"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

166 | giugno 2019

97888948401

Progetto incompiuto

In risposta a 11 domande su Olivetti

Chiara Mazzoleni*

English abstract

*Chiara Mazzoleni, professore di Urbanistica. Si è occupata di comunità e urbanistica negli anni Cinquanta in Italia e di Adriano Olivetti per la rivista “Lo straniero”.

[Redazione di Engramma] Come la questione ‘territorio’ si trasforma in relazione alla socializzazione del sistema produttivo e alla nuova formazione dei valori sia economici che sociali? Quali sono i fattori socio-economici e politici che hanno impedito che l’‘utopia possibile’ di Adriano Olivetti sia diventata impossibile?

Molteplici sono le dimensioni che concorrono a connotare l’esperienza di Olivetti che chiamerei più propriamente ‘progetto incompiuto’, un progetto umanistico e al tempo stesso politico, uno sforzo poliedrico e incessante di delineare un futuro che potesse garantire, in ogni ambito della vita, lo sviluppo pieno della persona umana, quindi della comunità. Si tratta di una concezione della persona – è necessario precisarlo – che si richiama alla tradizione personalista di Emmanuel Mounier e si distingue da quella di ‘individuo’, considerato come monade che persegue un interesse personale e ha riconosciuta una priorità di principio rispetto alla comunità. La persona, secondo la visione di Olivetti (espressa nell’Ordine politico delle Comunità), “nasce da una vocazione”, dalla consapevolezza che ogni uomo ha di fare parte della società, che si traduce in un “arricchimento dei valori morali dell’individuo”. In virtù di ciò la persona ha profondamente il senso, quindi il rispetto – intimamente cristiani – della dignità altrui, “sente profondamente i legami con la comunità cui appartiene, ha quindi viva la coscienza di un valore sociale”.

Questo progetto, che si è articolato in una visione sinottica e globale del divenire sociale, è terminato con la fine prematura del suo ideatore e ha preso forma in particolari circostanze e in un contesto storico peculiare, quello della transizione dalla ricostruzione post-bellica al miracolo economico. Un contesto profondamente segnato dalla sottovalutazione del peso dell’eredità fascista in tutti i campi, da quello della cultura a quelli dell’economia, dell’educazione, dell’amministrazione dello Stato e del costume e da un clima di forte contrapposizione politico-ideologica.

Nell’ambito della fabbrica, in una fase in cui i processi indotti dal ‘miracolo economico’ avevano sconvolto il già precario mondo rurale – che all’inizio degli anni ’50 coinvolgeva più del 42% della popolazione attiva, incidenza che sarebbe scesa al 29% nel 1961 – avevano iniziato ad affermarsi i comportamenti persecutori dei protagonisti di un neocapitalismo gerarchico e autoritario. Tra questi, in particolare, quello della Fiat, il più grande gruppo industriale del paese, con un rapporto privilegiato con lo Stato, che applicava una politica aziendale repressiva, con molteplici forme di discriminazione (dai reparti di confino, ai licenziamenti di rappresaglia, alle decine di migliaia di schedature ai danni degli stessi dipendenti), come testimoniano i lavori di Aris Accornero (1959), Emilio Pugno e Sergio Garavini (1974) e Bianca Guidetti Serra (1984). A queste forme di repressione si aggiungevano quelle ancor più dure di contrasto alle manifestazioni sindacali, in applicazione della legge Scelba.

Nell’ambito istituzionale stavano profilandosi un modo di articolarsi di meccanismi e strutture rimasto ancorato alla continuità e una ripresa, per certi aspetti, del modello dello Stato prefascista e non appariva urgente liberare l’ordinamento e il sistema legislativo dalle ipoteche del recente passato e dare attuazione alla Costituzione (Crainz 2009).

Nel contesto politico, caratterizzato dal clima della guerra fredda e dalla radicalizzazione dell’antagonismo degli schieramenti, venivano socialmente legittimati i vincoli della ‘democrazia protetta’ e il ricorso a leggi eccezionali. Questo clima avrebbe contribuito a rendere bloccato per lungo tempo il sistema politico nel nostro paese, a sviluppare la pratica del collateralismo e logiche clientelari, ossia varie forme di dipendenza dalla politica e a favorire la formazione di strutture e apparati che avrebbero inciso in modo negativo e durevole nei processi di formazione di una coscienza collettiva e dello spirito pubblico. Esso sarà anche alla base della modernizzazione distorta della società italiana, evidente tanto nella sfera pubblica quanto in quella privata, che rimarrà profondamente segnata da comportamenti contrastanti con l’essenza della condizione civile, come sostiene Luciano Gallino uno dei collaboratori di Olivetti e testimone di quell’esperienza.

All’esterno di questo ‘bipartitismo imperfetto’ – caratterizzato da due partiti egemoni (Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano) che si sono confrontati senza che si producesse alternanza alla guida delle istituzioni e facendo prevalere sui contenuti la logica degli schieramenti e dei puri calcoli elettorali – una parte delle élite intellettuali aveva iniziato a configurare una ‘terza via’ declinata nella proposta del liberalsocialismo di Guido Calogero e Aldo Capitini, e in quella del Movimento di Comunità. La nuova società alla quale alludevano doveva essere “essenzialmente socialista”– come precisa Olivetti già nell’Ordine politico delle comunità – ma anche fondata sui principi della democrazia politica e della libertà individuale.

Il Movimento di Comunità, nato nel 1947 come movimento culturale, si trasformerà in organizzazione politica, per meno di un decennio, dal 1953 al 1960. La lista del Movimento otterrà un significativo successo nel Canavese, alle elezioni amministrative del 1956, e un relativo insuccesso a quelle politiche nazionali del 1958. A queste ultime aveva scelto di presentarsi, non senza un’accesa discussione interna, insieme al Partito dei Contadini d’Italia e al Partito Sardo d’Azione – nel cartello “Comunità della cultura, degli Operai e dei Contadini d’Italia” – per avere una rappresentanza nel governo, in modo da poter perseguire e ‘proteggere’ il progetto comunitario del Canavese, essendo ogni decisione assunta in quel conteso ostacolata dall’autorità territoriale tutoria.

Come ho già avuto modo di sottolineare in miei precedenti lavori, verso la costruzione di questa terza via, che racchiudeva gran parte delle idee e delle istanze politiche che avevano contribuito a disegnare l’architettura delle democrazie costituzionali in Europa, convergevano un ambiente culturale e politico e diverse esperienze di sviluppo di comunità. Queste erano promosse da una rete di minoranze attive che, a partire da una critica che investiva la crisi della rappresentanza politica, si sforzavano di costruire un proprio percorso autonomo e avevano in comune un’istanza educativa e lo sviluppo di centri di una nuova socialità, ossia di organismi aperti e partecipati, in grado di radicarsi nel territorio dando impulso a forme di democrazia diretta. Aspirazione condivisa di queste minoranze era rappresentare e promuovere le tre esigenze fondamentali – democrazia, lavoro e cultura – che avrebbero dovuto costituire il nucleo originario del potere politico. Ciò a partire dall’ambito di una comunità, inteso come il più appropriato per la costruzione e lo sviluppo di un ‘comune interesse’ morale e materiale tra le persone che in un contesto territoriale concreto svolgono la loro vita sociale ed economica.

Tra le varie esperienze le più significative erano i Centri di Orientamento Sociale (COS), esperimento politico, profondamente permeato dai valori del cristianesimo, promosso da Capitini che ambiva a dar vita a un movimento che scuotesse il paese dalle condizioni che avevano portato al fascismo, fra le quali in particolare l’estraneità delle masse e della provincia, e i Centri Comunitari, elemento cardine attorno al quale si è sviluppata la complessa struttura del progetto politico di Adriano Olivetti. I COS erano luoghi di esercizio di una pratica assembleare, di autoeducazione politica e al tempo stesso di autoformazione dell’uomo e del cittadino, attraverso periodiche discussioni, aperte a tutti, su questioni locali di carattere amministrativo e tematiche più generali di carattere culturale, politico e filosofico. Diventati presto un fenomeno molto ramificato, che aveva bisogno di una struttura organizzativa, non potendo continuare a basarsi sull’attività volontaria e sull’autofinanziamento, si esauriranno nel giro di pochi anni, quando si cercherà di dare loro una forma istituzionale coinvolgendoli in una rinnovata struttura dei municipi, per la forte opposizione dei poteri politici ed ecclesiastici.

I Centri Comunitari rappresentano l’esperimento di ‘politica nuova’, che avrebbe dovuto investire tutti i livelli di organizzazione sociale, promosso e sostenuto da Olivetti. Erano le ‘cellule democratiche’, i dispositivi idonei alla formazione e alla libera espressione dell’opinione pubblica attraverso l’incontro, la ricerca e la discussione collettiva. Essi si configuravano come spazi di esercizio della cittadinanza – nei quali, come precisa Franco Ferrarotti, “ci si poteva sentire partecipi di una cultura che rispettava profondamente il lavoro e la persona” (Ferrarotti 2001) – nuclei vitali delle comunità territoriali che formavano l’organizzazione statale di tipo policentrico e federalista ed erano parte integrante del processo del nuovo ordine politico, economico, sociale, culturale e istituzionale delineato da Olivetti e propugnato dal Movimento di Comunità.

Intorno alla comunità, secondo un’idea che era venuta maturando in Olivetti dalla sua concreta esperienza della fabbrica, si è sviluppata la complessa struttura di questo progetto di riforme che ha conosciuto nel Canavese la sua traduzione pratica. In questa sorta di grande laboratorio sociale, primo esperimento di sviluppo di comunità in Italia, per dispiegamento di mezzi materiali, risorse economiche e capacità intellettuali, che ha ottenuto importanti risultati – nonostante la forte opposizione politica che si estendeva dal livello provinciale a quello regionale – l’idea stessa della comunità concreta si è sviluppata ed è diventata progetto (Santamaita 1987). Un progetto nel quale alla cultura, di cui doveva essere difesa l’autonomia e assicurata la più ampia espansione attraverso il rafforzamento della razionalità tecnologica, e alla pianificazione urbanistica era attribuito un forte ruolo nella costruzione del sociale e nello sviluppo della comunità. Quest’ultima era riconosciuta quale dottrina con una rilevante tradizione che aveva il primato sull’economia.

Era al tempo stesso estetica applicata alla vita sociale, che doveva dare forma al piano economico, e dispositivo essenziale per garantire un coerente raccordo tra le trasformazioni economiche e la loro distribuzione sul territorio e dell’interazione tra sviluppo economico e riassetto delle risorse ambientali. Era, in ultima istanza, strumento dal quale dipendeva la costruzione di un rapporto armonico tra fabbrica e territorio in cui si esprimeva la responsabilità dell’impresa nei confronti della comunità. Essa era corroborata dalle scienze sociali, discipline introdotte e diffuse in Italia da Olivetti, attraverso esperienze di pianificazione esemplari – come il piano territoriale dell’Eporediese – e le Edizioni di Comunità, e alle quali era assegnata una rilevante funzione educativa.

Da questo progetto e dalla sua carica pedagogica avrebbero tratto linfa anche altri esperimenti di sviluppo di comunità “audaci”. Tra questi, in particolare, il Progetto Pilota per l’Abruzzo, la cui realizzazione sarà resa possibile da Olivetti e che vedrà all’opera un insieme di energie culturali e capacità professionali che lo stesso Olivetti aveva suscitato e che si misureranno nel complesso rapporto tra ricerca sociale, pratica educativa e sviluppo del territorio. Il progetto riformista di Olivetti non poteva, infatti, prescindere dalla dimensione territoriale in cui era calato, da Ivrea e il Canavese, a Pozzuoli, e da un piano organico.

Quello della comunità concreta era l’ambito ideale nel quale ci si prefiggeva di superare la tragica dissociazione tra cultura e politica, per cui il principio di legittimazione non poteva che derivare dall’esercizio di competenze e dalla loro rappresentanza. Esso era anche il luogo – una realtà vissuta – dove nel legame con il territorio si esprimeva sia la centralità sia la responsabilità della fabbrica, motore principale dello sviluppo economico e sociale e poteva quindi svilupparsi la consapevolezza dei fini dell’attività lavorativa, che coinvolgeva la società. Ossia il luogo dove era riconoscibile un interesse ‘superiore’ concreto, dove era possibile percepire, misurare e controllare gli esiti dello sforzo e del sacrificio personali così come della distribuzione della ricchezza prodotta dalle classi lavoratrici – autentiche rappresentanti, secondo Olivetti, del “valore insopprimibile” della giustizia (discorso di Olivetti Ai lavoratori di Ivrea [1955], pubblicato in Olivetti [1960] 2015) – rispetto alla soddisfazione dei bisogni e al miglioramento della qualità della vita collettiva.

Qualità assicurata sia all’interno sia all’esterno della fabbrica. All’interno, attraverso un sistema di servizi sociali e culturali che aveva consolidato la tradizione dell’Olivetti dalla sua fondazione ed era incomparabile, rispetto a quello di altre aziende italiane, per ampiezza e livelli di prestazioni e qualità e per l’indipendenza dalla fabbrica della sua gestione. All’esterno, con la costruzione di una fitta rete di servizi sociali, estesa all’insieme dei comuni del Canavese, che avrebbe dovuto favorire il radicamento dei lavoratori nella comunità e al tempo stesso contribuire a rafforzare sia il loro legame all’azienda sia lo sviluppo equilibrato dell’intero territorio. Profonda era, infatti, la consapevolezza di Olivetti del valore sociale della fabbrica. Come specifica nell’Ordine politico delle Comunità:

La fabbrica non è un puro organismo economico, bensì un organismo sociale che condiziona la vita di chi contribuisce alla sua efficienza e al suo sviluppo. Gli elementi di questa vita si trovano entro e fuori la fabbrica. Fabbriche belle e igieniche allietano il lavoro: le abitazioni, le facilitazioni dei trasporti, l’occupazione dei disabili, l’istruzione professionale, le relazioni con l’agricoltura creano un’infinita varietà di problemi che non possono essere risolti armonicamente che da un unico ente – la Comunità – che tutti li domina e li comprende entro la sfera della sua competenza (Olivetti [1945] 2014, 25).

Si tratta, quindi, di un welfare concepito non in termini amministrativi e redistributivi, bensì come importante fattore di coesione sociale, di crescita civile, come insieme di dispositivi (strutture, servizi e attività) che avrebbero dovuto concorrere all’evoluzione di tutta la vita sociale. Un’imponente politica sociale, di redistribuzione dei profitti dell’impresa attraverso un loro impiego nella riduzione delle disuguaglianze nell’accesso all’assistenza, alla previdenza, alla cultura (Gallino 2001).

Infine, quello della Comunità era l’ambito più idoneo per la formazione e lo sviluppo di un agire cooperativo e solidaristico, di un’etica dell’autoresponsabilità, prima personale, quindi della classe lavoratrice e degli agenti portanti del progetto di trasformazione della forma dell’impresa ideato da Olivetti: la fabbrica (dirigenti e lavoratori), la cultura e la scienza (l’università), il territorio (le istituzioni di governo). Ossia era l’ambito ideale nel quale avrebbe potuto realizzarsi il sogno coltivato a lungo da Olivetti: quello di attuare un modello del tutto nuovo di impresa, al di là del capitalismo e del socialismo (terza via tra capitalismo e socialismo) individuato nella ‘fondazione proprietaria’. La questione era di “socializzare senza statizzare – come Olivetti preciserà in Città dell’uomo – organizzando la società economica in modo autonomo, rendendola indipendente dall’intervento prevalente dello Stato”, affinché fossero garantiti dalla collaborazione di una pluralità di istituti aventi uno scopo preciso, “la libertà dell’individuo, la difesa della persona e l’accrescimento del benessere materiale”.

Il modello Olivetti, delineato nello stretto rapporto fra politica aziendale e progetto comunitario e tra cultura aziendale e cultura del territorio non riuscirà ad affermarsi perché schiacciato dalle tendenze prevalenti nel sistema politico ed economico italiano. La maggior parte dell’imprenditoria italiana e la classe politica, anche per insipienza, avevano contrastato e boicottato colui che consideravano l’‘imprenditore rosso’, la ‘pecora nera’, come sarà definito dal presidente della Confindustria, organizzazione nella quale Olivetti non si era mai riconosciuto.

Guardando al contesto europeo, bisognerà attendere il Libro verde della Commissione Europea – “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese” – presentato nel 2001, per trovare raccomandazioni allo sviluppo di pratiche di impresa socialmente responsabili. Contenuto in questo documento è un insieme di misure da attuare che, alle soglie del nuovo millennio, appare ancora molto distante rispetto a ciò che era realtà quotidiana nella Olivetti degli anni ’50.

La grande avventura pionieristica nell’elettronica intrapresa da Olivetti che, nonostante le resistenze incontrate nella compagine degli azionisti, riuscirà a far produrre uno dei primi elaboratori elettronici del mondo (l’Elea 9003), cesserà nel 1964. Cioè quando il gruppo di intervento – costituito da Fiat, Pirelli, IMI, Mediobanca e Centrale – in quanto sindacato di controllo dell’Olivetti, che avrebbe dovuto fornire i capitali per la ripresa dell’azienda, cederà la Divisione elettronica, nella quale era confluita la maggior parte delle sue attività, alla General Electric, multinazionale statunitense. La sentenza, pronunciata da Vittorio Valletta, all’entrata della Fiat, di cui era presidente e amministratore delegato, nel nuovo gruppo della Olivetti, era che sul futuro dell’azienda – come scrive Lorenzo Soria (1979) – pendeva una “minaccia”, un “neo da estirpare”: l’essersi inserita nel settore elettronico, per il quale occorrevano investimenti che nessuna azienda italiana sarebbe stata in grado di sostenere o disposta ad impegnare. Vano, inoltre, sarebbe risultato lo sforzo del figlio di Olivetti, Roberto, di sottoporre alle maggiori aziende elettroniche d’Europa il progetto di una Società elettronica europea. Le stesse saranno poi destinate a soccombere all’offensiva delle multinazionali dell’elettronica statunitensi.

Così quell’avventura, che avrebbe potuto condurre l’Italia alle soglie della rivoluzione informatica e forse, in parte, mutare la traiettoria industriale del nostro paese, e con essa anche la sua collocazione economica, si risolverà in una grande occasione persa. Non passerà molto tempo che, con le traversie del gruppo Olivetti – come precisa Gallino – all’imperativo “per cui produzione ed estetica, efficienza e design, razionalità e bellezza dovevano essere due aspetti di una stessa composizione” verrà anteposto quello della giustificazione del prodotto in termini di efficienza e costo. Questo relativamente agli sviluppi successivi dell’impresa, fino alla sua metamorfosi iniziata con l’ingresso di Carlo De Benedetti come primo azionista.

Al declino del rilevante ‘stato sociale’ creato progressivamente all’interno dell’azienda Olivetti, molto prima che la comunità nel suo complesso si facesse carico del benessere e della dignità dei lavoratori – a partire dall’inizio degli anni ’60, con la formazione del governo di centro-sinistra e l’intensa attività rivendicativa sindacale – contribuirà significativamente la scarsa difesa dello stesso da parte della componente più ideologizzata della sinistra sindacale rappresentata dalla Cgil. Componente che considerava la Olivetti un’impresa capitalistica come le altre, accusava Adriano Olivetti di paternalismo e di coercizione operaia, concepiva il conflitto e non la partecipazione – quella auspicata e promossa con la costituzione del sindacato Comunità di Fabbrica (o Autonomia Aziendale) – come elemento propulsore delle relazioni industriali e definiva le misure di solidarietà e sussidiarietà e l’insieme di servizi e prestazioni volte a incrementare il benessere dei lavoratori e delle loro famiglie offerto dall’azienda come un dispositivo del patronalsocialismo.

Sorte non dissimile avrà il progetto del Canavese, fortemente egemonizzato dalla figura di Adriano Olivetti. Il complesso di servizi e attrezzature collettive e la generazione di mercati del lavoro distribuiti nel territorio attraverso il pioneristico dispositivo dell’IRUR non sapranno emanciparsi dalla dipendenza dalle rilevanti risorse economiche e dalle commesse della Olivetti, evolvendo in forme di gestione autonoma, se non in pochi casi, e rimarranno sostanzialmente tributari della grande azienda, con le inevitabili ripercussioni.

Quanto poi alla cultura urbanistica, al ruolo della pianificazione territoriale inteso in termini di ordinamento equilibrato di tutte le dimensioni della vita associata, Olivetti si era dovuto confrontare con una realtà affatto diversa – restituita dalle vicende del piano di Ivrea ma anche dalla riflessione interna all’INU, del quale era stato presidente – di debolezza delle istituzioni di governo e di scontro con il sistema politico, che sull’asservimento del piano agli interessi proprietari aveva in larga parte costruito la propria strategia di mobilitazione individualistica del consenso.

Per quanto concerne uno degli aspetti cruciali dell’esperienza olivettiana, la concezione democratico-comunitaria del sapere al servizio degli interessi generali, essa non riuscirà a fare scuola, come osserva Carlo Donolo (2011), perché in Italia il sapere “si è sempre scontrato con due fattori dominanti: il ruolo della Chiesa e quello della politica, le due potenze che hanno fornito i quadri cognitivi necessari per le scelte collettive”.

La creazione della fondazione proprietaria, progetto in cui capitale e lavoro erano associati non tanto su un piano meramente contrattuale di ripartizione dei profitti, bensì nella creazione di un nuovo ordine sociale ed economico, in grado di andare oltre i rapporti di lavoro e di fabbrica, era il compimento dell’azione di Olivetti e prefigurava un nuovo inizio: quello di “affidare a organismi misti”, coerentemente disegnati, il progresso economico e sociale delle industrie di grandi dimensioni. Iniziando dall’Olivetti, l’azienda di famiglia, all’avanguardia per livello tecnologico, capacità di innovazione dei prodotti, presenza multinazionale. Un’azienda che, in soli tredici anni (dal 1946 al 1958) aveva fatto registrare un fortissimo tasso di crescita dell’occupazione e livelli molto elevati di redditività e di produttività.Alla messa a punto di uno schema giuridico che desse consistenza e fattibilità alla nuova forma dell’impresa, concepita come bene collettivo, Olivetti stava lavorando poco prima della sua morte improvvisa. Così il suo grande e lungimirante progetto rimarrà, come si è detto, incompiuto. Per le sue implicazioni esso era però destinato a essere ‘inattuale’, fuori dal tempo, per l’inaccessibilità delle idee che lo sostanziavano non solo per i suoi contemporanei e non solo nel contesto italiano. E quando le epoche sono torbide, come quella contemporanea, perché si sono consolidati nel tempo, dalla conclusione dell’esperienza di Olivetti, i fattori di degrado del costume sociale e civile, delle istituzioni, della politica e del sistema economico, è ancor più necessario rivolgersi agli ‘inattuali’.

Bibliografia
  • Accornero 1959
    A. Accornero, Fiat confino. Storia della OSR, Milano 1959.
  • Crainz 2009
    G. Crainz, Autobiografia di una Repubblica. Le radici dell’Italia attuale, Roma 2009.
  • Donolo 2011
    C. Donolo, Italia sperduta. La sindrome del declino e le chiavi per uscirne, Roma 2011.
  • Ferrarotti 2001
    F. Ferrarotti, Un imprenditore di idee. Una testimonianza su Adriano Olivetti (a cura di Giuliana Gemelli), Roma-Ivrea 2001.
  • Gallino 2001
    L. Gallino, L’impresa responsabile. Un’intervista su Adriano Olivetti, a cura di P. Ceri, Torino 2001.
  • Guidetti Serra 1984
    B. Guidetti Serra, Le schedature Fiat. Cronaca di un processo e altre cronache, Torino 1984.
  • Olivetti [1945] 2014
    A. Olivetti, L’ordine politico delle Comunità [1945], Roma-Ivrea 2014.
  • Olivetti [1960] 2015
    A. Olivetti, Città dell’uomo [1960], (a cura di A. Saibene), Roma-Ivrea 2015.
  • Pugno, Garavini 1974
    E. Pugno, S. Garavini, Gli anni duri alla Fiat. La resistenza sindacale e la ripresa, Torino 1974.
  • Santamaita 1987
    S. Santamaita, Educazione, comunità, sviluppo. L’impegno educativo di Adriano Olivetti, Roma-Ivrea 1987.
  • Soria 1979
    L. Soria, Informatica: un’occasione perduta. La Divisione elettronica dell’Olivetti nei primi anni del centrosinistra, Torino 1979.
English abstract

Chiara Mazzoleni reconstructs the context, steps and sense of what she calls Olivetti’s “unfinished project” Not a utopia, but a humanist political project for the development of the “person” as described by Mounier. The project developed politically along the “third path” of the liberal-socialism of Calogero and Capitini, that of the Movimento di Comunità (Community Movement) through the Centri di Orientamento Sociale (Social Orientation Centers) and the Centri di Comunità (Community Centers). The latter, both experiments in new politics, were conceived as democratic cells for training and the free expression of public opinion: they accompanied the ‘Community’ intended as an environment for “the formation and development of cooperative action, solidarity, and the ethics of individual responsibility” among the working classes and the other agents in the project to transform business. The fact that this project was never realized finds its causes not only in Olivetti’s premature death, but also in the hostility of Italian capitalism on one hand, and that of leftist parties and trade unions on the other. It is also the result of the incapacity of IRUR structures to emancipate themselves from the economic dependence and hegemony set in place by Olivetti.

keywords | Olivetti; Experiment; Capitalism; IRUR. 

Per citare questo articolo/ To cite this article: C. Mazzoleni, Progetto incompiuto. In risposta a 11 domande su Olivetti, “La rivista di Engramma” n.166, giugno 2019, pp. 149-160 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2019.166.0029