"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

150 | ottobre 2017

9788894840261

Fulgor ille. Costruzione di un’impresa

Monica Centanni

English abstract
L’impresa: corpo e anima di una invenzione rinascimentale*

La rivoluzione alla quale diamo il nome di Rinascimento è anche apertura dell’orizzonte estetico e conoscitivo a una nuova teoria dell’individualità. E, in consonanza con la nuova centralità conferita al profilo singolare di ogni individuo, passano del tutto in secondo piano gli emblemi araldici ‘di famiglia’, gli stemmi di casate di nobiltà più o meno antiche, e trionfa invece l’‘impresa’ che celebra sempre una, e una soltanto, individua e inimitabile, soggettività.

A partire dalle re-invenzioni delle medaglie ‘all’antica’ di Pisanello, dalla fine degli anni ’30 del XV secolo fino ai primi decenni del Cinquecento, non c’è Signore, Signora o intellettuale del Rinascimento che non abbia una sua propria impresa, confezionata seguendo il profilo preciso delle sue proprie e singolari virtù, secondo l’impronta che lasciano nel mondo proprio le sue – materiali o spirituali – ‘imprese’. E non c’è opera d’arte che, come l’impresa, abbia messo a tema la relazione tra parola e immagine. O, per dir meglio: non c’è campo (anche nel senso fisico della campitura del ‘logo’ o della medaglia) dove si veda più serrata e sfavillante la giostra che ingaggiano fra loro immagini e parole. Immagini che fanno a gara per vincere la primazia della parola e, viceversa, parole che si fanno seducenti per affrancarsi dalla prepotenza estetica dell’immagine, concorrenti nel conquistare, all’incrocio delle specifiche proprietà dell’espressione verbale e imaginale, il premio di una felice triangolazione con il significato. 

Nel 1555 esce a Roma il Dialogo sulle imprese di Paolo Giovio: a Venezia l’anno successivo uscirà una diversa redazione del testo con il titolo Ragionamento sopra i motti et disegni d’arme e d’amore che communemente chiamano imprese. Giovio è il primo ad analizzare e scomporre l’impresa nei suoi due elementi costitutivi: essa consiste di un ‘corpo’ (la parte fatta di figura) e di un’‘anima’ (la parte fatta di parole).

L’inventione overo Impresa, s’ella deve avere del buono, bisogna c’habbia cinque conditioni. Prima, giusta proportione d’anima et di corpo. Seconda, ch’ella non sia oscura, di forte, ch’abbia mestiero della Sibilla per interprete à volerla intendere; né tanto chiara ch’ogni plebeo l’intenda. Terza, che sopra tutto habbia bella vista, la qual si fa riuscire molto allegra, entrandovi stelle, soli, lune, fuoco, acqua, arbori verdeggianti, istrumenti mecanici, animali bizzarri, et uccelli fantastichi. Quarta, non ricerca alcuna forma humana. Quinta, richiede il motto, ch’è l’anima del corpo, et vuole essere communemente d’una lingua diversa dall’idioma di colui, che fa l’Impresa, perché il sentimento sia alquanto più coperto. Vuole anco esser breve ma non tanto che si faccia dubbioso; di forte che di due ò tre parole quadra benissimo; eccetto se fusse in forma di verso, integro o spezzato.

Questi dunque le cinque condizioni per avere una buona impresa:

1. che ci sia una ‘giusta proportione’ tra immagine e parola;
2. che il messaggio non sia né tanto oscuro da richiedere, per l’interpretazione una “Sibilla per interprete”, né troppo chiaro, aperto alla lettura di chiunque;
3. che sia bella a vedersi, popolata di elementi fisici e artificiali “stelle, soli, lune, fuoco, acqua, arbori verdeggianti, istrumenti mecanici, animali bizzarri, et uccelli fantastichi”;
4. che non rechi “forma humana”;
5. che il motto sia in una lingua diversa dalla lingua madre del proprietario.

Le prime due ‘conditioni’ riguardano la relazione immagine e parola, in relazione al dosaggio dei due ingredienti (1. la “giusta proportione”), e alla perspicuità del messaggio (2. la medietas tra oscurità e chiarezza); la terza e la quarta riguardano le caratteristiche dell’immagine; (3., 4. bellezza e proprietà dei componenti); la quinta riguarda la qualità della formulazione del motto (5. in lingua straniera). 

Sulla quarta condizione – l’interdizione della “forma humana” – sarà da chiarire che con ogni probabilità Giovio intende che l’impresa non ha da riprodurre le fattezze del suo proprietario. E in questo senso si noterà che nelle medaglie all’antica – così come nelle monete ellenistico-romane che a quelle fanno da modello – la figura umana, e più precisamente il profilo del proprietario (o dedicatario) dell’impresa, è raffigurato solitamente sulla prima faccia (il recto o il dritto della medaglia), non sul verso che è riservato all’’impresa. Per altro, nell’impresa possiamo trovare una allegoresi astratta o divinizzata della “forma humana”: ad esempio, nelle medaglie di Cecilia Gonzaga, Elisabetta Gonzaga, Isabella d’Este, sul recto compaiono i ritratti di profilo, sul verso Diana, Danae, Nemesi/Vittoria, come alias divini delle tre signore del Rinascimento.

dall’alto in basso 
Medaglia di Cecilia Gonzaga (Pisanello, 1447) | sul recto: ritratto di Cecilia Ginzaga; sul verso: Cecilia come Diana.
Medaglia di Elisabetta Gonzaga (Adriano Fiorentino, 1495) | sul recto: ritratto di Elisabetta Ginzaga; sul verso: Elisabetta come Danae.
Medaglia di Isabella d’Este (Giancristoforo Romano, 1498) | sul recto: ritratto di Isabella d’Este; sul verso: Isabella come Nemesi.

La quinta e ultima delle “conditioni” poste da Giovio, riguarda il motto e l’indicazione di preferenza per la lingua straniera – preferibilmente il latino o il francese, si chiarirà più avanti nel trattato – è funzionale a due istanze: consente che il senso non sia immediatamente (e ‘volgarmente’) comprensibile e, inoltre, in particolare il latino pare prestarsi naturalmente alla concisione formulare. 

Dunque il motto può essere – anzi è preferibile sia – in una lingua diversa da quella della comunicazione corrente. Così Girolamo Ruscelli, che riprende l’argomento di Giovio, nelle sue Imprese Illustri, pubblicate a Venezia nel 1572:

In quanto poi à quella appartenente alla chiarezza e alla brevità insieme che il Giovio disse, cioè che i Motti si dovessero far di lingua diversa da quella di colui, che fa l’Impresa, è da dire che [...] chi pur’anco avesse vaghezza d’usar lingue straniere, potrà valersi della Latina, e della Spagnuola principalmente, le quali per la più parte, e massimamente in poche parole, e accompagnate con figure, son facilissime ad intendersi.

Nei motti dell’impresa rinascimentale l’uso del latino (sostituibile da altre lingue allotrie) risponde pertanto a diverse istanze: la prima è il vezzo erudito della ripresa del modello numismatico antico, ma contano anche la brevità e la chiarezza ‘tacitiana’, a cui si aggiunge l’obiettivo di una comunicazione transnazionale del messaggio (“per la più parte, e massimamente in poche parole, e accompagnate con figure, son facilissime ad intendersi”). In questo senso il latino non rappresenta un filtro selettivo, ma concorre a fare dell’impresa un veicolo di comunicazione sovranazionale e sovrastorico: non esclusivo ma al contrario universale e assoluto. Sarà comunque da curare – raccomandava Giovio – che il motto non “si faccia dubbioso”, ovvero che la formulazione allotria, o eccessivamente concisa, non renda le parole indecifrabili. 

Anche Andrea Alciato premette ai suoi Emblemata (pubblicati in prima edizione ad Augusta nel 1531) una prefazione che si intitola Syntagma De Symbolis stemmatum et schematum ratione quae insignia seu arma gentilitia vulgo nominantur. Deque Emblematis. Nella prefazione, alle definizioni antiche di ‘simbolo’, segue una trattazione approfondita e dettagliata dell’uso e del significato del simbolo e della differenza tra ‘simbolo’, ‘immagine’, ‘insegna’ ed ‘emblema’. Fra i capitoli trattati nella prefazione agli Emblemata troviamo: Differre inter se schemata, imagines, seu insignia et symbola; Quae spectentur in symbolum; Ars quaedam inveniendorum et excogitandorum symbolurum; Emblema quid, unde dicatur; et quomodo id nome proprie quomodo figurate accipiatur; etc. Ciò che sta a cuore specificare all’Alciato è la distinzione tra ‘emblema’ ed ‘enigma’:

Emblema aenigma non est, quamquam interdum cum aenigmate aliquam similitudinem habeat.

Proprietà dell’emblema infatti, è l’intenzione comunicativa, che deve essere, di necessità, perspicua:

Ratio quaedam apertior, propter notas quae apertae et perspicuae sunt.

L’emblema dunque, soprattutto nella sua componente verbale (notae) dovrà essere aperto e chiaro, laddove invece l’enigma è, per sua natura, “ambiguum et obscurum”.


Per trovare la più profonda riflessione e le più precise definizioni semiologiche degli elementi che compongono l’impresa dobbiamo arrivare al Mondo Simbolico di Filippo Piccinelli, pubblicato in prima edizione a Venezia nel 1635 – summa e culmine di cento e cinquant’anni di trattatistica sulle imprese. Alla definizione gioviana della componente iconografica come ‘corpo’ e di quella verbale come ‘anima’ Piccinelli giustappone la terminologia, squisitamente filosofica, di ‘materia’ e di ‘forma’. E la straordinaria precisione, la puntualità terminologica e il rigore teorico propri dell’abate milanese, ci forniscono anche una delle definizioni più esaurienti dei termini in questione.

L’impresa è un composto di figura e di motto, che oltre al significare alcuna cosa propriamente, serve a rappresentare per mezzo di questa figuratamente alcun nostro pensiero particolare e ordinato. Dicesi l’Impresa un composto nel qual il corpo o sia la figura serve come di materia et le parole, o sia il motto, come di forma [...]. E un composto che seco porta due sensi: uno letterale e l’altro allegorico, dovendo dal corpo e motto insieme, non solamente cavarsi il concetto e senso, fisico e morale ma anco inserirsi in un altro senso, che tacitamente sia rappresentativo del nostro particolare disegno et intento.

L’impresa dunque fatta di figure e parole, per rappresentare le cose “propriamente”, ma è anche fatta per rappresentar pensieri ”figuratamente”. Figura e parola vanno a costituire, insieme, un “composto” corpo/anima, ovvero un sinolo materia/forma, in cui non si dà gerarchia ma felice concorrenza tra i due componenti. Il fine ultimo della composizione è non soltanto provocare la fuoriuscita di un “concetto” e di un “senso”, ma dar vita a un senso ulteriore che rappresenti il progetto e il disegno – lo specifico “intento” del proprietario. Piccinelli pone precisamente la questione della relazione necessaria tra figura e parole che, insieme, concorrono alla “perfezione” del messaggio:

L’impresa oltre le parole vuole il corpo; e le parole sue le richiede, non di sentenza perfetta, ma dimezata. [...]. L’impresa vuole esser formata di figura, ma non sola; di parole, ma non sole; ma composta e di figure e di parole ancora, ciascuna delle quali partialmente concorrano ad un senso perfetto.

In questo senso l’impresa si differenzia nettamente dai “simboli”, ma anche dai “geroglifici”, che sono figure “schiette”, autonomamente (e univocamente) significanti:

Non essendo questi che schiette figure, le quali senza aggiuntione veruna di parole significano, come à dire, il fuoco la divinità; la serpe avvolta in circolo l’eternità, la palma la vittoria.

‘Simboli’ e ‘geroglifici’ sono elementi di un linguaggio univocamente orientato, in cui l’immagine sta semplicemente (metaforicamente o allegoricamente che sia) per un concetto o per una personificazione. Nell’impresa invece, “corpo” e “anima” – figura e parole – concorrono alla compiutezza del senso. L’utilizzo separato di uno dei due linguaggi espressivi – il verbale o il figurativo – non è sufficiente alla costruzione di una comunicazione che veicoli insieme significati letterali, allegorici, estetici:

La dove con la sola figura io non dichiaro i miei sensi: con le sole parole io non gli manifesto; con l’accoppiamento e di quella e di queste, s’esprime e si determina il senso vero e letterale dell’Impresa, al quale per via di similitudine succeda l’illatione del senso allegorico, e che con diletto insinui i sensi ed i concetti interni dell’Autore, all’animo del contemplante.

Elemento necessario dunque, per circoscrivere e declinare il senso della figura (corpo/materia dell’impresa) è il motto (anima/forma).

Al corpo dell’impresa viene sovrapposto il motto, accioché serva à determinare quel corpo e quella materia, riducendola limitatamente più ad esprimere un concetto che un altro. Sì che là dove il corpo prima era indifferente et indeterminato, con la virtù del motto riceve riduttione particolare, a significare limitatamente alcun pensiero. Il motto dunque, col dare la formalità all’impresa, fa sì che e la figura ivi delineata diviene impresa, et anco si differentia così dalle altre simboliche immagini e pitture, come da qual si voglia altra impresa che col medesimo corpo fosse rappresentata.

Né dunque la parola dovrà essere didascalia dell’immagine, né, mai, la figura, rappresentazione figurale del ‘concetto’. Conta l’intersecazione tra parola e immagine e la reciproca delimitazione di senso. Le parole del motto contestualizzano la carica simbolica, potenzialmente pluriversa, della figura, e così circoscrivono una particolare luce di significato. La parola non descrive, ma dà un taglio al senso che, nell’immagine, tenderebbe a espandersi illimitatamente, a esondare rispetto al bordo. L’immagine apre multivoci orizzonti di senso e la parola sola di questa deriva infinita del significato sa ritagliare una inquadratura: in questo campo – la giostra di cui sopra si parlava per figura – parole e figura insieme, incrociano le proprie qualità e proprietà e producono impresa.

Fulgor ille. L’impresa di Engramma

La data di invenzione dell’impresa di Engramma è il 2000 (che è anche l’anno di nascita della rivista). La suggestione del ‘corpo’ (e della struttura circolare) viene da una collana di mercuriale metallo – un dono di laurea fatto fra comites ac sodales – che presto, facilmente, si è prestato a farsi simbolo: una collana reale che presta il suo corpo snodabile alle spire di un simbolico serpente.

Ma – a inverare e insieme a complicare l’inquietudine che già i trattatisti rinascimentali riconoscevano come cifra della relazione parola/immagine – sulla costruzione del ‘corpo’ di questa impresa una grossa influenza non si può negare l’abbia avuta l’‘anima’. Le parole che sono entrate nella impresa di Engramma vengono da una pagina del De vinculis in genere di Giordano Bruno. Per altro, la frase bruniana nel suo insieme si è convertita in immagine, diventando un’epigrafe incisa, che corre su un anello di pietra – come uno spolium archeologico dai lati squadrati:

Nihil Vincitur Nisi Aptissime Praeparatum Quia Fulgor Ille Non Eodem Rebus Omnibus Communicatur Modo

Propriamente è soltanto il nesso FULGOR ILLE, che sta al centro (e su cui pare precipitare il ritmo della proposizione), che fa da ‘anima’ all’impresa, diventandone il superbo motto. In questo senso, nell’impresa di Engramma, il passo del De vinculis si è prestato a fare bensì ‘anima’ (come, coerentemente con la trattatistica, sarebbe stato il suo mestiere) ma anche, un po’, da ‘corpo’ (in una modalità che, secondo la precettistica, a dire il vero sarebbe impropria): il ‘corpo’ dell’impresa è infatti costituito sia dal serpente ouroboros – a dire la possibilità sempre urgente di una nuova nascita: la promessa, ora e qui, di Rinascimento – ma anche l’archeologico anello di pietra che reca incisa l’epigrafe latina, e attorno cui il serpente avvinghia le sue spire**.

    

In altre parole, potremmo dire che in questa impresa la catena di parole, fondendosi con la figura del serpente che sulla loro epigrafe si avvinghia, inquadrano, fanno cornice, a una coppia di parole che sono, in certo qual modo, parole al grado superlativo: parole più incise, pregne di senso e perciò poste al centro; parole che, cavate da quella stessa catena, riescono a rappresentare tutte le altre parole consorelle in una sintesi efficace. Così un’immagine fatta di elementi diversi, fra i quali ci sono figure ma anche parole (il serpente e il cerchio di pietra, ma anche l’epigrafe incisa) corre intorno al campo – anzi si snoda, perché di un serpente si tratta – e ‘lascia campo’ non già (come la trattatistica parrebbe prevedere) al corpo/immagine ma a due parole, il motto/anima (già peraltro leggibile nell’epigrafe circolare, dove però è trattato solo come immagine) che si riprende così una posizione protagonista**.

Ma torniamo al testo da cui ha tratto ispirazione e senso l’impresa di Engramma. Essa viene dal filone aureo della grande sapienza rinascimentale: sapienza circolare, sapienza intellettuale ed estetica, della mente e dei sensi. Perché era (perché è) urgente reinventare una qualità virtuosa – né diffidente né sociopatica – delle relazioni interpersonali: un linguaggio che affianchi alla paziente tessitura della razionalità, la recuperata energia che scaturisce dalla vis imaginalis. Ritrovare parole, ma anche immagini belle e splendenti come cristalli da cui riverberi luce ed energia. Il passo che si è prestato a far da anima e da corpo all’impresa è tratto dal De vinculis in genere – quello in cui Giordano Bruno pone la Vincibilis conditio

Nihil vincitur nisi aptissime praeparatum, quia fulgor ille non eodem rebus omnibus communicatur modo.

Nulla si vincola se non è predisposto nella forma migliore al vincolo, perché è una scintilla che non si trasmette a tutte le cose allo stesso modo (De vinc. in gen. II).

Per dare effetto ai vincoli ci vogliono tempus e locus opportuni:

Sicut non ubique neque semper, quamvis optima iaciantur semina, rerum propagatio consequitur, ita neque irretientia vincula perpetuo et ubique, sed apto tempore et subiectorum congrua dispositione virtutem concipiunt effectus (De vinc. in gen. XVII)..

Né semper ubique i semi saranno fertili; così anche i vincoli non hanno sempre e ovunque virtù di efficacia. Tempo e luoghi felici, dunque, ma anche – come ricorda Giordano Bruno qualche pagina più avanti nello stesso trattato – considerato che i Greci “in eadem ara Amorem atque Fortunam colebant”, ci vogliono passione e, insieme, fortuna. Infatti:

Nobis vero tum amor tum omnis affectus valde pratica est cognitio (De vinc. in gen. XXV).

Per noi in realtà l’amore e ogni altra passione è una forma molto pratica del conoscere (De vinc. in gen. XXV).

Uno sfavillio di intelligenza che si trasmette vincolando anche, e soprattutto, se stessi:

Vincitur maxime aliquid per hoc quod aliquid sui est in vinciente, vel ideo quia per aliquid sui vinciens imperat illi.

Riesce il vincolo soprattutto se nel vincolante il vincolato riconosce qualcosa di sé, o anche perché, grazie a quel qualcosa di sé, il vincolante su di lui esercita vincolo (De vinc. in gen. VI).

La catena del vincolo passa dunque per quell’aliquid sui che l’uno intravvede nell’altro, in forza del quale il legame si instaura. Ragionando sui vincoli, Giordano Bruno parla contemporaneamente – nello stesso trattato, con le stesse parole – di vincoli magici, di passioni erotiche, di legami pubblici e politici: la relazione fra individui si dà solo alla luce di un fulgore; il vincolo è un “lampo che lega” e che presuppone un campo magnetico interattivo tra sorgente e punto di scarico. Da qui l’impresa di Engramma. Fulgor ille, in cui si avverte l’eco e l’impronta del desiderio di un gioco corale per una vita attiva e luminosa.

English abstract

The revolution we call the ‘Renaissance’ is the invention of a new theory of individuality. As a new centrality is conferred upon the singular profile of each individual, the heraldic emblems of ‘family’, the arms of nobility, retreat into the background. What triumphs is the ‘impresa’ which celebrates one, and only one, clearly identified and inimitable, subjectivity. According to Renaissance treatists Paolo Giovio, Andrea Alciato and Filippo Piccinelli, the ‘impresa’ is built on the relationship between ‘body’ and ‘soul’, between image and word, and is called to compete in the quest for a new horizon of meaning.

The date of the ‘impresa’ invented for Engramma is the year 2000, also the birth year of the journal “La Rivista di Engramma”. The ‘body’ is composed by a symbolic snake that winds on a stone ring on which a passage of De vinculis in genere by Giordano Bruno is inscribed:

“Nothing binds itself unless it is predisposed to the best form of binding, because it is a spark that is not transmitted to all things in the same way” (De vinc in gen II).

keywords | Fulgor ille; Reinassance; Giordano Bruno; Engramma. 
 

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*Questo paragrafo rielabora spunti già presenti nel mio Fantasmi dell’antico. La tradizione classica nel Rinascimento, Rimini 2017 (in particolare le pp. 222-252; 395-440)

** Il nome del giovanissimo grafico che nel 2000 ha disegnato la prima versione dell’impresa di Engramma è Alessandro Sanavia; intorno al 2003 l’impresa è stata ridisegnata da Lorenzo Bonoldi e da Valentina Rachiele. 

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Centanni, Fulgor ille. Costruzione di un’impresa, “La Rivista di Engramma” n. 150 vol. 1, ottobre 2017, pp. 347-356 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2017.150.0024