, letteralmente, la parola. Il racconto nel libro d’autore del 1981 prende così quasi l’aspetto di una sequenza filmica (opportunamente i curatori del catalogo della mostra dei libri d’artista di Costa tenutasi a Reggio Emilia nel 2012 ricordano come al centro di questo poemetto ci sia un’altra immagine forte di flusso simmetrico e negato, quella di Greta Garbo che “si contempla nel film | e vede Greta Garbo |che si contempla nel | fiume. | Noi li vediamo rimanere | e scorrere. | Quello che noi chiamiamo | rimanere e scorrere | rimane immobile”; Bertoni, Panizzi 2012, 36) e, nello stesso tempo, nel suo svolgersi a soffietto in orizzontale, assume quasi l’aspetto fisico di un corso fluviale. Non sorprende allora che un testo così in movimento sia letto da Corrado Costa, nell’unica registrazione de Il fiume che è rimasta (pubblicata postuma sul n. 22 della rivista sonora “Baobab” nel 1992), seguendo i versi come una traccia, un suggerimento, scegliendo di volta in volta tra ciò che l’intervento manoscritto correggeva e ciò che sulla pagina a stampa era stato corretto, saltando, spostando frammenti, tagliando e, in qualche caso, aggiungendo qualche parola.

Il dato che più colpisce è che l’esecuzione del testo riproduce in maniera tangibile quella esitazione/compresenza tra parole e sintagmi che abbiamo visto essere caratteristica delle varie incarnazioni del poemetto praticamente sin dalle sue origini. Costa infatti interrompe la lettura, esita, in alcuni punti sfuma la voce: la provvisorietà della scrittura diventa insomma provvisorietà della sua realizzazione performativa, dando a tratti quasi l’impressione della improvvisazione. È vero (lo vedremo tra poco) che Costa ha sicuramente una concezione dell’esecuzione orale come reinterpretazione della traccia scritta, ma l’impressione qui, comparativamente, è che ci sia una sorta di ulteriore potenziamento di quell’elemento ‘fluido’ che abbiamo visto sin qui condizionare tutte le possibili realizzazioni del poemetto.

Prima di passare al Violinista di Chagall vorrei qui ricordare un’ultima incarnazione del poemetto, quella realizzata dalla compagnia Koiné (oggi Koiné Teatro Sostenibile) diretta da Silvio Panini e di stanza nella provincia di Modena. Partendo dal testo di Costa, la compagnia ha infatti creato una performance di cui ho per il momento potuto vedere un piccolo frammento video e qualche immagine fotografica. In attesa di ulteriori indagini, mi sembra però importante, per intanto, segnalare che questo progetto nasce nel 1987 e che coinvolge in prima persona Costa (come mi è stato confermato telefonicamente da Panini stesso, che ringrazio per la disponibilità e la gentilezza), anche se con modalità che devono essere ancora approfondite. Non ha molto senso per ora, ovviamente, dire altro: ma credo sia importante sottolineare come la dimensione performativa qui intrecci, attraverso la presenza di una scenografia, quel teatro col quale Costa ha avuto un rapporto di fascinazione tanto lungo quanto ancora tutto da studiare.

Vengo adesso a Il violinista di Chagall. La genesi di questo testo che, come dicevo, è a oggi inedito, è stata raccontata dallo stesso Caliceti in occasione della presentazione, tenutasi a gennaio di quest’anno a Cavriago, dei testi per canzone che Costa scrisse per le musiche di Umberto Pieroni; un racconto che ho potuto integrare, insieme ad altre informazioni, grazie a una conversazione avuta sempre con Caliceti il 29 ottobre 2016. Caliceti, che vive ancora oggi a Reggio, è di trentacinque anni più giovane di Costa ed è anche lui poeta. Quando conosce il nostro autore, nei primi anni Ottanta (un racconto dei primi contatti tra i due è nello scritto memoriale Giocando con Corrado edito in Costa 2007, 339-341), è allievo del liceo musicale di Reggio, dove studia violino. Costa, che già aveva collaborato sin dagli anni Settanta col sassofonista Steve Lacy (con cui ha eseguito tra l’altro proprio Il fiume in più occasioni, a partire dalla prima documentabile, alla Galleria Multimedia di Brescia nel 1981), comincia a ricorrere a Caliceti come violinista per integrare con interventi sonori le proprie letture pubbliche e, nello stesso tempo, ne promuove l’attività di poeta, coinvolgendolo in queste stesse occasioni e, soprattutto, introducendo (e, presumibilmente, caldeggiando) la sua prima raccolta, La ragazza ladra, uscita nel 1983 come supplemento al n. 32 di “Tam Tam”. Il violinista di Chagall nasce proprio dall’idea di dare una struttura più solida a quella intersezione tra musica e testo che, fondamentalmente, si organizzava nei termini di una pura improvvisazione in buona sostanza indipendente dei due esecutori.

Il testo di partenza è una poesia di Caliceti, Il violinista, che viene però totalmente stravolta da Costa, che ne ritaglia alcuni nuclei e li integra abbondantemente con i propri versi. È proprio opera di Costa, in particolare, tutta la sezione conclusiva, che si chiude con l’evocazione del quadro di Chagall, Il violinista e che finirà col fornire il nuovo titolo alla poesia (“A volte | prima di innamorarsi di un violinista | lo sentiamo suonare sui tetti | nel cielo della casa una parentesi quadra | e una parentesi rotonda che si sono dimenticati di chiudere | NB senti le note del violinista che cammina sui tetti | e il suo cane corre sul dorso della luna | Ha il naso rosso”). La partitura verbale offerta dal testo viene a questo punto coordinata con quella musicale che, in un primo momento, doveva essere fornita nelle intenzioni di Costa e Caliceti dal primo movimento della Partita n. 2 per violino di Bach ma che poi si trasformerà in una sequenza di esecuzioni più libere e improvvisate, che dalla partitura bachiana possono ma non necessariamente devono prendere spunto. Sono invece relativamente precisi e comunque concordati in precedenza i punti di inserimento della musica nel testo, così da originare una struttura degli interventi solo in parte aleatoria. Infine il testo prevede nella sua ideazione una serie di gesti performativi che devono essere eseguiti dai due autori.

Questo rapporto tra testo, musica e movimenti degli esecutori vengono suggeriti a Caliceti, come lui stesso ricorda, dal forte impatto che ebbero su di lui in quegli anni gli ascolti di musica sperimentale contemporanea e l’incontro con le partiture di quegli stessi autori (in particolare quelle di Bussotti) rinvenute nella fornitissima biblioteca musicale del suo liceo. Ed è forse proprio a partire da quelle esperienze che a fianco dell’elemento esecutivo e performativo Il violinista di Chagall prevede anche una dimensione iconica, legata al testo/partitura. Il dattiloscritto della poesia viene infatti “lavorato” con l’inserimento di tre diversi elementi, ovvero: 1) frammenti della partitura di Bach incollati a mo’ di collage; 2) ritocchi manoscritti sulle “o” del dattiloscritto trasformate in note; 3) altri interventi manoscritti genericamente riconducibile a una sintassi musicale (scrittura di gruppi di note, indicazioni di tempo ecc.); 4) correzioni e interventi sul testo dattiloscritto, tanto di mano di Costa quanto di mano di Caliceti. Anche qui, pur nella evidente unità di intenti, la parte di rimaneggiamento legata alla musica è di prevalenza da attribuire a Caliceti, quella poetico-verbale a Costa. È chiaro comunque che se l’obiettivo primario è quello di fissare anche visivamente sulla carta il percorso compositivo che i due avevano seguito nell’organizzazione della performance, dall’altro lato la procedura adottata permette di verificare una volta di più il permanere di quell’elemento di movimento del testo, di sua performatività, diciamo così, intrinseca, che abbiamo già incontrato per Il fiume.

Il violino di Chagall viene eseguito, come ricordavo all’inizio, in alcune sedi (tutte piccole: non è evidentemente una performance che può rendere negli ampi spazi dei festival di poesia così frequenti in quegli anni) durante tutto il 1988. Di queste esecuzioni abbiamo a quanto pare solo una registrazione video (la si può vedere nel cd video allegato a Costa 2007), che però purtroppo oblitera quasi del tutto proprio il momento performativo, nascosto com’è dalla sovrapposizione del dattiloscritto sullo schermo. Qualcosa comunque si riesce a vedere: l’interattività, spesso creata sul momento (si veda proprio l’inizio), tra i due esecutori, alcuni loro movimenti (Costa che indica Caliceti all’inizio, l’uscita di scena di Caliceti nel finale), la presenza della partitura davanti a Caliceti che crea un contesto davvero concertistico.

E però (e chiudo con questo, tornando in qualche modo all’inizio) Il violinista di Chagall è anche, in qualche modo, una ironica sospensione del rapporto tra poesia e realtà. Perché mentre il testo parla delle difficoltà di innamorarsi di un violinista, la realtà ci mette di fronte proprio un violinista con cui il poeta interagisce: e nello stesso tempo quel tentativo di innamoramento si manifesta come pura finzione letteraria, perché l’interazione non ha nulla a che fare con quello che il testo ci sta dicendo ma semmai con il rapporto tra due esecutori o performer, un rapporto quindi tutto fizionale. Ed è proprio in queste modalità ironiche con cui il problema stesso di una duplicità tra testo e referente è stato sempre posto da Corrado Costa, in questo e in altre occasioni, che credo risieda molta della fascinazione che ha ancora oggi per noi la sua produzione artistica.

Bibliografia

Bertoni, Panizzi 2012
Il titolo lo mettiamo dopo. I libri d’artista di Corrado Costa, a cura di M. Bertoni e C. Panizzi, Reggio Emilia 2012.

Costa 2007
C. Costa, The Complete Films. Poesia Prosa Performance, a cura di E. Gazzola, Firenze 2007.

Di Marino 2016
B. Di Marino, Gianikian e Ricci Lucchi, archeologia del presente, “Alias – Il manifesto”, 10 dicembre 2016.

English abstract

Even if assignable to different periods of his production and characterized by a substantial variance in their fortune and textual history, both poems by Corrado Costa −Il fiume and Il violinista di Chagall − move from a primitive linear version to a performative execution; even if in a large sense this can also include the 1981 book-object Il fiume. The essay tries to analyze the peculiar strategies put into effect by Costa to achieve this aim, and his use of visual and audio elements to increase the performative values of his literary production.

keywords | Poesia verbovisionaria; Avant-Garde; Performance; Corrado Costa; Il fiume; Il violinista di Chagall.

Per citare questo articolo: Marco Berisso, “Se si scrive / lepre...”. Performatività del testo in Corrado Costa (due esempi), “La Rivista di Engramma” n. 145, maggio 2017, pp. 219-231. | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2017.145.0005