"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

150 | ottobre 2017

9788894840261

Allusioni, ellissi, dettagli

Sul narrare pittorico di "Lady Macbeth" (UK 2016)

Massimo Fusillo

English abstract

La trasformazione della parola in immagine è particolarmente complessa quando abbiamo a che fare con un’arte composita come il cinema, erede diretto dell’utopia wagneriana dell’opera d’arte totale. L’opposizione lessinghiana fra spazialità della pittura e temporalità della letteratura, contestata e incrinata dai visual studies, qui ovviamente non ha più senso, perché abbiamo a che fare con immagini temporalizzate; ma soprattutto la parola perde ogni centralità ed entra in una sinergia di linguaggi e codici a cui si dà oggi il nome di intermedialità, sempre di più la cifra dell’immaginario contemporaneo dopo la rivoluzione digitale (d’altronde il web è un meccanismo sinergico e sinestetico, cfr. Fusillo 2015).

Quando la parola del cinema ha un’origine letteraria la questione si fa più delicata, anche perché subentrano abitudini inveterate al confronto di valore, sempre a sfavore dell’arte più giovane, grazie alla metafisica dell’originario che privilegia i prodotti primari, e grazie a un generale atteggiamento logocentrico della cultura occidentale. Gli studi fiorentissimi sull’adattamento hanno da tempo superato ogni logica gerarchica di questo tipo, e hanno enfatizzato la dimensione onnipervasiva di questa pratica alla base di tutte le forme di creatività (Hutcheon [2006] 2011). Ciononostante si avvertono ancora tracce dell’inossidabile dogma della fedeltà nella critica militante o in quella accademica e specialistica, e nella mentalità comune. Si lamenta sempre quello che si perde nella trasposizione cinematografica, in genere in termini di sfumature e sfaccettature psicologiche, e non si presta mai attenzione a quello che si guadagna, in termini di pregnanza e potenza icastica delle immagini.

Da un punto di vista stilistico negli ultimi tempi il cinema sembra procedere in una direzione che accentua la componente visuale, e riduce sempre più le caratteristiche tradizionali della narrativa letteraria. Ovviamente fare generalizzazioni di questa portata è sempre rischioso e poco produttivo; possiamo comunque dire che se da un lato si fa sempre più raro l’uso del narratore fuori campo e dei racconti sommari che chiarificano gli sviluppi della storia, dall’altro si afferma sempre di più una narrazione allusiva ed ellittica, che confida nelle integrazioni e nelle inferenze dello spettatore, e che si concentra sulla pregnanza delle immagini. È piuttosto immediato mettere in rapporto queste trasformazioni stilistiche e narrative, che non riguardano solo il cinema di ricerca, con la predilezione che la cultura contemporanea mostra, a partire dal postmoderno, per il frammento e per una visione antilineare e non organica della storia.

Non procederò oltre in questo ambito così pericolosamente ampio e inevitabilmente scivoloso; preferisco focalizzarmi su un film apparso molto di recente, in cui queste caratteristiche sono presenti in modo particolarmente incisivo, al punto che si può parlare di un narrare pittorico; un film che risulta inoltre molto interessante per il rapporto fra letteratura e cinema, e per una tecnica che coinvolge tutte le arti, l’empatia negativa. Si tratta di Lady Macbeth di William Oldroyd (UK, 2016): un titolo che lascia aperto il rapporto con l’archetipo tragico di Shakespeare, anche se la fonte diretta è il racconto lungo di Nikolaj Leskov, Lady Macbeth del distretto di Mcensk (1863-64), che ha ispirato anche l’opera omonima di Šostakovič (1932), straordinaria nella sua potenza espressionistica, vittima di una violenta censura per volere di Stalin in persona, riscritta in seguito dall’autore in una versione ammorbidita, ed entrata poi nel repertorio internazionale, spesso in produzioni registiche di grande impatto. Per quanto Šostakovič l’avesse presentata come un’opera antiborghese, la storia della moglie di un ricco mercante che si innamora di un dipendente del marito, e compie poi una serie di delitti per conservare questo amore monomaniaco, era certo troppo poco edificante per la Russia staliniana, e troppo intrisa di una sensualità fosca.

Al suo primo lungometraggio e con una ricca esperienza teatrale alle spalle, il regista William Oldroyd decide di riambientare la storia nell’Inghilterra rurale del 1845. Nella sua prima fase il film mette a fuoco l’isolamento e la frustrazione della giovane protagonista: la noia (grande tema della narrativa russa di quell’epoca) delle giornate lunghe e vuote; l’indifferenza affettiva e sessuale di suo marito, che si limita a masturbarsi guardandola nuda; l’oppressione del suocero, che controlla la vita di tutta la casa e chiede ossessivamente un erede. Tutto ciò ci viene comunicato attraverso inquadrature molto studiate, che si richiamano, nella raffigurazione dell’intimità domestica, soprattutto alla pittura fiamminga, fruttando ad esempio il motivo della finestra [Fig. 1], e su cui la macchina da presa indugia a lungo, con un ritmo narrativo spesso dilatato.

Molto significativa, ad esempio, l’inquadratura frontale della protagonista seduta sul divano, con il volto che oscilla fra noia, malinconia e alienazione, e con un abito di un blu intenso, e di una sontuosità in stridente contrasto con il vuoto della sua vita [Fig. 2]: un ritratto che condensa tutta l’informazione sulla vita e sullo stato emotivo di Catherine-Lady Macbeth, splendidamente interpretata da Florence Pugh, al suo primo ruolo rilevante. La narrazione, nel senso più ristretto del termine, cioè lo sviluppo pragmatico degli eventi, non si dipana mai in modo pieno e lineare: procede per scorci, allusioni, ellissi e soprattutto per dettagli. Un concetto, quest’ultimo, che l’estetica occidentale ha sottovalutato a lungo, e che nel Novecento ha assunto invece un’importanza cruciale nei vari campi della filosofia, della psicanalisi, degli studi visuali e della critica d’arte (Schor 2007).

Questo quadro sulla vita della protagonista, ottenuto soprattutto per via connotativa, catalizza l’empatia degli spettatori nei suoi confronti, vittima del potere maschile e di un’istituzione sociale repressiva come la famiglia in epoca vittoriana. Un’empatia che continua nel momento in cui inizia la relazione sessuale con un lavorante del marito, conosciuto nel momento in cui Catherine scopre un complesso gioco di abuso sessuale ai danni della sua cameriera indiana. Si tratta della tipica attrazione per un uomo socialmente inferiore, caratterizzato da brutalità bestiale e ipermascolinità: anche se la loro storia, sulla falsariga del modello shakespeariano, rovescerà i ruoli canonizzati e attribuirà alla donna l’iniziativa pragmatica e il ruolo attivo. Le cose cambiano quando per conservare il loro legame i due amanti uccidono prima il suocero, e poi il marito della protagonista: scene raccontate concentrandosi su alcuni momenti significativi, e lasciando nell’ellissi tutto il resto, soprattutto gli aspetti più pratici; ad esempio l’avvelenamento del suocero viene sintetizzato in una sequenza in cui si sentono i rantoli violenti del moribondo nella stanza accanto, mentre la protagonista costringe la sua cameriera a non prestare aiuto e resta immobile in un silenzio glaciale e imperturbabile: una scena particolarmente efficace proprio perché nasconde fuori campo la morte e punta sull’espressività non verbale e sulla tensione del tempo reale.

Da questo momento in poi entriamo dunque nell’ambito dell’empatia negativa: dell’identificazione latente per personaggi di cui non condividiamo le scelte etiche, i comportamenti, le ideologie. È un meccanismo precipuo della letteratura e di tutte le arti, ancora poco studiato, in cui si percepisce la funzione di scarico delle pulsioni (auto)distruttive e antisociali: qualcosa di molto simile alla catarsi secondo Aristotele (Morton 2011). Ed è infatti un meccanismo onnipresente in tutti i generi e in tutte le epoche, ma particolarmente vivo nella tragedia, a partire da Medea e poi appunto da Macbeth, un testo totalmente dedicato a protagonisti negativi, all’immersione in una notte di allucinazioni e delirio, in cui è il protagonista maschile a suscitare un’empatia sotterranea, per la sua debolezza e la sua conflittualità interiore, mentre la Lady resta più distante nella sua caratterizzazione di demone androgino, almeno fino alla follia finale.

Nel film di Oldroyd si utilizza uno dei procedimenti tipici dell’empatia negativa: fornire informazioni sulla vita dei personaggi e sulle loro motivazioni (quel background iniziale di cui abbiamo appena parlato) per produrre identificazione, e poi giungere fino ai limiti dell’accettabilità. Come Shakespeare e Leskov, Oldroyd inserisce infatti subito dopo un crescendo di atti nefandi, fino a un punto estremo: il punto in cui l’empatia anche più sotterranea si interrompe, e si mette in discussione il meccanismo stesso dell’identificazione con personaggi negativi; è come se l’autore, dopo aver portato il suo pubblico dentro la mente di un personaggio, avergli fatto condividere le emozioni e le motivazioni, lo provocasse con un atto particolarmente repulsivo. Nel caso di Lady Macbeth si tratta dell’uccisione di un bambino, il figlio avuto dal marito della protagonista con un’altra donna, il cui arrivo nella casa costituisce un ostacolo insormontabile per i due amanti e per la loro felicità amorosa. Anche questa è una scena narrata per ellissi e dettagli, con una freddezza lancinante.

Tutte le caratteristiche principali, tematiche e stilistiche, di Lady Macbeth risaltano nel finale, che è anche il momento in cui il film si distacca nel modo più netto dal suo modello letterario, con una piena “trasformazione pragmatica” (Genette [1982] 1998, 373-379) degli eventi. Mentre nel racconto di Leskov e nell’opera di Šostakovič i due protagonisti vengono scoperti e condannati alla deportazione e ai lavori forzati in Siberia, dove la vicenda si arricchirà ancora di tradimenti, gelosie e delitti, nell’adattamento di Oldroyd Catherine-Lady Macbeth accusa il suo amante e la sua cameriera (le due persone a cui era più legata) di tutti i delitti che sono stati nel frattempo scoperti, e riesce a salvarsi perché viene creduta grazie al suo prestigio. È dunque una riscrittura che amplifica l’elemento sociale molto presente in tutta la narrativa di Leskov, evidenziando ancor più la differenza di classe fra i due protagonisti e presentando come vittime i due personaggi socialmente inferiori. Tutta questa dinamica viene raccontata in modo molto allusivo, riducendo al massimo il dialogo e l’elemento verbale e relegando nel silenzio dell’ellissi tutti i particolari pragmatici, tutta la prosa dei fatti. È il punto di arrivo di uno stile ellittico e pittorico, che mira a una concentrazione assoluta e che confida nella pregnanza emotiva e simbolica delle immagini, capaci di sintetizzare gli sviluppi narrativi che volutamente non vengono svolti.

Il finale si articola infatti attorno a pochi scorci e a pochi quadri di grande potenza espressiva. Prima vediamo la scena in cui la protagonista accusa l’amante e la cameriera, senza ascoltare nulla delle reazioni, e del credito che le viene dato, sintetizzate in una serie di inquadrature mute, fra cui spicca un campo totale che raffigura il blocco dei personaggi benestanti, contrapposto al piano americano della cameriera; con uno stacco netto ­(la forma di punteggiatura preferita dal cinema contemporaneo) passiamo a una brevissima sequenza (una manciata di secondi: 1.22.47-1.23.05) che ci mostra i due personaggi accusati da lei incatenati su un carro [Fig. 3], e poi il paesaggio visto dalla loro prospettiva: una micro-sequenza che riassume in pochi tocchi la loro condanna e la loro fine pietosa; e in ultimo si susseguono alcune immagini della Lady, di nuovo chiusa nel suo splendido isolamento come all’inizio, con la ripresa finale dell’inquadratura frontale sul divano, questa volta con un’espressione meno compiaciuta e solo vagamente sofferta, un abito sempre blu ma meno sfarzoso e luminoso, e i capelli leggermente scompigliati. Poche immagini scelte, dettagli da un insieme più articolato, che comunicano l’archetipica potenza distruttiva della protagonista, unita a un senso di ciclicità e di morte, e di infinita coazione a ripetere.

Bibliografia
  • Fusillo 2015 
    M. Fusillo, Intermedialità, in Enciclopedia Treccani, Nona Appendice, Roma 2015, 703-706.
  • Genette [1982] 1998
    G. Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado [Palimpsestes. La littérature au second degré, Paris 1982]; trad. it. di Raffaella Novità, Torino 1998.
  • Hutcheon [2006] 2011
    L. Hutcheon, Teorie degli adattamenti. I percorsi delle storie fra letteratura, cinema, nuovi media [A Theory of Adaptation, New York 2006], trad. it. di Giovanni Vito Distefano, Roma 2011.
  • Morton 2011
    A. Morton, Empathy for the Devil, in A. Coplan, P. Goldie (eds.), Empathy: Philosophical and Psychological Perspectives, Oxford 2011, 318–330.
  • Schor 2007
    N. Schor, Reading in Detail. Aesthetics and the Feminine, foreword by Ellen Rooney, New York 2007.
English abstract

This paper examines a specific case of the dynamics of word/image, cinematic adaptation, in connection with a recent movie. William Oldroyd’s Lady Macbeth is adapted from a short story written by Nikolaj Leskov between 1863 and 1864, nonetheless keeping an open relationship with Shakespeare’s tragedy. The movie offers a significant example of a pictorial and elliptical style, which deeply exploits the narrative force of details, single pregnant shots, and short sequences, activating an uncanny negative empathy towards the protagonist.

keywords | William Oldroyd; Lady Macbeth; Cinema; Shakespeare; Negative empathy.

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Fusillo, Allusioni, ellissi, dettagli, “La Rivista di Engramma” n. 150 vol. 1, ottobre 2017, pp. 605-610 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2017.150.0045