"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

163 | marzo 2019

9788894840582

Arianna dalle belle trecce

Lamenti, arie, vocalizzi e scene madri in Creta e in Nasso

Massimo Crispi

English abstract

– Hai udito, Daniele? – esclamò Stelio rivolgendosi al dottor mistico.
– Quando mai vi fu al mondo un focolare d′intelligenza più fervido? Essi cercavano nell′antichità greca lo spirito di vita: essi tentavano di sviluppare armoniosamente tutte le energie umane, di manifestare con tutti i mezzi dell′arte l′uomo integro.
Giulio Caccini insegnava che all′eccellenza del musico non servono solo le cose particolari ma tutte insieme le cose. La capellatura fulva di Jacopo Peri, dello Zazzerino, fiammeggiava nel canto come quella di Apollo. Nel discorso preposto alla Rappresentazione di Anima et di Corpo Emilio del Cavaliere espone intorno alla formazione del teatro novello le medesime idee che furono attuate a Bayreuth, compresi i precetti del perfetto silenzio, dell′orchestra invisibile e dell′ombra favorevole. Marco da Gagliano, nel celebrare lo spettacolo di festa, fa l′elogio di tutte le arti che vi concorrono ‟di maniera che con l′intelletto vien lusingato in uno stesso tempo ogni sentimento più nobile dalle più dilettevoli arti ch′abbia ritrovato l′ingegno umano”. Non basta?
[...]
– Non basta ancora – disse Antimo della Bella. – Bisogna glorificare il più grande degli innovatori, che la passione e la morte consacrarono veneziano, colui che ha il sepolcro nella chiesa dei Frari, degno d′un pellegrinaggio: il divino Claudio Monteverde.
– Ecco un′anima eroica, di pura essenza italiana! – assentì Daniele Glàuro con reverenza.
– Egli compì l′opera sua nella tempesta, amando, soffrendo, combattendo, solo con la sua fede, con la sua passione e col suo genio – disse la Foscarina lentamente, come assorta nella visione di quella vita dolorosa e coraggiosa che aveva nutrito del più caldo suo sangue le creature della sua arte.
– Parlateci di lui, Èffrena.
Stelio vibrò come se ella lo avesse toccato all′improvviso. Ancora una volta la virtù espressiva di quella bocca divulgatrice evocò da una indefinita profondità una figura ideale che risorse come da un sepolcro dinanzi agli occhi dei poeti assumendo il colore e il soffio dell′esistenza. L′antico sonator di viola, vedovo ardente e triste come l′Orfeo della sua favola, apparve nel cenacolo.
Fu un′apparizione di fuoco assai più fiera e più abbagliante di quella che aveva acceso il bacino di San Marco: una infiammata forza di vita, espulsa dall′imo grembo della natura verso l′ansia delle moltitudini; una veemente zona di luce, erotta da un cielo interiore a rischiarare i fondi più segreti della volontà e del desiderio umano; un inaudito verbo, emerso dal silenzio originario a esprimere quel che v′è di eterno e di eternamente indicibile nel cuore del mondo.
– Chi potrebbe parlare di lui se egli medesimo volesse parlarci? – disse l′animatore, turbato, non riuscendo a contenere la crescente pienezza che dentro gli fluttuava come un mare d′angoscia. E guardò la cantatrice; e la vide quale ella eragli apparsa tra la selva degli stromenti, nelle pause, bianca ed esanime come un simulacro. Ma lo spirito di bellezza evocato doveva manifestarsi in lei.
– Arianna! – soggiunse Stelio sommessamente come per risvegliarla.
Ella si levò senza parlare, andò verso una porta, entrò nella stanza attigua. S′udì il fruscio della sua veste, il suono lieve del suo passo; e poi il rumore del cembalo che s′apriva. Tutti erano muti e intenti. Un silenzio musicale occupava il posto rimasto vuoto, nel cenacolo. Una sola volta il soffio del vento inclinò le fiammelle, commosse i fiori. Tutto poi sembrò immobile e ansioso nell′aspettazione.
Lasciatemi morire!
D′un tratto, le anime furono rapite da un potere che parve l′aquila fulminea da cui Dante nel sogno fu rapito insino al fuoco. Esse ardevano insieme nella sempiterna verità, udivano la melodia del mondo passare a traverso la loro estasi luminosa. Lasciatemi morire!
Arianna, ancora Arianna piangeva con un novo dolore? Saliva saliva ancora nel martirio?
E che volete
Che mi conforte
In così dura sorte,
In così gran martire?
Lasciatemi morire!
La voce tacque; la cantatrice non riapparve. L′aria di Claudio Monteverde si compose nel ricordo come un lineamento immutabile.
G. D’Annunzio, Il fuoco, I. L’Epifania del Fuoco, 1900.

1 | Frontespizio di C. Monteverdi, Lamento D’Ariana, 1623.

Così Stelio Èffrena (da ex frenis, senza freni), per contestare il wagnerismo, faceva il panegirico del neonato melodramma fiorentino e di quel suo più celebre realizzatore cremonese dopo aver ascoltato il Lamento d’Arianna di Monteverdi a un convivio veneziano d’arte e d’amore. Poche pagine prima, si parlava di un’altra riesumazione, l’Arianna di Benedetto Marcello, sempre a Venezia in un’altra festa nella Sala del Gran Consiglio, dopo alcune considerazioni di Èffrena sull’arte.

Quando D’Annunzio scrive è il 1900, ma la vicenda si svolge nel 1882, a Venezia. Nel corso del suo focoso romanzo il Vate parla, come fa di solito, dei profondi sentieri dell’arte, e dell’arte italiana in particolare. Erano gli anni postunitari e l’Italia, culla del melodramma, dopo l’abbuffata romantica e verista delle composizioni di Bellini, Rossini, Mercadante, Donizetti, Verdi, Puccini, Cilea, Giordano, Mascagni, ne voleva riscoprire le radici, come pure le radici profonde di una lingua e di una cultura antichissima che affondavano nella classicità. Più d’ogni altra.

La lunga descrizione di Èffrena, infervorato dall’ascolto dell’Arianna di Marcello e poi del Lamento monteverdiano, è l’infervoramento dannunziano della riscoperta degl’italici capolavori del passato, da riscattare dall’oblio dei secoli. Infatti, era recente la riesumazione di tutto quel patrimonio musicale “antico”, sepolto negli archivi e ancora lontano da essere ciò che oggi intendiamo per “repertorio”.

Oggi i concerti di musica antica sono all’ordine del giorno e non c’è festival che non riporti alla luce un’opera dimenticata, addirittura ricostruendone frammenti di varie edizioni e ricomponendo il mosaico, talvolta anche senza senso dello spettacolo, vanificandone la piena riuscita.

Di ognuna di queste opere si registra un DVD, strombazzandolo come l’evento dell’anno, anche se, più frequentemente di quanto non si creda, alcune di codeste opere non meritano sempre una seconda chance. Un secolo e più fa, invece, il repertorio antico era quasi per intero da riscoprire e uno dei primi a rispolverare le frottole, gli ariosi, i recitativi e i madrigali fu Alessandro Parisotti che nei suoi tre volumi di Arie antiche: ad una voce per canto e pianoforte, pubblicati da Ricordi nel 1890, raccolse arie bellissime e dimenticate di autori del Seicento e Settecento italiani come Alessandro Scarlatti, Claudio Monteverdi, Jacopo Peri, Giulio Caccini, Arcangelo del Leuto, Emilio del Cavaliere, Giovanni Battista Pergolesi e molti altri, le quali furono subito inserite nel repertorio dei recital delle star dell’opera. Le arie antiche sarebbero servite per “scaldare la gola”, essendo belcanto puro, come un massaggio per le corde vocali prima di affrontare le arie di eroi ed eroine del “grande repertorio” romantico e verista spalmando la propria voce sul pubblico in estasi. Peraltro Parisotti era anche compositore e il basso continuo di molte arie del Seicento fu rielaborato fantasiosamente e secondo criteri estetici e armonici tardo ottocenteschi, per nulla filologici, ma col sapore rétro del tempo perduto, per cui le arie ‘antiche’ sono in realtà delle arie da salotto ottocentesche e in stile arcaicizzante, dove la linea del canto è quella originale mentre la realizzazione strumentale è tutt’altra cosa.

La filologia musicale non aveva ancora fatto quei passi ai quali noi oggi siamo abituati, restituendo gli originali riveduti ma non ‘scorretti’ (come invece accadde alla fine dell’Ottocento e per buona parte del Novecento) alle orecchie del pubblico. La fascinazione verso il barocco fu tale che Parisotti stesso produsse un famosissimo falso d’autore, spacciando l’arietta Se tu m’ami per opera di Pergolesi, e l’inganno fu talmente ben architettato che ci cascò perfino Igor Stravinsky, il quale incluse l’aria come pergolesiana nel suo balletto cantato Pulcinella (1920), interamente basato su musiche di Pergolesi rielaborate. Ovviamente Èffrena non poteva aver ascoltato il Lamento d’Arianna di Monteverdi perché la sua prima pubblicazione (versione Parisotti) fu nel 1890 e la festa di Venezia descritta nel romanzo era ambientata nel 1882. E non è l’unica discronia che quei volumi di arie antiche di Parisotti produssero. Fu indotto in tentazione anche Guido Gozzano in L’amica di nonna Speranza (Gozzano 1911), dove l’autore descrive il salotto della nonna del 1850, in cui la nonna Speranza e l’amica Carlotta Capenna si mettono al piano, Carlotta canta e Speranza suona:

[...] le amiche provano al piano un fascio di musiche antiche.
Motivi un poco artefatti nel secentismo fronzuto
di Arcangelo del Leuto e d’ Alessandro Scarlatti.
Innamorati dispersi, gementi il core e l’augello,
languori del Giordanello in dolci bruttissimi versi.
G. Gozzano, I colloqui, 1911.

Se per D’Annunzio il Seicento era l’alba dell’arte musicale e letteraria, per Gozzano sembrava essere l’esatto opposto. I due volti del decadentismo. Di fatto D’Annunzio si occupò di una collana tutta votata alla riscoperta e alla valorizzazione del patrimonio musicale italico Classici della musica italiana, riscoprendo le antiche musiche del tardo Rinascimento e del Barocco. Ma questo interessamento di D’Annunzio per la musica antica d’Italia e, soprattutto, le cose che fa dire a Stelio Èffrena nel Fuoco, come nota Gianni Oliva, hanno un’altra fonte, nient’affatto italica (Oliva 2015, 5-16): Histoire de l’Opéra en Europe avant Lully et Scarlatti: les origines du theatre lyrique moderne di Romain Rolland (Rolland 1895). Si potrebbe dire che D’Annunzio lo citi pedissequamente senza citarlo. In quest’opera è descritta la triste vita di Claudio Monteverdi, soprattutto in quegli anni in cui compose L’Arianna, facendo rispecchiare i propri dolori familiari e professionali nell’abbandono e nel lamento della fanciulla minoide. D’Annunzio lesse quest’opera nel 1896 e incontrò Rolland a Roma nel 1897. Fu fondamentale per le sue convinzioni musicali che furono poi trasposte mitograficamente in un’origine epica e unica come lui usava fare, ustionato da passioni e fuochi assoluti. L’anti-wagnerismo dannunziano, espresso nel Fuoco, pone proprio come contraltare la purezza dell’opera monteverdiana e della produzione melodrammatica delle origini fiorentine, ma collocando la corona imperiale e celeste sul capo del divino Claudio.

Peraltro il Lamento d’Arianna che Stelio avrebbe ascoltato a Venezia dalla voce della cantante Donatella Arvale non poteva essere che quello rielaborato da Parisotti: un frammento del frammento, solo la parte iniziale, una breve pagina. Il lamento, infatti, non era ancora stato pubblicato integralmente. Se Èffrena avesse ascoltato l’intero brano, avrebbe aggiunto che l’inventore del Leitmotiv non era stato Wagner (che peraltro non ne fu l’inventore bensì il più grande e noto utilizzatore) ma Monteverdi. Il perché lo vedremo più avanti. Andiamo con ordine.

Il Lamento d’Arianna è l’unico frammento superstite della seconda opera di Claudio Monteverdi. Dopo il successo del 1607 con L’Orfeo, stregando un pubblico ristretto, prima all’Accademia degli Invaghiti e poi al Palazzo Ducale di Mantova, Monteverdi bissò con L’Arianna nel 1608: un trionfo senza precedenti, grazie anche al numero di spettatori presenti a Mantova per la circostanza. La circostanza era la celebrazione delle nozze del duca Francesco IV Gonzaga con Margherita di Savoia, gli spettatori furono ben seimila, come riferisce lo storico di corte Federico Follino, e il Teatro Ducale ne poteva ospitare assai di meno, anche se l’effettiva capienza non è riportata. Il duca padre fu costretto a entrare e uscire di continuo dal teatro per trattenere la folla che voleva entrare, escludendo anche la propria nobiltà. Tutto esaurito. Così ci informa nel suo preziosissimo saggio I casi di Arianna il musicologo Irving Godt (Godt 1994, 315-357).

2 | Frontespizio di O. Rinuccini, L’Arianna. Tragedia, 1608.

L’esposizione all’attenzione di un pubblico internazionale di cortigiani provenienti da tutta Europa venuti a Mantova per l’evento fu l’innesco del successo personale di Monteverdi, il quale affrontava, come abbiamo già visto nel Fuoco, vicende personali e familiari tristissime. Il Duca di Mantova Vincenzo I, padre dell’erede sposo, con quell’evento straordinario e all’ultima moda avrebbe voluto accrescere il prestigio del casato dei Gonzaga ma forse accrebbe più quello del compositore. Stavolta il sontuoso libretto era di Ottavio Rinuccini, il poeta della Camerata Fiorentina, con versi musicali e quanto mai adatti al genere di dramma in musica di recente invenzione. Il successo e la commozione suscitati dalla nuova opera furono straordinari, come riferisce sempre Godt, e il Lamento della protagonista, per l’abbandono di Teseo nell’isola di Nasso, diventò immediatamente un hit e conobbe fortune e diffusioni mai sospettate e insolite per l’epoca. Monteverdi stesso, qualche anno dopo, ne fece un madrigale a cinque voci nel suo IV Libro de’ Madrigali (1614) e il brano servì spesso da modello per altri autori, dalla Sicilia all’Inghilterra, che composero i loro Lamenti d’Arianna, alcuni come monodia, altri come madrigale a più voci. Tra i tanti: Giulio Cesare Antonelli (1611), Saverio Bonini (1613), Claudio Pari (1619), Antonio il Verso (1619), Pellegrino Possenti (1623), Francesco Costa (1626) e due britannici, in traduzione inglese: Henry Lawes, Ariadne Deserted (1640) e Robert Cambert, Lament of Ariane (1659).

Monteverdi pubblicò a stampa il suo Lamento monodico solamente nel 1623, insieme ad altre opere a voce sola e basso continuo, come aria staccata, senza i commenti dolorosi dei pescatori che assistono e spezzano il pianto di Arianna, come se fosse un lungo monologo. Lo stesso materiale musicale fu riutilizzato da Monteverdi nella Selva morale e spirituale del 1641, come Pianto della Madonna, in lingua latina. Singolare che di un’intera opera scomparsa, l’unica parte a sopravvivere fosse proprio il Lamento della protagonista, peraltro giuntoci in più versioni attraverso varie fonti, nessuna di Monteverdi, a parte quella di Ghent (a stampa e non manoscritta), ma copiata da ammiratori della sua musica e di questo brano veramente speciale.

Le fonti sono molteplici e non sempre degne di attendibilità. Spesso ci sono differenze ritmiche e musicali tra le varie monodie. Il filo di Arianna si annoda ribaldamente nel labirinto delle fonti e confonde chi volesse trovare chiarezza e uccidere il Minotauro del dubbio, sempre in agguato. I manoscritti o stampe che costituiscono le fonti della monodia, indicate da Godt (Godt 1994, 315-357), sono in tutto 7:

  • Ghent | B/Gu: RISM M3451 R 671: Lamento d’Ariana del Signor Claudio Monteverdi..., (Venezia: Magni, 1623); 212 bb.
  • Florence | I/Fn: B.R. 238 (olim. Magl. XIX.141); 253 bb. (Cfr. Emil Vogel, Claudio Monteverdi, “Vierteljahrsschrift für Musikwissenschaft” III, 1887, 443-450).
  • London | GB/Lbl: Add. ms. 30491, ff. 39r-41v; Dell’Arianna del Monte Verde; 253 bb. (per mano di Luigi Rossi?).
  • Modena | I/MOe ms. G. 239, Arianna del Monteverdi; 212 bb.
  • Maggio | Bologna, I/Bc: RISM 1623/8, I:Bc, Il maggio fiorito…, (Orvieto, Ruuli, 1623); solo il canto; 212 bb.
  • Fucci | Venezia, I/Vc: Grillanda musicale di Arie di diversi eccellentissimi Hautori scritta da Francesco Maria Fucci, Romano, ff. 66v-70v; L’Arianna del monte Verde; 212 bb.
  • Burney | Londra, GB/Lbl: Add. ms. 11588 f. 67 copia manoscritta del Dr. Burney di bb. 198 sgg. dal Lamento; lunghezza non rilevante.

Molte fonti hanno 212 battute. Solo Firenze e Londra (Rossi) ne hanno 253, mentre Burney ne ha 198. Ma torniamo all’opera intera. Il libretto di Rinuccini, ricco di personaggi, è un atto unico, gran novità rispetto ai ben cinque atti con prologo di Orfeo. Gli eleganti versi sono carichi di rimandi a Francesco Petrarca, Torquato Tasso, Ludovico Ariosto, citando figure e affinità fonetiche con gli illustri predecessori: Error in cieco laberinto in Petrarca, Canzoniere, sonetto CCXXIV, 4; Orror di cieco laberinto ne L’Arianna di Rinuccini, scena II, Venere, verso 45; il cieco laberinto, immagine poetica che piacque a Rinuccini, appare anche nel verso 219, detto da Teseo; l’aer cieco, L’Arianna, 522 l’aer cieco in Ariosto (Orlando Furioso, XX, 75 e XXVIII, 20, Ferrara 1516) e molte altre. Le prime due scene, quasi un prologo vero e proprio, sono interamente occupate dalle divinità.

Apollo, da solo, si presenta per primo per annunciare che non d’armi né di trombe di guerra si tratterà nell’opera ma di canti amorosi, e nomina, blandendolo (“Gran re c’hai sovra l’Alpi e scettro e regno”), Carlo Emanuele di Savoia, il padre della sposa festeggiata, Margherita, un po’ per convenzione, visto che la festa era la sua, un po’ forse per ingraziarsi finanziamenti per gli artisti produttori di quel capolavoro: captatio benevolentiae. Pareva che Carlo volesse far pubblicare l’opera come gadget da distribuire, come una bomboniera ricordo del grande evento, unico, un melodramma nuovo di zecca, l’ultimo grido. Probabilmente fu suggerito al poeta e al compositore di includere la dinastia savoiarda nel monologo introduttivo di Apollo per lusingarla e smussare certe difficoltà politiche, essendo l’unione Savoia-Gonzaga non proprio liscia come l’olio e piena di ostacoli. Infatti, il matrimonio era lo strumento di pace per metter fine alla contesa del Monferrato tra Savoia e Gonzaga e per dare una giustificazione ai Savoia di avanzare pretese in futuro proprio grazie a questa parentela acquisita. Per Carlo non fu possibile essere presente al matrimonio e, assai dispiaciuto, inviò i figli Vittorio Amedeo ed Emanuele Filiberto come rappresentanti di famiglia. Carlo, per bocca d’Apollo, troneggia quindi sull’Alpi e nella prima scena d’Arianna. Il gadget, se mai fu pubblicato, non ci è giunto.

La seconda scena vede Venere e Amore, il suo figliolo arciero, che dialogano su ciò che avverrà nello spettacolo. Venere quindi avverte Amore e gli spettatori che si udranno i pianti di Arianna per l’abbandono di Teseo, la disperazione per un amore finito da una parte sola, e prega il figliolo di provvedere a non farla durar troppo. Per l’appunto è in arrivo il dio Bacco vincitor dell’Indie e bisogna approfittare della situazione per far scoccare la scintilla tra il dio e Arianna, perché potrebbero esser fatti l’uno per l’altra. Così Amore rassicura la madre che porterà a termine il suo compito. La tragedia si volge quindi in commedia e il lieto fine, che si conclude con uno sposalizio divino, rispecchia le nozze regali che l’opera celebra.

In quest’opera, una delle prime in assoluto, si tracciano temi e personaggi che poi si ritroveranno nei melodrammi del futuro: la sedotta e abbandonata (Medea, Didone, Cio Cio San, Donna Elvira, Margherita, Santuzza, eccetera), lo sposo infedele, la commozione dei cori per la sventurata, il deus ex machina riciclato dal teatro antico, e così via. Uno dei temi che riguarderà Arianna, ossia la rapidità nel cambiare amore e sposo in poche battute, sarà ripreso in futuro nel mettere in scena amori fulminei di opere buffe, come Così fan tutte, L’elisir d’amore e molte altre. Il Lamento d’Arianna, pur non essendo l’archetipo del genere, in quanto esistevano già composizioni simili, fu il primo esempio a diventare immediatamente celebre ovunque e sarà sviluppato da Monteverdi stesso e da altri autori del Seicento di melodrammi e arie. Incontreremo così, a trent’anni di distanza dall’Arianna, nel 1638, il Lamento della Ninfa, nell’VIII libro dei Madrigali, i Madrigali guerrieri, et amorosi, con alcuni opuscoli in genere rappresentativo, che saranno per brevi episodi tra canti senza gesto del medesimo Monteverdi (il quale ci aveva dato un anticipo di lamento col pianto d’Orfeo per impietosire Caronte – Possente spirto, L’Orfeo, Atto III – l’anno precedente all’Arianna), e poi i lamenti di Olimpia, di Armida, di Didone, e di tante altre eroine tristi, scalognate e abbandonate, in stile recitativo, di altri autori.

Nel Lamento della Ninfa, ancora una volta su testo di Rinuccini, Monteverdi però, al posto del consueto recitativo, ci offre un’angosciosa e passionale passacaglia, dove la Ninfa piange il suo abbandono, mentre un trio di pastori, due tenori e un basso, dopo aver introdotto la scena con un trio a sé stante, partecipa al suo dolore sullo sfondo. Un po’ come i pescatori di Nasso che scorgono Arianna in preda all’afflizione e si dolgono della sua angoscia. Da notare che il madrigale è previsto in stile rappresentativo, ed è esempio perfetto della “seconda prattica” monteverdiana, dove l’armonia diventa ancella dell’oratione, in quanto il brano “va cantato a tempo dell’affetto dell’animo e non a quello della mano”. Nel discorso dopo la dedicatoria, dello stesso Monteverdi, posti all'inizio dell'VIII libro dei Madrigali Guerrieri et Amorosi, nella parte del basso continuo del madrigale in questione, si legge la seguente indicazione:

Modo di rappresentare il presente canto. Le tre parti che cantano fuori del pianto de la Ninfa, si sono così separatamente poste, perché si cantano al tempo de la mano: le altre tre parti, che vanno commiserando in debole voce la Ninfa, si sono poste in partitura, acciò seguitano il pianto di essa, qual va cantato a tempo del' affetto del animo, et non a quello della mano.

L’aspetto teatrale e declamatorio è privilegiato rispetto al tempo vero e proprio, in modo da commuovere chi ascolta in maniera assolutamente veritiera.

E una passacaglia (ground, nel mondo inglese, indicando il basso ostinato che la contraddistingue), una delle più famose nella storia della musica, sarà il Lamento di Didone, che chiude l’opera Dido and Aeneas di Henry Purcell. Qui, il coro commenta solo alla fine del canto della regina, che muore tra le braccia di Belinda. Siamo nel 1689, ormai il recitativo si è evoluto e occupa solamente alcune parti del melodramma, lasciando sempre più spazio alle arie e ai brani d’insieme, ma il carattere malinconico e struggente del lamento resta quello.

Se l’alternarsi della solista e del coro è chiaro nel libretto di Rinuccini, il frammento dell’intero Lamento d’Arianna giunto fino a noi non comprende i cori che in origine interrompevano brevemente i vari momenti del monologo. Tutto fila di seguito, dall’invocazione alla morte nell’incipit Lasciatemi morire, attraversando le varie fasi dello smarrimento di Arianna: l’amore per Teseo, la sorpresa di scoprire la sua assenza, la realizzazione dell’abbandono, la rabbia per l’inganno, il pentimento della propria rabbia, la disperazione per la propria condizione, l’orrore della solitudine e la fine immaginata, sbranata dalle fiere, la rassegnazione. Spesso i vari sentimenti vanno e ritornano per dimostrare lo sconcerto della protagonista. Ed è proprio qui che appare, per la prima volta nella storia della musica, il tema ricorrente, quello che secoli dopo sarebbe diventato il Leitmotiv. L’invocazione “O Teseo, o Teseo mio” viene ripetuta più volte nel corso del Lamento, e sempre colla stessa melodia o gli stessi rapporti, proprio per sottolineare una costante dell’amore di Arianna verso Teseo in mezzo al disordine emotivo causato dall’abbandono. Nella versione madrigalistica a cinque voci sentire quest’invocazione intonata da più voci è struggente, come se un coro d’Arianne implorasse il ritorno dell’amato, ed è un altissimo momento di stasi meditativa, tant’è che, come già accennato, il Lamento monteverdiano fu imitato da molti autori successivamente, mai raggiungendo l’altezza dell’originale. C’è chi ha voluto vedere nella trasposizione a cinque voci del Lamento una sorta di sostituzione vocale delle viole che avrebbero suonato alla prima rappresentazione, accompagnando e sottolineando la disperazione di Arianna dietro le quinte e suscitando commozione. Ma non essendoci pervenuto l’originale non possiamo dire con certezza alcunché. Voci di bauli dimenticati nelle soffitte di famiglie patrizie veneziane, pieni d’inediti, tra cui potrebbe esserci anche il manoscritto dell’Arianna di Monteverdi, fanno parte della leggenda che ha accompagnato quest’opera così come tante altre perdute e poi ritrovate casualmente. Chissà se un giorno l’opera smarrita non sarà più tale.

L’Arianna di Monteverdi ritrovata per finta diventa lo sfondo dell’esilarante romanzo di Franco Pulcini Delitto alla Scala (Pulcini 2016). L’assassinio del giovane direttore d’orchestra che avrebbe dovuto dirigere la prima di sant’Ambrogio dell’opera ritrovata in un baule negli scantinati di una nobile famiglia milanese assai antipatica è il punto di partenza per riflessioni su tutte le superstizioni che l’opera si porta dietro, nella migliore tradizione delle composizioni iettatrici (La forza del destino, i Kindertotenlieder, la Terza di Mahler, L’Affare Makropoulos…), e del mondo vacuo d’intrighi e tradimenti che continua a prosperare nel sottobosco dell’ambiente legato all’opera lirica.

L’Arianna ha comunque realmente una storia costellata di lutti, e sembrerebbe quasi che le parole che l’eroina declami cantando fossero state profetiche. A parte le perdite familiari che caratterizzarono quel periodo della vita di Monteverdi (l’amatissima moglie, la cantante Claudia Cattaneo, morì nel settembre del 1607), accadde che la prima interprete dell’opera, la cantante Caterina Martinelli, detta “la Romanina”, che era stata accolta nella casa di Claudio a soli 13 anni, divenendo sua allieva di canto, si ammalò di vaiolo e morì il 7 marzo del 1608, mentre si provava L’Arianna per l’evento nuziale dei duchi. Aveva solamente diciotto anni. Furono contattate la fiorentina Margherita Romana e la napoletana Ippolita Recupita, ma non si dimostrarono all’altezza. La scelta cadde su Virginia Ramponi-­Andreini, celebre virtuosa nota come “la Florinda”, dal titolo di un dramma del marito Giambattista Andreini, dove interpretò un celebre lamento che riscosse parecchio successo. La troupe Ramponi Andreini, nota come I Fedeli, era già stata ingaggiata a Mantova da Vincenzo Gonzaga per dei festeggiamenti e fu così che, trovandosi sul campo una grande artista, il personaggio di Arianna divenne per lei una consacrazione: la sua interpretazione del Lamento fece piangere tutti quanti.

Ma dell’Arianna non si finisce mai di scoprire i segreti. Il musicologo australiano Tim Carter, specialista di Rinascimento e Barocco, propone l’insolita idea che, proprio per merito delle doti attoriali e musicali dimostrate da Virginia Ramponi, il Lamento fosse aggiunto all’opera, divenendone per giunta l’unico pezzo che le sopravvisse, anche perché si diffuse come aria da camera in copie staccate grazie all’interpretazione dell’artista (Carter 2002). Di certo l’interpretazione della Ramponi impressionò enormemente gli astanti. Alla rappresentazione mantovana si trovava anche Giambattista Marino che si estasiò al punto tale che, anni dopo, quando nel 1623 (stesso anno della pubblicazione in Venezia del Lamento d’Arianna con due Lettere Amorose di Monteverdi) pubblicò il suo poema L’Adone, volle ricordare l’evento di Mantova e la bravura dell’artista, paragonandola a un’altra celebre virtuosa dei suoi tempi, Adriana Basile:

Tal forse intenerir col dolce canto
suol la bella Adriana i duri affetti
e con la voce e con la vista intanto
gir per due strade a saettare i petti;
e ‘n tal guisa Florinda udisti, Manto,
là nei teatri de’ suoi regi tetti
d’Arianna spiegar gli aspri martiri
e trar da mille cor mille sospiri.
G. Marino, L’Adone, VII, 88.

Nel primo Rinascimento le storie di Minosse, Arianna, Bacco, il Minotauro, Fedra, Teseo, la cui fonte principale erano Le Metamorfosi e le Eroidi di Ovidio, il Carme 64 di Catullo, Le Argonautiche di Apollonio Rodio, e altre opere di autori vari in cui erano accennate, erano state prese e riprese da poeti e letterati, e spesso accadeva pure che i miti fossero travisati o mal riportati. Di certo l’Epistola X di Ovidio è stata il modello per il Lamento d’Arianna e per vari monologhi in musica che a lei sono stati dedicati, come vedremo. Ovidio trasse da Catullo, forse anche da Callimaco ed Euripide, da opere che non ci sono giunte, unicamente il momento del risveglio e del dolore della principessa abbandonata, senza i trionfi bacchici successivi, pur se, a un certo punto del suo monologo, Arianna ravvisa sé stessa come una baccante, quasi presaga inconsapevole di ciò che le sarebbe successo in seguito:

Aut ego diffusis erravi sola capillis,
qualis ab Ogygio concita Baccha deo,
ecc.
Sola, con sciolte chiome, errai
baccante accesa dall’Ogigio nume
ecc.
Ovidio, Eroidi, Epistola X, 47-48.

Nell’epistola amorosa di Ovidio, Arianna passa da uno stato d’animo all’altro esattamente come l’eroina melodrammatica di Monteverdi e molto probabilmente Rinuccini, nel comporre il Lamento, ebbe presente questo esempio.

Omero parla per due volte, sommariamente, del mito, una nell’Odissea e l’altra nell’Iliade. Nell’Odissea, Omero fa addirittura uccidere Arianna da Artemide per aver perso la verginità e la poverina viene pure accusata da Bacco, evidentemente attingendo a un mito arcaico poi superato da altre versioni:

Fedra comparve ancor, Procri, ed Arïanna
Che l’amante Teseo rapì da Creta,
E al suol fecondo della sacra Atene
Condur volea. Vane speranze! In Nasso,
Cui cinge un vasto mar, fu da Diana,
Per l’indizio di Bacco, aggiunta e morta.
Omero, Odissea XI, 420-425, trad. I. Pindemonte, 1822.

E ancora, nell’Iliade, descrivendo lo scudo di Achille:

Fecevi ancora il mastro ignipotente
In amena convalle una pastura
Tutta di greggi biancheggiante e sparsa
Di capanne, di chiusi e pecorili.
Poi vi sculse una danza a quella eguale
Che ad Arïanna dalle belle trecce
Nell’ampia Creta Dedalo compose.
V’erano garzoncelli e verginette
Di bellissimo corpo, che saltando
Teneansi al carpo delle palme avvinti.
Omero, Iliade XVIII, 817-828, trad. V. Monti, 1810.

Dante Alighieri, nel Paradiso della sua Commedia, richiama la costellazione nella quale Bacco trasformò la fanciulla al momento della sua morte (la Corona borealis, nell’emisfero settentrionale):

Qual fece la figliola di Minoi
allora che sentì di morte il gelo.
Dante, Paradiso XIII, 16-17.

Lorenzo de’ Medici, nel canto carnascialesco Trionfo di Bacco e Arianna, scritto in occasione del carnevale del 1490, eternò il mito delle nozze del dio e della principessa abbandonata, non facendo alcun cenno ai precedenti dolorosi dell’abbandono né di come l’innamoramento subitaneo avvenne. A Lorenzo importava la letizia del momento, condita da vino e godimenti vari. Era carnevale, in fondo.

Francesco Redi (Bacco in Toscana, 1685) volse in ditirambo la vicenda, con risvolti umoristici, facendo diventare Bacco sempre più ubriaco e facendolo straparlare (Arianna, brindis Brindisi…). La fonte arcaica a cui si ispirò Rinuccini per l’opera fu probabilmente la traduzione che negli anni 1554-1561 Giovanni Andrea dell’Anguillara pubblicò con una dedica a Enrico II di Valois, De le Metamorfosi d’Ovidio libri III di Giovanni Andrea dell’Anguillara, da cui potrebbe essere stato tratto lo spunto per il dialogo tra Venere e Amore della seconda scena, assente in Ovidio e “abbellito” da Anguillara.

Le vicende di Arianna confluirono nei melodrammi in varie maniere e con vari personaggi, spesso non sempre combacianti colle versioni ufficiali dei miti, ma nell’opera lirica può succedere di tutto, anche l’happy end dove perfino Otello e Desdemona vissero felici e contenti (un finale alternativo, nell’Otello di Gioachino Rossini!).

Vi sono due fasi del mito che vengono affrontate nella storia del melodramma: Arianna a Creta e Arianna a Nasso. Molti compositori opteranno per l’una o per l’altra, a volte per entrambe, costruendo una specie di seconda puntata. A volte, come fu per Georg Friedrich Händel e per Nicola Porpora, fu una questione di rivalità tra teatri nella stessa città. A Londra, dove furoreggiavano il melodramma e i cantanti italiani, fu un fiorire di spettacolari tenzoni tra i due compositori-direttori, con alterne fortune. Di certo l’Arianna in Nasso (1733) di Porpora è assolutamente prolissa e non ricca di particolari invenzioni, a differenza dell’Arianna in Creta (composta nel 1733 e rappresentata nel 1734) di Händel, che trabocca di felicissime creazioni musicali, comme d’habitude.

3 | Aria Senesino per Arianna in Nasso di N. Porpora.

Händel in quel periodo stava combattendo la sua battaglia a Londra, dopo dissesti vari dovuti al fallimento della compagnia d’opera che dirigeva per conto del re, la Royal Academy of Music. Il compositore tedesco era stato incaricato di portare a Londra l’opera italiana coi migliori esecutori, ovviamente italiani, e i primi anni nel regno inglese furono un successo dopo l’altro. Ma i compensi stratosferici degli artisti portarono la compagnia alla bancarotta e, pochi anni dopo, il principe di Galles, Federico di Hannover, in aperto contrasto colla stessa famiglia reale, fondò e finanziò una compagnia rivale, nominata Opera of the Nobility. Il principe aveva ingaggiato Nicola Porpora e tutte le star che avevano cantato le opere di Händel prima del fallimento, tra cui il castrato Francesco Bernardi, il celeberrimo Senesino, col quale, peraltro, Händel aveva avuto un crudo alterco per le sue pretese eccessive. Per la riuscita dell’impresa il Senesino fu importantissimo, per notorietà e successo, tanto che la compagnia della Nobiltà era nota anche come Senesino’s Opera (Dean 2006). E quando si aggiunse più tardi il nuovo venuto Farinelli, il delirio in città per quelle voci fu totale. L’opera scelta da Porpora per l’inaugurazione della nuova compagnia fu appunto Arianna in Nasso su libretto di Paolo Rolli.

Il dissestato Händel si rimise al lavoro e scritturò Giovanni Carestini (anche conosciuto come il Cusanino), un altro castrato di altissimo talento, e fu lui il primo Teseo della sua Arianna. Non c’è confronto tra il valore musicale dell’opera di Händel e quella di Porpora, di poco anteriore. Tra l’altro Händel aveva scelto il soggetto proprio traendolo da una precedente opera di Porpora, Arianna in Creta, facendo riadattare il soggetto e il libretto di Pietro Pariati a Francis Colman, quasi un messaggio a Porpora di non tentare neanche per un momento di competere con lui. L’opera ebbe molto successo, grazie anche alla presenza di cantanti che parteciparono a diverse creazioni di Händel, Carestini, Anna Strada del Po e Margherita Durastanti, di ritorno dopo sette anni di assenza da Londra.

Entrambi i libretti delle opere di Porpora e Händel presentano versioni del mito contrastanti e abbastanza riadattate ai gusti del pubblico dell’epoca. Siamo molto lontani dall’eleganza dei versi di Rinuccini e dalla vicinanza alle fonti antiche. Qui spuntano personaggi totalmente inventati che servono per incrementare gli intrighi amorosi e forniscono ai compositori materiale per le arie di bravura dei cantanti, da quelle elegiache a quelle di furore, da quelle di guerra a quelle di dolore, di giubilo e di gelosia. Per esempio, per quanto riguarda il personaggio di Arianna, nell’opera di Händel, anche qui lei si lamenta per l’infedeltà di Teseo ma in anteprima e per tutt’altri motivi. Infatti, Arianna si trova a Creta perché ha viaggiato da Atene insieme a Teseo e alla cara amica Carilda, inconsapevole rivale in amore (anche Carilda ama Teseo ma nessuna delle due sa dell’altra), e la sua situazione è del tutto particolare. Esiste un antefatto, che viene svelato nel corso dell’opera da altri personaggi, secondo cui Arianna è la figlia rapita a Minosse in tenera età, cresciuta da Archeo di Tebe, amico di Egeo, padre di Teseo, e vissuta ad Atene. Ma, ovviamente, di questa paternità lei non ne è informata. E neanche Minosse sa che Arianna è la sua figliola rapita. In un intreccio abbastanza surreale, con continui malintesi amorosi da telenovela si rincorrono Arianna e Teseo (che si amano entrambi, ma cadono continuamente in equivoco), Carilda (che ama segretamente Teseo) e Teseo (che non ama Carilda ma Arianna crede che l’ami), Tauride, guerriero cretese, che ama Carilda (che non lo ama), Alceste, guerriero ateniese che pure ama Carilda. Carilda non lo ama inizialmente, ma quando Alceste le rivela che Arianna, la sua cara amica, ama Teseo riamata, Carilda ci pensa su e, non volendo fare uno sgarbo all’adorata compagna, confida a sé stessa che forse, Alceste, potrebbe pure amarlo e comincia a dirigersi verso questo novello amore con devozione, anche perché in fondo Alceste avrebbe combattuto per lei sfidando Tauride. Non poteva mancare l’agnizione finale, stratagemma spettacolare che nell’opera lirica risolve sempre tutto, in cui Teseo rivela a Minosse che Arianna è sua figlia (lui che l’aveva mandata a morte come vittima sacrificale per il Minotauro perché Carilda, prima vittima estratta a sorte proprio da Alceste, era fuggita, e il re, adirato, aveva imposto un sorteggio), e avrebbero vissuto tutti felici e contenti.

Il mito originale è visto come un canovaccio su cui l’autore ha innestato un ballo in maschera dove tutti sono tutt’altro che i personaggi mitici della tradizione antica mentre il pubblico si trova davvero davanti a un labirinto di sentimenti, labirinto in cui il Minotauro svolge funzione unicamente decorativa. Ovviamente la trama bislacca è compensata dalla magnificenza della creazione musicale händeliana, qui nel suo pieno fulgore. È impossibile stabilire una priorità di pregio nei brani, talmente tutto è equilibrato e favoloso al tempo stesso. Händel vi profuse tutte le varietà di caratteri e di espedienti musicali per esprimere la folla di sentimenti contrastanti dei personaggi e per far risaltare la bravura sopraffina dei suoi artisti, in modo da guardare dall’alto la compagnia rivale della Nobiltà, che pur disponeva dei suoi straordinari ex-artisti, sottratti con allettamenti finanziari migliori da parte del principe di Galles. Ma quando una composizione è superiore e gli esecutori sono comunque di prima scelta non può esserci che un confronto favorevole a chi esegue il livello sovrastante.

In Arianna in Creta, pur nell’assurdità dell’intreccio, non c’è un attimo di stasi drammatica, i recitativi sono brevi e concisi e la maggior parte dell’opera è un susseguirsi di arie arricchite da strumenti concertanti, vocalizzi di estrema difficoltà, arie languide struggenti, intermezzi strumentali. Per la ripresa dello spettacolo alla fine dello stesso anno, le musiche furono impreziosite anche da danze, avendo a disposizione a Londra la danzatrice francese Marie Sallé, superstar dell’epoca, nel pieno fulgore dei suoi venticinque anni e della sua carriera. Cara amica di Händel, per lei il compositore sassone creò molte danze, veri e propri prologhi o intermezzi nelle sue opere o inserendole qua e là negli atti. E questo l’Opera of the Nobility non l’aveva. Come non aveva un Händel che improvvisasse magistralmente all’organo prima di un suo oratorio o durante gli intervalli tra una parte e l’altra, rendendo noti così i suoi favolosi concerti per organo e facendo uscire dall’ambito unicamente liturgico uno strumento assai versatile. Addirittura, perfettamente conscia della supremazia creativa di Händel, per cercare di contrastarlo e far accorrere pubblico, l’Opera of the Nobility mise in scena al teatro di Lincoln’s Hills Field, nientemeno che un’opera dello stesso Händel, Ottone! Per la cronaca, l’Opera of the Nobility, nel 1737, andò in fallimento a sua volta, non riuscendo a competere colla superiorità di Händel e nonostante le star rubategli. E, appunto, con Arianna in Creta, Arianna dai begli intrecci, l’avvertimento a tutta Londra da parte del compositore tedesco fu preciso e diretto.

Ma torniamo al mito. Resta un mistero, ma questo è sempre risultato poco chiaro, il cambiamento del comportamento di Teseo così repentino da far abbandonare la povera Arianna in Nasso durante la notte. Nell’opera di Rinuccini–Monteverdi anche se non ne possediamo la musica, ricaviamo dal libretto che Teseo è spinto dalla ragion di stato ad abbandonare Arianna. Infatti, essendo lui l’erede al trono del padre Egeo, Teseo pensava che gli ateniesi non avrebbero gradito la presenza di una principessa cretese come moglie del futuro re, dopo aver pagato per anni a Minosse il tributo fatale in vittime umane, e che, pertanto, avrebbero potuto ribellarsi contro di lui. Onde conservare il trono, il principe decideva quindi a malincuore di lasciarla nell’isola di Nasso senz’alcuna spiegazione e coll’inganno.

Non c’è traccia di tutto questo nelle opere barocche e rococò successive a Monteverdi. Gli intrecci arrivano al limite dell’esasperazione, come nell’Arianna di Benedetto Marcello, su libretto di Vincenzo Cassani, quella che infervorò Stelio Èffrena nel Fuoco parimenti al Lamento di Monteverdi, e di cui ci fornisce un’ampia descrizione, citando per pagine intere l’arrivo di Bacco trionfante dalle Indie (e la lacrimevole aria di Arianna Come mai puoi vedermi piangere), di cui descrive l’ingresso in scena con gran clamore di cori e strumenti. Nel libretto di Cassani compare addirittura Fedra, altra figlia di Minosse e sorella di Arianna, che viaggia sulla stessa nave, come rivale di Arianna e causa dell’abbandono di quest’ultima da parte di Teseo, il quale non vede l’ora di togliersela di torno, pur con un certo rimorso. Fedra è combattutissima. Da un lato la distrugge il tradimento verso la sorella, già tradita pure da Teseo, col conseguente distacco notturno sull’isoletta deserta, ma il fatto di amare Teseo ed essere ricambiata con ardore prevale sul rimorso. Ma l’intervento divino in quest’opera degli intrighi fa addirittura ritornare la nave di Teseo a Nasso, cosa che non si ritrova in nessuna fonte. Niente di meno. Bacco, infatuatosi di Arianna, la vorrebbe tutta per sé e si mette d’accordo con Teseo per vedere di risolvere la questione tra maschi. Arianna furente e per l’abbandono e per il doppio tradimento, sentendosi un po’ usata e abusata da tutti, ha un impeto d’orgoglio femminile e inizialmente di Bacco non vorrebbe saperne, come pure di Teseo. Però poi ci ripensa e riconosce che se perde uno sposo ne acquista un altro, forse più importante. E qui non si capisce se la tragedia diventi un’opera buffa. Comunque, anche in questo caso, il lieto fine mette a posto le cose, Teseo e Fedra partono per Atene e Bacco e Arianna si sposano tra i baccanali.

La musica di Benedetto Marcello, nel più puro stile veneziano, è assai pregevole, pur non raggiungendo le vette di Händel, e anche qui esistono arie molto ben congegnate, con strumenti concertanti, che raggiungono momenti di lirismo coinvolgenti: l’aria già citata, Come mai puoi vedermi piangere (Arianna), il pianto d’Arianna; la languida siciliana Se viver non poss’io (Fedra); l’aria tempestosa Re de’ venti (Bacco), piena di virtuosismi e salti di registro impervi per una voce di basso; Che dolce foco in petto (Arianna). Non ci sono giunte le date precise delle rappresentazioni ma si sa che si sono svolte nell’inverno tra il 1726 e il 1727. La prima pubblicazione moderna risale al 1948. Per questa ragione la descrizione che Stelio Èffrena fa nel Fuoco è di un’esecuzione assolutamente fittizia e impossibile nel 1882. L’erudizione dannunziana sciorinata nel brano letterario, con tutti i dettagli strumentali, vocali, scenici, potrebbe provenire certamente da qualche amico musicista di difficile individuazione; forse il Bossi “…direttore del Liceo musicale è all’epoca innegabilmente una via privilegiata per l’accesso alla musica antica veneziana” come suggerisce Lara Sonja Uras (Uras 2015, 55-80).

Oppure, cosa più prevedibile, potrebbe essergli capitata tra le mani una trascrizione di Oscar Chilesotti, pubblicata da Ricordi nel 1885. Si tratta di una riduzione per canto e pianoforte dall’autografo, “proprietà del signor Luigi Arrigoni di Milano”, come Chilesotti avvisa nell’introduttiva Avvertenza, dove continua:

Dal lato storico credo opportuno soggiungere che lo spartito delI'Arianna è rimasto sconosciuto a quanti scrissero sul celebre compositore dei Salmi. Il Fontana e il Caffi ne tacciono, mentre l'Allacci (Drammaturgia, ecc.), ne ricorda soltanto il libretto, poesia di Vincenzo Cassani Veneziano, edito, egli dice, senz'anno, stampatore e luogo, ma è Venezia, libretto di cui è inserita la ristampa, a cura del cav. Giovanni Salvioli, nel presente volume. – Il Fétis riproduce la notizia, fornita dall'Allacci aggiungendo solo che la musique est restée en manuscrit. – Io, parlando di Marcello nei Nostri maestri del passato, ecc., citai in proposito ciocché affermava il Fétis. Non trovo che altri, anche di recente, abbia fatto cenno dell'ARIANNA di Marcello, opera musicale interessantissima sotto ogni riguardo. Mi lusingo perciò di non aver compito un lavoro inutile concorrendo coi signori Arrigoni e Ricordi alla pubblicazione dello spartito inedito ed affatto ignoto del Michelangelo dei musicisti (Chilesotti 1885).

Da notare come lo spirito del falsario, un vero predecessore di Parisotti, fosse vivo anche in François-Joseph Fétis, il musicologo ottocentesco di cui parla Chiselotti. Difatti era lui l’autore della celebre Preghiera di Stradella che di Alessandro Stradella non era affatto, com’è stato scoperto non molti anni fa. È molto spassoso osservare come la musica barocca fosse oggetto di tali attenzioni da abili parodisti, quasi come un voler fornire alla posterità, per puro passatempo con un briciolo di sadismo, fili d’Arianna farlocchi nell’immenso labirinto della musicologia e delle attribuzioni per vedere di nascosto l’effetto che fa.

4 | Frontespizio di F.J. Haydn, Arianna a Naxos, 1789-1790.

Arianna abbandonata fu anche il soggetto di una sontuosa cantata per soprano drammatico e clavicembalo (o forte-piano), di Franz Joseph Haydn: Arianna a Naxos, su testo di anonimo, scritta a cavallo degli anni 1789-90. Restò con accompagnamento di tastiera, anche se Haydn avrebbe voluto scriverne un arrangiamento orchestrale, ma non ne fece nulla. Le orchestrazioni che esistono sono successive e in particolare è apprezzata quella del suo allievo Sigismund Neukomm. La cantata, in stile melodrammatico, è una scena di bravura da concerto, con un notevole approfondimento psicologico della protagonista. Nella pagina del titolo è indicata la collocazione della vicenda, anche se, essendo il brano in forma di cantata, quindi non in forma rappresentativa, la didascalia non era strettamente necessaria:

L’azzione Si rappresenta in una Spiaggia di Mare
circondata di Scogli. Si vedi la Nave di Teseo,
che a Vele Spiegate S’allontana dall’Isola
ed Ariana, che dorme, e Si risveglia poco a poco.
F.J. Haydn, Ariana a Naxos, London 1789-1790.

Probabilmente questa indicazione sarebbe servita per l’interprete al piano che, nella sua introduzione, avrebbe potuto e saputo ricreare queste immagini o ispirarsi ad esse per preparare il carattere del canto. Haydn valorizza ogni parola del testo, a cominciare dal risveglio, in cui Arianna chiama Teseo, senza immaginare che si sia defilato per sempre. L’introduzione pianistica in Mi bemolle maggiore, Largo e sostenuto, immette subito nell’atmosfera: l’incertezza delle parole di Arianna, il risveglio dal sogno, l’invocare Teseo con dolcezza, come se si fosse allontanato momentaneamente per andare a caccia, ma manifestando il desiderio di non poter fare a meno un sol momento dello sposo e offrendosi a lui come preda migliore delle fiere, con amplessi erotici intensi di desiderio.

L’accompagnamento, delicatissimo, è in perenne dialogo colla voce, assecondando e prevenendo gli affetti del momento con maestria consumata. L’alternarsi di recitativi e arie forma quattro sezioni, dove ogni affetto ha il suo pieno sviluppo. La prima aria, in Si bemolle maggiore, è un Largo le cui battute iniziali sembrano rimandare alla languida aria della Contessa d’Almaviva nelle Nozze mozartiane, “Dove sono i bei momenti / di dolcezza e di piacer?” ecc. La metrica dell’aria, d’altro canto, è uguale: “Dove sei, mio bel tesoro / Chi t’invola a questo cor?” ecc. Un ottonario seguito da un settenario (o un ottonario tronco) e il carattere della domanda di entrambe è assai affine: sono due donne tradite, in conclusione, la prima consapevole, la seconda non ancora, ma entrambe continuano ad amare. Nella Contessa c’è il rimpianto di un tempo perduto, di promesse non mantenute, in Arianna c’è l’inquietudine per l’assenza dell’amato: nell’aria, Arianna invoca ancora Teseo, cercandolo intorno a sé, con malinconici accenti, pregando i numi di aiutarla a trovarlo, ma senza ancora realizzare l’abbandono. Il recitativo successivo è il momento in cui comincia a percepire la frode. Dapprima la consapevolezza che Teseo non c’è, poi l’accorgersi della nave che si allontana, la presa di coscienza di essere stata abbandonata, l’incredulità, il furore. L’accompagnamento asseconda mirabilmente questo sconquasso interiore, con figure musicali di concitazione, accordi tragici, imitazioni in eco, singhiozzi in contrattempo colla voce. Il nome Teseo, ripetuto nella disperazione, da nome d’amante si muta immediatamente in un nome detestato per l’inganno tremendo e inaspettato. Gli accordi, le volate e gli arpeggi del piano sono come frecce che arrivano da dovunque e trafiggono Arianna dolente e furente. Immediatamente arriva lo smarrimento e la desolazione, che concludono il recitativo:

A chi mi volgo?
Da chi pietà sperar?
Già più non reggo, il piè vacilla
E in così amaro istante
Sento mancarmi in sen l’alma tremante.
F.J. Haydn, Ariana a Naxos, London 1789-1790.

Versi cantati sottovoce, mentre il piano accompagna come se sostenesse il respiro che si spezza per la sofferenza, quasi fosse uno specchio immaginario dove Arianna mira la propria solitudine e l’angoscia che avanzano a passi tardi e lenti dentro di sé. L’aria che segue Ah! Che morir vorrei in sì fatal momento mantiene questo carattere e anche qui l’accompagnamento pianistico supporta la voce emotivamente, raggiungendo altissimi vertici espressivi: la protagonista manifesta la voglia di finire la sua vita ed equivale al Lasciatemi morire! dell’Arianna monteverdiana. Di lì a poco, la stretta finale, un Presto in fa minore, alterna l’autocommiserazione e il furore contro Teseo e la rabbia per non riuscire a comprendere perché gli dèi le siano stati così avversi da permettere una simile barbarie e infedeltà. La disperazione è totale.

Qui finisce la scena. Non si sa se Bacco la sposerà, se qualcuno la salverà, se Arianna si ucciderà. Esattamente come nell’Epistola X di Ovidio. Come in tutte le sue prime Eroidi, potremmo dire, perché il carattere di disperazione delle eroine abbandonate – Penelope, Didone, Fedra, Fillide, Briseide – ha il denominatore comune della solitudine femminile, l’esplorazione di un universo fatto di attese e sogni infranti, di letti vuoti, di compiti maschili irrisolti, dove il destino di donne adoperate dagli uomini e dagli dèi le sovrasta, dove non c’è volontà umana che tenga per salvare quei sentimenti. Semplicemente, nel mondo antico, non è possibile, anche se la forte dignità delle donne si erge titanica contro la disattenzione maschile e divina rendendole delle eroine. La loro desolazione è variamente declinata in ogni personaggio e giunge al culmine in Arianna, per l’abbandono ingiusto e ingannatore, senza alcun avvertimento da parte dell’amato, e il piccolo grande capolavoro di Haydn è una delle migliori realizzazioni del monologo.

A Londra, dove Haydn era di casa, Arianna a Naxos fu presentata numerose volte dal castrato Gaspare Pacchierotti, negli ultimi concerti d’addio nella capitale inglese, dove fu amatissimo e stimato esecutore di opere e di concerti, con Haydn stesso al fortepiano. Le doti di soprano del castrato, che era famoso per il suo canto di espressione, pur capace di arditi vocalizzi, sembravano fatte apposta per questa cantata, piena di affetti contrastanti. In Italia la cantata ebbe pure grande fortuna e fu molto ammirata da Gioachino Rossini.

Il Lamento d’Arianna monteverdiano resterà comunque un’altra cosa. È un ritratto femminile sonoro di una galleria musicale, come la Gioconda al Louvre, come la Dama con l’ermellino al Museo Czatoryski, come Flora agli Uffizi, possiede una sua vita autonoma. E, infatti, Monteverdi stesso lo comprese pubblicandolo più tardi in una raccolta di arie a voce sola con basso continuo e pure come madrigale a cinque voci. La fortuna del Lamento d’Arianna monodico si trasmise attraverso i secoli e, in seguito al repêchage di Parisotti, trovò addirittura un arrangiatore d’eccezione in Ottorino Respighi che ne fece un’armonizzazione e orchestrazione per voce e orchestra, abbastanza pesante e di difficile esecuzione: il recitativo soffre in mancanza di autonomia ritmica, la prosodia è appesantita da un solfeggio obbligato dallo spessore orchestrale assolutamente invadente e totalmente inventato. Alla fine, nell’originale di Monteverdi a noi giunto, la voce è sola, libera, con un basso continuo che unicamente ne sostiene l’armonia, e quindi esprime al meglio la totale desolazione di Arianna, non c’è altro mezzo che la propria voce per riempire il vuoto creatole intorno dal totale crollo del suo mondo in un solo istante. Nella versione respighiana, al contrario, la folla di strumenti produce un gran fracasso, anche con tonalità azzardate, intorno alla povera Arianna, intenta a esprimere il proprio disagio, e riduce notevolmente l’efficacia della recitazione. L’esecuzione avvenne nel 1908 a Berlino e fu affidata al celebre contralto Julia Culp, mentre Artur Nikisch dirigeva. E pare che piacque assai, con note di merito per il compositore. Respighi s’inseriva così alla perfezione nella Monteverdi Renaissance dell’inizio del XX secolo, che vide la pubblicazione integrale dell’opera del cremonese a cura di Gian Francesco Malipiero. Caldeggiata, quest’ultima, ça va sans dire, da D’Annunzio. In seguito Respighi orchestrò anche L’Orfeo monteverdiano, in un’obsoleta versione oggi improponibile, come pure il Lamento. D’altro canto Respighi, come scrisse egli stesso a proposito della realizzazione di Orfeo, non andò a ricercare lo strumentale originale, archeologicamente, ma pensò di aver “intuito” il colore drammatico della strumentazione e lasciò briglia sciolta al suo sinfonismo postwagneriano. Respighi non fu l’unico ad accanirsi su Orfeo, anzi, tutta una serie di Orfei, nel Novecento, vennero riveduti e “scorretti”. La prima rappresentazione moderna italiana dell’Orfeo si vide il 9 settembre 1909 al Conservatorio di Milano, nella revisione (meglio chiamarlo stravolgimento) di Giacomo Orefice e colla direzione musicale di Giacomo Zanella.

Il frammento dell’Arianna, alla fine, per Respighi fu quasi un esperimento propedeutico all’opera intera successiva. Proprio l’opposto di ciò che D’Annunzio auspicava (sempre nel Fuoco), coll’elogio della semplicità del melodramma fiorentino, dove veniva valorizzato il silenzio al posto del clamore wagneriano. Oggi l’esecuzione del brano di Respighi è più una curiosità storica che altro. Anche se preferiamo, senza dubbio alcuno, i magnifici Pini di Roma, va riconosciuto a Respighi il merito di un risveglio dell’interesse verso tutto il repertorio antico, la riesposizione e la valorizzazione di opere che altrimenti sarebbero rimaste nell’oblio, anche se generalmente poco importava, ai primi del Novecento, la loro realizzazione secondo schemi filologicamente plausibili. Ciò porterà, ad esempio, nella prassi esecutiva della polifonia, soprattutto madrigali a più voci di qualsiasi compositore, a privilegiare per lungo tempo l’uso dei cori al posto delle voci reali, pratica oggi ancora in uso ma sempre meno frequentemente. Equivarrebbe a far eseguire un quartetto d’archi da un’orchestra, falsando la lettura delle singole parti e del complessivo effetto. Analogamente i concerti barocchi di Bach, Vivaldi, Albinoni, fino a non molti anni fa erano eseguiti unicamente con delle vere orchestre sinfoniche, con una mole sonora invadente rispetto ai solisti e con un rapporto falsato di tempi, volumi e fraseggi, problemi che l’uso di strumenti moderni non consentiva di affrontare. E così avvenne anche per il Lamento d’Arianna di Monteverdi nella forma di madrigale a cinque voci.

Questo dilemma evidentemente non se lo ponevano Respighi e altri autori che riorchestrarono danze e opere del Cinquecento e del Seicento secondo il gusto corrente. Uno sguardo approfondito sui criteri filologici dei primi del Novecento nell’affrontare repertori antichi, Monteverdi in particolare, lo offre un ricco e accurato studio di Paolo Giorgi: L’“Incoronazione di Poppea” di Gaetano Cesari: Monteverdi in un’inedita versione novecentesca (Giorgi 2010). In questo studio si descrive il massacro musicale operato a Parigi nel 1908 (lo stesso anno del Lamento d’Arianna respighiano) da Vincent D’Indy sulla Poppea, creando tutt’altra opera, traducendola perfino in francese, e, al contempo, si riscopre il nobile tentativo del musicologo e filologo Gaetano Cesari di muoversi verso un recupero più aderente all’originale, riesumando perfino strumenti musicali arcaici. Tentativo rimasto comunque quasi del tutto isolato nello scempio che dei melodrammi seicenteschi è stato fatto per buona parte del XX secolo, tra voci inadatte e strumentali improbabili.

Tutt’altro genere, a tre secoli di distanza dagli albori del melodramma ma contemporaneo di Respighi, è il caso di Ariadne auf Naxos dell’affiatata (non senza contrasti) coppia Richard Strauss – Hugo von Hofmannsthal. E qui si chiude il cerchio, mescolandosi a D’Annunzio e al wagnerismo contestato all’inizio di questa esplorazione mitologico-musicale. Si potrebbe dire che la coppia Strauss-Hofmannsthal abbia messo insieme appositamente opera seria e opera buffa sul soggetto del mito di Arianna. In realtà il mito è strumentale al pasticcio che costituisce l’opera, un prodotto eterogeneo che comprende tante cose, opera da camera, commedia, opera seria, opera buffa, quasi operetta, con citazioni e autocitazioni, e un testo bizzarro e assai teatrale. Ma, soprattutto, da Strauss e Hoffmannsthal viene messo in scena il Settecento, con tutte le implicazioni possibili del concetto stesso di Settecento, dal barocco al rococò al neoclassicismo comprendendo la valenza che il Settecento assume per i due autori lì e allora.


5 | Bozzetto di E. Stern del costume di Arianna per l’Ariadne auf Naxos di H. von Hofmannsthal e R. Strauss.
6 | Frontespizio di Ariadne auf Naxos di H. von Hofmannsthal e R. Strauss, 1916.
7 | Bozzetto di E. Stern del costume di Bacco per l’Ariadne auf Naxos di H. von Hofmannsthal e R. Strauss.

Il pensiero era venuto a Hofmannsthal, a cui Strauss scrive una lettera da Garmisch il 17 marzo 1911, smanioso di ripetere l’enorme successo del Rosenkavalier (Il Cavaliere della rosa), opera scritta in tandem col vate austriaco, a proposito dell’idea del poeta su una cosetta di Molière (Hoffmannsthal, Strauss 1993, 119-120). La “cosetta” di Molière, come Hofmannsthal chiarisce in due lettere a Strauss da Rodaun il 20 marzo e il 15 maggio 1911 (Hoffmannsthal, Strauss 1993, 120-122 e 124-126) era in realtà l’inserimento di un’Ariadne auf Naxos in un adattamento in lingua tedesca in due parti del Borghese gentiluomo di Molière, tutto ambientato nella Francia del Seicento, mescolando di continuo personaggi tragici a maschere della commedia dell’arte. A Strauss l’idea del teatro nel teatro piacque e soprattutto piacque la dimensione cameristica del teatro a lui che era abituato a maneggiare orchestre gigantesche, nella tradizione postwagneriana. La commedia, senza soluzione di continuità, doveva sfociare nella rappresentazione dell’Ariadne dopo la cena di Mr. Jourdain, cosa che nell’originale di Molière non esiste. Le gradevoli musiche di scena per la commedia, tutto un susseguirsi di danze barocche rivisitate da Strauss erano solo un assaggio della vera opera. La composizione fu ultimata a Garmisch il 22 luglio 1912 e andò in scena il 25 ottobre successivo a Stoccarda, al Königliches Hoftheater, con la regia di Max Reinhardt, che entrambi gli autori ritenevano fondamentale per la riuscita. Ma la rappresentazione non ebbe quella che si dice un’accoglienza trionfale, e, soprattutto, Hofmannsthal fu un po’ contrariato che l’opera ricevesse più consensi della commedia che spesso era rappresentata un po’ sommariamente e con traduzioni diverse. Fu così che propose a Strauss una totale rielaborazione dell’opera, dando maggiore omogeneità al tutto, ambientandola a Vienna nel Settecento, in casa di un ricco signore, il quale pretendeva di far rappresentare contemporaneamente l’opera tragica e l’opera comica.

Il Settecento era assai simbolico per entrambi gli autori: era stato il secolo d’oro di Vienna, già corteggiato e trionfalmente espresso nel Rosenkavalier come temps perdu, e che sarebbe stato ritrovato ancora nella produzione straussiana (il tardissimo Capriccio, 1941, ispirato all’opera di G. Battista Casti e Antonio Salieri Prima la musica, poi le parole, eterno duello tra i due elementi fondamentali che compongono un’opera, unificati dalla rappresentazione teatrale). Era, il loro, un Settecento ben preciso, ossia quello teresiano e giuseppino, dove agivano Haydn, Mozart, Salieri, punto fermo di riferimento e modello ideale per esprimere la malinconia nel disagio strisciante e occulto dell’epoca contemporanea, che sarebbe culminato colla fine della Belle époque e il disastro mondiale della Grande Guerra. E infatti la seconda versione dell’Ariadne auf Naxos ebbe luogo a guerra iniziata, alla Wiener Staatsoper il 4 ottobre 1916, poco dopo la fine della composizione (1915) di quel monumentale delirio simbolico-orientalista che è Die Frau ohne Schatten (La donna senz’ombra), rappresentata esattamente tre anni dopo nello stesso teatro a Vienna, a guerra finita.

Il ritorno alla classicità olimpica pur giocosamente minata dalla commedia dell’arte, frullate insieme per sancire l’indissolubilità dei due aspetti della vita e dell’arte, è una delle più riuscite creazioni della coppia artistica. Anche qui, come nel Rosenkavalier, la nostalgia per un’epoca irrimediabilmente perduta ma sempre presente come un fantasma protettivo è trasfigurata nelle vicende dei personaggi che affollano l’opera e che ne sdrammatizzano i momenti più seriosi con frizzi e lazzi. Senza alcun intento palesemente reazionario, la sempreverde voglia di Vienna di divertirsi con polke veloci e valzer aleggia costantemente nell’aria, nonostante l’imminente fine, prevedibile ma psicologicamente inaccettabile, del glorioso e plurisecolare impero asburgico.

L’orchestra dell’Ariadne è un’orchestra da camera, arricchita con percussioni e tastiere in voga, come il Glockenspiel, la celesta e l’harmonium, legni, ottoni e un uso protagonistico del pianoforte, che invade la partitura e determina coloristicamente il carattere intero dell’opera. Il Prologo si svolge quindi in casa del ricco viennese, che non si vede mai e che parla per bocca del Maggiordomo, il quale esprime via via i desideri del committente, e vi si mostrano gli artefici di un’opera al lavoro: il maestro di musica, il compositore, il tenore e la primadonna (che poi diventeranno Bacco e Arianna nell’opera vera e propria), le maschere, il maestro di ballo, il parrucchiere, in un perenne rincorrersi e dialogare sulle mille difficoltà e compromessi a cui si deve sottostare quando c’è una committenza. E qui, inevitabilmente, viene in mente Il teatro alla moda, libello satirico di quel Benedetto Marcello (Marcello 1720) della cui Arianna abbiamo scritto in precedenza, con tutti i vezzi e i dispetti tra artisti, ballerini, compositori, committenti, pubblico, specchio sarcastico di un mondo che ha riprodotto se stesso per secoli e che ancora oggi è caratterizzato da una parte di pettegolezzi e di fatuità. Tutto ciò viene visto con occhio nostalgico e ironico dai due autori e le citazioni frammentarie da parte dell’uno e dell’altro (Mozart, soprattutto) non si contano.

8 e 9 | Bozzetti di scena di E. Stern per l’Ariadne auf Naxos di H. von Hofmannsthal e R. Strauss, 1916.

Il Prologo ruota intorno alla figura del Komponist, il Compositore, cantato en travesti da un mezzosoprano, altro vezzo settecentesco per designare un personaggio maschile giovane, un eroe androgino ma non fino in fondo, in questo caso, come già fu per il personaggio di Octavian nel Rosenkavalier, quasi ombra distopica del mozartiano Cherubino delle Nozze. Ecco quindi le immense difficoltà del Compositore, artista completo e puro, che si dispera per i continui compromessi a cui è obbligato, che cede al fascino femminile mutevole di Zerbinetta, la seconda donna e soubrette dell’opera, una Despina (Così fan tutte) ancora più esperta e perfida, in realtà la vera primadonna. Zerbinetta lo seduce, convincendolo che fare una commistione di tragedia lirica e opera buffa è possibilissimo, per poi abbandonarlo nella disperazione desolata una volta ottenuto lo scopo.

L’opera si apre col magnifico trio delle ninfe Driade, Najade ed Echo, dal sapore madrigalesco, che commentano i lamenti e i singhiozzi della principessa sedotta e abbandonata, la quale si desta dal suo sogno funesto che non ricorda a causa dello sconvolgimento in cui si trova. Lo schema sembra ripetere quello del Lamento della Ninfa di Monteverdi, coi tre commentatori in disparte (qui le tre ninfe) mentre la protagonista piange il suo amore infelice.

La confusione dei sentimenti all’inizio del suo monologo, d’altro canto, ha sempre caratterizzato Arianna nelle sue varie incarnazioni, da Monteverdi in poi. Poco dopo, fanno da contrappeso buffo alle tre ninfe e al loro canto etereo le maschere della commedia dell’arte Arlecchino, Truffaldino e Brighella, che commentano cinicamente gli inutili lamenti di Arianna, la quale continua la sua scena madre con tutte le arti tragiche disponibili, citando anche temi musicali presenti nell’ouverture. Qui Arianna cerca il tempo perduto, la giovinezza, un tema ricorrente nei personaggi straussiani e hoffmannsthaliani, basti pensare al monologo della Marescialla, in Rosenkavalier, dove la dama, guardandosi allo specchio, si rende conto di essere invecchiata improvvisamente. Il registro vocale e il carattere sono gli stessi per entrambi questi ultimi due personaggi, una sorta di Contessa mozartiana, come abbiamo già visto per l’Arianna in Naxos di Haydn. Spinto da Zerbinetta, Arlecchino intona per Arianna un Lied-serenata, coll’espediente barocco dell’aria con eco, altra reminiscenza arcaica volta in moderno, ma viene del tutto ignorato da lei, che poi era la Primadonna del Prologo, assolutamente indignata col maestro di musica per dover condividere la scena con quei saltimbanchi e che continua la sua indignazione e sufficienza durante l’opera. Fiato sprecato, quello di Arlecchino.

Arianna invoca Hermes, che guida gli spiriti colla sua verga: “Bald aber naht ein Bote, / Hermes heissen sie ihn. / Mit seinem Stab / Regiert er die Seelen” (“Ma ecco che un araldo arriva, / Hermes si chiama. Colla sua verga / dirige gli spiriti”). Le maschere, dopo il fallimento della serenata, coll’aggiunta di Scaramuccio e successivamente di Zerbinetta, provano a divertirla con danze e capriole per farle dimenticare l’amante fedifrago. Il quartetto vocale maschile, con temi dall’aroma giocoso ed effervescente tipico della regina delle operette viennesi, Die Fledermaus (Il pipistrello) di Johann Strauss jr., si rifà, nel trattamento delle voci, ai cori virili di tradizione germanica, aggiungendovi la componente goliardica dei cori universitari, e sembra quasi un’anticipazione di quel quintetto maschile tedesco che pochi anni dopo, dal 1928 al 1935, avrà un successo planetario: i Comedian Harmonists.

Niente da fare, le smancerie delle maschere continuano a non scalfire il rigore di Arianna. Zerbinetta scaccia le maschere e decide di prendere in mano la situazione, da donna a donna e, con una (straordin)aria di bravura, irta di difficoltà, si rivolge all’eroina, spingendola a orientarsi verso altri spasimanti, come lei stessa ha sempre fatto e nutrendo così il luogo comune della soubrette mangiatrice di uomini.

La lunga scena Grossmächtige Prinzessin (Potentissima principessa) è l’unico pezzo chiuso dell’opera, scritto secondo i canoni classici, recitativo, aria e rondò finale, e qui il tessuto strumentale cameristico, dove il pianoforte ha un ruolo timbrico e armonizzante insolito in un’opera, è assolutamente evidente. Questo brano, una sorta di contraltare al remoto Lamento d’Arianna monteverdiano, è l’unico di quest’opera che viene eseguito ancora oggi in forma d’aria da concerto dai soprani di coloratura e, come anche il Lamento, non fa sentire la mancanza del contesto drammatico. Zerbinetta, parodiando la “potenza” della principessa (grossmächtig è un appellativo che si dà ai potenti per lusingarli), che in realtà non può più niente, essendo lì sola, perduta e abbandonata su un’isoletta, suggerisce qui ad Arianna che non è l’unica, né mai lo sarà, a essere stata ingannata dagli uomini e, su un tema dal sapore mozartiano, racconta di come furono le sue storie con Pagliazzo e Mezzettin, con Cavicchio, Burattin e Pasquariello: in pratica di come volgere in positivo la vita anche quando ci sembra di vederla crollare. Poi conclude col suo rondò “Als ein Gott kam jeder gegangen” (“Ognuno si avvicinava come un dio”) pieno di arditissimi vocalizzi, per finire con “Kam der neue Gott gegangen, / Hingegeben war ich stumm!” (“Ogni volta che il nuovo dio arrivava, io mi arrendevo in silenzio”), come a dirle: “smettila di lamentarti tanto, o potentissima, vedrai che col primo che arriva ti dimenticherai subito il precedente”. E qui Strauss e Hoffmannsthal citano un altro fantasma (ribaltato) mozartiano e viennese, pur senza l’esaltata invettiva del soprano, ossia la scena tra Fiordiligi (con Dorabella, Don Alfonso e i due spasimanti muti) e Despina, che aveva spinto gli amanti verso di lei, nel primo atto di Così fan tutte: “Come scoglio immoto resta / contra i venti e la tempesta”. Arianna per tutta risposta a Zerbinetta-Despina, si rintana nella sua grotta, sdegnata.

Le maschere sono rassegnate all’insuccesso. Ma ecco che s’ode a destra uno squillo di tromba e le ninfe tornano ad annunciare l’arrivo di Bacco trionfatore. L’ironia di Strauss si vede anche nell’affidamento a una voce di Heldentenor wagneriano di un ruolo che sarebbe dovuto essere cantato da un tenore più lirico, maggiormente idoneo a caratterizzare la natura fanciullesca del personaggio. Una voce scura e potente come quella del tenore eroico è una chiara presa in giro dell’opera seria.

Subito il dio scambia Arianna per Circe, ai cui incantesimi è riuscito a sfuggire, mentre Arianna, sempre in preda allo sconvolgimento, lo scambia per un messaggero di morte e poco dopo ravvisa in lui nientemeno che Teseo. I malintesi reciproci continuano: non sei Teseo ma sei comunque un messaggero di morte, sei ancora un inganno di Circe, e così via, in un lungo duetto-commedia degli equivoci. Dopo gli equivoci, come solo nelle opere liriche succede, tra i due comincia a sbocciare gradualmente l’amore, Teseo e Circe sono ormai un lontano ricordo e tutto termina nell’apoteosi, mentre il baldacchino si chiude e Zerbinetta, burattinaia della vita e degli uomini, ripete le parole finali del suo rondò, traendone trionfante la morale: ogni volta che il nuovo dio arrivava io mi arrendevo in silenzio…

Ecco quindi la rivincita dell’opera giocosa e dell’atmosfera danubiana, falsa spensieratezza, in realtà, un ultimo abbraccio affettuoso e ironico a un tempo ormai irraggiungibile, sul cupo e parossisteroico dramma wagneriano e proliferazioni, dove la leggerezza è sconosciuta. Ironia che serviva a esorcizzare il museo delle cere che l’Austria era diventata nel XIX secolo, sia sul piano spirituale sia su quello politico. Monumentale, certo, ma sempre e solo barocca. Ben poco di tutto ciò che era accaduto a Parigi, con radicali cambiamenti urbanistici, sociali, filosofici, morali, aveva toccato Vienna nel XIX secolo, che restava comunque la città della Restaurazione del 1815 e maggiormente dopo il 1848. Uno specchio di tre diversi modi di vedere la società borghese europea del secolo lo dà l’operetta, la società dello spettacolo, come sempre più avanti di quella reale, perché stigmatizza quella società. I tre massimi autori, Jacques Offenbach, Arthur Seymour Sullivan e Johann Strauss jr. rappresentarono esattamente le loro società corrispondenti. Mentre Offenbach e Sullivan spiccavano per i forti intenti satirici e di caricatura sociale, gremiti del cinismo caratteristico di metropoli in evoluzione e perenne cambiamento come Parigi e Londra, nulla di tutto ciò esiste – impensabile a Vienna, con una censura imperiale tra le più severe –, nelle operette di Johann Strauss, pur divertenti ma di maniera. Ornamentali. Come Vienna. E ciò, ovviamente, stratificandosi, sfociò nella forte rottura rappresentata da tutti i movimenti artistici e culturali a cavallo dei due secoli, in contrasto con questo passato museale che perpetuava in maniera esasperata (e parodistica senza averne coscienza) il Biedermeier. Non a caso Ornamento e delitto, di Adolf Loos, arrivò nel 1908, quasi come un sipario sull’orpello decorativo, considerato ormai “inutile”.

Hugo von Hoffmannsthal, Richard Strauss (pur bavarese, quindi con un punto di vista esterno), Joseph Roth, Gustav Mahler, Sigmund Freud, Gustav Klimt, Egon Schiele, Oskar Kokoschka, Robert Musil, Arthur Schnitzler, Arnold Schönberg, Alban Berg, Karl Kraus, e molti altri furono i cantori della “Finis Austriae o Gaia apocalisse” – come ebbe a definire felicemente e posteriormente Hermann Broch – che sarebbe arrivata di lì a poco, rendendo ufficialmente museo e kitsch, fino ad oggi, il valzer, Sissi e certo Settecento. Ariadne auf Naxos fu, di questo “laboratorio sperimentale della fine del mondo” – come suggerito da Karl Kraus (Kraus 1914) –, forse l’ultimo paradigma giocoso.

Forse anche il fatto che L’Arianna fosse una delle prime opere in assoluto, peraltro perduta tranne il famoso Lamento della protagonista, cosa che rendeva l’opera ancora più misteriosa e affascinante, fu uno degli spunti d’interesse per alcuni intellettuali alla fine dell’Ottocento. Alla fine, si potevano solo formulare ipotesi su come fosse e perché ebbe un tale successo e porgeva ai più arditi su un vassoio d’argento ricostruzioni e ipotesi esotiche, come quella di Parisotti. Era, forse, anche un po’ una nostalgia dell’antiquariato, in quell’epoca di recuperi e di radici lontane. Non dimentichiamo le passioni di Sigmund Freud per la mitologia classica e il suo collezionismo di antichità, i complessi che nominò con personaggi mitologici perché trovò in quelle leggende gli archetipi dei comportamenti umani moderni. Il filo d’Arianna era, per Freud, il cordone ombelicale, il labirinto i visceri e tutto il mito di Teseo e Arianna è il racconto di un parto dopo un’indagine nel labirinto ipogeo della vita. E il mito sarà sviluppato, in seguito, in molte versioni e varianti, in chiave simbolica e psicanalitica. Jorge Luis Borges e Friedrich Dürrenmatt in due racconti, La casa de Asterión (Borges 1947) e Minotaurus. Eine Ballade (Dürrenmatt 1985), affrontarono il tema del Minotauro mettendo in risalto la metafora che rappresenta: la solitudine umana in un labirinto senza porte ma con cunicoli bugiardi, l’incomunicabilità. Il labirinto di specchi di Dürrenmatt, che ripete all’infinito la figura della creatura biforme, riflette l’autoreferenza del Minotauro, del mostro che ognuno di noi è ed è anche il rifugio dalla realtà in cui ci s’inabissa quando non si vuole accettarla. Il Minotauro si aggira nell’oscuro labirinto dell’Es, pronto a divorare le vittime sacrificali dei nostri pensieri e delle nostre voglie che gli presentiamo quotidianamente: solo se riusciremo ad affrontarlo e a combatterlo a mani nude come Teseo e, soprattutto, se raggomitoleremo il filo di Arianna, cordone ombelicale che ci lega alla madre-guida, per abbandonare in seguito (in Nasso, ossia in una cassetta di sicurezza senza chiave) il conforto domestico, una volta cresciuti potremo iniziare la nostra vita autonoma.

Il labirinto, forse, più che i visceri è il cervello, con tutte le sue circonvoluzioni e le sue stanze segrete e mortali, i suoi specchi e i vicoli ciechi, i diversi piani della memoria che ci confondono e ci fanno apparire cose che non sono, una scatola magica e misteriosa tutta da rigovernare che non si finisce mai di esplorare e che ci fa credere di vivere in luoghi straordinari, ma che dovremmo esplorare solamente col gomitolo in mano che, solo, ci consente di ritrovare la via d’uscita al momento giusto.

Arianna, traditrice del fratellastro Asterione, presenza esterna e vitale che aiuta a evadere dalla prigione, uccidendo il mostro che ci avvelena colle sue pulsioni ancestrali e bestiali, oppure conformismo che ci fa sopprimere quel poco di libertà che abbiamo nella nostra labirintica intimità? Un soggetto per una nuova opera oggi, scevra da decorazioni.

10 | E. De Morgan, Ariadne in Naxos, olio su tela, 1877, De Morgan Centre, London.

Bibliografia
Fonti
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English abstract

The myth of Ariadne, echoing the tradition of Ovid, Catullus and other sources, was one of the preferred themes of opera writers. Over the centuries, opera composers interpreted the two parts of the myth differently – whether in Crete or Naxos – in librettos often very far removed from the original myth, in accordance with the prevailing tastes of the times. Sometimes the boundary between comedy and tragedy is very fine. In this essay, it is possible for the reader to follow a path, a veritable Ariadne’s thread, in order to explore and understand the many Ariadnes through the labyrinth of the History of Music, from Monteverdi to Strauss, and the Ariadnes also mentioned in novels and poems and in the lesser-known operas.

Keywords | Ovid’s myth of Ariadne; Ariadne in music; Monteverdi’s Ariadne; Strauss’ Ariadne.

Per citare questo articolo: Massimo Crispi, Arianna dalle belle trecce. Lamenti, arie, vocalizzi e scene madri in Creta e in Nasso, “La Rivista di Engramma”, marzo 2019, pp. 185-221 | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2019.163.0012