"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

149 | settembre 2017

9788894840254

Qualche nota sull’Acedia di Petrarca

Enrico Fenzi

English abstract

Francesco Petrarca e Sant'Agostino a colloquio dinnanzi alla personificazione della Verità, miniatura dal Secretum, ms. 113/78, fol. Ir, 1470, Bruges, Grootseminaire.

Agostino – Sei in preda di una tremenda malattia dello spirito, che i moderni chiamano accidia e gli antichi aegritudo.
Francesco – Solo il nome mi spaventa.
Agostino – Non è strano: ne sei stato afflitto a lungo e gravemente.
Francesco – È vero. E c’è in più che mentre in quasi tutti gli altri mali che mi tribolano è mescolato un che di dolce, ancorché falso, in questa tristezza invece tutto è aspro e misero e orribile, e la via alla disperazione è sempre aperta e tutto in essa fa sì che le anime infelici ne siano spinte verso la morte. Inoltre, delle altre malattie sperimento attacchi frequenti ma brevi e quasi momentanei: questo flagello, invece, mi ghermisce a volte così tenacemente da tormentarmi nella sua stretta per giorni e notti intere, e allora per me non è più tempo di luce o di vita, ma oscurità d’inferno e strazio mortale. E mi nutro a tal punto di lacrime e dolori, con una sorta di disperata voluttà (e questo si può ben dire il massimo delle miserie!) che me ne stacco a malincuore […]. Ogni volta che subisco qualche colpo dalla fortuna resisto impavido, e mi ricordo che spesso sono riuscito vincitore dopo che essa mi aveva gravemente colpito. Se subito raddoppia il colpo comincio a vacillare, e se ai due se ne aggiunge un terzo o un quarto, allora sono costretto a ritirarmi nella rocca della ragione: non però con fuga precipitosa, ma indietreggiando passo passo. Ma se la fortuna mi assedia in forze anche qui, e per espugnarmi mi butta addosso tutte le miserie della condizione umana e il ricordo degli affanni passati e il terrore dei futuri, allora, infine, colpito da ogni parte e spaventato da una tale congerie di mali, comincio a lamentarmi. È questa l’origine di quel grave dolore: come se uno fosse circondato da innumerevoli nemici e non avesse alcuna via di fuga né speranze di clemenza né soccorsi, ma tutto gli fosse contro – le macchine d’assedio sono drizzate, i cunicoli sotterra sono scavati, le torri oscillano, le scale sono erette e appoggiate ai bastioni, i ponti sono agganciati alle mura e il fuoco serpeggia per i tavolati. Vedendo tutt’intorno il balenìo delle spade e i volti minacciosi dei nemici e sentendo prossimo l’eccidio, perché non dovrebbe aver paura e piangere, dal momento che, fosse anche passato il pericolo di morte, la perdita della libertà sarebbe di per sé insopportabile per uomini forti?[1]

Questa pagina famosa del Secretum, che da sola potrebbe reggere un lungo discorso sulle crisi depressive di Petrarca, va letta nel più ampio contesto della parte finale del libro II del dialogo, che puntigliosamente precisa il carattere pervasivo della ‘malattia’ che suscita nell’individuo un sentimento di tedio e disgusto verso tutto e tutti ("Agostino – Dimmi allora, qual è per te la cosa peggiore? Francesco – Tutto quello che mi vedo attorno, e tutto quello che sento, e quello che tocco")[2], e va corredata da numerosi analoghi cenni e allusioni che troviamo in altre opere, per esempio nel De otio, e dalla ripresa del tema (con ampia e ragionata condanna di una siffatta ‘malattia’) nel tardo De remediis utriusque fortune, soprattutto nel capitolo 93 del libro II, De tristitia et miseria[3].

Al centro sta una nozione di Acedia che Petrarca subito si premura di identificare, per bocca di Agostino, con l’Aegritudo classica, di Cicerone e Seneca, che in prima istanza vale per una condizione di sofferenza interna che opprime e paralizza lo spirito, e dunque per ‘tristezza’, ‘sconforto’… Vedremo meglio, ma intanto occorre notare come una tale precisazione comporti di per sé il distacco dal senso in parte diversamente orientato che in ambito cristiano aveva finito per acquistare nel corso del Medioevo. A partire da Evagrio e poi soprattutto da Cassiano[4] e da Gregorio Magno, con il suo ‘sistema’ dei peccati, l’Acedia aveva infatti finito per designare la specifica ‘malattia’ del religioso, e del monaco-anacoreta in particolare, esposto sia per la lunga solitudine che per il frugale regime alimentare alle aggressioni di quel "demone meridiano" di cui tra molti altri parlano anche Giovanni Climaco o San Nilo. Ne sarebbe risultata una condizione spirituale di tedio paralizzante, di malsana inquietudine culminante in un vero e proprio disgusto verso tutto e tutti, tale da soffocare ogni tensione vitale e generare, sulla base dell’incapacità di desiderare il bene, una rancorosa, disperata e al fondo blasfema ribellione nei confronti del creato e del Creatore medesimo[5]. In tal senso, l’Acedia è una forma di disprezzo nei confronti dei doni ricevuti da Dio, ed è peccato mortale perché "toglie la vita spirituale prodotta dalla carità […]. Tale è l’Acedia. Poiché l’effetto proprio della carità è la gioia di Dio, mentre l’Acedia è una tristezza del bene spirituale in quanto è un bene divino", e quando arriva a corrompere la ragione si concreta "come fuga e orrore e odio" nei confronti di tale bene. Così Tommaso nella Summa, ove offre una compiuta trattazione dell’argomento, ricorrendo spesso a Cassiano e a Gregorio Magno[6].

Ma Petrarca, appunto, pur raccogliendo buona parte di tale tradizione, preferisce iscrivere questo suo grave tratto caratteriale nella cornice classica disegnata soprattutto da Cicerone nelle Tusculanae (per esempio III 7, 14; III 10, 22; III 31, 75; IV 18, 18), là dove in prospettiva stoica si condanna lo stato morboso di intima insoddisfazione e tristezza che ha lo stesso nome, Aegritudo, delle malattie del corpo. Il saggio ne dovrebbe essere tuttavia immune, perché siffatta Aegritudo colpisce coloro che giudicano non secondo verità ma secondo l’opinione, fonte di tutti gli errori umani. L’Aegritudo, dunque, "è propria degli stolti, che sono colpiti da ciò che credono sia un male, e il loro animo si abbatte e si mortifica perché non ascolta la voce della ragione. Ecco quindi la prima definizione: l’Aegritudo consiste in un abbattimento del tutto irrazionale dell’animo"[7]. Al proposito le citazioni possibili sono moltissime, specie in ambito stoico ov’è costante la condanna delle passioni e degli stati morbosi che ne derivano (tra i quali, si sa, sta pure la pietà)[8], e per quanto qui interessa si può forse aggiungere che l’infractio o demissio animi di chi s’arrende alla pura negatività del dolore è espressa, nel secolo che precede Petrarca, dal vocabolo "viltà", che ben traduce la connotazione classica dell’Aegritudo quale è illustrata da Cicerone[9]. Un esempio del tutto pertinente ci è offerto dal medesimo Dante quando si descrive prostrato dal dolore per la morte di Beatrice al punto di desiderare egli stesso la morte, allorché una ‘nuova donna’ – la Filosofia, nella particolare affabulazione del Convivio – sopraggiunge a rampognarlo per la viltà che lo paralizza[10].

Non è tuttavia questa la via percorsa da Petrarca che, per cominciare, sovrappone la sua Acedia all’Aegritudo degli antichi in vista di un duplice obiettivo: da un lato accantonare, come regolarmente fa, i suoi eventuali debiti verso la tradizione medievale, e dall’altro esaltare la radice classica delle sue scelte culturali e dei suoi comportamenti e atteggiamenti. Quando Agostino, nell’ultima parte del dialogo, osserva che se avesse rinfacciato a Francesco la sua calvizie, costui avrebbe tirato in ballo Giulio Cesare, e Francesco conferma e rincara: e pure Appio Claudio e Omero per la cecità, Marco Crasso per la sordità e Alessandro Magno per l’insofferenza al caldo… ebbene, egli prolunga la stessa linea intesa a nobilitare l’Acedia dei moderni attraverso l’Aegritudo degli antichi anche se, nella sostanza, una cosa non esclude l’altra. È facile osservare, per esempio, che le pagine sull’Acedia entrano a far parte della rassegna delle colpe o dei ‘peccati’ di Francesco, parte veri e parte no (nell’ordine: superbia, avidità, ambizione, gola, lussuria, ira…), ai quali è dedicato il secondo libro del Secretum, e che tale inflessione cristiana, evidente nelle parole di Agostino, aggiunge qualcosa di essenziale rispetto ai sillogismi ‘freddi’ dell’etica stoica. Il punto è che Petrarca, proprio perché sa modulare e quasi rianimare i vecchi schemi, riesce ogni volta a dar voce allo spessore esistenziale dell’esperienza, mescolando con abilità la forma della confessione alla rigidità della prescrizione morale. E ciò significa che noi riusciamo forse a distinguere quanto spetti all’Aegritudo di Cicerone e quanto all’Acedia di Cassiano o Tommaso, ma che al centro resta, appunto, la personale e irripetibile esperienza del vitium che gli antichi aiutano a conoscere e a dire, ma che è il moderno 'io' di Petrarca a vivere in maniera personale, analizzandolo con una finezza psicologica che deve moltissimo ad Agostino e alla tradizione cristiana medievale, come ha ben mostrato Wenzel[11]. L’arco delle possibili fonti è dunque ben conosciuto, così come i vari modi nei quali questo morbum è via via definito nelle pagine di Petrarca: Tristitia, Contristatio, Malum, Dolor, Miseria, Mestitia, Anxietas, Motus o Tumultus animi, ecc., e in questa sede non vale la pena insisterci[12]. Di là dalle parole che lo indicano è invece importante cogliere la nota dominante che assume nello speciale equilibrio di senso di Petrarca, che potremo subito ravvisare in una cupa sindrome depressiva che lascia il soggetto senza difese dinanzi all’assoluto e radicale male di vivere che essa stessa, per dir così, libera ed esalta.

Per cominciare, una tale depressione non dipende da cause immediate ed esattamente definibili, e il rapporto tra causa ed effetto appare addirittura rovesciato: non è una o più tra l’infinita serie delle possibili sventure a generare l’Acedia, ma semmai l’Acedia medesima che colora di nero il mondo e si trasforma in un percorso di scoperta dell’infelicità: essa è quella "dolendi voluptas quedam, que mestam animam facit, pestis eo funestior quo ignotior causa" (De remediis II 93, 6), e si veda ancora Sen. XVI 9, 16, citando proprio quel capitolo del De remediis: "Tristitia nullis certis ex causis orta, quam egritudinem animi philosophi appellant". Si potrebbe anche dire che Petrarca faccia cadere l’accento su un’Acedia che è generata, sì, da una serie di cause, ma che se ne rende rapidamente autonoma rompendo i nessi che la legano a ciò che la provoca e accampandosi come una condizione di malessere totalizzante e assoluta che riceve alimento solo da se stessa. Onde Agostino, nel dialogo, riesce abbastanza facilmente a mettere Francesco dinanzi al fatto che non ha poi molto di cui disperarsi, e in ogni caso non in modo così eccessivo e radicale. Il santo, infatti, si sforza di ricondurre quello stato d’animo entro un quadro razionalmente motivato di comportamenti e di esperienze, ripercorrendo per dir così a contropelo una serie di punti già toccati (i peccati), ora considerati per la loro capacità di produrre infelicità, quando la coscienza del male non sia di per sé sufficiente a riscattarsene e finisca dunque per marcire su se stessa. Il che è evidentemente vero, né altro di meglio si saprebbe dire, ma alquanto fuori bersaglio rispetto alla natura di un male senza cause, così com’è illustrato da Francesco. Di qui, un altro punto decisivo va chiarito.

Cominciando l’analisi del suo male, Francesco afferma che in tutti gli altri casi al vizio è mescolato un che di dolce, per quanto ingannevole, mentre l’Acedia ne è assolutamente priva, connotata com’è da una forma di disperazione che non conosce riscatto alcuno e che non ha altro esito che la morte. Ma poche righe avanti confessa di provare, in questo tempo di malattia privo di luce e di vita, immerso nell’oscurità infernale e nello strazio, una sorta di "nera voluttà" dalla quale gli è difficile staccarsi[13]. Ciò parrebbe a prima vista alquanto contraddittorio, ma non è così. Negli altri casi, infatti, il peccato sta nel cedimento nei confronti di un piacere reale e seduttivo, sessuale o gastronomico o che altro sia, mentre nel caso dell’Acedia non esiste nulla di simile: essa si nega a ogni piacere e propriamente lo recide da sé così come recide la sua dipendenza dalle sue possibili cause. L’atra voluptas è dunque la voluttà della pura negazione radicata nel luciferino orgoglio di rifiutare il mondo intero come indegno di sé. In tal senso, l’Acedia finisce per assomigliare a una ipertrofia dell’'io' che si compiace del proprio delirio di nullificante onnipotenza e che solo con estrema fatica può tornare a riconoscere e ad accettare l’ordine delle cose e il suo posto in esse.

A questi due tratti caratteristici – l’essere una malattia assoluta, senza cause, e nutrita da uno smisurato orgoglio – s’accompagna sottilmente, nella dialettica che oppone Francesco e Agostino, un altro elemento che corre costante e finisce per colorarla di sé. Brevemente, per tutto il libro primo del dialogo (ma anche negli altri due, a dire il vero) Agostino ha esortato l’interlocutore ad avere presente la condizione umana nella sua terribile limitatezza e miseria, sì che Francesco può in qualche modo presentare la sua Acedia come un atteggiamento di risposta a una siffatta diagnosi, cioè, per usare le sue parole, come l’equivalente dell’"odium atque contemptus" nei confronti di una tale tristissima condizione (Secretum, II, 180), quasi dicesse: "Proprio perché ho ben presente una condizione umana che non dà scampo, soffro intensamente e precipito nell’Acedia senza potermene difendere, perché non solo non ho le armi per rintuzzarne gli assalti ma sono io stesso che li porto contro me stesso, quando rifletto e faccio esperienza dei termini reali di quella condizione. E come potrei uscirne, se sono io il principale nemico di me stesso, nel momento in cui guardo in faccia la verità?". Quasi a dire che tale condizione lucidamente considerata ha in sé un altissimo potenziale autodistruttivo, dinanzi al quale non solo crollano i valori e i conforti di questo mondo, ma persino la possibile e auspicata compensazione metafisica – la fede – è travolta dalla dimensione nullificante del qui e ora dell’esperienza esistenziale della negatività del mondo (Secretum, II, 186: "Franciscus – Unde me fugere, quo ve proram tendere, quid denique opinari iubes, nisi quod video?"). In questo senso, l’Acedia di Petrarca finisce per presentarsi come esperienza radicale e totalizzante del male di vivere puntualmente scoperto dal pensiero quando va al fondo delle cose.

In questo senso si osservi come convengano benissimo ai sintomi dell’Acedia le ripetute invettive che, nelle opere di Petrarca, riversano il disprezzo più totale sulla massa degli umani e sulle loro miserabili occupazioni e interessi, e la forte vena di elitaria disperazione che portano alla luce. Si legga proprio nel Secretum, e proprio in questo contesto:

Chi potrebbe adeguatamente descrivere la noia e il quotidiano fastidio della mia vita nella più tetra e turbolenta città della terra, la più soffocante e profonda sentina donde trabocca la sporcizia del mondo intero? Chi potrebbe rendere a parole tutto ciò che a ogni passo provoca la nausea? Strade puzzolenti, scrofe immonde imbrancate con cani rabbiosi, fracasso di ruote che fa tremare i muri, carri che attraversano viuzze tortuose, e tante diverse razze d’uomini, tanti disgustosi spettacoli di mendicanti, tante follie dei ricchi, gli uni inchiodati alla loro miseria, gli altri sguazzanti nei piaceri e nella lascivia. E tanti animi discordi, mestieri diversi, urli confusi di voci, ammassi di gente che cozzano a vicenda tra loro […]. Che Iddio tiri fuori illesa la mia nave da un tale naufragio, com’è vero che io tutte le volte che mi guardo attorno ho l’impressione di essere sceso da vivo nell’Inferno[14].

Tedium, fastidium, nauseam… non sono che altrettanti modi di dire l’Acedia. È vero che qui Petrarca parla dell’'infernale' Avignone, ma non è meno vero che una siffatta Avignone è l’archetipo di ogni città e del caotico ammasso dei suoi abitanti, rappresentanti di una umanità degradata e disprezzabile dalla quale ci si deve isolare con ogni mezzo: e basti rinviare in toto al De vita solitaria per averne la prova. Del resto, è già Agostino a denunciare il rischio implicito nelle posizioni di Francesco: "Disprezzare gli altri è un genere di superbia molto più spiacevole che non quello di esaltare se stessi più del dovuto. Io avrei di gran lunga preferito che tu magnificassi gli altri pur considerandoti il migliore di tutti, piuttosto che svilire tutti e coprirti con uno scudo di umiltà superbamente fatto di sprezzo altrui"[15].

Inseguendo questa linea, per altro appena suggerita, appariranno meno curiosi alcuni aspetti della dialettica che corre tra gli insegnamenti di Agostino e gli atteggiamenti di Petrarca. Limitiamoci a pochi casi significativi. Discutendo dell’avarizia, e accusando Francesco, a un certo punto Agostino si sente in dovere di precisare: "Voglio dunque convincerti alla povertà? A desiderarla proprio no, ma sì a sopportarla se la sorte che rimescola di continuo le sorti degli uomini te l’imporrà. In realtà, io penso che in ogni situazione sia desiderabile la via di mezzo". E là dove gli rimprovera il troppo amore per la gloria, ugualmente precisa: "Che tu viva senza gloria non te lo consiglierò mai, ma allo stesso modo ti raccomando di non anteporre mai la ricerca della gloria a quella della virtù"[16]. Agostino si preoccupa dunque di accompagnare la radicalità estrema dei suoi giudizi con opportuni temperamenti che blocchino interpretazioni e derive di tipo nichilistico, restituendo alla vita i valori suoi propri, che vanno correttamente intesi e praticati. In altri termini, per quanto qui ci interessa, si preoccupa di tagliare all’Acedia la strada che pure le sue parole potrebbero aprire.

Senza dare un ragionevole e giusto credito ai valori del mondo, non si può vivere, e la rinuncia solo sino a un certo punto è sintomo di saggezza: se va oltre, è la mortifera forma della disperazione, e diventa peccato capitale. L’Acedia la si combatte dunque con un ‘saper vivere’ dallo sguardo lucido che permetta di trovare all’interno di condizioni date, che non siamo noi a fissare, il miglior equilibrio possibile tra il fascio dei nostri valori e ideali e la dura e negativa realtà del mondo. Ed è questo un principio che sarà anche l’anima della visione in senso lato politica di Petrarca. Onde il fatto che l’amore e la gloria restano nonostante tutto anche forme della necessaria ‘cura di sé’, per dirla con Foucault, e diventano irrinunciabili strumenti e miti della sopravvivenza: medicine che resistono al potere nullificante della disperazione e danno sostanza positiva, controversa e difficile quanto si voglia, al nulla che è la nostra vita.

Note

[1] F. Petrarca, Secretum, II, 176-178: “Ag. Habet te funesta quedam pestis animi, quam accidiam moderni, veteres egritudinem dixerunt. Fr. Ipsum morbi nomen horreo. Ag. Nimirum, diu per hunc graviterque vexatus es. Fr. Fateor, et illud accedit quod omnibus ferme quibus angor, aliquid licet falsi dulcoris immixtum est; in hac autem tristitia et aspera et misera et horrenda omnia, apertaque semper ad desperationem via et quicquid infelices animas urget in interitum. Ad hec, et reliquarum passionum ut crebros sic breves et momentaneos experior insultus; hec autem pestis tam tenaciter me arripit interdum, ut integros dies noctesque illigatum torqueat, quod michi tempus non lucis aut vite, sed tartaree noctis et acerbissime mortis instar est. Et (qui supremus miseriarum cumulus dici potest) sic lacrimis et doloribus pascor, atra quadam cum voluptate, ut invitus avellar […]. Quotiens unum aliquod fortune vulnus infligitur, persisto interritus, memorans sepe me ab ea graviter perculsum abiisse victorem. Si mox illa vulnus ingeminet, titubare parumper incipio; quodsi duobus tertium quartum ve successerit, tunc coactus non quidem fuga precipiti, sed pede sensim relato in arcem rationis evado. Illic si toto circum agmine incubuerit fortuna, meque ad expugnandum conditionis humane miserias et laborum preteritorum memoriam futurorumque formidinem congesserit, tum demum pulsatus undique et tantam malorum congeriem perhorrescens ingemisco. Hinc dolor ille gravis oritur. Veluti siquis ab innumeris hostibus circumclusus, cui nullus pateat egressus, nulla sit misericordie spes nullumque solatium, sed infesta omnia, erecte machine, defossi sub terram cuniculi: tremuntque iam turres, stant scale propugnaculis admote, herent menibus vinee et ignis tabulata percurrit. Undique fulgentes gladios minantesque vultus hostium cernens vicinumque cogitans excidium, quidni paveat et lugeat, quando, his cessantibus, ipsa libertatis amissio viris fortibus mestissima est?”.

[2] F. Petrarca, Secretum, II, 180: “Ag. Dic ergo: quid in primis tibi molestum putas? Fr. Quicquid primum video, quicquid audio, quicquid sentio”.

[3] Lo si legga nella scelta antologica dell’opera: Francesco Petrarca, Rimedi all’una e all’altra fortuna, a cura di E. Fenzi, Napoli 2009, 222-244. Ma v. pure Pétrarque, Les remèdes aux deux fortunes. Texte établi et traduit par Christophe Carraud, Grenoble 2002, I, 948-958 (con le ampie note, II, 589-595). Sempre utile, specie per l’apparato delle fonti e i fitti indici, Petrarch’s Remedies for Fortune Fair and Foul. A Modern English Translation of De remediis utriusque Fortune, with a Commentary by Conrad H. Rawski, Bloomington and Indianapolis 1991: il testo (Translation), vol. II, 223-229; le note (Commentary), vol. II, 358-386.

[4] Nel libro X del suo De coenobiorum institutis libri duodecim, in "Patrologia Latina" 49, 359-398, da leggere con le amplissime note del curatore (ma si veda anche il libro precedente, IX, 351-360). Cassiano insiste soprattutto sull’ozio, quale condizione micidiale che genera l’Acedia. Ad essa, citando Cassiano, accenna, in una fine nota, anche Sainte-Beuve nel primo libro, cap. VIII, del suo Port-Royal, Paris 1867, 185-186.

[5] Per tutto ciò è sempre fondamentale il volume di S. Wenzel, The Sin of Sloth. Acedia in medieval Thought and Literature, Chapel Hill 1967 (sullla nozione petrarchesca di Acedia, ricavata soprattutto dal Secretum, si veda alle pagine 155-163). Ma si veda anche A. Brilli, A. Chastel, S. Wenzel, L. Babb, B. Gellert Lyons, La malinconia nel Medio Evo e nel Rinascimento, a cura di A. Brilli, Urbino 1982; L. Giordano, "Morbus acediae". Da Giovanni Cassiano a Gregorio Magno alla elaborazione medievale, "Vetera Christianorum" 26 (1989), 221-245, e, dedicato specialmente a Evagrio, G. Bunge, Akedia. Il male oscuro, a cura di V. Lanzarini, Magnano 1999. Ma v. già la storia del concetto tracciata, in riferimento a Petrarca, nella bella Appendice di H. Cochin, Le frère de Pétrarque et le livre du repos des religieux, Paris 1903, 205-221.

[6] La citazione è tratta da Summa Theologiae, II IIae q. 35 a. 3: "Tollit spiritualem vitam quae est per caritatem […]. Huiusmodi autem est acedia. Nam proprius effectus caritatis est gaudium de Deo, acedia autem est tristitia de bono spirituali inquantum est bonum divinum"; "Consentit in fugam et horrorem et detestationem boni divini". V. anche l’analoga trattazione nelle Quaestiones de malo, q. 11.

[7] Tusc. IV 6, 13-14: "Stultorum aegritudo est, eaque adficiuntur in mali opinatis animosque demittunt et contrahunt rationi non obtemperantes. Itaque haec prima definitio est, ut aegritudo sit animi adversante ratione contractio".

[8] A tale proposito, raccomando le belle pagine di M. C. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Bologna 2004, in part. il cap. Il dibattito filosofico sulla compassione, 425-478.

[9] V. ancora Tusc. III 7, 14-15: "Chi è vinto dall’aegritudo è vinto anche dalla paura, perché le cose che quando sono presenti provocano in noi l’aegritudo sono le medesime che temiamo quando minacciano di colpirci. Ecco quindi che forza d’animo ed aegritudo sono cose tra loro incompatibili. È perciò normale che chi è vinto dall’aegritudo lo sia anche dalla paura, dallo scoramento e dalla depressione. E quando si è soggetti a queste passioni si è anche disposti a essere servi e a riconoscersi, nel caso, sconfitti; e chi le accoglie dentro di sé è inevitabile che le accompagni a viltà e ignavia. Ma non le accoglie l’uomo forte, che non cederà dunque neppure all’aegritudo. E non c’è sapiente che non sia forte: onde il sapiente non sarà mai vittima dell’aegritudo. Inoltre, è inevitabile che l’uomo forte abbia un animo grande, e per avere l’animo grande occorre essere invincibili, disprezzando le cose umane e giudicandole inferiori a sé. Nessuno può tuttavia disprezzare ciò che ha il potere di affliggerlo, il che significa che l’uomo forte non potrà mai essere colpito dall’aegritudo. Ma tutti i sapienti sono forti: l’aegritudo dunque non li affligge" ["In quem cadit aegritudo, in eundem timor; quarum enim rerum praesentia sumus in aegritudine, easdem inpendentes et venientes timemus. Ita fit ut fortitudini aegritudo repugnet. Veri simile est igitur, in quem cadat aegritudo, cadere in eundem timorem et infractionem quidem animi et demissionem. Quae in quem cadunt, in eundem cadit, ut serviat, ut victum, si quando, se esse fateatur. Quae qui recipit, recipiat idem necesse est timiditatem et ignaviam. Non cadunt autem haec in virum fortem: igitur ne aegritudo quidem. At nemo sapiens nisi fortis: non cadet ergo in sapientem aegritudo. Praeterea necesse est qui fortis sit, eundem esse magni animi; qui autem magni animi animi sit, invictum; qui invictus sit, eum res humanas despicere atque infra se positas arbitrari. Despicere autem nemo potest eas res propter quas aegritudine adfici potest; ex quo efficitur fortem virum aegritudine numquam adfici. Omnes autem sapientes fortes: non cadit igitur in sapientem aegritudo"].

[10] Mi riferisco, naturalmente, al particolare momento di cui danno conto le canzoni allegoriche sottoposte all’auto-commento del Convivio, cioè al dittico formato da Voi che ‘ntendendo e da Amor che nella mente. In part., cfr. E. Fenzi, Boezio e Jean de Meun, Filosofia e Ragione nelle rime allegoriche di Dante, "Studi di Filologia e Letteratura" II-III (1975), 9-69 (il numero, dedicato a Vincenzo Pernicone, è a cura dell’Istituto di Letteratura italiana dell’Università di Genova). Si ricordi che anche Dante parla del peccato dell’Acedia quale rinuncia e cedimento della volontà, connotato da tristizia e rancore nel perseguire il bene, in Inf. VII, 121-124, e in Purg. XVII e XVIII, ove gli accidiosi espiano, nella quarta cornice, il loro difetto di vigore e "tepidezza in ben far" (v. Andrea Ciotti, s.v. "Accidia e accidiosi" in "Enciclopedia Dantesca" I, 1970, 26-28, e Wenzel, Op. cit., 128-135).

[11] Si vedano le sue parole nel sopra citato volume The Sin of Sloth: "Petrarch’s acedia in the Secretum is […] conceptually a combination of the Medieval chief vice and the Stoic main affect", ivi, 162: ma anche per lo studioso ciò che distingue Petrarca dai suoi antecedenti è la forza straordinaria dell’auto-analisi.

[12] V. Francisco Rico, Vida u obra de Petrarca. I. Lectura del “Secretum”, Padova 1974, 199. Ma tutte le pagine qui dedicate all’Acedia (197 ss., alle quali rimando) costituiscono la migliore esposizione e documentazione del tema in Petrarca, in gran parte anch’esse basate sui testi forniti da Wenzel, non solo nel volume citato ma anche nel saggio Petrach’s Accidia, “Studies in the Renaissance” VIII (1960), 36-48. Buone pagine sull’Acedia petrarchesca sono anche in A. Tripet, Pétrarque ou la conassaince de soi, Genève 1967, in part. 104-107.

[13] Seneca, Ad Marciam, I, 7, parla degli atteggiamenti troppo a lungo protratti di lutto e infelicità che finiscono per nutrirsi di se stessi e per trasformare il dolore in una sorta di prava voluptas, di depravato piacere: "Ita haec quoque tristia et misera et in se saevientia ipsa novissime acerbitate pascuntur et fit infelicis animi prava voluptas dolor".

[14] Secretum, II, 190: "Quis vite mee tedia et quotidianum fastidium sufficienter exprimat, mestissimam turbulentissimamque urbem terrarum omnium, angustissimam atque ultimam sentinam et totius orbis sordibus exundantem? Quis verbis equet que passim nauseam concitant: graveolentes semitas, permixtas rabidis canibus obscenas sues, et rotarum muros quatientium stridorem aut transversas obliquis itineribus quadrigas; tam diversas hominum species, tot horrenda mendicantium spectacula, tot divitum furores: illos mestitia defixos, hos gaudio lasciviaque fluitantes; tam denique discordantes animos artesque tam varias, tantum confusis vocibus clamorem et populi inter se arietantis incursum? […] Ita me Deus ex hoc naufragio puppe liberet illesa, ut ego sepe circumspiciens in infernum vivens descendisse michi videor".

[15] Secretum, II, p. 154: "Multo quidem importunius superbie genus est alios deprimere, quam se ipsum debito magis attollere; longeque maluissem ceteros magnificares, te quanquam ceteris anteferres quam, calcatis omnibus, ex alieno contemptu superbissime tibi clipeum humilitatis assumeres".

[16] Le citazioni sono, rispettivamente, da Secretum, II, 160 ("Quid ergo? Pauperiem ne suadeo? Optare quidem minime; tolerare summo opere si sic res humanas miscens fortuna coegerit. Mediocritatem sane in omni statu expetendam censeo”) e III, 272 ("Ut inglorius degas nunquam consulam, at ne glorie studium virtuti preferas identidem admonebo”); per un movimento analogo, si veda Seneca, Ad Luc. 18, 13, e 19, 2. Per quanto riguarda gli eccessi della rinuncia, tra altre testimonianze si vedano in particolare le belle pagine dedicate da Petrarca ai Bramani nel De vita solitaria, II, a cura di G. Martellotti, in Id., Prose, Milano-Napoli 1955, 514-518. L’elogio nei loro confronti è altissimo, ma ha il suo limite nella condanna di quel disumano rigore che li fa vivere più come animali che come uomini: "Non mi piace la loro animalesca indifferenza nei confronti del cibo e del sonno, sì che mentre fuggiamo uno stile di vita troppo ricercato non si abbia a ricadere nel vizio contrario […] in ogni cosa vado in cerca della misura", ecc. (“Non placet incuriositas belluina somni cibique, ne dum extremum curiose vite fugimus, in contrarium relabamur […] in omnibus modum quero”).

Riferimenti bibliografici
Edizioni delle opere di Petrarca citate
  • F. Petrarca, De vita solitaria, II, a cura di G. Martellotti, in Id., Prose, Milano-Napoli 1955.
  • Petrarch’s Remedies for Fortune Fair and Foul. A Modern English Translation of De remediis utriusque Fortune, with a Commentary by Conrad H. Rawski, Bloomington and Indianapolis 1991.
  • F. Petrarca, Secretum, a cura di E. Fenzi, Milano 1992 (e ristampe successive).
  • F. Pétrarque, Les remèdes aux deux fortunes. Texte établi et traduit par Christophe Carraud, Grenoble 2002.
  • F. Petrarca, Rimedi all’una e all’altra fortuna, a cura di E. Fenzi, Napoli 2009, 222-244.
Bibliografia critica
  • Brilli 1982 
    A. Brilli, A. Chastel, S. Wenzel, L. Babb, B. Gellert Lyons, La malinconia nel Medio Evo e nel Rinascimento, a cura di A. Brilli, Urbino 1982.
  • Bunge 1999
    G. Bunge, Akedia. Il male oscuro, a cura di V. Lanzarini, Magnano 1999.
  • Ciotti 1970
    A. Ciotti, s.v. "Accidia e accidiosi" in "Enciclopedia Dantesca" I (1970), 26-28.
  • Cochin 1903
    H. Cochin, Appendice, in Id. Le frère de Pétrarque et le livre du repos des religieux, Paris 1903.
  • Giordano 1989
    L. Giordano, "Morbus acediae". Da Giovanni Cassiano a Gregorio Magno alla elaborazione medievale, "Vetera Christianorum" 26 (1989), 221-245.
  • Fenzi 1975
    E. Fenzi, Boezio e Jean de Meun, Filosofia e Ragione nelle rime allegoriche di Dante, "Studi di Filologia e Letteratura" II-III (1975), 9-69.
  • Nussbaum 2004
    M. C. Nussbaum, L’intelligenza delle emozioni, Bologna 2004.
  • Rico 1974
    F. Rico, Vida u obra de Petrarca. I. Lectura del “Secretum”, Padova 1974.
  • Tripet 1967
    A. Tripet, Pétrarque ou la conassaince de soi, Genève 1967.
  • Wenzel 1960
    S. Wenzel, Petrach’s Accidia, “Studies in the Renaissance” VIII (1960), 36-48.
  • Wenzel 1967
    S. Wenzel, The Sin of Sloth. Acedia in medieval Thought and Literature, Chapel Hill 1967.
English abstract

keywords | Melancholy; Petrarca.

Per citare questo articolo: Qualche nota sull’Acedia di Petrarca, a cura di E. Fenzi, “La Rivista di Engramma” n. 149, settembre 2017, pp. 11-21 | PDF dell’articolo 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2017.149.0002