"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

150 | ottobre 2017

9788894840261

Tempesta

L'ekphrasis performata nel teatro di Anagoor

Simona Scattina

English abstract

Denis Diderot, dal 1759 al 1781, scrive nove Salons in cui racconta, per chi non poteva essere a Parigi, le esposizioni di quadri o sculture organizzate dall’Académie royale de peinture et de sculpture. Nei Salons la critica d’arte si fa narrazione, dramma, riflessione filosofica; i toni del discorso prendono la veste della satira, del saggio, del melodramma. Diderot descrive i quadri e fornisce indicazioni sulle strategie ecfrastiche da seguire perché chi legge possa ricostruire mentalmente la visione. I Salons contemplano il percorso dello sguardo sulle opere, una lettura dell’immagine grazie alla quale lo scorrere dell’occhio sul manufatto artistico si fa esperienza corporea. Lo scopo di queste scritture sembra essere quello di includere lo spettatore nello spazio del quadro: si assiste cioè, per via letteraria, all’“incorporazione del corpo dell’artista e dello spettatore nello spazio dell’immagine, per il passaggio da un punto di vista esterno a un punto di vista interno all’immagine” (Bertolini 2012, 70). Il passo che porterà a incarnare uno spazio che è ancora mentale in una visione teatrale è breve. Il lettore, nelle descrizioni di Diderot, si trova inglobato nell’opera secondo tecniche che egli elenca in svariati punti e che fanno soprattutto riferimento al modo di rendere lo spazio pittorico per mezzo della scrittura ecfrastica.

Non è certo sufficiente definire il teatro come un luogo in cui si producono immagini perché questa è una prerogativa anche di altre arti, ma si può senz’altro dire che a teatro le visioni possono essere scomposte e ricomposte in una distribuzione temporale che segue lo sviluppo delle scene. Quello che l’ekphrasis può esplicitare della teatralità è molto più profondo e di altro tipo rispetto al trattare il teatro solo come serbatoio di metafore per la descrizione dell’opera d’arte. Per valutare che cosa effettivamente accada sulle scene teatrali si potrebbe declinare il rapporto ekphrasis-teatro su tre versanti: ci sono le forme dell’ekphrasis assunte dalle didascalie teatrali, grazie alle quali la scena viene scomposta e ripercorsa; ci sono i discorsi ecfrastici in scena, ossia quei discorsi riconducibili a voci che contengono visioni; ci sono infine le possibilità dell’ekphrasis performata vera e propria, in base alla quale i principi di costruzione drammaturgica delle scene sono riconducibili a moduli ecfrastici.

L’ekphrasis e gli studi teatrali convergono pertanto sul tema dello sguardo: quello dello spettatore prima di tutto, così per come esso viene condotto a seconda di scelte poetiche, estetiche, registiche, attoriali. In una delle formulazioni più riuscite di Michele Cometa l’ekphrasis è definita come “il luogo dell'incarnazione dello sguardo in letteratura (sguardi dello scrittore, del lettore, dei personaggi, degli spettatori) e anche un luogo importante per indagare gli aspetti performativi della narrazione” (Cometa 2012, 106). Quando l’ekphrasis entra nel dispositivo teatrale lo spettatore oscilla tra due poli: da una parte il suo sguardo è rivolto a un oggetto che lo coinvolge, lo attira, nella performance; dall’altra egli è consciamente esterno all’immagine che si produce in scena, una distanza che consente la riflessione sulle scelte non ingenue e mai neutre che hanno portato a quel tipo di esposizione dell’immagine. È pertanto nella dialettica autore-spettatore che il secondo completa la visione suggerita. In ogni caso è probabilmente l’elemento temporale, di lessinghiana memoria, a consentire una trattazione dell’ekphrasis in ambito teatrale. Lo sviluppo di un atto narrativo o visivo nel tempo condiviso è fondamento dell’arte performativa, e lo sapeva bene Ragghianti che negli anni Settanta scriveva:

Il linguaggio espressivo caratteristico dell’arte dello spettacolo, in quelle forme in cui la stiamo indagando, è di natura essenzialmente “visiva”, per quanto riguarda l’immediatezza della sua qualità (come nella pittura e nella scultura): sempre astrattamente, o generalmente che si dica, è proprio dire di questo linguaggio, in quanto anch’esso processo costitutivo della visibilità, che è anch’esso un linguaggio “figurativo”. L’arte del teatro intesa in questa forma è dunque “arte figurativa” (Ragghianti 1976, 19).

E cercando di cogliere le differenze tra le arti sulla base di una prospettiva temporale, aggiungeva:

Il tempo è un elemento imprescindibile, costitutivo, dell’arte del teatro-spettacolo, come del cinematografo [...]. Nel cinema, o nel teatro-spettacolo (come nella musica) lo svolgimento figurativo è presentato allo spettatore snodato, in cammino, e se ne assume meglio, e più facilmente per ciò, la durata, che è materializzazione – esistente in ogni forma d'arte, del resto – del ritmo figurativo ispiratore: che se si vuole chiamar tempo si deve allora chiamare “tempo ideale” (Ragghianti 1976, 19-20).

Non si può quindi parlare di immagini senza includere il discorso sullo sguardo e senza tener conto dei dispositivi attraverso i quali esse si danno. Il sogno diderottiano coincide con questo processo di svolgimento figurativo.

Approfondendo il tema della descrizione dell’immagine, non si può fare a meno oggi di considerare le influenze reciproche tra i tre elementi individuati da Cometa:

Le immagini, intese sia come prodotto di una prassi figurativa consapevole che come espressione di processi inconsci e immateriali, i dispositivi che rendono “visibili” queste immagini e che presiedono alla loro creazione (i media e le tecnologie della visione) e, infine, gli sguardi (gaze) che si posano sulle immagini (Cometa 2012, 40).

Il teatro, all’interno di questo quadro teorico, si configura come luogo di attivazione di uno specifico “regime scopico”, in base al quale vengono prodotte delle immagini per via performativa o mediante l’uso di ulteriori tecnologie della visione. Oggi la convergenza di diverse forme mediali nella performance teatrale ha portato alla creazione di forme spettacolari che mescolano e confondono i confini tra i diversi media implicati e gli studi semiotici si sono prodigati nel trovare nuove etichette: si parla di teatro come “ipermedia”, di possibilità “intermediali” o del teatro come “scena dell’intermedialità”.

Uno strumento che ha senz’altro potenziato un certo uso dell’immagine sulla scena è lo schermo su cui si proiettano riprese in tempo reale o video pre-registrati. Gli schermi accolgono visioni bidimensionali che possono provenire da spazi e tempi diversi e il teatro si trova ad ospitare modi propri del cinema. Parlando di intermedialità gli spazi e i tempi subiscono un processo di ibridazione: l’immagine può entrare nell’intimità di visioni ravvicinate o abbandonarsi all’infinità del mondo esterno; sullo schermo può essere proiettato qualcosa che proviene dal passato, dal presente o dal futuro; qualcosa di reale o di immaginario. Infinite sono le possibilità di gestione dell’immagine.

Anagoor muove anche da queste premesse e, facendo propri alcuni principi ecfrastici, si costituisce come un teatro ai limiti del teatro stesso, una scena che di continuo tende a far proprie possibilità di altri media, senza per questo abbandonare una cifra teatrale. Il discorso sull’immagine diventa quindi manifestazione del potenziale drammatico proprio lì dove il teatro intesse un dialogo con le arti visive, la fotografia, la video-arte, la danza e grazie alle nuove tecnologie trova nuove soluzioni di messa in scena del rapporto tra corpo, immagine e parola.

La compagnia formatasi nella seconda metà degli anni Novanta, ma giunta alla consacrazione negli ultimi anni entrando a far parte del pantheon del teatro contemporaneo, nasce su iniziativa di Simone Derai e Paola Dallan, ai quali si sono aggiunti successivamente Marco Menegoni, Moreno Callegari, Mauro Martinuz, Giulio Favotto. Approda con il suo lavoro di ricerca e di indagine a creazioni che mescolano la tradizione classica con la danza, la musica e le video installazioni, riuscendo sempre ad indagare temi di grande respiro (arte, poesia e potere, bellezza e violenza, memoria, morte). Alcune azioni del loro teatro hanno come fine ultimo proprio la composizione di un’immagine in scena che può essere, come vedremo, un chiaro riferimento alla storia dell’arte, arrivando a far salire sul palcoscenico vere e proprie gallerie visive.

Influenzate dagli studi di Warburg, le loro creazioni raccontano sempre una storia per mezzo di parole, documenti, versi poetici e immagini. Lo spettatore è portato a interrogarsi sui principi temporali della visione nel momento in cui essa si dà come montaggio o smontaggio di un’immagine. O accade che egli si abbandoni alla suggestione di un’esperienza pittorica che, durante la rappresentazione teatrale, si compie o si nega (Gasparotto 2015).

Nel teatro di Anagoor l’immagine si dà come affermazione del “senso del possibile” (De Min 2016b, XII); sfruttando le possibilità aperte dal funzionamento del regime scopico si mette in discussione l’imposizione che l’immagine ha sull’uomo nella società contemporanea. Se gli aspetti visuali allora influenzano la scrittura scenica delle loro rappresentazioni, le immagini si concedono attraverso impressioni, allusioni. Alla base di questa estetica ci sono gli studi sulle sopravvivenze figurative (Nachleben), sulle riattivazioni di temi e motivi (Pathosformeln) di Aby Warburg, o le riflessioni di Walter Benjamin attorno all’idea di “immagine dialettica”, quelle di Didi-Huberman sul dominio dell’immagine, fino ad arrivare a Hans Belting. Le immagini divengono ponti su altri spazi, dialogano tra loro, e in questa apertura spazio-temporale Anagoor si interroga sul concetto di mito. Il loro ragionamento sull’immagine diventa quindi manifestazione del potenziale teatrale, di un teatro che dialoga con altre possibilità espressive e che sfida se stesso cercando di oltrepassare le barriere dello spazio-temporali e quelle dell’attorialità.

Nel 2009 il gruppo compie un viaggio immaginifico nell’universo pittorico e simbolico di Giorgione, pittore di Castelfranco Veneto. Lo fa con due spettacoli, Tempesta e Rivelazione. Sette meditazioni intorno a Giorgione (una rielaborazione della prima pièce). Qui ci si concentrerà su Tempesta, per la regia di Simone Derai, pur accennando anche allo spettacolo di poco successivo.

Giorgio da Castelfranco, detto Giorgione, nasce a Castelfranco Veneto (paese natio anche di Anagoor), forse nel 1477. La scarsità di notizie biografiche non ci permette di ricostruire con esattezza le tappe della sua vita, quel che è certo è che la sua pittura risente dell’influsso di grandi artisti come Antonello da Messina, Giovanni Bellini, Dürer, Leonardo, che, soggiornando a Venezia, vi importano linguaggi pittorici diversi. Così come sappiamo che l’influenza di Giorgione sarà di particolare importanza per il giovane Tiziano.

Egli appare piuttosto come un mito che come un uomo. Nessun destino di poeta è comparabile al suo, in terra. Tutto, o quasi, di lui s’ignora; e taluno non gli riconosce alcuna opera certa. Pure, tutta l’arte veneziana sembra infiammata dalla sua rivelazione (D’Annunzio [1900] 1898, 92).

Giorgione è sicuramente una delle figure più enigmatiche della storia dell’arte e la sfida-omaggio che Anagoor prova a fare è un viaggio esplorativo e immaginifico nell’universo pittorico e simbolico dell’omonimo dipinto di Giorgione. La Tempesta (Venezia, Gallerie dell’Accademia) è uno dei rari dipinti che la critica ha accolto unanimemente come autografo [Fig.1[. Assai discordi sono invece le opinioni sull’iconografia e sulla datazione (1507-1508). Nella raccolta Vendramin era indicato come Mercurio e Iside, altre proposte riguardano la ninfa Io che allatta il figlio Epafo sotto la sorveglianza di Mercurio; oppure il ritrovamento di Mosè. Le molte divergenti argomentazioni non devono allontanare l’attenzione da quello che bene ebbe a dire Venturi fin dal 1913.

In Giorgione e il Giorgionismo viene seguito quell’approccio purovisibilista che mira ad affermare il valore intrinseco del momento intuitivo e conoscitivo della visione (Venturi 1913). Unendo così il conforto dell’indagine filologica, stilistica e documentaria all’individuazione della personalità dell’artista, l’interpretazione che ne scaturisce risulta vivida nella ricostruzione del rapporto fra la realtà psicologica dell’artista e quella del farsi tecnico e formale dell’opera stessa, il quadro. Il soggetto è la natura, per Venturi: uomo, donna e bambino sono soltanto elementi, non i principali dell’ambientazione che risulta esaltata nelle sue forze primordiali, nei fenomeni più profondi e misteriosi. Il cielo tempestoso, solcato all’improvviso dal balenio della folgore; la purissima figura che stringe a sé il bambino; il giovane in piedi, a sinistra; il ruscello e le rovine, che alludono al tempo che scorre e alle glorie che crollano: tutto fa parte di un’unità che allude alla vita nel suo perpetuo divenire. Negli anni più recenti c’è infine anche chi ha visto Giorgione come un artista inquieto, che leggeva il suo tempo attraverso segni legati alla mistica ebraica e tardo-medievale, con una serie di suggestioni esoteriche che lo spettacolo sembra riprendere per leggere, appunto, i segni della contemporaneità (si pensi ad esempio al documentario prodotto da RAI 5 nel 2013, Indagine su Giorgione, ideato da Enrico Maria del Pozzolo). Così Derai definisce il pittore veneto a Paolo Puppa che lo intervista:

Giorgione […], non certo il pittore menestrello della Marca gioiosa et amorosa, ma un animo cupo dai tratti inquieti e scostanti, lettore di una disarmonia della storia, contraria all’immagine della società autoproclamatasi serenissima, e – nell’epoca dell’invenzione del Ghetto e di dimenticati progom – sensibile antenna degli strappi operati con violenza nel tessuto culturale e sociale. Sulla scia dei progetti più duri come Osea, Giorgione maledice la storia: “E poiché hanno seminato vento / raccoglieranno tempesta” [Osea 8,7] (De Min 2016b, 14).

Proprio dalle allegorie misteriose che si trovano nei dipinti di Giorgione muove lo spettacolo di Anagoor che cita all’interno della loro opera anche la Venere Dormiente di Dresda (1510 circa) [Fig. 2) e un frammento del Fregio delle Arti liberali e meccaniche conservato in Casa Pellizzari (Museo Casa Giorgione), rubando alle opere del pittore veneto “lo stupore del tempo fermato a interrogare la condizione dell’esistenza presente e l’alchimia della trasformazione possibile” (parole tratte dalla Segnalazione Speciale del Premio Scenario 2009).

Il percorso che ha portato alla realizzazione dello spettacolo ha rappresentato per la compagnia (Derai, Bressan, Callegari e Menegoni) un lungo lavoro di ricerca non solo iconografica ma anche di storia della critica attorno a Giorgione che ha visto anche la collaborazione scientifica e storica del professore Silvio D’Amicone. Lo spettacolo è un immaginario scenico direttamente estrapolato dall’olio dell’artista veneto per poi essere sottoposto ad una radiografia (al pari delle vere e proprie analisi radiografiche subite da questa ed altre opere dell’artista, che hanno permesso di effettuare scoperte contribuendo anche ad aumentare ulteriormente l’alone di mistero attorno a sé). Tempesta ha poi una duplice genesi: la versione di venti minuti è stata ripresa per arrivare allo spettacolo ‘compiuto’ (poco più di 40 minuti) in cui il lavoro, pur dilatato nel tempo, mantiene immutata la sua struttura.

Sul palcoscenico lo spazio è tripartito così come nel dipinto, suddiviso tra un prima, il cubo in vetro sulla destra, i due schermi sulla sinistra, e un oltre rappresentato dallo spazio mistico sul fondo, di un bianco accecante, deputato alle apparizioni. Tutto concorre a suggerire diversi piani di lettura. Da una fitta nebbia compaiono e scompaiono gli interpreti (Anna e Pierantonio Bragagnolo, fratello e sorella), un giovane guerriero che emerge da un nulla fumoso con il cappuccio della felpa ben calato sulla testa [Fig. 3] e che si veste in scena cambiandosi d’abito e indossando vesti cinquecentesche e una giovane, racchiusa nella teca, che si spoglia degli abiti contemporanei per rimanere in una nudità pittorica pudica e classica prendendo la forma distesa della Venere.

Quest’ultima immagine, ricostruita secondo un procedere ecfrastico che svela l’intero percorso di ricerca di un vertice visivo, viene però cambiata nella sostanza e la performer, mantenendo gli occhi aperti, fissi sullo spettatore, quasi invitandolo ad un consesso amoroso, da Giorgione crea un ponte temporale che arriva alla ‘scandalosa’ Venere di Tiziano o all’erotica Olympia di Manet. Lo sguardo perturbante della Venere, così come il giovane guerriero in armi che, appoggiato a una lancia, osserva la scena, saranno inghiottiti dalla nebbia che li ha generati [Figg. 4-5]. Le figure, colte e staccate dalle pitture, sembrano dunque assumere vita in uno spazio reale, dinamico, interattivo, in un dialogo probabile [Fig. 6].

Nel frattempo negli schermi rettangolari scorrono immagini che danno contestualizzazioni geografiche e meteorologiche, oppure colgono dettagli, particolari, accompagnando o anticipando, in una lieve sfasatura visiva, quanto accade. Dentro queste immagini gli attori si muovono, sia nella realtà del palcoscenico, sia nella fiction del video. Il performer è sdoppiato, forma reale e proiezione interagiscono nell’attimo della rappresentazione, in un continuum che rompe ogni struttura narrativa. Sui video compare anche la famosa coppia di cartigli dalla terza sezione del Fregio di Casa Giorgione: il primo con scritto "Si prudens esse cupis in futura prospectum intende" (“Se vuoi essere prudente volgi lo sguardo al futuro”), il successivo vuoto, quasi suggerendo allo spettatore di riempirlo di saggezza propria.

Il guerriero accede alla stanza della Venere creando un cortocircuito di immagini, come se l’uno entrasse nel sogno dell’altra e come se gli spettatori, a loro volta, entrassero nei dipinti fissati sulla tela; ma il dialogo, o quanto meno il contatto, non si realizza, interrotto forse dalla Tempesta che, a lungo attesa, irrompe sulla scena scompigliando i fragili equilibri fra gli astanti.

Un drappo rosso squarcia la scena nel vento della tempesta, uno reale, calato dal sipario, e uno virtuale ripreso in continuità nelle immagini dei due video che quasi sempre anticipano di qualche attimo quello che sta per accadere.

La produzione di questo vento scuote non solo gli animi, ma porta via con sé il tempo, spesso corre alto, oltre le figure o i personaggi che si stanno delineando. È come se la Storia soffiasse sopra i singoli. Dunque la ruota con le pale è il motore della macchina teatrale nella sua accezione più immediata. Ma, nel produrre il vortice del vento, supera anche la dimensione delle figure che si sono palesate in scena e in questo suo superarle allude a un soffio superiore che però è fatto di nulla e forse porta al nulla. Di sicuro indifferente. […] E poi c’è l’effetto di movimento che provoca il vento: crini, panneggi, vessilli sono scossi dal vento come in scena. […] Tempesta, fortunale, fortuna e divenire sono sinonimi: di per sé neutri, come il vento, né positivi, né negativi, eppure spaventosi. (De Min 2016a, 37-38)

La natura dello spettacolo è completamente visiva: non c’è parola, ma solo immagini che offrono chiavi simboliche. L’unico audio presente mescola sonorità elettroniche e antiche vocalità, suoni naturali con il ronzio possente di un ventilatore, versi di rondini e di corvi, lo scrosciare pauroso e violento dell’acqua. Emerge anche la voce del fisico americano Robert Openheimer, inventore della bomba atomica, quasi a sancire l’imminente catastrofe.

La macchina teatrale diviene così metafora dell’intero sistema dell’esistenza, che può sfuggirci o meno, ma che speriamo possa avere un ordine. E il ventilatore diviene il modello visivo e acustico perfetto, proprio in quanto macchina che produce movimento sulla scena. Le immagini, sottratte alla vanità del presente, rimangono presenti anche quando il vento si alza furioso.

L’ultima parte dello spettacolo spinge sulla visione onirica: un nuovo transito schiude spazi edenici, e i due attori sembrano perdersi tra le meraviglie del Paradiso terrestre [Fig. 7]. In questo luogo si svolgerà l’incontro autentico tra i due giovani.

La foresta prima avvolta dalla nebbia va ora rischiarandosi mentre gli schermi proiettano una donna in arme in un campo al tramonto (alla mente ci sovviene la Giuditta di Leningrado del 1504, anch’essa con la spada e in abito rosso che ritroveremo in Rivelazione). Dal foglio di sala leggiamo:

Tempestas in origine significò momento del giorno, solo in seguito divenne condizione, stato atmosferico ed infine, in modo speciale, un tempo burrascoso rovinoso. Ne “La Tempesta”, nel “Fregio” e in altri dipinti di Giorgione l’attimo fulmineo viene congelato nella rappresentazione naturale del lampo, dell’atmosfera della luce di un Veneto che non ritornerà, catturato dallo sguardo che fissa la stagione e le fasi del ciclo di vita vegetale, sconvolto dal vento, saturato dalle buie nubi incombenti.

Attimo fulmineo, quello del lampo che accompagna la tempesta come la sfuggente apparizione di una consapevolezza o di un’idea, congelata nella raffigurazione artistica del dipinto. Una tempesta entro cui prende splendidamente vita la Venere dormiente, preludio ad un’imminente rinascita dell’uomo quando, fra le campagne venete (e non solo), sarà finalmente tornata la quiete.

Per guardare lo spettacolo bisogna lasciarsi trasportare in un flusso di forme che lentamente si evolvono. Paesaggi naturali, tempesta, foresta in una specie di viaggio nel tempo che porta dall’acqua primordiale ai giorni nostri e in cui anche gli attori si trasformano in figure, simboli di un incombente contemporaneo, esseri effimeri che, nel trascorrere del giorno, vivono la loro personale battaglia (che è anche la nostra), la propria Apocalisse. Come in Giorgione l'Anticristo è uno di noi, così è in noi stessi che cresce l'antagonista della nostra personale battaglia (dal foglio di sala).

Il riferimento a Giorgione torna in Rivelazione. Sette meditazioni intorno a Giorgione. Presentato in occasione della mostra di Castelfranco dedicata all’artista nel cinquecentenario della scomparsa, lo spettacolo nasce dall’incontro di Anagoor con Laura Curino. A differenza di Tempesta i significati, qui, sono molto più espliciti: c’è un libro, addirittura, che li compendia, I cieli di Giorgione. Astrologia e divinazione nel Fregio delle Arti, di D’Amicone. Un reading a due – Paola Dallan e Marco Menegoni – supportato in questa occasione dalla presenza e dalla voce di Laura Curino (cofirmataria della drammaturgia), in uno spettacolo che riesce nel difficile compito di conciliare la lezione di storia dell’arte con le esigenze dello spettacolo. Così, le sette Meditazioni – silenzio, natura, desiderio, nemico, battaglia, diluvio e tempo – ispirate ad altrettante opere di Giorgione, proiettate sui video in scena – la Pala di Castelfranco, i ritratti, la Venere dormiente, la Giuditta, i Tre Filosofi, la Tempesta e Il Fregio – evocano un mondo ricco di misteri e aperto alle avvisaglie del futuro.

In Rivelazione, il dispositivo visivo è costituito da due grandi schermi, vere e proprie cornici, di fronte ai quali due rappresentanti del collettivo condividono le sette lezioni/meditazioni. Le immagini che appaiono sono frammenti di opere di Giorgione che non vengono mai mostrate nella loro interezza: il racconto visivo scompone le immagini, fa di un’opera d’arte un discorso ecfrastico, lasciando vibrare particolari pittorici sui quali si sofferma l’occhio dello spettatore.

Si rivelano e si mettono così in luce le dinamiche selettive di ogni sguardo su ogni oggetto e corpo, su ogni opera del passato e su ogni storia. Ci sono dunque le cornici, ma c’è anche la linearità del fregio continuo perché le immagini in Rivelazione non si arrestano, scorrendo, una dopo l’altra, una nell’altra (De Min 2016b, 331).

In Rivelazione, come già in Tempesta, tramite i dispositivi visivi, il montaggio tende a trasformare il palcoscenico in un polittico in cui la scena si moltiplica. Dal quadro il percorso si snoda attraverso la rifrazione, il dettaglio, il riverbero, l’amputazione, fino ad arrivare al living painting.

Il montaggio sarà precisamente una delle risposte fondamentali a questo problema della costruzione della storicità. Proprio perché non è orientato semplicemente, il montaggio sfugge alle teleologie, rende visibili le sopravvivenze, gli anacronismi, gli incontri di temporalità contraddittorie che riguardano ogni oggetto, ogni avvenimento, ogni persona, ogni gesto. Allora, lo storico rinuncia a raccontare “una storia” ma, così facendo, riesce a mostrare che non c'è storia senza tutte le complessità del tempo, tutti gli strati dell'archeologia, tutte le punteggiature del destino (Didi-Huberman 2006, 250).

Il video entra in contrasto o in armonia con la scena (non è mai dato passivamente allo spettatore), mentre ai performer spetta la responsabilità di vivificare il rapporto con la presenza sugli schermi, sculture inamovibili. Il teatro di Anagoor fugge da ogni logicità: la scena ospita una serie di costellazioni possibili alle quali allude. Cornici e partiture trattengono una materia che, altrimenti, rischierebbe di fuggire di mano ed estendono le proprie implicazioni anche sull’architettura drammaturgica nella sua complessità. Da qui il bisogno di aprire finestre verso un altrove, per catturare più orizzonti possibili come se tutto fosse retto da una logica stringente (anche se non sempre lo è). Un impianto che segue le regole del montaggio per capitoli dà alle drammaturgie, più che una forma narrativa, una forma di mappa o di atlante. Il montaggio, “principio drammaturgico e mitopoietico contemporaneo per eccellenza” (Sacco 2013, 15), in questo senso, è il metodo compositivo delle tavole di Mnemosyne di Warburg e l’anello di congiunzione con questo teatro è l’interesse comune per quella memoria inconscia che può fuoriuscire lì dove le tessere del puzzle si incontrano, avvicinando mondi e indicando distanze.

Bibliografia
English abstract

Anagoor is a theatre company founded in 2000 that has only achieved recognition in the last few years, now considered part of the Pantheon of contemporary theatre. Its research and investigation work results in creations that mix the classical tradition with dance, music and video installation with the aim of investigating important themes. In some instances, the ultimate objective of the actions of the company is the creation of an image which can be, as the article will show, a reference to art history. In 2009, the group made an imaginary journey through Giorgione’s pictorial and symbolic universe. Giorgione is a painter who comes from Castelfranco Veneto. The journey was realized with two shows, Tempesta and Rivelazione. Sette meditazioni intorno a Giorgione (a previous piece reworking). Their creations are influenced by the cultural historian Aby Warburg and they always tell a story through words, documents, poetic verses and images. Tempesta starts from the mysterious allegories found in Giorgione’s pictures. The paper presents an analysis of the show and manifests an attempt shared by contemporary theatre: to make time visible.

keywords | Anagoor; Theatre company; Theatre; Giorgione; Tempesta. 

Per citare questo articolo / To cite this article: S. Scattina, Tempesta. L'ekphrasis performata nel teatro di Anagoor, “La rivista di Engramma” n. 150 vol. 2, ottobre 2017, pp. 413-425 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2017.150.0079