"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

166 | giugno 2019

97888948401

Fare comunità nei tempi della simultaneità

In risposta a 11 domande su Olivetti

Aldo Bonomi*

English abstract

*Aldo Bonomi è sociologo. Fondatore e direttore dell’istituto di ricerca Consorzio A.A.S.TER., si occupa di comunità e territori. Ha scritto con Alberto Magnaghi e Paolo Revelli, Il vento di Adriano. La comunità concreta di Olivetti fra non più e non ancora (Roma, 2015).

[Redazione di Engramma] Come va interpretata l’idea di Comunità olivettiana rispetto al dibattito attorno al conflitto tra società e comunità che costituiva sino a poco tempo fa il fronte tra politiche di sinistra e politiche di destra?

Il Movimento Comunità nacque nell’epoca di maggior forza del partito di massa rimanendo senza spazio politico. Oggi lo spazio potenzialmente potrebbe esserci: il partito di massa è tramontato, la socialdemocrazia è senza socialismo e il comunismo è morto. Una ipotesi comunitarista democratica dovrebbe però ragionare in primo luogo sulle proprie basi sociali. Questo il tema su cui ragionare: cosa vuole dire comunità e cosa vuole dire comunitarismo democratico nell’età dei ceti della conoscenza? Da un lato, la grande fabbrica si è diffusa nel territorio e difficilmente riesce a fare da motore di integrazione come nel disegno olivettiano. Dall’altro lato, assistiamo alla moltiplicazione della capacità critica della persona-cittadino organizzata in una moltitudine di gruppi, movimenti, lobby: la capacità cognitiva-organizzativa della società civile è enormemente cresciuta e sono soprattutto i nuovi ceti medi riflessivi a utilizzare questo potenziale. Questo potenziale è stato in parte intercettato e unificato via web dal grillismo.

E dunque: che cosa ha a che fare Olivetti e il suo pensiero comunitario con la politica odierna senza partiti di massa? Ci può indicare una via alternativa rispetto alla pura comunicazione come reinvenzione della comunità e del popolo nella simultaneità del web o dei media, oppure rispetto alla reinvenzione della comunità chiusa in chiave nazionalista quale sembra riproporsi nel nuovo leghismo di Salvini. Inoltre il personalismo come visione adatta a intercettare una composizione sociale di impresa personale diffusa che oggi si percepisce oppressa dal pensiero tecnocratico; la comunità non come fatto nostalgico o localista ma come geocomunità, ovvero progetto intenzionale capace di promuovere integrazione sociale a corto raggio e integrazione istituzionale a medio-lungo raggio, ha bisogno dell’elemento territoriale e della concretezza dei gruppi sociali che in esso sono presenti: non può vivere nello spazio di pura virtualità del web.

Riguardo all’oggi il punto su cui concentrare l’attenzione è il ruolo della comunità come base per rifondare un principio di rappresentanza e una politica che riescano a mediare tra dinamiche dei flussi globali e sistemi locali. C’è dunque da considerare in primo luogo il salto di paradigma avvenuto con il passaggio di secolo: caduta del conflitto capitale e lavoro organizzato e gestito dalle rispettive rappresentanze e dalla centralità dello stato democratico che mediava e redistribuiva, ed emergere di una nuova dialettica sociale e politica tra flussi globali e società locali. Non solo la Rete emerge come dispositivo comunicativo simultaneo e globale, ma cambiano anche le basi sociali della politica con la centralità partecipativa di un nuovo ceto terziario di massa caratterizzato però da una critica diffusa ai gruppi dirigenti politici.

[RE] Che legame esiste (se esiste) tra le esperienze di comunitarismo produttivo come i villaggi operai di Saltaire in Inghilterra, Mulhouse in Francia, Crespi d’Adda e Schio in Italia e l’esperienza Olivetti?

Negli stabilimenti di Ivrea Olivetti istituì un articolato sistema di servizi, dall’assistenza alla maternità e all’infanzia, all’assistenza sanitaria e sociale all’istruzione professionale e ai servizi culturali. I suoi discorsi e i suoi scritti, Ai lavoratori e Le fabbriche di bene, sono eterotopicamente pervasi da una filosofia di cogestione operosa attuale per l’oggi, ma inattuale allora, ove prevalse il paradigma conflittuale e fordista capitale/lavoro e Stato in mezzo. Non fu l’unico caso. Anche se segnato da una visione decisamente più paternalistica di welfare aziendale, basta ricordare la ‘città sociale’ voluta da Gaetano Marzotto a Valdagno, più dall’alto che dal basso, con le case dei dirigenti poi quelle degli impiegati e infine le case popolari per gli operai; e la politica di Mattei nelle relazioni industriali – fra i primi a capire che il benessere della vita privata e lavorativa delle persone costituisce un vantaggio competitivo e uno strumento di condivisione degli obiettivi aziendali.

Ma oltre questi grandi esempi storici occorre tener conto anche delle esperienze di territorio: i distretti e l’evoluzione di quelle forme di prime mutue e cooperative in un robusto tessuto di imprese, che caratterizzano il nostro capitalismo. Nei distretti sia Becattini che Bagnasco ritrovano, partendo dall’antropologia del fare impresa come progetto di vita, tracce di comunità che rimandano a un welfare aziendale informale, mai codificato, fatto di scambi di saperi contestuali e formali e di una solidarietà dentro le mura delle piccole imprese tra padroncini e operai. Così come sono importanti le tracce di welfare aziendale che si sono evolute in forme mutualistiche e cooperative.

Questo sguardo all’indietro per andare avanti mi pare utile, essendo convinto che senza Olivetti non potremmo parlare oggi di esperienze di welfare aziendale come Ferrero o Lavazza nel Nord Ovest, senza Marzotto non potremmo stracitare il welfare aziendale di Del Vecchio e Luxottica, senza Mattei e il suo innovare relazioni industriali non potremmo fare riferimento al recente contratto di Federmeccanica che ha negoziato il welfare aziendale. Senza i distretti e le tracce di comunità locali non potremmo citare, come facciamo sempre, la collina di Cucinelli a Solomeo come una comunità operosa. E senza le radici nella cooperazione non potremmo citare esperienze come Conad che imposta la distribuzione commerciale avendo nella comunità locale e nella prossimità fattori di coesione e di competizione.

[RE] Quale la funzione degli intellettuali e del ‘lavoro’ intellettuale nei processi di socializzazione capitalistica? Che funzione assume progressivamente l’intelligenza e la creatività collettiva? Come reinterpretare il marxiano general intellect partendo dal caso Olivetti?

Siamo di fronte a un salto d’epoca, o, se si preferisce, a una fase di metamorfosi e non di transizione. Spesso, in passaggi come questi si tende a guardare solo la punta della piramide guardando in alto ai flussi per decifrare il nuovo posizionamento dell’élite. Ma non è una strada obbligata, è sempre possibile scartare di lato per verificare in profondità come il salto d’epoca abbia rimescolato le carte della società e dell’orizzontalità del vivere. Detto con un linguaggio dell’oggi, bisogna capire se il general intellect che viene avanti con le sue retoriche, i suoi processi di globalizzazione e di modelli produttivi in metamorfosi, può essere misurato da un intelletto collettivo sociale in grado di contrastare, di mediare e di rapportarsi con lo stesso general intellect.

Becattini e Magnaghi nel loro dialogo La coscienza dei luoghi ipotizzano, il primo se sia possibile addomesticare le transnazionali, il secondo teorizza la globalizzazione dal basso resiliente. Entrambi cercano di capire se prende forma un intelletto collettivo sociale in grado di dire la sua rispetto al disegno del futuro. Ma prima di ragionare di futuro bisogna “ricordare il futuro”. Oggi non è più sufficiente affrontare la crisi degli interessi, con la loro materialità, perché siamo di fronte ad una situazione segnata dalla crisi di senso. Per esser chiari: non bastano più le categorie economiche degli interessi per capire come ci si riposiziona, occorre ragionare sui rapporti complessi tra interesse e senso, rapporti che rimandano anche alla forma dei lavori, a iniziare da quelle forme che attirano per un alto significato di senso ma producono scarso reddito. Nella società del mercurio non bisogna solo seguire la frammentazione ma anche la rincorsa di senso dei soggetti.

Rispetto al salto d’epoca che ci ha traghettati nell’Italia industriale, oggi siamo di fronte a una dinamica diversa, fatta di derive accelerate. Se questo è il general intellect dominante, come si fa a ricostruire un intelletto sociale collettivo in grado di temperare o cambiare il modello? Come si fa a ricostruirlo sapendo che questa deriva accelerata produce un’apocalisse culturale, intercettando i soggetti quando non si riconoscono più in quello che era loro abituale? Bisogna partire dal punto di fragilità, cioè dalla scarsità dei fini: ad esempio, ciò che distingue la sharing economy dall’impresa sociale è proprio la densità del fine, che nel primo caso ha solo caratteristiche di nuova funzionalità, mentre nel secondo incorpora senso. Bisogna partire dalla voglia di prossimità, che non è più solo un atto volontario ma è una contaminazione che coinvolge anche il fare professione, a cominciare dalle professioni che inducono all’inclusione e alle tante esperienze territoriali che sperimentano e chiedono un altro livello di sviluppo.

Il general intellect produce mercurio, l’intelletto collettivo sociale riparte dalle oasi e dal fare carovana. L’ecologia della mente rimanda a tracce di un pensiero critico che è sostanziato, se guardiamo all’esodo e alla rivoluzione dello sguardo, da pratiche sociali il cui racconto delinea un pensare, un agire e un tenersi assieme nel ricostruire valori di legame sociale. Tracce di speranza per un esodo possibile rintracciabili nei saperi di una urbanistica che partendo dalla città fabbrica di allora fa del territorio la rete di oasi, di terre e pratiche, di forme dell’abitare le bioregioni, il Contratto di Fiume …, possibili. Vi è anche un pensiero critico che seguendo il postfordismo distrettuale ne elabora partendo dalla coscienza dei luoghi, esperienze di distretti culturali evoluti che tengono assieme scheletro contadino, manutenzione, bellezza del paesaggio come scrive nei suoi testi Anna Marson e artigiania innovativa da stampanti 3D.

[RE] Esiste un qualche legame tra l’esperienza olivettiana e l’emergere recente del tema della comunità nel dibattito filosofico contemporaneo?

Se la fine dei partiti di massa può suggerire l’attualità della comunità concreta olivettiana, quest’ultima va considerata nell’accezione di “comunità inoperosa” di cui parla Jean-Luc Nancy – una comunità immanente in cui ci si riconosce perché ci si appare come simili, senza necessità di costruzioni attive. Oppure come la “comunità che viene” di Giorgio Agamben o il meccanismo binario communitas-immunitas di cui ragiona da tempo Roberto Esposito, cioè una comunità che funziona come antidoto al processo di immunizzazione di una dimensione dei flussi che ha sterilizzato la libertà dalla sua componente di responsabilità; Zygmunt Baumann ha ragionato sulla voglia di comunità come fatto problematico del tempo attuale.

Tutte queste diverse visioni del tema comunitario oggi si declinano in almeno tre fenomeni in divenire. Il primo fenomeno riguarda il precipitare della voglia di comunità in comunità del rancore, in rinserramento rispetto a ciò che viene dall’esterno dentro la dialettica communitas-immunitas innescata dai flussi, di cui il flusso dell’immigrazione rappresenta il caso più drammatico ed emblematico. Certo la voglia di comunità non precipita solo in fenomeni di rancore ma anche in quella che io chiamo comunità di cura, cioè in un meccanismo in cui ci si dà cura nella prossimità e nella fraternità, dentro i grandi processi di cambiamento. E qui c’è un primo elemento di articolazione che mi pare interessante esplicitare visto che dal pensiero della psichiatria ad esempio viene una visione del rapporto tra ordine sociale e comunità che mette in discussione l’appropriazione dell’idea di comunità di destino da parte del pensiero autoritario.

Eugenio Borgna spiega che per lui comunità di destino non significa l’idea totalizzante in nome della quale si è pensato e realizzato l’Olocausto, ma una operazione antropologica di riconoscimento della fragilità e della sofferenza dell’altro: comunità vuole dire riconoscersi nella sofferenza dell’altro di prossimità. Una concezione della comunità imperniata sulla fragilità dei soggetti e sul riconoscersi nella sofferenza di prossimità dell’altro. Precipitano dentro la comunità di cura tutte quelle professioni del welfare del Novecento che avevano come finalità il produrre inclusione ed educazione. Possiamo andare anche oltre: penso che lo stesso problema della sclerosi del sindacato vada oltre un problema di pura rappresentanza corporativa degli interessi ponendo invece il problema di quanto il sindacato sia in grado di sviluppare una dimensione di cura degli interessi del territorio. La comunità di cura è fatta anche da un sindacato che riscopre la dimensione territoriale, il mutualismo. Fare comunità di cura a partire dal riconoscimento di un comune destino di fragilità delinea una forma di ‘comunità concreta’ in grado di assumere il tema dell’immunizzazione dai flussi, avendo capacità di entrarvi in una dinamica dialettica, anche attraverso la strutturazione di forme di conflitto. Una comunità concreta che guarda quindi avanti, non regressiva, perché tiene assieme la prossimità delle reti (sociali, economiche) che strutturano i luoghi e la simultaneità delle reti dei flussi.

[RE] Quali sono i fattori socio-economici e politici che hanno impedito all’‘utopia possibile’ di Adriano Olivetti di realizzarsi?

La sua ‘utopia concreta’ da fordismo dolce, incardinata su una grande azienda e un grande marchio operante con successo a livello internazionale capace di rivoluzionare l’organizzazione del lavoro e introdurre pratiche inedite di welfare aziendale, fu profondamente osteggiata dal fordismo hard, allora egemonizzata dal modello FIAT, ma anche dal sindacato nazionale. Entrambi (rappresentanza del capitale e del lavoro) venivano sostanzialmente bypassati e disintermediati dalle pratiche innovative (il sindacato di comunità) introdotte da Olivetti. Ma il più grave conflitto emerse con la politica organizzata intorno ai partiti di massa. La sua ‘terza via’ era evidentemente osteggiata, tanto che la scomparsa prematura di Olivetti ne facilitò la rimozione e l’oblio.

[RE] Come la questione ‘territorio’ si trasforma in relazione alla socializzazione del sistema produttivo e alla nuova formazione dei valori sia economici che sociali?

Il territorio va messo al centro come possibile spazio intermedio della politica da tre punti di vista: come spazio fisico, deposito e teatro di accumulazione simbolica oltre che reale della presenza umana, della comunità concreta di cui parlava Olivetti; come spazio di sedimentazione della conoscenza e del capitale collettivo di una società fatto di imprese, composizione sociale, istituzioni, università, reti, saperi, ecc.; come spazio in cui si esprime il conflitto e si possono costituire i nuovi corpi intermedi, il ricambio delle élite, nuovi modelli di organizzazione politica – persino il più virtuale dei movimenti critici come Grillo che ha usato il web per verticalizzare reti e organizzazione sviluppati sul territorio. Ciò che va capito è quanto il territorio inteso in questa triplice accezione riesca a sedimentare nuove istituzioni in grado di intercettare la nuova composizione sociale attiva.

L’ordine politico delle comunità è sussidiarietà verticale non orizzontale: è governo più che governance. Dunque, lo Stato immaginato da Olivetti è il contrario di quella verticalizzazione dei poteri e di quella fusione della politica nel ruolo del leader che oggi tende a prevalere. È un federalismo antitecnocratico.

Nell’idea di Olivetti i saperi tecnici sono importanti perché accompagnano e aiutano la volontà popolare, non vi si impongono dall’alto e dall’esterno. In un’epoca in cui la tendenza dominante è far fuori ogni dimensione intermedia va sottolineata l’intuizione apparentemente retrò e anti-progressista della comunità concreta come nuova dimensione intermedia capace di gettare un ponte tra il leviatano del potere (oggi non solo lo Stato ma anche le tecnocrazie private dei flussi) e l’individuo atomistico del pensiero liberale.

Il problema non è più soltanto ragionare di una comunità concreta di prossimità ma anche ragionare di cosa è la comunità ai tempi della simultaneità. Non solo la Rete emerge come dispositivo comunicativo simultaneo e globale, ma cambiano anche le basi sociali della politica con la centralità partecipativa di un nuovo ceto terziario di massa caratterizzato però da una critica diffusa ai gruppi dirigenti politici. Questione grande: perché noi siamo abituati a ragionare di comunità solo a partire dall’idea di prossimità mentre invece oggi i territori, gli stessi mondi vitali delle persone e le imprese sono dentro la dimensione della simultaneità ovvero hanno di fronte il problema di essere legate ad un territorio ma contemporaneamente andare nel mondo e poi tornare; oppure no.

Oggi bisogna capire se il territorio e la dimensione della comunità sono in grado di produrre processi global, ovvero processi caratteristici di un locale capace di andare nel globale non per essere sussunto ma per cogliere processi e opportunità che rafforzano la comunità. Come costruire una comunità che utilizzando tutte le risorse tecnologiche riesce a mettere in rete i soggetti, rafforza la dimensione relazionale e soprattutto rafforza la capacità di resilienza rispetto ai processi. Anche la questione di quale sia la dimensione intermedia istituzionale ottimale rimanda al problema del rapporto tra flussi e luoghi. Qual è la dimensione spaziale ottimale sulla quale ricreare comunità? Oggi tutti dentro questa fibrillazione tentano di ridefinire spazio di posizione e rappresentazione dei territori. Anche perché costruire comunità oggi è un artificio, è un processo, una procedura, un metodo. Non basta più il meccanismo del metalmezzadro fondato sulla conservazione della comunità locale tradizionale. È una costruzione di reti, di relazioni, di rapporti economici, di rapporti con la tecnologia che muta. Soprattutto si tratta di capire che se la dimensione dei flussi ci potrebbe portare a ragionare solo di megalopoli o se va bene di smart cities, Adriano Olivetti ci ha insegnato che non bisogna mai dimenticare l’adagio braudeliano città ricca-campagna florida. Uno schema che scarta di lato rispetto alla visione ottocentesca di un rapporto tra città e contado in cui quest’ultimo rappresenta la Vandea mentre nella città si concentra l’innovazione.

[RE] Qual è la specificità dell’esperienza olivettiana nell'uso di design e grafica per la creazione di un immaginario collettivo legato al prodotto?

Come ricorda Bruno Lamborghini, la struttura organizzativa delle fabbriche di Olivetti si caratterizzava per la sua grande plasticità e adattabilità al cambiamento continuo. Un modello che favoriva la partecipazione e l’espressione creativa e che mixava saperi tecnici e umanistici secondo un approccio da umanesimo industriale. La presenza di uomini di cultura non è stata compresa, quando non è stata vista con sospetto, ma la Olivetti non era un club di intellettuali: era una grande azienda industriale capace di integrare e mettere a valore (economico e sociale) cultura tecnica e cultura umanistica per ottenere prodotti all’avanguardia tecnica, belli e funzionali.

[RE] In quale modo architettura e urbanistica hanno influito sulla nascita del modello produttivo e sociale della Olivetti?

La comunità per lui era capacità di costruire un ordine armonico degli usi del territorio. In primo luogo come processo partecipativo non tecnocratico con cui la comunità concreta spazialmente determinata cercava di compiere quell’operazione che oggi è prioritaria: mettersi in mezzo tra flussi globali e luoghi cercando di riprendere collettivamente in mano il controllo sui processi di mercato e sulla tecnica. In secondo luogo, come spazio di un rapporto tra impresa radicata e territorio all’opposto di quello oggi dominante. Olivetti mirava a realizzare un equilibrio tra città e campagna di cui l’impresa era il perno. Ciò che oggi è attuale non è l’idea di dover ridurre la contrapposizione tra città e campagna che ormai ha poco senso dopo decenni di urbanizzazione e industrializzazione diffusa. Importante è invece una idea di connessione, di legame tra città e contado che oggi potremmo titolare con il termine di smart land in cui lo sviluppo derivi dal fatto che l’impresa mette al centro della sua azione cultura e condizioni di vita del territorio al posto di considerare quest’ultimo un serbatoio di risorse da usare fino ad esaurimento.

[RE] Quali sono gli aspetti dell’attualità o inattualità di Olivetti?

Prendere sul serio il pensiero politico di Olivetti: per farlo, la sua figura va tolta dalla santificazione nazional-popolare. Che rischia di sterilizzarne l’originalità e la scomodità per il pensiero economico e politico oggi dominanti anche nel nostro paese. La vita e il pensiero di Olivetti oggi sono attuali in un senso particolare che direi così: dell’attualità dell’inattuale, laddove nella caduta dei partiti di massa ripropongono l’importanza della comunità concreta. Al centro sono spiritualismo, umanitarismo e il grande tema della tecnica come Giano bifronte, grande pericolo e allo stesso tempo possibile strumento di salvezza dell’uomo. Comunità, politica, democrazia nella visione di Olivetti stanno dentro questa polarità connaturata al moderno tra umano e tecnica.

In Democrazia senza partiti in cui riprende alcune tesi già sostenute in L’Ordine politico delle Comunità, la sua opera principale, Olivetti contrappone alla ‘partitocrazia’ una visione che chiama di ‘democrazia integrata’ al cui centro c’è il protagonismo delle comunità locali come cellule di una riforma generale della rappresentanza che ha nel territorio la sua entità elementare da cui con un sistema di delegazioni successive deriverebbero i livelli superiori.

In questa visione non sono più i partiti che costruiscono lo stato, quanto la società articolata in comunità locali che assume in sé questo compito. Una visione in cui sono i corpi intermedi e le categorie produttive, i soggetti della cultura organizzata, a dare corpo e sostanza al processo di organizzazione della democrazia. È una critica che assume la modernità dell’organizzazione, della grande dimensione produttiva e politica, ma come già faceva Simone Weil nel suo libricino del 1943 Senza Partito, ne rifiutava la dimensione deterministica, ovvero la dimensione di un progresso fatto di organizzazioni come ‘caserme’ che fagocitavano la persona, il suo sistema di relazioni e di vita sociale, sovradeterminandolo.

Occorre avere molta attenzione nel proporre l’attualità del discorso olivettiano. Se lo si vuole fare bisogna considerare almeno tre passaggi preliminari riguardanti al come collocare l’Olivetti politico dentro le diverse culture di critica alla politica; all’individuare gli elementi costitutivi della critica olivettiana: “tutto il potere alla comunità”; al che cosa c’è di attuale oggi del comunitarismo democratico di Olivetti, nell’epoca di crisi della sfera intermedia – in una dimensione della politica in cui, schematicamente, dopo la retorica del partito della nazione, siamo di fronte all’avanzare dei populismi nazionalisti.

È su questo terreno che va posta la contemporaneità di Adriano Olivetti analizzandola e mettendo al centro l’intreccio tra cultura imprenditoriale e visione politica: l’una non si dà senza l’altra. È dunque imprenditore inattuale perché tutto dentro la costruzione di un fordismo ormai tramontato da un trentennio, oppure inattuale perché portatore di una visione di impresa radicata (e non semplicemente ancorata) al territorio che oggi parrebbe sempre più messa in discussione dal livello della media impresa in su? Il fatto è che per Olivetti la fabbrica esercitava la responsabilità della costruzione della coesione sociale di un territorio; oggi la fabbrica legge il territorio come bacino di risorse utili per competere sul mercato globale. È il territorio che deve essere responsabile verso la fabbrica, non viceversa. Il pensiero di Olivetti non è antipolitica ma un’altra politica: non è anti-rappresentanza ma un’altra rappresentanza. In questo senso l’ordine politico delle comunità è sussidiarietà verticale non orizzontale: è governo non governance.

English abstract

Aldo Bonomi compares Olivetti’s community with the positions of Nancy (inactive community), Esposito (communitas-immunitas), Agamben (the coming community) and Baumann (current desire for community). He identifies three current forms of community: community of resentment, of care and fraternity, and of destiny.  He then proposes the community of care as “the recognition of a common destiny of fragility and as a possible concrete community” that looks ahead and is not regressive, because “it holds together the proximity of those networks (both social and economic) which give shape to the places and the simultaneity of flow-networks”. This issue is connected to the “desire for proximity” and, therefore, to the difference between “general intellect” (which “produces mercury”) and collective intellect (“which restarts from oases and caravan making”). It is also related to an idea of a territory capable of producing “l-obal”, rather than “g-local”, processes. While for Olivetti, the factory was responsible for constructing the social cohesion of a territory, today it is the territory that must be responsible towards the factory.

keywords | Olivetti; Community; Nancy; Agamben; Esposito; Baumann; Factory. 

Per citare questo articolo / To cite this article: A. Bonomi, Fare comunità nei tempi della simultaneità. In risposta a 11 domande su Olivetti, “La rivista di Engramma” n.166, giugno 2019, pp. 67-77 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2019.166.0019