"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

L’oro di Tarkovskij

Per un’iconologia indebita di Andrej Rublëv (1966)

Giacomo Confortin

In quanto registrazione impressa nella memoria,
il ricordo è una struttura proteica,
come la testa di uno spermatozoo, o come un ovulo.
Nel nostro cervello non esistono parole e sentimenti:
i nostri ricordi sono immagini redatte nel linguaggio
degli acidi nucleici su cristalli asincronici a grandi molecole.
(Stanisław Lem, Solaris, 1961.)

English abstract
Incipit. 1 + 1 = Tarkovskij regista medievale

La nostra tesi è che un significato medievale non allusivo, ma sostanziale, sia sorto dal coro di arti disparate dirette dal regista Andrej Arsen’evič Tarkovskij nel 1966, per il film cui diede il nome il pittore di icone Andrej Rublëv (1360 ca.-1430); inoltre, che tale senso si distingua appieno con la lente iconologica che Erwin Panofsky per primo, nel 1934, rivolse alle ‘immagini in movimento’. D’altronde non serve una visione attenta per rifiutare ad Andrej Rublëv una banale collocazione tra le ‘biografie d’artista’. Genere, questo, “quanto mai insidioso, perché induce a un uso mimetico-decorativo del riferimento pittorico e comporta un collegamento, a volte forzato, tra aneddoto biografico e figurazione pittorica” (Costa 1991, 14); un genere, per giunta, che si presta a pastiche anacronistici che ne minano la plausibilità, posto che anche quando sia applicato “un criterio filologico-cronologico, la produzione dell’universo figurativo […] può essere il risultato di un processo di adattamento e di rifunzionalizzazione di elementi cromatici, plastici, luministici ecc., desunti dai più diversi contesti” (ivi, 17).

Non sembrano questi, infatti, i peccati di Tarkovskij. Innanzitutto, il regista fugge gli espedienti grafici che propongano facili (e fallaci) piste ideologiche verso una tradizione la cui resa sarebbe altrimenti più ardua – in altre parole, non si serve delle associazioni stereotipiche: ‘cavaliere con la spada’ o ‘affresco del XV secolo’ uguale ‘Medioevo’. In secondo luogo, è tanto più coerente il confronto che durante tutto l’arco della proiezione egli opera tra la psicologia del protagonista e la sua concezione della pittura (incarnate entrambe nella visione delle icone, che lo spettatore guadagna nel finale). Quest’arte – talvolta per vie profonde – innerva interamente la pellicola.

Una propedeutica allo studio delle scrupolose fonti di ‘Tarkovskij medievale’ è necessaria. Tuttavia, questa non può essere intesa soltanto a dimostrare come, per il regista, la pittura del Quattrocento sia altro da un orpello retorico o un suggerimento scenografico. È possibile che una sequenza, dal significato riposto, tratta dalla sua filmografia matura dica qualcosa della vita complessa delle arti visive all’interno di Andrej Rublëv.

1 | Nostalghia, 61’48.

La sequenza inizia fuori la casa di Domenico, che è scostata dal paese: Gorčakov vi si è recato in taxi per parlare col matto. Fra l’erba alta dell’ingresso questi sta pedalando, quando alcuni tuoni, di lontano, promettono un temporale che si fa presso in una luce grigia. Oltre un portone, però, il poeta russo scopre questo paesaggio: le colline asciugate dal sole si sono stese fino agli scuri aperti, e sono entrate su un tappeto di pozzanghere, su cui scivola la cinepresa. Da un’altra stanza Domenico lo richiama dal suo sogno. Così, il matto si accosta a una finestra e stende la mano verso Gorčakov; lentamente, solleva una bottiglia – chi vive illeso il mondo dei sani può distillare questa verità:

Una goccia più una goccia fanno una goccia più grande, non due.

Ecco che noi, alla luce della medesima finestra, vediamo una metafora che porta a strade secondarie, tracciate al confine tra il cinema e la pittura. Durante le riprese di Nostalghia, ci piace credere che Tarkovskij tornasse in silenzio a una ventina d’anni prima. All’incontro, vale a dire, della sua arte con Rublëv. 1 + 1 = 1. La scritta (che pure echeggia come un motto delfico) sulle povere pareti di Domenico può dirci del frutto di questo incontro [Fig. 1: in questa didascalia, come nelle altre dell'articolo, e talvolta nel testo, i numeri indicano il minutaggio della scena mostrata o citata].

Crediamo quindi di poter ampliare così tanto la tesi da sostenere che Andrej Rublëv si sia fatto cornice di uno scambio linguistico biunivoco: riformando il significato delle proprie fonti pittoriche, e creandone uno nuovo, per il concorso tra quelle e il proprio mezzo cinematografico. Se non basta cercare le tracce delle icone davanti la cinepresa, né studiare come la cinepresa abbia formato la nostra attesa delle icone, col rischio di attenersi agli sterili problemi della traduzione figurativa da un’arte all’altra; allora gioveranno a queste immagini le tre fasi analitiche dello sguardo di Panofsky – pre-iconographic description, iconographic analysis e iconological interpretation – con il fine di scoprire, nell’ultimo esempio, che il film ha integrato due momenti lontani della medesima storia artistica in una terza invenzione. Ovvero, per stringersi alla nostra metafora, che Andrej Rublëv è divenuto quella “goccia più grande” nel palmo di Domenico.

1. I tre Andrej

Non ricordo se ho scritto su questo quaderno del colloquio che ho avuto con Pasternak, o meglio con la sua anima, durante una seduta spiritica. (Son troppo pigro per andare a rileggere.) Alla mia domanda: “Quanti film farò ancora?”, mi rispose: “Quattro”. Al che io: “Così pochi?”, e Pasternak: “Però belli”. Uno dei quattro l’ho fatto. Si può definire un bel film? Comunque mi piace (Tarkovskij [1989] 2002, 112).

Il 16 febbraio del 1973 Tarkovskij annotava così nel suo diario. I tre film che aveva già fatti erano L’infanzia di Ivan (Ivanovo detstvo, 1962), Andrej Rublëv (id., 1966) – due pellicole definibili ancora ‘sperimentali’ – e Solaris (Soljaris, 1972). Quest’ultimo insieme a Lo specchio (Zerkalo, 1974) – l’opera della citazione presente – costituisce una fase detta “della memoria”. Tarkovskij morirà a cinquantaquattro anni in una clinica parigina, e non può sapere, quando scrive di questo colloquio, che Pasternak aveva ragione. Girerà ancora Stalker (id., 1979), Nostalghia (id., 1983) e Sacrificio (Offret/Sacrificatio, 1986): la sua “trilogia della catastrofe”. Sette film in tutto, i quali con i saggi di diploma al Vgik e Tempo di viaggio (1983) – il documentario sulla ricerca dei set italiani – formano una filmografia tanto breve da contenersi in una lista, quanto densa, grondante di senso, troppo agitata per poterne raggiungere il fondo nel giro di un’introduzione.

Cominciamo quindi dalla fine: dal momento in cui Alexander dà alle fiamme la sua bella casa per scongiurare una minaccia nucleare, chiudendosi poi nel silenzio consapevole della sua ‘offerta’. Sono altri due ‘pazzi’ che l’hanno accompagnato fino al rogo, Otto e Maria – allo stesso modo in cui Domenico aveva affidato ad Andrej Gorčakov la sua missione (attraversare la piscina di Bagno Vignoni con una candela accesa) [Figg. 2, 3]. Ma posto in controluce, questo particolare carattere tarkovskiano, questa guida ‘ai margini’, si rivela prossimo allo jurodivnyj, lo ‘stolto in Cristo’ russo, che santo in vita ricerca il disprezzo come mezzo d’ascesi.

2 | Sacrificio, 134’07.
3 | Nostalghia, 109’18.

Diciamo un’altra cosa:

La Chiesa orientale […] conserva l’atteggiamento dei primi cristiani che aspettavano il giorno ultimo del mondo e il giudizio finale con gioia, con la preghiera Maranatha, Signore vieni presto! (Špidlíck 1996, 102-108).

Tutto il contrario dell’uomo occidentale, malato dell’ignoranza delle eschata, le ‘cose ultime’. Allora, di un altro sacrificio da quelli che intendiamo ci parla il regista. Il quale è russo, molto prima di essere homo Souieticus, “russo per il suo continuo nutrirsi all’humus della matrice slava” (Cangià 1996, 72-73). Chi fu quindi Tarkovskij, che lasciò la vita filmando la follia e chiamandola ‘fede’?

Sensibilità iperattiva combinata in un animo pervaso da mistica spiritualità, personalità forte e gentilissima, carattere tormentato e tendenzialmente pessimista, impostazione estetica tra l’onirico e il rigoroso, tra il predicatorio e l’apocalittico, tra l’esaltazione per l’ineliminabile dolore necessario alla ricerca della verità e incubiche rappresentazioni di grande poesia miste a squarci di profezia (Borin 2004, 13).

Se è vero che l’ambizione di Tarkovskij fu di “filmer comme acte de foi” (Baecque 1989, Avant-propos), i frutti del Sacrificio di Alexander non si faranno attendere:

Un monaco, passo dopo passo, secchio dopo secchio, portava l’acqua sulla montagna e innaffiava l’albero inaridito, credendo senz’ombra di dubbio nella necessità di ciò che faceva, senza abbandonare neppure per un istante la fiducia nella forza miracolosa della sua fede nel Creatore. E così poté assistere al Miracolo: una mattina i rami dell’albero si rianimarono e si coprirono di foglioline. Ma questo è forse un miracolo? È soltanto la verità (Tarkovskij [1986] 2016, 209).

Agli occhi di Andrej Arsen’evič quel monaco doveva somigliare ad Andrej Rublëv. La Notizia dell’anno 6913 (1405) informa che:

In quella stessa primavera si cominciò ad affrescare la chiesa in muratura della Santa Annunciazione, al palazzo del Gran Principe, non l’attuale, e i maestri erano il pittore Teofane il Greco, lo starec Procoro di Gorodec e il monaco Andrej Rublëv; finirono il lavoro in quello stesso anno (cit. in Gonneau 2006, 31).

Un secolo e mezzo più tardi, lo Stoglavyj Sobor, Concilio dei cento capitoli, sanciva riguardo l’iconografia trinitaria che “i pittori devono riprodurre i modelli antichi, quelli degli iconografi greci, di Andrej Rublëv e degli altri pittori famosi” (ivi, 33-34). Ai due capi di questo breve arco di tempo, dunque, sono testimoniate, del medesimo artista, la prima apparizione e la consacrazione. Ma a dispensare dalla ricerca della formula che meglio si attagli alla pittura e alla fortuna di quello, avviene la sua Trinità [Fig. 4].

4 | Andrej Rublëv, Trinità, 1422-27, Mosca, Galleria Tret’jakov.

Torniamo anche qui alla fine. Andrej dipinse l’icona al suo vecchio monastero della Trinità di San Sergio probabilmente fra il 1422 e il 1427, vale a dire fra il ritrovamento delle reliquie del santo fondatore e la morte di Nikon, l’egumeno che aveva commissionato la decorazione del Troizkij Sobor per celebrare la scoperta. Non c’è dubbio che il fedele inesperto, a Occidente, con fatica riconosca nel dialogo di tre angeli seduti a un tavolo la rappresentazione del dogma della Trinità cristiana. L’esegesi della leggenda biblica del Genesi (18,1-15) – dei tre viandanti nell’ora più calda del giorno alla tenda di Abramo, presso le querce di Mamre – da Rublëv è trascritta con assoluto accordo di ritmi circolari. Tale tipo iconografico, di lì a poco assunto a modello, deriva forse dalla fonte contemporanea dell’Epistola a un pittore di icone (erroneamente riferita allo Pseudo-Dionigi l’Aeropagita), nella quale si legge dell’analogia tra il Sole (il cerchio) e la Trinità. Come quello si dà nella forma di globo, raggi e luce, così questa è espressa dal Padre, dal Figlio e dallo Spirito Santo – gli angeli di destra, centrale e di sinistra nell’icona di San Sergio (Allenov-Dmitrieva-Medvekova 1993, 82).

L’armoniosa fusione dei colori chiari, portati a perfetta unità e consonanza, la musicalità ritmica delle linee e delle tinte, la libertà, l’unità e la scioltezza del fatto rappresentato, l’equilibrio compositivo, la profondità di pensiero (Ivanova-Demina 1966, 6).

Ecco i tratti della nuova scuola di pittura moscovita che giungono a compimento nella Trinità, la cui riscoperta (avvenuta nel 1904 ad opera di Vasilij Gur’janov) diede un grande impulso alla ricerca, al collezionismo e alla riflessione su questa che tornava ad essere un’arte (Foletti 2011, 121-122). Un patrimonio nazionale che Tarkovskij non mancò di cogliere, e di coltivare coi propri strumenti:

Ma ecco che tra la cinepresa e il cielo della Trinità, con le sue sfumature dorate, appaiono gli schizzi delle prime gocce di pioggia, che lentamente si moltiplicano e si intrecciano in veri e propri rivoli scintillanti, illuminati dai bagliori di una tempesta lontana. Si sente il suono frusciante e monotono della pioggia (Tarkovskij 1992, 203).

In otto episodi, un prologo e un esodo il cineasta russo ha scandito le soste, le svolte, e infine la meta del cammino interiore – inquadrato però all’intersezione continua con il mondo della vita collettiva – che il suo protagonista ha percorso nelle lunghe ore in bianco e nero. Procediamo con ordine a dimostrare perché Andrej Rublëv sia quella ‘terza goccia’ della metafora su cui indugiamo, vale a dire in che modo il film faccia corrispondere Tarkovskij a Rublëv (e viceversa).

I primi argomenti sono per necessità argomenti di poetica, che possono lambire la materia del nostro discorso solo sulla sponda immateriale dei giochi di rispecchiamento fra artisti: di quei percorsi di allusione (se lasciati nella vaghezza) o di reale identificazione che un creatore disegna verso un altro nella storia della propria arte, al fine di porsi in un segno autorevole o di trovarsi un alter ego storico. È questo il nostro caso? C’è chi ha voluto tirare tra i due un filo rosso nella comune ribellione alla propria società (Cangià 1996, 76), ma questo, a queste date, ci sembra impossibile, se non altro in questi termini. Sospendendo i discorsi troppo diffusi sui rapporti di committenza medievali e sulla censura artistica sovietica, basti notare qui che piuttosto apparenta il regista e il pittore la medesima spinta predicativa. Si dice che Tarkovskij denunci nei suoi film le ingiustizie di ogni genere. È certamente vero. Ma non è soltanto un’accusa. Vi appare anche una grande compassione per il mondo che sembra andare verso la catastrofe (Špidlíck 1989, 24). E vi risuona quell’appello spirituale che al cineasta pareva di udire dalle tavole dell’iconografo.

[Andrej] non esprime il peso insopportabile della vita che è la sua, del mondo che lo circonda. Cerca il seme della speranza, dell’amore, della fede negli uomini del suo tempo. Lo esprime attraverso il proprio conflitto con la realtà in modo non diretto, ma allusivo, e questo è geniale (Tarkovskij 1970).

Tuttavia, è un altro e più profondo il punto di contatto tra Andrej Arsen’evič Tarkovskij e Andrej Rublëv.

2. Pittura e simbolismo in Tarkovskij

Non si può dire che il cinema sia fatto di piccole ‘storie’ recitate e filmate. Questo non ha niente a che vedere col cinema. Prima di tutto il film è un’opera che è impossibile realizzare con qualsiasi altro mezzo artistico. Il cinema è solamente ciò che si può creare con i mezzi cinematografici, e solo quelli (Tarkovskij [1989] 2002, 94).

“Il cinema è solamente ciò che si può creare con mezzi cinematografici, e solo quelli”. Così decretava Tarkovskij nel suo diario, e prendeva intimamente parte al dibattito intorno i rapporti fra le arti figurative e il cinema. Dibattito che non è ingiustificato dire che si apra in tante facce e si possa inquadrare da tante angolature quante sono le manifestazioni di quelle stesse arti, alla luce della longevità del rapporto e del numero delle risposte avanzate. Mentre la citazione proposta esprime un giudizio inequivocabile. Secondo il regista “la pittura è la prima arte da cui il cinema deve allontanarsi, proprio per non cadere nella tentazione di trasferire direttamente un dipinto sullo schermo, cosa che annulla l’autonomia creativa e porta solo alla concezione di immagini derivate” (Campari 1994, 17). Eppure di pittura in Tarkovskij se ne vede tantissima, non solo nel film sul pittore. L’unico esempio, tratto dal contenitore storiografico dell’arte moderna, affiora come l’iceberg dalla filmografia.

5 | Pieter Bruegel, Cacciatori nella neve (Dicembre o Gennaio), 1565, Vienna, Kunsthistorisches Museum.
6 | Andrej Rublëv, 46’22.

Il dipinto dei Cacciatori nella neve di Pieter Bruegel [Fig. 5] scopre tra i film del regista russo degli anni Sessanta e Settanta (Andrej Rublëv e Solaris, ma anche Lo specchio) un guado accessibile a chi soppesi i passi sui giusti appoggi, senza affondare nel profluvio dei rimandi artistici tarkovskiani, i quali sono variati nella tecnica di ripresa, nella trasparenza dell’esposizione e nei valori spirituali che il regista vi affibbia. Proviamo un passaggio veloce. Nell’episodio della Passione secondo Andrej dell’opera dedicata a Rublëv, il tassello invernale degli ipotetici Mesi del maestro fiammingo è presente nella forma di tableau vivant. Come Bruegel, anche Tarkovskij assembla la sua veduta d’insieme attraverso diverse vedute ‘lenticolari’. Lì è un gruppo di uomini che scuoia il maiale davanti una taverna, qui una vecchia che conduce una mucca. Lì una squadra di cacciatori è intenta a scendere una china bianca, qui sfilano Cristo, la Madonna, la Maddalena e Simone di Cirene, e le guardie del Gran Principe cavalcano verso il colle (46’22) [Fig. 6] – è la visione del Calvario russo, dal limpido valore meta-testuale, che ha il protagonista del film mentre discute col maestro Teofane dello scopo dell’arte e della natura dell’uomo. Tanto il ‘pittore dei contadini’ quanto il ‘regista dei mužiki’ hanno popolato i propri paesaggi delle proprie comparse, per poi ritrarsi nella prospettiva di chi non viene turbato dai rivolgimenti della storia, se non quando ne è vittima (vittima e carnefice, invece, si scambieranno d’abito in un’altra pellicola sovietica, L’ascesa di Larisa Shepitko, del 1977, dove il Ponzio Pilato che manda a morire i partigiani della Grande guerra patriottica sarà interpretato da Anatolij Solonicjn, l’attore che fa l’Andrej del nostro film).

A tutt’altra funzione adempiono invece i Cacciatori nella neve in Solaris. Al centro della stazione orbitante attorno al misterioso pianeta – coperto di un oceano capace di dar forma ai ricordi degli uomini – è presente una biblioteca, alle cui pareti sono appese delle riproduzioni delle opere di Bruegel. Hari, la moglie defunta del protagonista Kris Kelvin, fuma una sigaretta in silenzio davanti i dipinti (128’48). “Then, abruptly, the film cuts to a close-up detail of Hunters in the Snow, launching a lyrical sequence […] in which the camera, ostensibly independent of the diegesis, roves over the picture plane”. A percorrere la pittura è l’occhio del personaggio femminile, il quale, sconvolto per aver appreso di non esistere se non nella luttuosa memoria altrui, trova nel dipinto rinascimentale “a kind of short-cut to reclaiming her humanity” (Raiser 2014, 10-12) [Fig. 7].

7 | Solaris, 132’56.

È quindi rivelatore un aneddoto dalla biografia di Tarkovskij.

Riguardo al rapporto di Tarkovskij con la pittura, mi sia consentito un ricordo personale. Quando abitava a Firenze ebbi occasione di chiedergli se andava agli Uffizi. Mi rispose che riusciva a vedere soltanto le prime sale, adorava Simone Martini, Ambrogio Lorenzetti e Giotto. Gli ori di quelle tavole gli ricordavano le icone, e anche gli sguardi delle madonne. Col Rinascimento la pittura italiana si era allontanata dalla tradizione dell’icona, come la cultura – esaltando l’uomo – aveva “voltato le spalle alla spiritualità e a Dio” (Cataluccio 1989, 34).

La testimonianza mette in luce la profonda radice russa dell’estetica tarkovskiana, vicina alle posizioni della teologia dell’immagine di Florenskij o Evdokimov (Florenskij [1935] 1983; Evdokimov [1970] 2002), in cui la bellezza dell’arte risulta sempre connaturata al suo valore morale, e pertanto ambigua e potentemente simbolica. D’altronde è evidente l’ambiguità nell’idea di ‘simbolico’ nella sua cinematografia. Da un lato, sono netti (e quasi violenti) i commenti che Tarkovskij riserva al lavoro di sovra-interpretazione di cui cadono ‘vittima’ le sue opere.

Sono nemico del simbolismo. Per me è un concetto troppo stretto, messo là semplicemente per essere decifrato. Ma un’immagine artistica è indecifrabile (Andrej Tarkovskij 1987, 33).

La messa in scena nel cinema ha il compito di sconvolgerci con l’autenticità degli atti rappresentati, con la bellezza delle immagini artistiche, con la loro profondità, e non con un’importuna illustrazione del significato racchiuso in essi (Tarkovskij [1986] 2016, 26).

Sono straordinariamente esatte le considerazioni formulate a questo proposito da Viačeslàv Ivànov: “Il simbolo è veramente tale soltanto quando […] esprime nel proprio linguaggio arcano (ieratico e magico) dell’allusione e della suggestione qualcosa di inesprimibile, qualcosa rispetto cui la parola esteriore è inadeguata” (Tarkovskij [1989] 2002, 183).

Ma non brillerebbe nell’esercizio del dubbio chi credesse a un regista i cui film smentiscono a questo modo, tanto sonoramente, le dichiarazioni programmatiche. Per gli esiti che si prospettano, vale la pena di contraddire Tarkovskij.

La terza citazione proposta è contenuta nella pagina del diario del 27 gennaio 1976, cui il regista affida l’appassionato assenso all’idea della supremazia del simbolo sulla parola. Dunque dell’immagine sulla parola. Appare più chiaro questo nella lettura di un passo biblico in Andrej Rublëv. Alla Cattedrale della Dormizione di Vladimir tutto è predisposto per dipingere il Giudizio universale, ma Andrej non vuole dare inizio ai lavori. Dal ciglio opposto di una lunga strada che taglia un campo sullo sfondo, il pittore confessa al confratello Daniil che non intende incutere timore al popolo con la sua arte. Finché, ad un tratto, ritorna nella memoria all’episodio dell’accecamento degli scalpellini, che avevano lasciato il palazzo del Gran Principe Vassilij per quello di suo fratello Jurij (70’33). Si sente la voce del monaco recitare: “Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita” (1Cor 13,1); e si vedono le bianchissime sale del palazzo appena decorate, mentre da un pioppeto vicino piove una lieve cascata di piumini sul pittore e la principessina che giocano. Il rifiuto di Andrej – al ricordo di una tale crudeltà – viene visualizzato da Tarkovskij in questo modo soave, per antitesi. Il brano della lettera di san Paolo non sembra aver dato vita a queste immagini, ma ne diventa un commento, una glossa esegetica, un ulteriore scarto che parla proprio del valore morale dell’arte, che senza la carità – cioè l’amore – porta alla vanità e alla violenza. La parola non illustra quindi una sceneggiatura, ma compie la maturità semantica dell’immagine simbolica.

8 | Lo stalker in una foto sul set, a colori, immerso tra i simboli tarkovskiani.

E ancora: l’acqua, gli animali, la vegetazione sono a pieno titolo sintagmi del discorso filmico tarkovskiano, e come tali possono leggersi tanto nel loro primo significato letterale, quanto in un secondo, figurale [Fig. 8]. L’acqua, ad esempio, in Tarkovskij traduce sempre il fluire del tempo – quel tempo ‘scolpito’ all’interno del piano-sequenza – così da essere simbolo del Cinema in sé prima di dire qualsiasi altra cosa. Ed ogni forma in cui appare dice qualcosa di diverso. Durante il cammino dello stalker nella Zona (nel film del 1979), essa, dapprima, è il fango della culla rigenerante in cui si adagia il protagonista (77’53). Il fango in cui il regista vedeva “solo la terra mescolata all’acqua, il limo in cui nascono le cose” (Argentieri 1988, 17). Poco più tardi, invece, sarà una pozza stagnante (85’09), verso cui più volentieri si deve volgere la cinepresa: giacché il cielo “è vuoto e non ci sono che i suoi riflessi sulla terra, nel fiume, nelle pozzanghere che sono importanti e mi interessano” (Tarkovskij [1986] 2016, 26).

Quindi, ciò che a nostro parere rinnega Tarkovskij – e che lo getta “in uno stato di rabbia e di disperazione” (ivi, 183) – è il lavorio di decrittazione dei cultori dell’x e dell’y, l’asfissiante trama di corrispondenze astratte che si debbono figurare i compilatori. Serve invece una ‘grammatica simbolica’, un metodo di analisi che dia risalto e un nuovo significato a tutte le epidemiche ricorrenze di oggetti tarkovskiani, di cui qualcuno ha stilato interi cataloghi.

Lasciamo parlare dunque due personaggi di Andrej Rublëv, un capo tataro in groppa al suo cavallo e un principe traditore.

3. Panofsky e il bambino “nella scatola”. Iconologia e immagini in movimento

9 | Andrej Rublëv, Natività di Cristo, 1405 ca., Mosca, Cattedrale dell’Annunciazione.

“Senti, principe, chi è quella femmina?”
“Non è una femmina, è la Vergine Maria. La Natività di Cristo”.
“E quello nella scatola?”
“Cristo, suo figlio”.

Consideriamo questa scena, che si svolge davanti un dipinto di Rublëv (a 100’30 del film), all’interno della cattedrale saccheggiata della Dormizione. Confrontiamola ad un’altra, tipicamente ‘cinematografica’, ambientata in una qualsiasi strada del New Jersey, dove due uomini in completo scoprono la calvizie, sollevando una coppola di feltro sopra la testa:

Quando un mio conoscente per la strada mi saluta togliendosi il cappello, quello che io vedo da un punto di vista formale non è che il mutare di certi particolari all’interno di una configurazione che rientra in quella generale struttura di colore, linee e volumi che costituisce il mio mondo visivo (Panofsky [1955] 2010, 31).

Con un cappello debuttava il discorso sul ‘metodo’ iconologico che Erwin Panofsky affidava alla riedizione del 1955 di Meaning in the Visual Arts. E continuava: “Quando io identifico […] questa configurazione [ovvero di un conoscente che mi saluta] ho già superato i limiti di una percezione puramente formale e sono già entrato in una prima sfera di soggetto o significato”.

Al di là della forma, Panofsky riconosceva un mondo di senso tripartito, sillabato in “oggetto” da interpretare e “atto” di interpretazione (per il quale ci si avvale prima di un “corredo” e poi un “correttivo”). Quando pure il nostro capo tataro a cavallo avesse fatto esperienza pratica di quel preciso tipo di oggetto-‘culla’, avrebbe legittimamente potuto ignorare di vivere il momento della storia dello stile in cui questo viene dipinto come ha fatto Andrej Rublëv. Per tacere, inoltre, della conoscenza delle fonti letterarie di cui si è servito il pittore. Tanto più che “di fronte a rappresentazioni di temi diversi da quelli della Bibbia o di scene che escono da quel tanto di storia e mitologia che è conosciuto dalla media ‘persona colta’, siamo tutti dei boscimani australiani” (ivi, 40). Ma se piuttosto di solcare il Pacifico valicassimo gli Urali, fatte queste premesse, non ci sorprenderemmo, se il cavaliere rispondesse, come ha risposto: "E che vergine è, allora, se ha un figlio?"

Non c’è quindi bisogno di sostenere che Tarkovskij avesse letto queste pagine per vedere nella messa in scena descritta il mancato riconoscimento di una Natività di Cristo rublëviana [Fig. 9], la quale è cambiata dal regista, senza troppi complimenti, da una delle piccole ‘Dodici feste’ del Dodekaorton moscovita in un grande affresco di Vladimir. Poiché questo è lungi dall’essere uno snodo narrativo giustificato, e anzi alla luce della deliberata manipolazione storica di Tarkovskij, sembra legittimo approfondire la questione dell’identificazione di un tema iconografico al cinema. È davvero possibile – come abbiamo annunciato nella tesi – tentare l’iconografia di una pellicola? La risposta è nel testo della conferenza che lo stesso Panofsky, nel 1934, tenne alla Film Library of the Museum of Modern Art di Princeton.

Per un contadino sassone intorno all’ottavo secolo non era facile capire il senso di un quadro raffigurante un uomo che versa dell’acqua sulla testa di un altro uomo, e anche più tardi molti trovarono difficile afferrare il significato di due donne in piedi dietro il trono di un imperatore. Per il pubblico del 1910 non era meno difficile capire il senso di un’azione muta in un film, e i produttori si servivano di mezzi di chiarimento simili a quelli che troviamo nell’arte medioevale. Uno di questi fu […] l’introduzione di un’iconografia fissa che informava subito lo spettatore circa i fatti e i personaggi principali, così come le due donne dietro l’imperatore, se portavano rispettivamente una spada e una croce, simboleggiavano unicamente la Fortezza e la Fede. Nacquero, identificabili dall’apparenza standardizzata, dal comportamento e dagli attributi, i tipi a tutti noti della Vamp e della Ragazza Per Bene (gli equivalenti moderni forse più convincenti delle personificazioni medioevali del Vizio e della Virtù) […] (Id. [1934] 2015, 84-85).

10 | Sunrise, 14’59.
11 | Giotto, Vizii: Ira, 1306 ca., Padova, Cappella degli Scrovegni.

Non è difficile suggerire un esempio che illustri l’intuizione di questo confronto. Appena un trentennio dopo la fuga di boulevard des Capucines, scatenata all’arrivo del treno en gare de la Ciotat, nel 1927 gli spettatori del film di Murnau Sunrise: A Song of Two Humans distinguevano a prima vista la Donna-di-città dalla Moglie-fedele, non altrimenti da come un padovano del Trecento, nella figura che si straccia le vesti agli Scrovegni, avrebbe riconosciuto il simbolo cristiano dell’Ira. Così, assumendo la prospettiva sulla storia delle immagini che era stata suggerita a Panofsky da Aby Warburg, l’attrice Margaret Livingston, contorta come una Menade a ritmo di Charleston, tra le braccia del suo campagnolo può forse comprendersi meglio se posta accanto l’allegoria del Vizio, dipinta da Giotto tra il 1302 e il 1305 [Figg. 10 e 11]. “Proprio perché mosso da interessi analitici e conoscitivi” e perché ispirato alla lezione warburghiana, il sistema di Panofsky “non è condizionato in alcun modo da pregiudiziali valutative e di ‘prestigio’ culturale e artistico” (Garroni 1968, 15-16), ed è anzi sgombro da ogni ostacolo temporale: tanto da poter osservare insieme l’arte medievale e il cinema delle origini.

Tuttavia, non ci si può limitare ad una “descrizione” di posture comuni. Infatti:

I film coordinano cose materiali e persone, e non un mezzo neutro, in una composizione che riceve il suo stile, e può divenire persino […] preterintenzionalmente simbolica, non tanto da un’interpretazione nella mente dell’artista quanto dalla effettiva manipolazione di oggetti fisici (Panofsky [1934] 2015, 94-95).

E quando gli “oggetti fisici” coordinati nel film fossero opere d’arte ‘maggiore’, passibili per se stesse di un’interpretazione? Ecco che di Andrej Rublëv potremmo fare un’interpretazione iconologica ‘al quadrato’, sommando i simboli espressi dai significanti eterogenei del film, come le icone inquadrate e la cinepresa per inquadrarle. Ed ecco che, in conclusione, il metodo col quale studiare le intersezioni tra la pittura medievale moscovita e l’opera di Tarkovskij – col fine di scoprirne la dipendenza reciproca, e ricordando come agli occhi del regista (per l’indugio su un’arte diversa dal cinema e il congedo del suo valore letterale) la nostra sia un’operazione indebita – questo metodo ibrido e sintetico è, a buon diritto, e anzi meglio di tutti gli altri, quello che oltre la forma legge il problema della produzione del significato simbolico: ovvero l’iconologia tripartita panofskiana.

4. Vicino il pioppeto. Simulazione pre-iconografica

Il primo momento del metodo corrisponde alla “descrizione pre-iconografica“, che è soddisfatta dall’enumerazione dei motivi artistici. L’interesse, a questa altezza, è riservato alle pure forme dei soggetti naturali, ovvero un materiale

... qui est constitué dans tous les films par la simple existence physique du ‘monde’ (fragment du monde) photographiable et photographié, c’est-à-dire inscrit par le recours à la lumière, à cette capacité qu’a la lumière de ‘transmettre’ le double ou la trace de ce fragment du monde (Legrand 1979, 70-71).

L’oggetto della ricognizione che ci siamo proposti è quanto di ‘arte medievale’ sia esposto a favore della cinepresa. Tuttavia, risulterebbe inutile fingersi un capo tataro che non ha letto i Vangeli per tutte e tre le ore di Andrej Rublëv. Diamo allora un solo esempio.

A un terzo del film, ultimata la decorazione degli stipiti e degli intradossi delle porte (73’10), che collegano i luminosi ambienti del palazzo dove si trova il protagonista, vediamo questi seduto, circondato da molte tavole dipinte, intento a ritoccarne una che rappresenta un uomo a cavallo dal mantello svolazzante, con la lancia puntata a terra (74’56) [Fig. 12]: una figura in tutto simile a quella fusa sulla superficie del grande strumento metallico, che viene estratto dal suo involucro sotterraneo alla fine della pellicola. Lo spettatore non ha difficoltà di sorta nel nominare queste immagini: un’icona e una campana, decorate con San Giorgio che uccide il drago.

Se la descrizione si fermasse a questo punto, riuscirebbe però come poco più di un’enumerazione ‘statistica’ delle presenze artistiche del film, che verrebbero trattate quali isole di un arcipelago silenzioso, quando invece è fitta la rete di rimandi intra-testuali. E poiché agli oggetti della nostra ricerca sapremmo dare un nome, come abbiamo fatto col cavaliere, tanto vale soffermarsi anche sui loro aspetti materiali, i quali rimangono per definizione esclusi da questa fase della ‘scienza dei soggetti’ panofskiana. Eppure essi rivestono un’importanza cruciale per decifrare appieno l’opera: sarebbe perciò opportuno considerare l’approccio storico-stilistico come uno stadio preliminare, o in parte parallelo, alle diverse fasi dell’iconografia (van Straten 2009, 34). Soprattutto perché questo può dar conto della ricerca sul Medioevo di Tarkovskij.

12 | Andrej Rublëv, 74’57.
13 | Andrej Rublëv, 91’15.

La pietra bianca che funge da quinta alla primissima inquadratura è tipica dell’architettura religiosa della Russia nord-orientale, i cui caratteri generali sono “l’inclinazione alla decorazione e all’abbellimento e la tendenza alla dinamicità della costruzione” (Lichačëv 1991, 184). L’angolatura con cui è puntata la cinepresa dal basso verso l’apice della chiesa è una sottolineatura della verticalità dell’edificio – il quale sembra librarsi in aria, fregiato di bassorilievi fin sotto il tetto – mediante una messa nella prospettiva dei popolani indaffarati ai suoi piedi. Se dall’alto, appeso alla sua proto-mongolfiera, tali rilievi saranno apparsi di certo più leggibili ad Efim, il mužik volante, la sua visione doveva però riuscire irrimediabilmente falsata. I ritmi delle paraste, le finestre affusolate, le nuove cupole costruite per accumulo di volumi erano conquiste architettoniche pensate per essere fruite, nemmeno a dirlo, dal basso.

Ci sarà però qualcun altro che vedrà una chiesa dall’alto. Mentre i barbari fanno razzia fin sulle cime dorate dell’Uspenskij Sobor (la Cattedrale della Dormizione di Vladimir di cui si preparava la decorazione nel film) [Fig. 13], dove il protagonista aveva ricevuto la sua seconda commissione, anche il principe Jurij vi si arrampica per vedere la città che ha consegnato al nemico. Sullo scenario storico che percorre Andrej Rublëv trionfa il principato di Moscovia, nei decenni a cavallo tra il XIV e il XV secolo. Egli apparteneva alla generazione che aveva recuperato alla coscienza la propria identità nazionale con la battaglia di Kulikovo, quando l’8 settembre del 1380 i principi feudatari si erano uniti dietro il vessillo del moscovita Dmitrij Ivanovič, di lì in avanti detto Donskoj, dal campo presso l’alto corso del Don dove sconfisse l’esercito tataro-mongolo del khan Mamaj. Il film racconta proprio delle lotte tra i figli del Donskoj, ovvero il Gran Principe Vassilij I di Mosca e il traditore Jurij di Zvenigorod: entrambi interpretati da Jurij Nazarov. Negli anni successivi a Kulikovo, il nuovo principato egemone aveva abbinato alla restaurazione politica un singolare fenomeno di restauro architettonico nei luoghi emblematici del periodo pre-mongolico. Se da un lato era inevitabile riferirsi ai modelli autorevoli delle grandi chiese di Vladimir e Suzdal’, dall’altro è significativo che Andrej Rublëv e il confratello Daniil Čërnyj si trovino nella città assediata proprio per rinnovare gli apparati decorativi del suo centro religioso.

Per la medesima ragione incontriamo il monaco al palazzo di Vassilij nella capitale. È ragionevole immaginarsi sul Cremlino, riedificato in pietra da Ivan Kalita appena nel 1366. In questo caso non abbiamo da supporre una risemantizzazione degli spazi architettonici medievali da parte di Tarkovskij, poiché della Mosca del periodo non è sopravvissuto nemmeno un edificio (a titolo d’esempio, ricordiamo l’incendio del 1547 al Blagoveščenskij Sobor, la Cattedrale dell’Annunciazione, che distrusse anche la prima Deesis dipinta da Rublëv). È invece degno di nota come il regista si trattenga su un risvolto pratico della produzione scultorea. Non essendo Andrej Rublëv una pubblicazione scientifica né un manuale d’uso dell’epoca, non possiamo dire se gli scalpellini alle dipendenze di Vassilij Dmitr’evič avessero rifinito i fregi degli stipiti après o avant la pose (Wittkower 1985, 53-59), ma si può ritenere che i consulenti storici, che supervisionavano la stesura della sceneggiatura, diedero parere positivo alla scena girata nella tettoia nei pressi del palazzo, verosimilmente luogo di lavoro (e rifinitura avant la pose) della bottega [Fig. 14].

Ad Andrej – l’ennesimo spunto caratterizzante – piace l’intaglio perché è lieve, quasi dissimulato nel candore delle pareti. Solo Mitjaj sa fare una cesellatura così senza prima marcare: alla maestria deve essere dunque abbinata la rapidità d’esecuzione, per sperare di ottenere il palcoscenico che è un palazzo del potere centrale. Il principe ha però lesinato sulla pietra, si lamenta uno degli artigiani, e a Zvenigorod hanno già portato i marmi. Il lavoro lì verrà meglio. Sprazzi come questi di realismo di sceneggiatura, se non possono essere intesi come meri espedienti di ambientazione, ma nemmeno ritenersi attendibili durante una lettura storica, concorrono, semplicemente, a rinsaldare il ruolo costitutivo che l’arte medievale gioca in Andrej Rublëv.

14 | Andrej Rublëv, 74’36.

Non meno puntuali sono gli aspetti pratici legati alla pittura che vi vengono inscenati (Uspenskij-Losskij 2007, 61-65). Dal pioppeto che inondava di piumini la tettoia degli scalpellini sarebbero probabilmente venute le tavole dipinte dal protagonista lì presso. Insieme alla betulla, il pioppo è infatti il legno più adatto, perché meno resinoso, alla fabbricazione del supporto delle icone. Sul retro della tavola venivano applicate due traverse di legno (come si vede bene nel laboratorio di Kirill al monastero, il terzo dei tre personaggi dell’incipit) per far sì che non si deformasse né si aprissero fenditure. Teofane domanderà scocciato: “Hai lasciato la colla sul fuoco?”, e prima ancora andava alla ricerca dell’olio di lino: due materiali – il primo, mischiato al gesso, per ottenere l’intonaco, e il secondo da applicare una volta asciugato il colore – ricorrenti nel diario di un iconografo medievale.

Vale infine la pena di suggerire un altro parallelo tra Tarkovskij e Rublëv. Nella scena in cui il regista faceva ammonire il protagonista da Daniil col pensiero dell’inverno venturo, quando non si sarebbe più potuta affrescare la Dormizione perché il colore non si sarebbe asciugato, pensava forse di prevenirlo dal proprio errore del novembre 1965: l’abbandono del set a causa della neve e la ripresa dei lavori solo nel maggio dell’anno seguente.

5. Due appelli dalla campana. Risignificare le fonti iconografiche

Il secondo momento del metodo panofskiano è invece l’“analisi iconografica”, che ha lo scopo di rinvenire i significati convenzionali dei motivi artistici combinati in immagini, quindi in storie e in allegorie. La “femmina” distesa e “quello nella scatola” divengono la ‘Vergine Maria’ e il ‘Gesù Bambino’, quindi una "Natività di Cristo". Tuttavia, nell’ambito di Andrej Rublëv, come è naturale, tanto i significati delle icone quanto quelli creati dai movimenti della cinepresa sono stati ‘rinvenuti’ con la loro stessa formulazione. Vale a dire che l’iconografia non è sempre (e non può essere) una questione di decifrazione. Ad esempio, dopo la lunga cattività del bianco e nero, i soprusi del potere e il silenzio della rinuncia, il film culmina e si esaurisce sui prodotti artistici del popolo ‘liberato’ dal protagonista, e lo spettatore può riconoscere i titoli delle icone che gli scorrono davanti, quali elementi minimi del proprio patrimonio nazionale (e della propria coscienza religiosa): l’Entrata in Gerusalemme, la Natività di Gesù, Cristo in maestà, la Trasfigurazione, la Resurrezione di Lazzaro, l’Annunciazione, il Battesimo di Cristo, la Trinità, l’Arcangelo Michele e il Salvatore (Pellanda 2015, 46-47). Mentre prima, fluita la scorreria che tragicamente nomina un episodio, a 104’32 si vedono le tavole della Vergine, del Pantocratore e del Battista andare a fuoco: fortunatamente solo nella finzione scenica, poiché a Vladimir l’iconostasi scampò prima ai Tatari, poi ai ridipintori alla maniera moderna, nel Settecento di sparuti scrupoli di Caterina la Grande, quando trovò rifugio e venne dimenticata nella chiesa di Vasil’evsk, fino ad arrivare nelle sale della Galleria Tret’jakov di Mosca, dove la videro Tarkovskij (e gli altri spettatori del suo film).

Il riconoscimento dei soggetti sopra elencati non è dovuto passare al vaglio della storia dei tipi (cioè la messa in rapporto tra epoca, concetto e sua manifestazione pittorica) né è il risultato di un incrocio di repertori figurativi e letterari tipico delle analisi iconografiche. Ai fini di questa ricerca, può essere invece di grande utilità studiare le fonti medievali di cui si è servito il regista, per scoprire che grazie a queste ha realizzato i suoi precisi fini poetici, e per comprendere il senso della loro risemantizzazione che si anticipava nella prima sezione del testo. Consci, ad ogni modo, di sconfinare talvolta nel terreno dell’interpretazione. Così lo stesso Tarkovskij:

Noi abbiamo raccolto una montagna di documenti cercando di essere il più possibile vicini alla verità storica. Per altro abbiamo avuto molti specialisti-consiglieri che hanno preso visione di quello che facevamo e hanno accettato il nostro punto di vista senza riserve. D’altra parte io posso dirvi quello che penso a questo proposito, non si tratta di inesattezze storiche ma del fatto che girando questo film noi, in una certa misura, abbiamo spostato gli accenti a seconda delle nostre intenzioni (Tarkovskij 1975, 23).

Dal punto vista della ‘verità dei fatti’, il Medioevo del suo Rublëv è allestito da Tarkovskij “come se l’evento e la storia fossero sfumature di colore che danno la certezza dell’insieme ma non del dettaglio” (Pellanda 2015, 105). Basti questo caso: se è pur verosimile che il pittore si trovasse ancora a Vladimir quando la città venne presa d’assalto dall’orda di Edigu nel 1410 (1408 nel film), è invece errato che a guidarli fosse Jurij Dmitr’evič. Era invece il principe di Suzdal’, poiché le lotte intestine alla casa regnante cominciarono solo nel 1425, alla morte di Vassilij I, e opposero Vassilij II suo figlio e, appunto, lo zio, principe di Zvenigorod.

È innegabile che la storia e l’arte russe medievali siano in Andrej Rublëv gli strumenti di uno spettacolo contemporaneo, ma tale operazione non necessita di apologie: infatti ogni grande opera vive di vita propria e al suo interno, seppure si affaccia sulla realtà (presente o passata che sia), ricrea a bella posta il mondo esterno secondo i propri intenti stilistici e diegetici.

Sotto il profilo storico era nostra intenzione fare il film come se avessimo narrato la storia di un nostro contemporaneo. E a questo scopo era necessario vedere nei fatti storici, nei personaggi, nei resti della cultura materiale, non futuri monumenti, bensì qualcosa di vivente, di respirante, di banale persino. Per quel che riguarda i dettagli, i costumi, gli oggetti di scena eravamo decisi a guardare tutte queste cose non con gli occhi degli storici, degli archeologi, degli etnografi, di coloro che raccolgono oggetti da museo. Una sedia doveva essere vista come un oggetto sul quale ci si siede, e non come una rarità da museo (Tarkovskij [1986] 2016, 35).

15 | Andrej Rublëv sulle impalcature dello Spassky Sobor del Monastero di Andronikov, 1592 ca. Miniatura, Mosca, Biblioteca di Stato russa, Vita miniata di San Sergio, ms. 8663, f. 304.

E tuttavia, dei medesimi documenti degli intendenti museali Tarkovskij dev’essersi servito in più luoghi. Eccone tre.

Il celebre manoscritto noto come Vita miniata di San Sergio (Licevoe Žitie Sergija Radonežskogo) (Gonneau 2006, 39) – una fra le tante copie che discendono dal testo redatto da Epifanio il Saggio e aggiornato da Pacomio il Serbo, nel primo quarto del Quattrocento – comparve alla corte moscovita tra il 1589 e il 1592. In quell’epoca, se non era ancora vivo il ricordo di Rublëv, certamente era più saldo quello della sua opera. Nel codice si contano non meno di 653 miniature. Una di queste illustra Andrej e Daniil, oramai anziani, arrampicarsi sui ponteggi della novella Cattedrale della Trinità di San Sergio; al lavoro coi pennelli [Fig. 15]; e riposare infine l’uno accanto all’altro, vegliati dallo sguardo dei confratelli. Per quanto l’abbia dovuta guardare con gli “occhi degli storici”, è difficile credere che Tarkovskij non si sia riferito a un’immagine tanto preziosa, che mostra non un’opera d’arte, ma il riposo durante la sua realizzazione, un commovente tratto di intimità che ha certamente ispirato la caratterizzazione dei due personaggi, legati nel film da un’amicizia fraterna.

Di un’altra fonte storica russa c’è chi intravede le tracce in Andrej Rublëv, ossia la Cronaca degli anni passati,

... il libro costruito pazientemente nel corso di secoli interi dai monaci del Monastero delle Grotte di Kiev, il libro nel quale si avvicendano, in uno stile spoglio e impersonale, scandito dalla storia e non dall’uomo, racconti epici ancora memori di canti pagani, […] leggende di santi e novelle d’ambiente claustrale avvolte in un’atmosfera degna del Beato Angelico, descrizioni di battaglie sanguinose (Vitale 1970, 48).

Insomma, un prodotto letterario nutrito dei moduli cronachistici può, in fase di stesura della sceneggiatura, aver condizionato lo sviluppo episodico del film? Sembra risponderci il regista stesso:

Io sono uno di coloro che hanno cercato di rendere vivo il rapporto fra il passato della Russia e il suo futuro. Per me l’assenza di questo rapporto sarebbe fatale. Io non potrei esistere (cit. in Salvestroni 2005, 9).

O ancora: se può apparire scontato collocare tra la ‘bibliografia primaria’ di Andreij Rublëv proprio la sua pittura (a ben vedere, la scelta invece è travagliata), non si può dire lo stesso della sceneggiatura del film. Questa apparve in forma di kino-roman sulla celebre rivista ‘Iskusstvo kino’ nell’aprile del 1964, e tanto fermento generò nel sottobosco cinematografico sovietico, timorato delle forbici della Goskino. Sono molti i brani a dimostrare che il ricamo stilistico è sorretto da una conoscenza puntuale della materia medievale che sarebbe poi stata ricreata o filmata, e che anzi il suo autore ha percorso la Moscovia del tempo nella letteratura specifica (come risulterà evidente dallo stralcio proposto qui sotto).

È questo il momento di porci una domanda fondamentale: se l’iconologia panofskiana sia effettivamente il metodo migliore da adottare per l’obiettivo che ci siamo posti, oppure se, lavorando di lima, stiamo seguendo questa strada solo per far combaciare i pezzi che ci hanno dati: le icone, il film su un iconografo e l’episodio di un errore iconografico. La nostra potrà sembrare una risposta partigiana, ma nell’immenso cantiere di Andrej Rublëv, dove le arti visive e il cinema lavorano gomito a gomito sulle impalcature, come maestranze specializzate sotto la guida del regista-architetto (Panofsky [1934] 2015, 92-93), il valore reale di questa operazione sta nel fatto che, per indagare il contenuto delle immagini, permette di mettere a sistema tutte le sorgenti di senso che collaborano alla fabbricazione di quello finale, unitario e simbolico, dunque iconologico.

Analizzando l’episodio de La campana 1423 possiamo dare un saggio di come il metodo assunto porti a risultati innovativi anche in questo ambito cinematografico. Le guardie del Gran Principe sono alla ricerca di un fonditore, ma pare che tutti siano stati decimati dalla peste, come il padre del giovane Boriška, il quale sostiene però che questi gli ha rivelato il segreto della fusione sul letto di morte. Il lavoro comincia e il ragazzo recita risoluto la sua parte. Il vecchio Andrej Rublëv si aggira per il cantiere.

L’autunno sta per finire. In un’immensa fossa rivestita di pietre una ventina di fonditori sta terminando la costruzione della forma superiore in argilla. L’enorme montagna […] viene rivestita di sbarre di ferro curve ad arco che terminano con un uncino. A poco a poco tutta la forma viene imprigionata in una grata simile a un giaco. […] Anche in alto, sui bordi della fossa, ferve il lavoro: si scaricano le assi, già digrossate o ancora grezze, si portano pietre e mattoni, si prepara la calce. […] Gli operai stanno piantando degli enormi tronchi di quercia, di almeno un metro di diametro. […] I carpentieri praticano delle aperture oblique nella parte superiore del tronco, da cui poi passeranno le funi (Tarkovskij 1992, 185).

La fusione avviene che la neve è già caduta. Davanti il Gran Principe e alcuni ambasciatori che parlano italiano, tutto il popolo si è riunito per udire il primo rintocco. E la campana suona. Ma cosa significa questo suono? Potrebbe essere una chiamata, anzi: due.

16 | Andrej Rublëv, 165’12.

La prima è una chiamata alla voce dell’artista. Le campane sono rubricate fra gli oggetti liturgici con dignità di interpretazione fino almeno dalla trattatistica dell’XI secolo. Guillaume Durand de Mende, nel suo Rationale diuinorum officiorum, vi individua il correlativo oggettivo dei predicatori. Se le campane richiamano i fedeli alla chiesa – fungendo da memento cadenzato nelle ore del giorno – e ricordano loro la promessa dell’Aldilà, i predicatori di quel regno si fanno voce. È come se prolungassero l’eco dei rintocchi fin dentro il luogo di culto propagatore. Inoltre, poste sulla sommità di questo, non è difficile riconoscere in quella sorgente sonora la metafora della voce di Cristo, disteso ai suoi piedi nella sagoma di una croce. Quando nel film la creazione di Boriška darà il primo suono, Andrej, muto per un voto di penitenza da lunghi anni, si deciderà a tornare alla parola. E alla predicazione della sua pittura. Quasi che dal rame fosse venuta, appunto, una chiamata di Dio o, meglio, del suo popolo, a cui egli dovesse rispondere.

Se uno dei nodi di Andrej Rublëv è riconoscibile nel silenzio dell’occhio interiore del monaco pittore, il perno su cui ruota il segmento finale sta nella dissolvenza incrociata di quel silenzio in una ritrovata simmetria tra la parola e un ripristinato vedere attivo di Andrej, tra il definitivo silenzio per l’orrore delle guerre e la cattiveria degli uomini, e la manifestazione esplicita della vitale forza dell’invenzione creativa, tra il suono della campana che si propaga all’intorno e le immagini insistite dell’epilogo a colori (Borin 2009, 276-277). Tarkovskij stesso non rimase sordo all’appello. Se è pur vero che in fase di lavorazione Andrej Rublëv andò incontro ad un taglio di soli quattro minuti (su duecento, e il regista se ne disse contento), una volta uscito nelle sale patrie fu fatto passare meticolosamente sotto silenzio. Tanto che qualcuno non ebbe remore a scrivere: “che un film di tale problematica […] non riesca a raggiungere le sale sovietiche è frutto di un burocratismo che si fa disgraziatamente vanto nel negare cittadinanza ad opere che mettono a repentaglio le certezze ricevute” (Siciliano 1970). Ciononostante, nel 1969 il Rublëv giunse a Cannes, e di lì poté suonare in tutta Europa.

La seconda chiamata è una chiamata all’unione del popolo. Risiede nel lessico comune il senso della potenza aggregativa delle campane (che stanno in cima al campanile) sulla comunità civile. Questa doveva essere tanto maggiore in un’epoca dallo skyline privo di soluzioni di continuità che non fossero le torri campanarie. Eccezion fatta per i frutti dell’impresa privata, i quali, con logica significativamente ‘maschile’, esprimevano tanto più vigore economico quanto più erano alti (Bacci 2005). Con gesto quasi occulto e senza dubbio rituale, la città vinta veniva privata delle proprie campane, con l’intento scoperto di metterla (politicamente) a tacere. Scrive ancora Tarkovskij nel brano citato che i moscoviti portarono spontaneamente alle fornaci il proprio argento. Non per la gloria del Gran Principe, ma perché i rintocchi sono di tutti. Gérard vescovo di Arras-Cambrai descrisse del suono delle campane “its capacity not only to terrify enemies but also to disperse demons” (Lešák 2018, 71).

In un’altra sede, di approccio materiale ed esperienziale, ci domanderemmo in quale modo l’attivazione di tale forza apotropaica, ad opera del dispositivo acustico delle campane, strutturasse lo spazio pellegrinale medievale. In questa, iconografica e teoretica, giova ricordare che nei marchi impressi sulla circonferenza di oggetti siffatti veniva riconosciuta la medesima forza. Possiamo allora supporre che Tarkovskij si sia adoperato nel mostrarci un rilievo del San Giorgio che uccide il drago [Fig. 16] non nel suo “significato convenzionale” panofskiano, ovvero come capitàno della militia Christi, ma come fosse un motivo artistico che concorresse al significato dell’insieme; e che per essere stampato proprio su quel simbolo dell’unione popolare che è la campana, questo san Giorgio di Tarkovskij non batta solo i Demoni spirituali ma anche quelli contingenti, come fosse divenuto l’icona più rappresentativa della Russia stessa. D’altronde ricordiamo le parole del regista su Andrej, che è geniale perché esprime “il proprio conflitto con la realtà in modo non diretto, ma allusivo”.

Infine, la nostra ricognizione esemplare sulle fonti del film non può che concludersi su un’opera coeva per linguaggio e ambientazione: la trilogia incompiuta di Ivan il Terribile (1944, 1958) del genio sovietico Sergej Michajlovič Ejzenštejn. Da una ricerca accurata sui quadri degli ‘ambulanti’, il gruppo di artisti russi anti-accademici della fine del XIX secolo, “risulta ormai incontrovertibile che la concezione e la costruzione ejzenštejniana, nonché l’intuizione dell’impaginato generale dell’Ivan affondano le proprie matrici culturali e figurative proprio in questa specifica zona di referenza artistica degli ultimi trenta anni dell’Ottocento russo” (De Santi 1987, 31-34).

17 | Chernobyl (id., Johan Renck, 2019), E3. Open Wide, O Earth, 45’27.
18 | Chernobyl E3, 44’19.

Ma non solo col fine di rappresentare il proprio Medioevo nazionale ed epico ci si è rivolti a questo immaginario pittorico. A 45’27 del terzo episodio della recentissima miniserie televisiva Chernobyl (che l’accento british degli attori testimonia non abbia ricevuto l’approvazione di Putin) vediamo, in dettaglio, appesa in un corridoio di un palazzo del KGB una copia del quadro Ivan il Terribile e suo figlio Ivan il 16 novembre 1581 [Fig. 17], dipinto da Il’ja Repin, capofila ambulante. Possiamo ben tralasciare il ricamo esegetico dell’abbraccio paterno dopo il gesto scellerato contro il figlio. L’abbraccio di Gorbačëv sarebbe stata una magra consolazione per il popolo sovietico in quel tempo disastroso. Ma fissiamoci sulla materia pittorica, pastosa, disfatta, squagliata, come la carne del pompiere che era di servizio la notte dell’esplosione della centrale: poco prima (44’19) [Fig. 18], non a caso, questi veniva mostrato accanto alla moglie. Tacciamo infine la teoria della preveggenza atomica di Tarkovskij.

6. Jurij Dmitr’evič Apollyon. Un ‘mostro’ iconologico

Il metodo di Panofsky si conclude con l’interpretazione iconologica orientata alla scoperta dei significati simbolici, i quali nel film Andrej Rublëv, in virtù della sua già dichiarata natura bifronte, sono ricavati da due serie di oggetti diversi: ovvero l’arte medievale in quanto tale e l’arte medievale in quanto ‘oggetto di scena’. Infatti:

I film sono per se stessi uno sconfinato repertorio iconografico, in quanto contengono elementi che sono di competenza sia dell’iconografia, nella specifica accezione panofskiana, sia di una peculiare iconografia cinematografica (Costa 1991, 114).

Nell’affollato succedersi filmico di immagini suscettibili di proposte interpretative ibride, quanto si proverà a fare sarà di contenere lo sguardo all’interno della Cattedrale di Vladimir, fissandolo in particolare su tre momenti che sembrano guadagnare il loro simbolismo per detractio, sottrazione – un’immagine mancante, un foro sul soffitto, dell’oro rubato.

Per ordine. Il commento del Giudizio universale dello spettatore dovrebbe attenersi a una macchia di fango su un muro intonacato, poiché questo e solo questo è ciò che ci concede il regista. Dopo il flash-back dell’accecamento, Andrej raccoglie una manciata di terra lurida e imbratta la preparazione bianca del muro dell’Uspenskij Sobor: pane per chi frequenti le arti performative, ma dubbio per chi le medievali. Dal momento che era pratica delle botteghe dei frescanti affidare le pareti più ‘prestigiose’ al maestro più autorevole, e che il nome di Andrej compare ancora per secondo nei documenti, sarebbe ragionevole ricercare nel braccio occidentale della croce greca i suoi contributi. Ma a dire il vero, anche alla presenza del lavoro realizzato negli scarti diegetici del film, stringendoci alle fonti materiali, l’intervento di Rublëv conservatosi (effettivamente in quel braccio) non restituisce l’idea del ciclo nel suo respiro profondo [Fig. 19]. Il tema iconografico del Giudizio era dilatato sulle volte e sui pilastri in una miriade di personaggi. Per quanto possiamo vedere, la variazione del disegno, il “movimento piano delle linee chiuse che contornano le figure” (Smirnova 2006, 101), l’accordo cromatico raggiungono invero presso Andrej e Daniil una grande armonia. Questi avevano ancora di fronte l’opera del loro predecessore bizantino, che erano incaricati di rinnovare. Ma se “i bizantini dipingevano a colori vivi le visioni delle calamità umane, l’ira del Giudice […], l’umanità rabbrividita, per meglio ammonirla con la narrazione pittorica” (Alpatov [1959] 1962, 26-27), presso i Russi il Giudizio si esprimeva altrimenti. “Negli occhi delle figure di Rublëv si può leggere più che il terrore per il castigo, la speranza del perdono, la fiducia in un limpido avvenire”. I toni cruenti sono stemperati in una visione serena, le “figure tipicamente russe degli apostoli, degli angeli e dei santi” sono architettate in un equilibrio pacificato, come se ognuno trovasse spontaneamente il suo posto su uno scranno o in una schiera, come ad esempio nel Tribunale degli apostoli, dove aleggia una “tranquilla pensosità” (Ivanova-Demina 1966, 4-5) più che gravare l’inesorabilità di un giudizio.

19 | Andrej Rublëv, Giudizio finale: Giacobbe, Abramo e Isacco in Paradiso, 1408. Affresco. Vladimir, Cattedrale della Dormizione.
20 | Andrej Rublëv, 78’57.

Tarkovskij ci cela Rublëv, ma c’è lo spazio per un commento ‘a cornice’, di due testimonianze prossime per geografia stilistica, una antecedente e una successiva agli affreschi di Vladimir del 1408. La prima: nella Chiesa del Salvatore della Trasfigurazione sulla collina di Neredica, presso Novgorod – edificata nel 1198 per volere del principe Jaroslav Vladimirovič e affrescata da maestri novgorodiani negli stessi anni – si è conservato un vasto ciclo di affreschi ‘primitivi’, prezioso documento della mediazione tra gli imperativi bizantini e le tradizioni locali amanti della minuta effusione di dettagli. In una delle scene infernali del Giudizio, “da sotto i piedi di Cristo sgorga il fiume di fuoco nel quale si vedono le teste dei peccatori […]. Sullo sfondo del fiume è raffigurata anche la caverna dell’Ade, nella quale Satana, con le sembianze di un vecchio seminudo con la chioma scompigliata e la barba arruffata, siede sopra un mostro a due teste e tiene sulle ginocchia l’anima di Giuda” (Alfa e omega 2006, 91). Un mostro degno del pennello di Daniil, il quale diceva nel film: “Ho inventato un demonio tale! Il fumo dal naso, gli occhi…”. All’altro capo dell’interpretazione a incastro, poco più di mezzo secolo dopo la morte di Rublëv, c’è l’icona dell’Apocalisse della Cattedrale della Dormizione di Mosca. Nel terzo e ultimo registro dell’opera, il nostro tema iconografico a prima vista

... mantiene il consueto aspetto della tradizione bizantina o russa. Il Cristo, isolato nella mandorla, è fiancheggiato dalla Vergine, dal Battista e dagli apostoli, suoi consiglieri […], ma non è più un fiume di fuoco quello che scende dal trono […], bensì il fiume di vita dell’Apocalisse (Christe 2000, 51).

Per affermare che la figura di Andrej Rublëv rappresenti il vessillifero verso la pacificazione del tema escatologico nel campo delle arti moscovite, sarebbe necessaria una reale collazione delle fonti figurative. Che Tarkovskij lo ritenesse tale è più facile a dirsi. Ed è invece nostra opinione che egli abbia oggettivato questi umori spirituali (personali del pittore, e sociali del suo popolo) per mezzo di una macchia di fango sulla parete (78’57). Con sottile lavoro non di dispositio, ma di ornatus, il regista ha giocato di non-detto, ha studiato l’ellissi “come mezzo efficace per suscitare attese e per protrarne il soddisfacimento ‘proiettando in avanti’”, seppure di secoli, “l’attenzione di chi ascolta o legge”, o guarda (Mortara Garavelli 2016, 224). Ciò che importa, sul versante meno battuto di un’iconologia meticcia, è che Tarkovskij – volente o nolente – abbia dotato di un valore simbolico di tale portata un’immagine solamente promessa, preannunciata da uno squarcio sul bianco che sarebbe divenuto colore [Fig. 20].

Sostiamo ora ai due terzi del film. Dispersa l’orda e sopite le fiamme, dal tetto della Dormizione cadrà la neve sui corpi esanimi di quanti vi si erano rifugiati (116’46). Nemmeno le grandi chiese a pianta centrale della tradizione orientale sembrano poter sfuggire la metafora della croce di Cristo, nonostante non ne imitino la sagoma. “Il contenente (la chiesa) è la condizione dell’esistenza del contenuto (la Chiesa), il mezzo e la forma stessa della sua realizzazione” (Baschet 2014, 48), nonché l’immagine più perfetta dell’unità del popolo che vi si raccoglie in preghiera. Divellere il tetto della cattedrale (che nella realtà dei fatti è improbabile sia accaduto, dal momento che i Tatari ne asportavano solo le parti più preziose) assume il limpido significato di una ferita mortale al Corpo della comunità religiosa. La complessa simbologia che regola la disposizione e l’accesso agli spazi consacrati è così frantumata dalla sommità.

21 | Gorčakov nel finale colorato di Nostalghia.
22 | Andrej Rublëv, 116’46.

E nelle chiese di Tarkovskij nevicherà ancora. Dopo che solo mediante il sacrificio del poeta Gorčakov è stata estinta la Nostalghia, il regista si figura, con un’efficace soluzione di montaggio, che l’abbazia scoperchiata di San Galgano abbracci l’isba della Russia lontana [Fig. 21]. Mentre piano scende l’acqua dal cielo (124’). Poco prima, l’acqua addirittura fluisce dentro la chiesa allagata di San Vittorino [Fig. 22] – una prepotente irruzione del più tarkovskiano dei simboli in un luogo di culto. “Non c’è nulla di più terribile della neve che cade in una chiesa, non è vero?”, domanda Andrej al fantasma di Teofane, che si aggira tra le icone carbonizzate.

Infine, il terzo simbolo che abbiamo saputo vedere attorno la cattedrale di Vladimir, e spingere nel pozzo della tradizione medievale, è quello che forse per ultimo restituirebbe il suono del fondo, e con l’eco più lunga. Tanto deve durare la sua caduta nella storia delle immagini. Si tratta, infatti, di quanto azzardiamo di battezzare – valgano le attestazioni di prudenza che hanno preparato la conclusione – come antitesi tarkovskiana del tipo iconografico dello Iesous Christos Soter.

Il principe Jurij Dmitr’evič appare sul tetto dell’Uspenskij Sobor (105’45). Il fumo di una pira gli nasconde la folla terrorizzata, riversata ai suoi piedi, mentre avvolto nel mantello sembra sporcare di bianco le grandi cupole che i predoni stanno spoliando dei loro fogli dorati (106’20). Ad un tratto, uno di questi gli scorre alle spalle al rallentatore (106’55) [Fig. 23]. Fissiamo questa immagine, perché si farà avanti fra le altre, e torniamo alla chiusa del film.

Anzi, al 1918, quando Grigorij Chirikov rinvenne sul Gorodok di Zvenigorod tre icone molto rovinate ma di altissimo pregio artistico, e senza indugio Igor’ Grabar le attribuì a Rublëv, credendo così di poterne colmare la fase di mezzo della carriera, ignota alle fonti (Gonneau 2006). Sebbene nel mezzo busto del Pantocratore si possa ritrovare quella monumentalità tradotta nei “tratti somatici tipicamente russi” (Sergeev [1981] 1994, 188) nota alla Dormizione, e nonostante il “raffinato ellenismo delle proporzioni” (Smirnova 2006, 102-103), l’Arcangelo Michele e l’Apostolo Paolo denunciano un bizantinismo incoerente per la maturità dell’artista e non pensabile come fase giovanile. Cionondimento, lo Zvenigorodskij čin, il ‘Cielo di Zvenigorod’, ha nutrito per un secolo l’immaginario pittorico russo con il nome di Andrej. Tanto che è sugli occhi del Salvatore che si esaurisce la conquista ultima del colore (191’10) anche nella pellicola di Tarkovskij [Fig. 24].

23 | Andrej Rublëv, 106’55.
24 | L'icona del Redentore, 1420 ca., Mosca, Galleria Tretyakov.

In sala dopo tutto questo colore torna la luce. Ma allo spettatore che dalla vittoria del finale volgesse lo sguardo al colmo della distruzione, sulle cupole della cattedrale, paludato in un campo dorato come il Cristo appena visto vi era adagiato, il crudele principe di Zvenigorod apparirà come il suo anti-modello. E anzi un ‘Apollyon russo’. Nella Bibbia al suono della quinta tromba dell’Apocalisse di Giovanni, leggiamo ancora questo nome nella forma greca:

Ed aveano per re sopra loro l'angelo dell'abisso, il cui nome in Ebreo è Abaddon, ed in Greco Apollion (Ap 9,11).

“Apollyon”, da apollumi, ‘distruggere’. Un Distruttore che al ralenti prepara il Salvatore. Ci risparmiamo la conta delle probabilità che il regista fosse cosciente di quanto stava rappresentando. Basti qui che l’espediente tecnico che rileva la scena è deliberato. Invece, per rispettare il principio ‘documentario’ dell’iconologia di Panofsky, del nostro ‘mostro’ dovremmo distinguere una paternità condivisa. Ed ecco che si svela appieno la metafora che ha imperniato questo lavoro.

Una goccia più una goccia fanno una goccia più grande, non due.

Sulle vette dell’Uspenskij Sobor, dove era alleato del divino, l’oro di cui si imbeve lo Zvenigorodskij čin si fonde con l’oro ‘di scena’ alle spalle di Jurij Nazarov, principe di Zvenigorod, per divenire uno straordinario monito contro la cupidigia, l’inedito valore simbolico sorto tra le icone e la cinepresa, l’oro di Tarkovskij [Fig. 25]. Vale a dire che se un Kunstwollen russo è emerso dall’ostensione dell’arte di Rublëv (e un Kunstwollen sovietico dal grande lavoro collettivo al cantiere della campana), in questi attimi esso somiglia a un peculiare Kunstwollen tarkovskiano: per l’aver mutato di significato alla luce che emana lo scenario aureo dietro i propri attori.

Le gocce di Domenico non erano in realtà che i due linguaggi figurativi del film, di cui non abbiamo voluto fin qui dimostrare la sola convivenza pacifica, né stanare i prestiti dell’uno all’altro non dichiarati in sede filologica, da un regista, peraltro, che a noi pare così spesso restìo a confermare quanto ci si aspetterebbe. Con le parole del matto citate qui nell’incipit volevamo invece dire che ai nostri occhi Andrej Rublëv si è fatto custodia irripetibile della sopravvivenza artistica della Moscovia quattrocentesca. La quale nella pellicola di Tarkovskij si è ingrossata come un fiume che si sfami della pianura, ed è tracimata portando con sé le sue categorie interpretative e linguistiche: russo e sovietico, sacro ed umano, un ‘film medievale’. Per irrorare, in conclusione, alla confluenza tra il cinema e la pittura, quel personaggio sazio di definizioni (ecco il grande peccato di Panofsky: la conversione dell’immagine in parola) che nemmeno noi abbiamo desistito dal nominare Jurij Dmitr’evič Apollyon.

25 | Andrej Rublëv, 178’10.

*Un ringraziamento a Fabrizio Lollini che mi ha seguito nella tesi triennale conseguita nel luglio di quest'anno, e in questo articolo.

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English abstract

This paper suggests a possible interpretation of the intersection within paintings and cinema in the 1966 feature Andrei Rublev, by the Soviet director Andrei Tarkovsky. The analysis is carried out in the methodological perspective of Panofsky’s iconology, and its innovative results shed light on a unique artistic vision, which the cooperation between Byzantine paradigms and the contemporary film medium (under the direction of Tarkovsky) has given birth to.

key words | Tarkovsky; Rublev; Panofsky

Per citare questo articolo / To cite this article: G. Confortin, L'oro di Tarkovskij. Per un'iconologia indebita di Andrej Rublëv (1966), “La Rivista di Engramma” n. 168, settembre/ottobre 2019, pp. 85-121 | PDF 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2019.168.0008