"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Paralos

La città è una nave, la nave è la città

Monica Centanni

English abstract

1 | Trireme ateniese su una pittura vascolare del V secolo a.C.

1. Paralos: un nome, un dio

Atene 430 a.C.: imperversa la pestilenza che, incrociando i numeri riportati dalle fonti antiche, uccide almeno un quarto della popolazione della città, calcolato al tempo in circa 75.000 abitanti. Sono state proposte diagnosi diverse sul genere dell’epidemia, considerato di volta in volta come una forma di tifo, di vaiolo, o di affezione alle vie respiratorie; le analisi attuali sembrano confermare il dato sulla provenienza del morbo dall’Etiopia via Egitto (Thuc. II, 48: v. sul punto, l’analisi paleopatologica di Littman 2009, che incrocia le fonti antiche con le nuove metodologie diagnostiche e di modellazione, con un’utile ricognizione dello status quaestionis e della bibliografia recente sul tema).

Il primo e più autorevole testimone dell’epidemia è Tucidide che attesta la sua conoscenza diretta dell’evento affermando di essere egli stesso un sopravvissuto al male e di “aver visto” molti malati (Thuc. II, 48): è la certificazione dell’esperienza diretta dei fatti e della verifica autoptica, come noto un caposaldo metodologico della neonata ‘scienza’ storica. Nel tremendo affresco  di insieme, lo storico descrive anche in dettaglio vari sintomi del male (Thuc. II, 49: la descrizione sarà ripresa nella meravigliosa chiusa del De rerum natura di Lucrezio, VI, 1145 ss.), dall’alto numero di morti fra gli stessi medici, impreparati ad affrontare il male sconosciuto (Thuc. II, 47), fino ai disordini che scoppiano in città quando i cittadini, abbandonata ogni speranza, perdono ogni freno senza più “alcun timore degli dei né rispetto per alcuna legge degli uomini” (Thuc. II, 53).

L’epidemia infuria ma non si placano neppure le ostilità con Sparta; gira fra l’altro la diceria che un oracolo, come sempre ambiguo, avesse previsto una coincidenza tra l’inizio della guerra fra le poleis greche e lo scoppio di una pestilenza – λοιμός – o, come sostenevano altri, di una carestia – λιμός – (Thuc. II, 54). Nel frattempo, l’esercito dei Peloponnesiaci sbarca sulla regione costiera e arriva ad occupare e saccheggiare le miniere del Laurion (Thuc. II, 55). Pericle, al comando dell’esercito ateniese, organizza in parallelo un attacco navale sulle coste del Peloponneso (Thuc. II, 56), ma più del valore sul campo, è il terrorizzante clima mortifero ad aver la meglio e la paura del contagio che si diffonde anche nelle file dei nemici di Atene: infatti, dopo aver devastato l’Attica, l’esercito peloponnesiaco si ritira di fronte alle notizie sul dilagare del morbo e sulla quantità di funerali in città (Thuc. II, 57). In questo quadro, Pericle comincia a perdere consensi e quell’aura di autorevolezza e prestigio di cui, pur nella turbolenta vita politica ateniese, aveva goduto per decenni; pare cedere il perno essenziale di quello strano regime descritto come una “democrazia in cui il potere, di fatto, era affidato al primo dei cittadini” (Thuc. II, 65). Bersaglio di accuse pesanti da parte dei suoi concittadini (Thuc. II, 59), Pericle convoca l’assemblea e, con un discorso di levatura straordinaria, ricorda ai suoi concittadini che l’incombere della pestilenza non può sconvolgere le menti:

καὶ ἐγὼ μὲν ὁ αὐτός εἰμι καὶ οὐκ ἐξίσταμαι· ὑμεῖς δὲ μεταβάλλετε, [...] καὶ μεταβολῆς μεγάλης, καὶ ταύτης ἐξ ὀλίγου, ἐμπεσούσης ταπεινὴ ὑμῶν ἡ διάνοια ἐγκαρτερεῖν ἃ ἔγνωτε [...]. ὅμως δὲ πόλιν μεγάλην οἰκοῦντας καὶ ἐν ἤθεσιν ἀντιπάλοις αὐτῇ τεθραμμένους χρεὼν καὶ ξυμφοραῖς ταῖς μεγίσταις ἐθέλειν ὑφίστασθαι καὶ τὴν ἀξίωσιν μὴ ἀφανίζειν [...] ἀπαλγήσαντας δὲ τὰ ἴδια τοῦ κοινοῦ τῆς σωτηρίας ἀντιλαμβάνεσθαι (Thuc. II, 61, 2-5).

Io ero prima su queste posizioni e da lì non mi sono mosso. Siete voi che avete cambiato idea […]: ora che vi è piombato addosso questo enorme sconvolgimento, e per di più all’improvviso, la vostra mente è troppo abbattuta per tenere ferme le decisioni che avevate preso. […] Ma chi è cittadino di una grande città ed è stato allevato alla sua altezza, dovrà esser disposto ad affrontare anche le più gravi disgrazie, senza far ombra alla propria dignità […], e sollevando lo sguardo dai propri lutti privati deve rivolgerlo alla salvezza comune.

Le parole di Pericle sono efficaci e, pur nel momento di difficoltà, colpiscono nel segno: pur essendo in stato di accusa, gli Ateniesi confermeranno Pericle alla guida della città fino alla sua morte che avverrà di là a poco. Il governante certo non lusinga i suoi concittadini, non ha timore di contraddirli o di mettere in evidenza le loro debolezze (Thuc. II, 65, 8) ma parla dritto alla loro dignità. Perciò ogni volta, anche questa volta, li persuade a essere forti e coraggiosi e ad assumersi la responsabilità delle scelte per il bene comune, mettendo da parte le lacrime dei loro privati dolori. È del resto questo il contegno di uno stile improntato a una lucida, superiore, compostezza, tratto che caratterizza sempre il contegno pubblico di Pericle. Quasi sempre.

Quella devastante pestilenza attaccava senza distinzioni chi era debole e chi era nel pieno della salute (Thuc. II, 49, 1), chi non si era fatto curare ma anche chi era stato sottoposto a tutte le cure (Thuc. II, 51,3): Pericle affronta puntualmente, con esemplare fermezza, una dietro l’altra le disgrazie, la perdita di tanti amici (“tutti coloro che erano più preziosi nella politica della città”, scriverà Plutarco), e a seguire la morte delle sue stesse sorelle e del primo figlio Santippo (con il quale per altro si era aperto un profondo dissidio per la condotta scorretta del giovane: Plut., Per. 36, 6). Ma dopo tanti lutti sopportati con magnanimità, dopo che ai tanti funerali dei suoi cari “nessuno lo aveva mai visto versare una lacrima”, Pericle cede:

ἀλλ᾽ οὐδὲ κλαίων οὐτὲ κηδεύων οὐτὲ πρὸς τάφῳ τινὸς ὤφθη τῶν ἀναγκαίων, πρίν γε δὴ καὶ τὸν περίλοιπον αὑτοῦ τῶν γνησίων υἱῶν ἀποβαλεῖν Πάραλον. ἐπὶ τούτῳ δὲ καμφθεὶς ἐπειρᾶτο μὲν ἐγκαρτερεῖν τῷ ἤθει καὶ διαφυλάττειν τὸ μεγαλόψυχον, ἐπιφέρων δὲ τῷ νεκρῷ στέφανον ἡττήθη τοῦ πάθους πρὸς τὴν ὄψιν, ὥστε κλαυθμόν τε ῥῆξαι καὶ πλῆθος ἐκχέαι δακρύων, οὐδέποτε τοιοῦτον οὐδὲν ἐν τῷ λοιπῷ βίῳ πεποιηκώς (Plut., Per. 36, 8-9).

Nessuno lo ha aveva mai visto piangere nei riti funebri né nelle sepolture dei suoi congiunti, prima che perdesse l’ultimo che gli era rimasto dei suoi figli legittimi, Paralos. Piegato da quel fatto tentò di tener fermo il suo atteggiamento e conservare la sua altezza d’animo, ma quando andò a portare la corona funebre al cadavere del figlio, alla sua vista fu vinto dal dolore e scoppiò forte a piangere, come mai aveva fatto in tutta la sua vita.

Paralos è il nome che Pericle aveva dato al più piccolo dei suoi figli al quale, a differenza della relazione difficile e via via degenerata con il primogenito Santippo, stando al passo plutarcheo era particolarmente affezionato. In riferimento al repertorio onomastico ateniese del V secolo il nome ‘Paralos’ appare una scelta certo rara e piuttosto strana (si registrano in tutto soltanto otto attestazioni del nome: v. il prezioso Lessico onomastico di Fraser, Matthews 1994). Ma forse, vista nella temperie politica e culturale del tempo, non così strana. Il periodo in cui si può verosimilmente collocare la nascita del “figlio legittimo più piccolo” di Pericle sarà tra gli anni ’60 e gli anni ’50 del V secolo. È il periodo in cui in Atene l’impegno politico comporta tra i suoi effetti secondari la moda di dare ai figli “nomi militanti”: in un’iscrizione dedicatoria degli anni ’40 del V secolo (IG, I, 3a ed., 954) ritroviamo una coppia di fratelli che portano i nomi di ‘Demokrates’ (Potere-del-popolo) e ‘Demochares’ (Grazia-del-popolo) – nomi semanticamente eloquenti in un periodo in cui con tutta probabilità il termine stesso ‘Demokratia’ non era ancora entrato nel lessico politico d’uso comune e forse a suonava ancora come una parola ostica, se non negativa (v., da ultimo, Centanni 2018, con bibliografia); un altro, e più noto, ‘Demokrates’, era il padre di Liside, amante di Alcibiade e quindi poteva essere all’incirca coetaneo dell’omonimo gemello dell’iscrizione. Sappiamo da Plutarco che i figli gemelli di Cimone, anch’essi pressoché coetanei dei gemelli Demokrates e Demochares, si chiamavano Lacedemonio ed Eleo, una chiara evidenza delle tendenze filospartane del padre (Plut., Cim., 16). Tra le figlie di Temistocle, a raccontare l’orizzonte aperto e mobile dell’avventuroso stratega ateniese, troviamo i nomi di Sibari e di Italia e la più piccola si chiamava Asia, “forse nata durante la permanenza del padre in Asia Minore” (Muccioli 2013, 339-341 e note 243 e 246, in rif. a Plut., Them., 32).

L’orizzonte cronologico per la nascita e l’imposizione di questa serie di nomi di nuovo conio è il decennio 470-460 a.C.: evidentemente in quel torno d’anni in un’Atene che stava sperimentando il contagio dell’impegno pubblico attivo e l’incendio di forti passioni politiche, fra i simpatizzanti di un partito e dell’altro era comune dare nomi ‘politicamente parlanti’ ai propri figli (sulla rilevanza dell’onomastica in periodi di alta tensione politica, in particolare in riferimento a Cimone e ai nomi dei suoi figli, v. le illuminanti osservazioni di Fuscagni 1989, 108-110). Anche Paul Cartledge aveva notato come:

The thinking behind the choice of nomenclature was […] namely the desire […] to make a public statement of democratic political intent. […] The habit of politically motivated nomenclature was without question deeply ingrained in the Athenian […] upper classes (Cartledge 1990, 45).

Più di recente, uno studioso russo che ha dedicato un lavoro importante all’onomastica ‘democratica’ nell’Atene del V secolo, ha sottolineato come il dato varia ed è da valutare in modo diverso a seconda dei periodi in cui viene registrato:

Известно также, что в периоды революционных перемен в обществе антропонимы могут быть мотивированы резкими изменениями в социально-политической жизни общества. Я отдаю себе отчет в том, что для большинства исторических периодов собственные имена не могут использоваться как источник по идеологии. Только периоды революционных изменений в сфере общественного сознания, когда принятая в обществе система ценностей оказывает влияние на семейную сферу, дают возможность для исторических исследований в этой области. В качестве примера можно привести переход от языческих к христианским именам в поздней античности. Эпохи революционных перемен дают нам другие образцы. Для периодов после Французской революции XVIII в. и Русской революции ХХ в. Было характерно «революционное имянаречение (Карпюк 2003, 178-179).

È noto come nei periodi di cambiamenti rivoluzionari nella società, gli antroponimi possono trovare ragioni nei forti cambiamenti della vita politica e sociale. […] Certo per la maggior parte dei periodi storici i nomi propri non possono essere usati come fonte per la ricostruzione dell’ideologia. Soltanto nei periodi di cambiamenti rivoluzionari nell’ambito della coscienza sociale, quando il sistema di valori che viene recepito nella società influisce sulla sfera familiare, ci può essere un’opportunità per la ricerca storica in questo settore. Un esempio è il passaggio dai nomi pagani a nomi cristiani nella tarda antichità. Anche le epoche di cambiamenti rivoluzionari ci danno altri esempi: nei periodi successivi alla Rivoluzione francese del XVIII secolo e alla Rivoluzione russa del XX secolo un fenomeno caratteristico era l’‘imposizione di nomi da rivoluzione.

Partendo dunque dall’ipotesi che le mode onomastiche nei periodi caldi della storia politico-sociale siano sintomi di opzioni ideologiche precise, siano “идеологически окрашенные”, “colorati ideologicamente” (Карпюк 2003, 178 e 262), dall’analisi accurata di tutte le testimonianze onomastiche di V secolo si evince una crescente popolarità, soprattutto nell’ambito delle famiglie aristocratiche con orientamento politico democratico, dei nomi con radice Dem-, con una concentrazione che si infittisce verso la fine del V secolo e una progressiva rarefazione, in corrispondenza alla fase dell’“assenteismo politico” che caratterizza la vita pubblica a partire dal secolo successivo (Карпюк 2003, 176-232; un ampio abstract inglese del capitolo è alle pp. 262-265); finché i nomi, dei quali inizialmente si apprezza la ‘coloritura’ politica, non tendono a sbiadire, il significato evapora e via via che la democrazia si indebolisce, diventano nomi diffusi comunemente, senza evidenza di connotazione semantica, in cui la materia fonica e la consuetudine si sovrappongono fino a far svanire la pregnanza etimologica o ideologica (Карпюк 2003, 196, 204, 214).

Ma che per tutto il V secolo, nella fase acuta dell’invenzione del politico, tutto sia intriso di pensiero e di ideologia e gli stessi nomi propri siano “политически значимые”, “politicamente significativi” (Карпюк 2003, 182), è comprovato non solo dall’andamento delle linee di frequenza dei singoli nomi attestati, ma anche dalle scelte di invenzione che Aristofane compie sui nomi di diversi personaggi delle sue commedie. È il caso di ‘Demos’ promosso nei Cavalieri a persona dramatis; sono anche il padre e il figlio delle Vespe che, divisi sui gusti politici, portano i nomi parlanti di ‘Filo-Cleone’ Φιλοκλέων e di ‘Schifa-Cleone’ Βδελυκλέων; ma è soprattutto la dichiarazione di Strepsiade nelle Nuvole:

μετὰ ταῦθ᾽, ὅπως νῷν ἐγένεθ᾽ υἱὸς οὑτοσί,
ἐμοί τε δὴ καὶ τῇ γυναικὶ τἀγαθῇ,
περὶ τοὐνόματος δὴ ᾽ντεῦθεν ἐλοιδορούμεθα·
ἡ μὲν γὰρ ἵππον προσετίθει πρὸς τοὔνομα,
Ξάνθιππον ἢ Χάριππον ἢ Καλλιππίδην,
ἐγὼ δὲ τοῦ πάππου ᾽τιθέμην Φειδωνίδην
τέως μὲν οὖν ἐκρινόμεθ᾽. εἶτα τῷ χρόνῳ
κοινῇ ξυνέβημεν κἀθέμεθα Φειδιππίδην 
(Aristoph., Nub., 60-67).

Quando poi nacque il bambino,
allora fra me e la mia signora ci fu
un po’ di maretta per via del nome.
Lei ci voleva infilare un -ippo a tutti i costi: 
Santippo, Carippo o Calippide; 
io invece volevo un nome al risparmio. Fidonide, come mio padre.
Abbiamo discusso un bel po’,
poi ci siamo messi d’accordo e l’abbiamo chiamato Fidipidde (traduzione di Alessandro Grilli).

Il richiamo a cavalli e cavalieri fa nobile. E ‘Santippo’, per di più, era il nome del figlio maggiore di Pericle. Ma la questione è: il figlio minore, il più amato di Pericle, da dove aveva tratto il suo nome? Forse da Paralos, un dio minore.

Dalle rare testimonianze in cui compare il suo nome, ricaviamo che Paralos era un semidio, figlio di Poseidone (sulla discendenza da Poseidone, Shapiro, arrotondando un po’ le testimonianze, fa di Paralos un fratello di Teseo “As a son of Poseidon, Paralos would have been considered a brother of Theseus”: Shapiro 2019, 229). L’incrocio delle fonti letterarie e archeologiche ha confermato che esisteva al Pireo un santuario dedicato a Paralos, come protettore della buona navigazione: forse però quel santuario, la cui esistenza è comprovata da evidenze dirette e indirette, non doveva avere una consistenza rilevante, considerato che non sono attestati reperti che provengano sicuramente da quel tempio e che il sito stesso in cui sorgeva non è stato identificato (Beschi 1969-1970, 126).

Risulta invece decisamente un maggior numero di occorrenze delle forme derivate dal termine Paralos, come denominazione di una circoscrizione dell’Attica e precisamente della fascia costiera che da Atene discende verso Capo Sounion. In questo senso nelle fonti la designazione di ‘Paralii’ è in molti casi da intendersi come riferita agli abitanti della costa. Ancora il lessico di Suida, riportando uno scolio ad Aristoph. Lys. 58, registra che i ‘Paralii’ sono da intendersi generalmente come i cittadini della porzione costiera dell’Attica, secondo la divisione del territorio in quattro parti che in antico aveva fatto Pandione, il successore di Cecrope, affidando le parti ai quattro figli, secondo cui a Pallante toccò la regione costiera:

Παράλων, διῄρετο εἰς τέσσαρας μοίρας πάλαι ἡ Ἀττική. Πανδίων γὰρ διαδεξάμενος Κέκροπα, προσκτησάμενος δὲ καὶ τὴν Μεγαρίδα, ἔνειμε τὴν χώραν τοῖς παισὶν εἰς τέσσαρας μοίρας· Αἰγεῖ μὲν τὴν παρὰ τὸ ἄστυ μέχρι Πυθίου, Πάλλαντι δὲ τὴν Παραλίαν, Λύκῳ δὲ τὴν Διακρίαν, Νίσῳ δὲ τὴν Μεγαρίδα (Suida π 391, IV 38, 1-5 Adler).

Dunque, nell’Atene del V e del IV secolo a.C., ‘Paralia’ designa genericamente, sotto il profilo topografico, la regione costiera dell’Attica: la stessa che l’esercito dei Peloponnesiaci attraversa e saccheggia nel 430 a.C., mentre ad Atene imperversa la pestilenza, avendo come mira il saccheggio delle vicine miniere del Laurion (Thuc. II, 55). Ancora in greco moderno, il significato di παραλία è, con ripresa precisa dell’etimo, “τμήμα, ζώνη ξηράς που βρίσκεται δίπλα στη θάλασσα”, “porzione o zona di terra situata vicino al mare” e l’aggettivo παράλιος -α -ο indica “που βρίσκεται δίπλα σε θάλασσα, παραθαλάσσιος” “ciò che sta vicino al mare, costiero”.

Il nome di Paralos si confonde e sfuma quindi nella ‘spiaggia’ e viene a coincidere con il termine corografico della regione costiera dell’Attica o, a un grado ancor minore di soggettivazione, allo sfuggente profilo mitografico del figlio di Poseidone si sovrappone il nome comune che corrisponde all’etimo.

Come ha notato Emile Kearns, lo strano statuto mito-ontologico del figlio di Poseidone, l’evanescente consistenza mitografica di Paralos lo assimila a una particolare schiera di ‘eroi’, semidei minori, dalla sfera di influenza assai limitata anche come raggio di azione:

The sphere of minor heroes is so limited that they were more probably invoked in time of peril only when their tombs or shrines were in close proximity. Within this rather limited area, however, these heroes do seem to perform useful functions (Kearns 1989, 43).

Si tratta di una serie di eroi il cui nome riflette, in un cortocircuito etimologico, la time a loro dovuta e il loro stesso ambito di influenza:

The names of other Attic heroes suggest that the name Paralos might also have been invoked as a kind of calque or mask for another identity […]. A number of Attic heroes, such as the Hero at the Saltmarsch (Ἥρως ἐπὶ τῆς ἁλῇ) and the Young Man (Νεανίας), appear to have been addressed with opaque names of this kind (Bubelis 2010, 398 e n. 59).

Di Paralos, dunque non risultano tracce di sue specifiche vicende mitografiche. Giusta Plinio leggiamo che Egesia di Magnesia avrebbe rivendicato a Paralos un brandello di storia mitica, dichiarando che era stato l’inventore della navigazione:

Longe nave Iasonem primum navigasse Philostephanus auctor est, Hegesias Parhalum […] (Fr. Gr. Hist. 142 F 21, ap. Pl. Nat. Hist. VII, 207).

Ma già Plinio ricorda che il primato sull’arte della navigazione riferito da Egesia a Paralos è conteso e attribuito a diversi heuretai da altri autori. Sviluppando le osservazioni che Kearns e Bubelis riservano al figlio di Poseidone e alla schiera di dei ed eroi minori a lui affiancabili, potremmo dire che Paralos dal suo santuario del Pireo sarà stato bensì il protettore della navigazione al quale i marinai e in generale i naviganti, in partenza o tornando salvi in quello specifico porto, potevano rivolgersi con speranza o con riconoscenza (propone un illuminante parallelismo con il localismo dei culti dei santi cattolici Kearns 1989, 42-43), ma è da considerare un tipo di eroe strettamente funzionale che riesce a esercitare potere solo se il suo santuario è ‘a tiro di invocazione’. In questo senso il culto di Paralos è esclusivamente ateniese, e non potrebbe che essere così.

Più che il nome di una entità semidivina, Paralos è dunque il nome di un genio, e in particolare del genio anfibio: la sua time è il litorale, la striscia di confine del bagnasciuga, che non è mare e non è terra. Di fatto l’eroe Paralos è (e dà) il nome di ciò che sta a bordo del mare, sul limite incerto della spiaggia, di quanto sta tra mare e terra.

Certo è che il nome Paralos è rarissimo nell’onomastica del V secolo (due casi attestati) e ha una stagione di (relativa) popolarità soltanto più tardi in età imperiale romana (Bubelis 2010, 399 e n. 64, con bibliografia). La scelta del nome di Paralos da parte di Pericle per il figlio appariva così strana, che secondo uno scolio il nome della famosa trireme Paralos sarebbe stato ispirato al nome del figlio di Pericle (ispirato all’eroe), e non viceversa (Σ ad Demosth. 21.171 n. 580 Dilts).

Il labile profilo del semidio Paralos acquista dunque consistenza e concretezza verso la metà del V secolo quando Paralos suona, prima di tutto, come il nome di una nave, il cui profilo nel paesaggio simbolico dell’Atene del V secolo si staglia in modo ben più nitido rispetto all’eroe, o per meglio dire, dal santuario dell’eroe da cui prenderebbe il nome, che risulta molto sfuocato anche in Suida, π 389 (IV 37, 22-23 Adler): ἀπό τινος ἥρωος τοὔνομα λαβοῦσα (si noti l’indefinito τινος). Secondo Fozio il nome della nave deriverebbe non già direttamente dall’eroe ma dal suo santuario al Pireo:

Παράλιον ἡρῷον Παράλου τινὸς ἥρωος ἀφ´ οὗ τάχα καὶ ἡ πάραλος ναῦς (Fozio: π 263, ed. Theodoridis).

Paralion, il santuario di un eroe Paralos: da cui probabilmente anche la nave Paralos.

Pericle dunque avrebbe dato al figlio il nome di un semidio di così basso profilo? Con tutta probabilità quando, verso la metà del V secolo a.C., nasce il bambino, Paralos era il nome non tanto di un dio minore, ma di una nave. La scarsità delle attestazioni del nome prima di questa data comporta il fatto che proprio il nome del figlio di Pericle assuma un’importanza indiziaria e venga considerato una prova della compresenza di Paralos – da intendersi come divinità e nave insieme – nell’immaginario del tempo:

The date of his birth [of Perikles’ son] provides a terminus ante quem for Paralos, as both hero and vessel, as a significant presence in Athenian life (Bubelis 2010, 393 n. 35).

Si tratta perciò di una costellazione che congiunge geografia, culti e mitografie locali, realia della vita politica dell’Atene del V secolo: Paralos, il figlio di Poseidone che “per primo guidò una nave”; il Paralion, l’heroon a lui dedicato al Pireo, al quale si votavano i naviganti; la regione costiera che da Atene scende verso Capo Sounion; la Paralos, la più importante delle ‘triremi sacre’ ateniesi e i Paralii (secondo Polluce detti anche ‘Paralitai’) ovvero la speciale corporazione dell’equipaggio, sono tutti in connessione con la striscia sottile che separa la terra dal mare e che il mare alla terra congiunge – e con l’invenzione, la nave, che su quel frangente connette terra a mare e nega l’impermeabilità dei due domini.

2. Paralos, il nome di una nave

Paralos dunque anche, e soprattutto nel V secolo a.C., il nome di una nave. La traccia però del ‘dio minore’ resta importante e continua ad avere una sua influenza se è vero che, già nella Grecia del V secolo a.C., è raro che una nave tragga la sua denominazione da un nome di genere maschile; e questo potrebbe essere il motivo per cui lo stesso nome della nostra nave spesso si trova virato in forma aggettivale come ‘Paralia’ (lo studio di riferimento per i nomi delle navi ateniesi resta Schmidt 1931; v. anche Wilson 2011).

A quanto registra, sintetizzando, il lessico di Suida, Paralos è la “nave sacra”, spesso citata in coppia con la Salaminia (Suida, π 387, IV 37, 14 Adler: Πάραλος, ναῦς ἱερά. […]. ἦν δὲ καὶ ἑτέρα Σαλαμινία ναῦς), forse collegata al genos dei ‘Salaminii’, ma il cui nome più probabilmente era legato alla memorabile vittoria navale del 480 a.C. (Shapiro 2019, 228-229, con bibliografia). Varie erano le funzioni delle ‘navi sacre’ (per le fonti, v. Jordan 1975, 153-160) e non è escluso che scortassero anche la mitica ‘reliquia archeologica’ costituita dalla nave di Teseo nella theoria annuale verso Delos (Shapiro 2019, 228-229). Diverse testimonianze, soprattutto epigrafiche, confermano che la Paralos resta in servizio fino a tutto il IV secolo e forse anche oltre; l’attività della Salaminia invece è attestata fino agli anni ’60 del IV secolo, quando con tutta probabilità fu sostituita dalla Ammonas (altrimenti menzionata come Ammonis), collegata al santuario di Zeus Ammone in Egitto (Bubelis 2010, 389; sulle connessioni, anche rituali tra la Salaminia, la Ammonas e la stessa Paralos, v. Bubelis 2010, 402-403).

Il gruppo scelto delle ‘triremi sacre’ era dunque composto dalla Paralos e dalla Salaminia, le più veloci tra le triremi ateniesi, nel V secolo spesso citate insieme e note per la loro rapidità. Νegli Uccelli di Aristofane, quando piomba dal cielo Iride, Pistetero chiede alla dea messaggera:

– παρὰ τῶν θεῶν ἔγωγε τῶν Ὀλυμπίων.
– ὄνομα δέ σοι τί ἐστι; πλοῖον ἢ κυνῆ;
– Ἶρις ταχεῖα.
– Πάραλος ἢ Σαλαμινία;
– τί δὲ τοῦτο;
(Aristoph., Av., 1202-1205).

Iride | Eccomi qui, vengo da parte degli dei dell’Olimpo.
Pistetero | Che nome hai? Sei una nave […]?
Iride | Sono Iride, la rapida.
Pistetero | Ma sei Paralos o la Salaminia?
Iride | Cosa stai dicendo?

Una conferma, questa aristofanea, che la Paralos e la Salaminia erano note per essere navi messaggere (come Iride) e per essere velocissime (sulla – paventata – apparizione improvvisa della Salaminia magari con a bordo un ufficiale giudiziario, cfr. Av. 148). La rapidità delle due navi, più che essere dovuta a una tecnologia costruttiva più avanzata, pare debba essere attribuita alla professionalità dell’equipaggio, a differenza di quello delle altre triremi, allenato, stipendiato e ingaggiato a tempo indeterminato (Potts 2013, 101-103, con bibliografia).

Come si è visto, a quanto riporta Suida, la Paralos era dunque una sorta di ammiraglia delle triremi ateniesi, deputata a missioni cerimoniali e di pace (τριήρης εἰρηναρχική è definita in Sch. ad Aristoph. Ran. 1071). 

Ma con tutta probabilità le due rapide triremi, la Paralos e la Salaminia insieme, non erano impegnate soltanto come ‘navi messaggere’, ma risultano coinvolte anche in contesti bellici. Abbiamo notizia della presenza della Paralos e della Salaminia nella battaglia navale di Corcira del 426/425 (Thuc. III, 77) e Senofonte riporta che nel 404 la notizia della disastrosa sconfitta di Egospotami fu portata ad Atene dalla Paralos.

ἐν δὲ ταῖς Ἀθήναις τῆς Παράλου ἀφικομένης νυκτὸς ἐλέγετο ἡ συμφορά, καὶ οἰμωγὴ ἐκ τοῦ Πειραιῶς διὰ τῶν μακρῶν τειχῶν εἰς ἄστυ διῆκεν, ὁ ἕτερος τῷ ἑτέρῳ παραγγέλλων, ὥστ᾽ ἐκείνης τῆς νυκτὸς οὐδεὶς ἐκοιμήθη, οὐ μόνον τοὺς ἀπολωλότας πενθοῦντες, ἀλλὰ πολὺ μᾶλλον ἔτι αὐτοὶ ἑαυτούς, πείσεσθαι νομίζοντες οἷα ἐποίησαν Μηλίους τε Λακεδαιμονίων ἀποίκους ὄντας (Xen., Hell. II, 2, 3).

Ad Atene giunse la Paralos di notte, ad annunciare la disgrazia. Un lamento corse dal Pireo lungo le Lunghe Mura fino in città e si passavano la notizia l’un l’altro. Quella notte nessuno dormì; piangevano i caduti, ma non solo: molto di più temevano per se stessi di dover subire quanto gli Ateniesi stessi avevano inflitto ai Melii che erano coloni spartani.

La Paralos dunque era presente alla battaglia di Egospotami e con altre sette navi scampa al disastro e si avvia “in formazione compatta” (ἀθρόαι) verso Atene (Xen. Hell. II, 1, 28-29). In Fozio si trova conferma che la Paralos, come la gemella Salamina, sarebbe stata impiegata in teatri di guerra (ἐπολέμουν δὲ ὅμως καὶ αὗται αἱ τριήρεις, Fozio π 264 = π 387). In generale, si tratta comunque, con tutta probabilità, di incarichi non direttamente militari, ma piuttosto di missioni politiche collaterali: cerimonie, trasbordo di tributi, ambascerie e recupero di condannati in contumacia (come avvenne nel caso eccellente di Alcibiade, processato e richiamato in patria mentre era impegnato nella spedizione in Sicilia nel 415 a.C.):

Πάραλος δὲ τριήρης ἱερὰ καλεῖται, ἥτις διηνεκῶς ταῖς ἐπειγούσαις χρείαις ὑπηρέτει ὁπότε δὲ ἐκ τῆς ἀλλοδαπῆς ματαπέμψασθαι στρατηγὸν ἐβούλοντο, ὥσπερ Ἀλκιβιάδην ἀπὸ Σικελίας, τῇ Παράλῳ ἐχρῶντο (Suida, π 390, IV 37, 29-32, Adler).

Paralos era detta la ‘trireme sacra’ che era permanentemente in servizio per specifiche, urgenti, necessità. Quando volevano far rientrare un comandante da territori stranieri, usavano la Paralos, come accadde per Alcibiade dalla Sicilia.

E ancora, sempre dal lessico Suida, leggiamo:

Πάραλος ἢ Σαλαμινία: αὗται ἱεραὶ τριήρεις δημόσιαι, ἐπὶ τὰς τῆς πόλεως χρείας πεμπόμεναι καὶ ταχυναυτοῦσαι· καὶ ἦσαν ὡς ἂν ὑπηρέτιδες ταχεῖαι οὖσαι, ἡ μὲν ὑπηρετοῦσα εἰς τὰ θεωρικά, ἡ δὲ εἰς τὰ δημόσια (Sch. ad Aristoph. Av. 1204). καὶ αὖθις· οἱ δὲ Ἀθηναῖοι πέμπουσι τὴν Πάραλον, καλοῦντες αὐτὸν ἐπὶ κρίσιν. τουτέστιν Ἀλκιβιάδην (Suida π 388, IV 37, 16-20 Adler).

Paralos e Salaminia: erano triremi pubbliche, che venivano mandate in spedizione per le esigenze della città ed erano molto veloci per mare. Erano al servizio della città essendo rapide ed erano utilizzate l’una per funzioni cerimoniali e l’altra per funzioni pubbliche. E inoltre: gli Ateniesi spediscono la Paralos per convocarlo a processo – proprio Alcibiade, si intende.

Stando a Tucidide, invece, la nave mandata a prelevare Alcibiade in Sicilia per sottoporlo al processo delle Erme era la Salaminia (Thuc. VI, 53, 61). Probabilmente a partire dal IV secolo alla Salaminia si avvicenda la Ammonas e anche la Antigonia. In particolare da un certo periodo in avanti pare accertata la sostituzione della Salaminia con la Ammonas, e l’avvicendamento probabilmente è da datare alla riforma della flotta del 363/2 a.C., che coincide, forse casualmente, anche con una causa giudiziaria per la suddivisione dei beni dei ‘Salaminioi’ (di qui la decadenza definitiva del genos che si vantava di discendere da Aiace: v. Bubelis 2010, 389-390; 402-404).

Dall’incrocio di tutte le fonti risulta quindi che la Paralos era dunque la più importante delle triremi deputate a portare ambascerie e a trasportare le theoriai nei santuari panellenici e perciò anche i proventi delle tassazioni imposte da Atene agli alleati della Lega ‘delio-attica’ dopo le guerre persiane, dapprima custoditi a Delos ma presto trasferiti ad Atene (Suida, π 388; Sch. ad Aristoph. Aves 147: v. Bubelis 2010, 388).

3. Paralos: tracce iconografiche

2 | Frammento Lenormant | Museo archeologico di Atene.
3 | Frammento identificato come Paralos, Museo Archelogico di Atene.
4 | Frammento con raffigurazione di una trireme, MANDA – Museo Nazionale d’Abruzzo, inv. n. 117.

In un articolo fondamentale per il nostro tema, Luigi Beschi ha ricostruito e contestualizzato due rilievi votivi che rappresentavano la nave con i rematori all’opera e sulla tolda il mitico primo navigatore Paralos (Beschi 1969-1970).

Nel 1852 sull’Acropoli, vicino all’Eretteo, l’archeologo francese François Lenormant trovò un frammento di un bassorilievo, piuttosto consistente (39 cm x 42 cm), che rappresenta un gruppo di rematori impegnati su una agile nave [Fig. 2].

Due altri frammenti recuperati dai depositi dell’Acropoli sono risultati compatibili per materiale e per tecnica e integrabili con il primo; in uno di questi Beschi ha identificato la figura dell’eroe eponimo della Paralos [Fig. 3].

L’esistenza di un secondo rilievo, gemello dell’ateniese, è ricostruibile grazie a un frammento conservato al Museo dell’Aquila (MANDA – Museo Nazionale d’Abruzzo, inv. n. 117), con tutta probabilità arrivato dalla Grecia a Roma in età rinascimentale (Beschi 1969-1970, 126) [Fig. 4].

Il confronto del frammento ora al Museo dell’Aquila con un disegno datato al primo quarto del XVII secolo di Cassiano del Pozzo conservato al British Museum (vol. I, fol. 171, n. 201 – Museum Chartaceum n. 306), consente di integrare la ricostruzione di un bassorilievo che doveva essere più ampio.

La collazione dei due testimoni attestati in Italia in età rinascimentale (il frammento di bassorilievo ora all’Aquila e il disegno ora a Londra) e dei frammenti ateniesi ha consentito a Beschi un’ipotesi di ricostruzione integrata [Fig. 5].

Per un caso felice le due serie, quella ateniese e quella italiana, si completano e permettono la ricomposizione di una ‘marina’ […]. L’analisi dei vari elementi porta infatti ad una datazione in periodo classico (Beschi 1969-1970, 126).

5 | Disegno ricostruttivo del rilievo della nave Paralos proposto da Luigi Beschi, sulla base dei tre frammenti al Museo dell’Acropoli, del frammento al Museo dell’Aquila e del disegno del Museo Chartaceum di Cassiano Dal Pozzo (Beschi 1969-1970, 127, ridisegnato da Christian Toson).

Qui di seguito riproduciamo la ricostruzione dei frammenti attualmente allestita al Museo archeologico di Atene, che tiene conto solo parzialmente del lavoro di Beschi che integra tutti gli elementi [Fig. 6].

6 | Ricostruzione del bassorilievo della nave Paralos, sulla base dei frammenti rinvenuti sull’Acropoli (e, solo parzialmente, sul disegno di Cassiano del Pozzo) allestita al Museo Archeologico di Atene.

I due rilievi – quello ricostruibile sulla base dei frammenti rinvenuti sull’Acropoli; e il gemello ricostruibile sulla base del frammento de l’Aquila e del disegno di Cassiano Dal Pozzo –sarebbero da considerarsi importanti ex voto dedicati dall’equipaggio della nave a seguito di una delle varie imprese in cui la Paralos fu impegnata nel corso del V secolo (Beschi 1969-1970, 131). Nella sua stringente ricostruzione l’archeologo suppone che i due bassorilievi, di grandi dimensioni (quasi 2 m. di lunghezza per circa 1 m. di altezza), inconsuete per il genere, dovevano essere collocati uno sull’Acropoli di Atene e uno nel santuario dedicato a Paralos al Pireo, il cui sito archeologico non è stato identificato, ma del quale esistono diverse testimonianze dirette e indirette.

Secondo una convincente ipotesi, il rilievo potrebbe essere stato parte di un monumento celebrativo del demos e della sua nave simbolo, dedicato sull’Acropoli nel 411, dopo il putsch oligarchico del ‘regime dei Quattrocento’ (Strauss 1976, 321; con un’interessante notazione sulla mancanza di rappresentazione di marinai nel fregio del Partenone), negli anni della precaria riaffermazione del partito del demos, prima dell’epilogo nel regime oligarchico del 404 e della successiva, atroce, guerra civile in cui avviene la distruttiva implosione dell’originario ‘difetto di fusione’ della democrazia ateniese e la spaccatura finale del corpo politico.

L’altro, e più famoso, esemplare di un’opera che raffigurava Paralos è attestato da Plinio che racconta che sui Propilei dell’Acropoli c’era un quadro di Protogene con due personaggi ‘Paralos’ e ‘Ammoniada’ (il nome della trireme ‘sacra’ che sostituisce la Salaminia) e che quest’ultima da qualcuno era identificata con Nausicaa. Nella stessa opera, accanto alle due figure mitiche o forse sullo sfondo, erano dipinte piccole navi:

[…] cum Athenis celeberrimo loco Minervae delubri propylon pingeret, ubi fecit nobilem Paralum et Hammoniada, quam quidam Nausicaan vocant, adiecerit parvolas naves longas (Plin., Nat. Hist., XXXV, 101).

[…] [Protogene] dipingendo ad Atene i Propilei nel famosissimo sito del tempio di Minerva, lì dove fece il nobile ‘Paralo’ e la ‘Ammoniade’ (che alcuni chiamano Nausicaa), ci aggiunse delle piccole navi.

La descrizione di Plinio è troppo generica per consentire una ricostruzione plausibile dell’iconografia dell’opera: è stato ipotizzato che si trattasse di due figure che si stagliavano su una costa con sullo sfondo delle imbarcazioni “to indicate firmily that these were the eponyms of sacred trieremes” (Bubelis 2010, 406, n. 89, con bibliografia). Nel dipinto commissionato a Protogene alla metà del IV secolo troviamo dunque la sigla del collegamento tra il culto di Paralos e quello di Ammone, in stretta relazione con la – mitica – affinità tra le due triremi sacre: in questo modo i due profili divini a cui le triremi sacre erano connesse venivano celebrati congiuntamente nel luogo più prestigioso della città: i Propilei dell’Acropoli (Bubelis 2010, 406).

Il Paralum pictum è ricordato anche da Cicerone (Verr., IV, 60, 135) e, come nota Beschi, il quadro di Protogene potrebbe essere anch’esso inteso come un importante ex voto ricollegato alla missione affidata nel 331 a.C. alla Paralos, che consisteva nel recuperare un gruppo di prigionieri ateniesi dopo la vittoria di Alessandro al Granico (Arriano III, 6, 2; Beschi, 1969-1970, 131). 

4. Temistocle e la svolta di Atene verso il mare

L’egemonia di Atene sulle altre poleis greche nel V secolo a.C. è l’esito di una scelta vincente: la decisione di investire in tutti i sensi – militare, economico, strategico, geopolitico – sul mare. E questa decisione ha una data di svolta – il 480 a.C., la battaglia di Salamina – ed è opera di uno stratega e di un grande politico – Temistocle – che pagherà caro, con la condanna all’esilio da parte della sua “città ingrata”, il prezzo di quell’incredibile vittoria e del suo personale successo (sul tema rimando a Centanni, Nanni 2019).

Plutarco racconta un aneddoto relativo alla formazione dell’artefice di Salamina negli anni della sua turbolenta adolescenza. Il padre Neocle, prima di diseredare il figlio perché disapprovava le sue intemperanze giovanili, lo avrebbe portato in una vecchia darsena in riva al mare a vedere le carcasse delle triremi dismesse, al fine di distoglierlo dalla precoce passione per la politica (Plut., Tem. 2,8; sulla apokeryxis di Neocle, v. Piccirilli 1987, 24-ss): nelle intenzioni didascaliche paterne, da quella vista desolata Temistocle avrebbe dovuto imparare che il demos presto si stanca dei suoi capi e li fa marcire, abbandonati a riva. Ma Temistocle recepisce a modo suo il monito del padre (che pur gli sarebbe stato ben utile per la sua vicenda personale), e trae da quella visione un altro insegnamento: impara la figura della nave.

Uno dei suoi primi atti politici rilevanti, poco prima dell’invasione persiana del 480, fu quello con cui sfidò l’impopolarità proponendo in assemblea che i 100 talenti dei proventi delle miniere d’argento del Laurion non fossero spartiti tra i cittadini con la somma di 10 dracme a testa, come era stato proposto, ma, aggiungendo un prestito forzato di altri 100 talenti da parte dei cento cittadini più ricchi, l’intera somma fosse destinata all’allestimento della flotta da guerra: con quei fondi saranno costruire 200 delle 207 triremi (o 100 delle 180, secondo Plutarco) che saranno impegnate nella battaglia di Salamina contro Serse (Hdt. VII 144, Plut., Them. 4, 2; Arist., Ath. Pol. 22; cfr. Aesch., Pers. 341-343).

Dopo quella prima mossa nasce il progetto politico di cui Temistocle si fa promotore e che più tardi sarà teorizzato da Tucidide, in senso strategico, economico, geopolitico: Atene deve volgersi verso il mare. Temistocle costringe “gli Ateniesi a diventare marinai” (così Erodoto VII, 144) – o, in altre parole, “trasforma gli Ateniesi da opliti in naviganti e marinai” – e perciò sarà accusato di aver sottratto ai cittadini scudo e lancia per metterli ai banchi delle navi e consegnarli ai remi (Plut., Them. 4, 4).

L’occasione di gloria giunge con l’invasione persiana della Grecia, nel 480 a.C. Secondo la ricostruzione dei fatti proposta da Plutarco, in una situazione di terrore per l’avanzata del potente nemico, la carica di stratega è vacante perché pare non ci sia nessuno disposto ad assumersi la responsabilità di fronteggiare un’emergenza in cui il crollo di Atene sembra scritto nel destino. Temistocle convince a ritirarsi l’unico antagonista – il demagogo Epicide, che era molto popolare – e prende in mano la situazione (Plut., Them. 6, 1-2). Nel clima di terrore, Atene manda a Delfi araldi a interrogare la Pizia, che risponde confermando l’avanzata del nemico e promettendo che “solo un muro di legno rimarrà inviolato” e che la “divina Salamina” farà perire molti “figli di donne”. A una seconda legazione la Pizia ripete la profezia sui morti che la ‘divina Salamina’ provocherà.

Nella angosciata ridda di ipotesi e interpretazioni scatenata dall’oracolo, mentre molti consigliavano di abbandonare l’Attica e di rinunciare alla resistenza, Temistocle sostiene, con sottile ermeneutica, che l’oracolo non avrebbe fatto riferimento alla ‘divina’ Salamina se i morti profetizzati fossero stati ateniesi, e che pertanto la profezia anziché mettere in guardia contro la battaglia navale, incitava ad essa; e, in questo senso, anche l’immagine del ‘muro di legno’ era una metafora delle navi, da intendere come un invito a decidere per una strategia che investisse sulla flotta, preparandosi allo scontro navale (Hdt. VII, 141-143). Non tutti i cittadini accettano la soluzione secondo cui la decrittazione di ‘muro di legno’ coincideva con le navi: alcuni avevano fortificato l’Acropoli con tronchi “credendo di aver bene interpretato loro il senso dell’oracolo della Pizia (e non Temistocle) costruendo quella palizzata”: proprio da quella parte i Persiani assalirono la rocca e trucidarono coloro che là si erano rifugiati (Hdt. VIII, 52; cfr. Paus. I, 18, 2).

Ma la decifrazione dell’oracolo che Temistocle propone si spinge oltre, in una direzione ancora più sorprendente e inattesa: è l’idea che le “mura di legno” offerte dalle triremi non siano da intendersi soltanto come l’arma offensiva per la battaglia contro il nemico, ma anche come la struttura difensiva, il riparo per i cittadini: mentre incombe il terrore per l’imminente invasione, Temistocle (stando sempre a Plutarco) convince gli Ateniesi a fare vuoto – l’Areopago ad emanare uno psephisma che impone ai cittadini di evacuare la città e di trasferirsi in massa sulle navi (Plut., Them. 10, 1-2; cfr. Arist., Ath. Pol. 23,1 e Diod. XI, 13, 4: v. sul punto Mazzarino 19902 I, 444; di recente, una ricostruzione generale e suggestiva dell’evacuazione di Atene, non troppo accurata nei riferimenti alle fonti primarie e alla bibliografia critica, è stata proposta da Garland 2017, 33-60). In questo clima, Temistocle gioca non solo gli oracoli, ma anche segni e presagi a vantaggio dei suoi piani: proprio nei giorni di maggior tensione sparisce il serpente sacro ad Atena, custodito nel recinto sacro di Eretteo, l’eroe-serpente protagonista delle vicende mitiche alle origini di Atene, ed è con tutta probabilità su suggerimento di Temistocle che i sacerdoti affermano che Atena stessa aveva abbandonato il tempio – e con esso la sua città – guidando il suo serpente verso il mare (Plut., Them. 10, 2-3; cfr. Hdt. VIII, 41).

Di fatto, tutti i cittadini che potevano combattere furono indotti a imbarcarsi sulle navi, provvedendo a mettere in salvo da qualche parte (molti a Trezene) le donne, i bambini, gli schiavi. Sull’episodio, e sulla quantità di cittadini evacuati sulle navi o rimasti in città le fonti sono confuse e contradditorie (Plut., Them. 10, 5; diversa la versione di Hdt. VIII 51, e di Nep., Them. 2, 8: v. Muccioli 2013, 267 n. 87). Ma resta il quadro spettacolare della sfilata di cittadini che, dopo aver inviato i famigliari altrove, si imbarcano sulle navi, con i vecchi genitori che piangono salutandoli dalla riva, e gli animali domestici che rincorrono i padroni fino al momento dell’imbarco. Commovente il racconto del cane di Santippo (il padre di Pericle), che si butta a mare e segue la trireme a nuoto fino a Salamina, dove esausto muore nella località che sarà chiamata ‘Cinossema’ – la tomba del cane (Plut., Them. 10, 10; sull’episodio anche altre fonti).

Il problema ora era trovare i fondi per armare le navi. Secondo parte delle fonti l’impresa sarebbe stata direttamente finanziata dall’Areopago; secondo altri anche il denaro necessario alla flotta sarebbe stato trovato grazie a uno stratagemma di Temistocle: mentre gli Ateniesi si dirigevano in massa al Pireo, con tutti i loro bagagli, si diffuse la notizia che era scomparsa la Gorgone dal petto della statua di Atena e, con la scusa di cercarla, Temistocle perquisì i bagagli degli Ateniesi e confiscò tutti i denari che i più abbienti avevano con sé, distribuendoli equamente per armare l’equipaggiamento dell’esercito navale (Plut., Them. 10, 7).

Secondo una testimonianza riportata da Plutarco, nella fase precedente in cui aveva dato l’avvio al potenziamento della flotta, Temistocle avrebbe trovato una resistenza nei confronti delle sue scelte strategiche, da parte di Architele “trierarco della nave sacra” e lo avrebbe convinto – o per meglio dire ricattato – così:

ἐναντιουμένου δ᾽ αὐτῷ μάλιστα τῶν πολιτῶν Ἀρχιτέλους, ὃς ἦν μὲν ἐπὶ τῆς ἱερᾶς νεὼς τριήραρχος, οὐκ ἔχων δὲ χρήματα τοῖς ναύταις χορηγεῖν ἔσπευδεν ἀποπλεῦσαι, παρώξυνεν ἔτι μᾶλλον ὁ Θεμιστοκλῆς τοὺς τριηρίτας ἐπ᾽ αὐτόν, ὥστε τὸ δεῖπνον ἁρπάσαι συνδραμόντας. τοῦ δ᾽ Ἀρχιτέλους ἀθυμοῦντος ἐπὶ τούτῳ καὶ βαρέως φέροντος, εἰσέπεμψεν ὁ Θεμιστοκλῆς πρὸς αὐτὸν ἐν κίστῃ δεῖπνον ἄρτων καὶ κρεῶν, ὑποθεὶς κάτω τάλαντον ἀργυρίου καὶ κελεύσας αὐτόν τε δειπνεῖν ἐν τῷ παρόντι καὶ μεθ᾽ ἡμέραν ἐπιμεληθῆναι τῶν τριηριτῶν· εἰ δὲ μή, καταβοήσειν αὐτοῦ πρὸς τοὺς παρόντας ὡς ἔχοντος ἀργύριον παρὰ τῶν πολεμίων (Plut., Them. 7, 6-7).

Chi faceva maggiormente opposizione era Architele, il trierarco della nave sacra in quanto non aveva denaro per pagare i marinai e aveva fretta di salpare e andarsene via. Temistocle aizzò l’equipaggio della trireme contro di lui al punto che corsero tutti a portargli via la cena. Architele era abbattuto e gravemente contrariato per questo fatto, e allora Temistocle gli mandò una cesta con del pane, della carne e vi nascose dentro anche un talento d’argento; gli mandò a dire di mangiare per il momento e di occuparsi il giorno dopo dell’equipaggio della trireme. Altrimenti, lo avrebbe denunciato davanti a tutti i presenti per aver accettato denaro dal nemico.

La critica è divisa nel giudicare l’attendibilità dell’episodio riportato da Plutarco (v. Muccioli 2013, 255 n. 60), ma nondimeno il racconto contiene elementi di certo interessi sotto vari punti di vista: innanzitutto la ‘nave sacra’ che Plutarco non nomina sarebbe stata con tutta probabilità la prima, ovvero la Paralos, considerato che verosimilmente la Salaminia sarebbe stata affiancata alla Paralos soltanto dopo la battaglia omonima; interessante anche il dato dello stipendio dell’equipaggio, che evidentemente non era precettato per l’urgenza bellica; e il fatto che Temistocle abbia potuto aizzare un equipaggio, evidentemente poco sottomesso agli ordini del capitano.

Temistocle allestisce una campagna di propaganda interna, come se “mettesse in scena una tragedia e una sorta di macchina teatrale” (Plut., Them. 10, 1), al fine di consolidare il suo progetto: puntare tutto sulle navi. Intanto, la notizia dell’occupazione della città, dei massacri e dell’incendio dell’Acropoli turba profondamente l’animo degli alleati e a un certo punto la decisione pare pendere verso la fuga, la ritirata. Nelle concitate trattative con gli alleati che terrorizzati meditano di ritirarsi e lasciare il campo ai Persiani, Temistocle insiste nel rimanere e organizzare la battaglia. Qualcuno (Adimanto, secondo Erodoto), dando voce al disprezzo di Euribiade, il generale spartano, cerca di sminuire il prestigio di Temistocle che sprona gli alleati a fare il piano di battaglia, e, con sprezzante riferimento alla città lasciata vuota in preda all’occupazione nemica e a tutti gli Ateniesi imbarcati sulle navi, lo insulta dicendogli che non può, lui, dare lezioni su come si difende la propria patria, tacciandolo di essere un apolis, un “senza città”:

εἰπόντος δέ τινος, ὡς ἀνὴρ ἄπολις οὐκ ὀρθῶς διδάσκει τοὺς ἔχοντας ἐγκαταλιπεῖν καὶ προέσθαι τὰς πατρίδας, ὁ Θεμιστοκλῆς ἐπιστρέψας τὸν λόγον· ‘ἡμεῖς τοι’, εἶπεν, ‘ὦ μοχθηρέ, τὰς μὲν οἰκίας καὶ τὰ τείχη καταλελοίπαμεν, οὐκ ἀξιοῦντες ἀψύχων ἕνεκα δουλεύειν, πόλις δ᾽ ἡμῖν ἔστι μεγίστη τῶν Ἑλληνίδων, αἱ διακόσιαι τριήρεις, αἳ νῦν μὲν ὑμῖν παρεστᾶσι βοηθοὶ σώζεσθαι δι᾽ αὐτῶν βουλομένοις, εἰ δ᾽ ἄπιτε δεύτερον ἡμᾶς προδόντες, αὐτίκα πεύσεταί τις Ἑλλήνων Ἀθηναίους καὶ πόλιν ἐλευθέραν καὶ χώραν οὐ χείρονα κεκτημένους ἧς ἀπέβαλον’ (Plut., Them. 11, 5).

Qualcuno diceva che un uomo senza la sua città non poteva certo insegnare a quelli che ne hanno una ad abbandonarla e a tradire la loro patria. E Temistocle rispose: “Farabutto! Noi, le nostre case e le nostre mura le abbiamo lasciate perché non crediamo giusto diventare schiavi per salvaguardare cose e oggetti inanimati. Noi abbiamo la città più grande di tutta la Grecia, e abbiamo qui 200 triremi, pronte per aiutare tutti voi, se volete salvarvi grazie a loro; se invece volete andarvene e tradirci una seconda volta, presto tutti i Greci sapranno che gli Ateniesi hanno una città libera e un territorio non peggiore di quello che hanno perduto”.

E nella versione di Erodoto dello stesso episodio, ancora più esplicito è il fatto che le 200 navi sostituiscono la stessa città, ‘stanno per’ Atene:

ὡς εἴη καὶ πόλις καὶ γῆ μέζων ἤ περ ἐκείνοισι, ἔστ᾽ ἂν διηκόσιαι νέες σφι ἔωσι πεπληρωμέναι (Hdt. VIII, 61).

[Temistocle disse] che finché restavano 200 navi allestite, gli Ateniesi avevano una città e un paese più grande di quelli che avevano loro.

Il generale spartano e gli alleati capiscono che c’è la possibilità reale che gli Ateniesi abbandonino il campo. E a un certo punto Temistocle gioca la carta decisiva parlando così allo spartano Euribiade:

σὺ εἰ μενέεις αὐτοῦ καὶ μένων ἔσεαι ἀνὴρ ἀγαθός· εἰ δὲ μή, ἀνατρέψεις τὴν Ἑλλάδα. τὸ πᾶν γὰρ ἡμῖν τοῦ πολέμου φέρουσι αἱ νέες. ἀλλ᾽ ἐμοὶ πείθεο· εἰ δὲ ταῦτα μὴ ποιήσῃς, ἡμεῖς μὲν ὡς ἔχομεν ἀναλαβόντες τοὺς οἰκέτας κομιεύμεθα ἐς Σῖριν τὴν ἐν Ἰταλίῃ, ἥ περ ἡμετέρη τε ἐστὶ ἐκ παλαιοῦ ἔτι, καὶ τὰ λόγια λέγει ὑπ᾽ ἡμέων αὐτὴν δέειν κτισθῆναι· ὑμεῖς δὲ συμμάχων τοιῶνδε μουνωθέντες μεμνήσεσθε τῶν ἐμῶν λόγων (Hdt. VIII, 62).

Se resti, e soltanto se resti qui, sarai un valoroso; altrimenti distruggerai la Grecia. Per noi il carico della guerra sta tutto nelle navi. Credimi: se non farai così, noi, qui come siamo, prenderemo su i nostri cari e andremo a Siri, in Italia, che è nostra già da antica data e gli oracoli dicono che là dobbiamo fondare una colonia. Voi allora, rimasti soli, senza noi al vostro fianco in battaglia, vi ricorderete di queste mie parole.

Se non farete come dico, ce ne andremo e ‘faremo Atene’ a Siri. Questo l’avvertimento decisivo di Temistocle, e queste le parole che pronuncia con veemenza e passione ἀπὸ τοῦ καταστρώματος τῆς νεώς (Plut., Them. 12, 1), “dalla tolda della nave”. È una minaccia inaudita: se la città è occupata dal nemico, non solo Atene tutta a bordo delle sue 200 navi è comunque “più grande di tutte le altre città greche”, ma i cittadini potrebbero fare rotta verso Occidente: Atene può trasferirsi altrove. È la proiezione di una surreale, straordinaria figura della politica; l’essenza stessa della polis prescinde dall’effettivo insediamento territoriale. Atene resta Atene comunque, anche se la città è invasa dal nemico (cfr. Hdt. VII, 143,3). Il coraggio, di essersi imbarcati sulle navi, di aver abbandonato la città per salvare la città stessa, viene ricordato continuamente nelle fonti (Thuc. I, 74,3; I, 91, 5).

Per dirla con Tucidide, rispetto agli Spartani che combattevano contro i Persiani per difendere la città che abitavano, gli Ateniesi hanno “combattuto per una città che non esisteva più e rischiando per quella”, perché fosse restituita, hanno salvato sé stessi e tutti gli altri Greci (Thuc. I, 74,3: ἡμεῖς δὲ ἀπό τε τῆς οὐκ οὔσης ἔτι ὁρμώμενοι καὶ ὑπὲρ τῆς ἐν βραχείᾳ ἐλπίδι οὔσης κινδυνεύοντες ξυνεσώσαμεν ὑμᾶς τε τὸ μέρος καὶ ἡμᾶς αὐτούς).

Alla fine, contro il panico che prende gli alleati per lo scontro con la flotta tanto più potente, vince l’idea di Temistocle di poter gestire la battaglia proprio per lo spazio angusto che lo specchio d’acqua intorno a Salamina offriva, in cui le agili triremi avrebbero avuto gioco migliore sulle pesanti navi persiane favorite invece in uno scontro in mare aperto (Diod. XI, 15, 4).

La battaglia, così come si lascia ricostruire incrociando le diverse fonti, fu spettacolare e disastrosa per la flotta persiana: le molte e ingombranti navi da guerra orientali rimangono incastrate nel piccolo braccio di mare in cui avviene l’ingaggio. Come nota acutamente Plutarco la splendida battaglia di Salamina – della quale ci sono giunte due descrizioni, in molti punti coincidenti, da Eschilo e da Erodoto – dal punto di vista strettamente militare non può essere considerata una battaglia decisiva. Ma fu in quella battaglia che i Greci misurarono la potenza dell’intelligenza, dell’abilità, del loro stesso coraggio contro il numero, le infinite risorse, la prepotenza e la boria del nemico persiano; fu a Salamina che, come canta Pindaro, gli Ateniesi “gettarono uno splendido fondamento di libertà” (Pind., fr. 77 Maehler, citato in Plut., Them. 8, 2; cfr, Muccioli 2013, 256 n. 63).

Ma soprattutto la battaglia di Salamina, dai prodromi strategici all’esito finale, è il banco di prova della formidabile intelligenza, della deinotes di Temistocle e decisivo fu l’investimento sulla destrezza delle agili triremi ateniesi. Nel clima generale di consenso dopo Platea e il ritiro dei Persiani in Asia, per consolidare la vocazione marinara di Atene, Temistocle dà il via a un progetto che prevede che ogni anno Atene costruisca 20 nuove triremi e propone e ottiene di esentare dalle tasse i meteci e gli operai, promuovendo di fatto un programma di occupazione di massa per la costruzione della flotta, che comporta l’afflusso in città di molti lavoratori (Diod. XI, 43,3). Ma l’operazione più importante, alla quale vanamente gli Spartani cercano di opporsi perché ne intuiscono l’insidiosa importanza strategica, è la grandiosa ricostruzione e fortificazione della città, che ha il suo perno nella costruzione delle mura che collegavano Atene al Pireo, la città al mare: un’opera monumentale, progettata per ribadire simbolicamente, ma insieme in concretissima forma architettonica, la conversione geopolitica di Atene verso il mare (Plut., Them. 19, 1-4).

Aristofane, con metafora culinaria, dirà che a Temistocle riuscì il pasticcio a “impastare il Pireo con la città” (Aristoph., Eq. v. 815, citato anche in Plut., Them. 19, 4). Con quelle mura, pur costruite frettolosamente, con spolia di riporto da vari edifici, e con la costruzione del Pireo (Thuc. I, 93, 1-3) – che, prima di Temistocle, ‘non era il porto di Atene’ e che sostituisce il precedente porto di Falero (Diod XI, 41,2; Paus. I, 2 – fortificato con un muro così spesso che sopra reggeva una carreggiata con due opposte direzioni di marcia veicolare (Thuc. I, 93, 5), il disegno politico di Temistocle si materializza. Gli Ateniesi si volgono così verso il mare: sebbene il progetto venga compiuto solo parzialmente e il muro sia lungo la metà di quello progettato da Temistocle (Thuc. I, 93, 5-6), è questa la mossa che consente la costruzione del loro fluido e precario impero (Thuc. I, 93, 4).

Per ribadire la portata epocale di quella torsione dello sguardo – che segnerà la storia dell’egemonia talassocratica ateniese per tutto il V secolo a.C. – Temistocle rimodella alla radice l’impronta originaria – economica e geopolitica – impressa ad Atene dagli antichi re che “distoglievano i cittadini dal mare e dalla navigazione, per assuefarli a coltivare la terra” (Plut., Them. 19, 4) e arriva a mettere in discussione il mito fondativo della città – a contestarne la veridicità. La storia della contesa tra le divinità per il primato nell’Attica vinta da Atena, con il suo terrigno dono dell’ulivo, contro Poseidone e il suo dono della sorgente d’acqua, viene processata come un mito delle origini fasullo, costruito ad hoc dagli antichi reggenti di Atene per supportare la loro opzione geopolitica, in favore della terra e contro il mare (Plut., Them. 19, 4). È, quella di Temistocle, una presa di posizione forte e coraggiosa sotto il profilo ideologico e molto scabrosa come impatto rispetto al patrimonio mitografico condiviso. Di fatto, Temistocle induce un cambio di paradigma che produce una rivoluzione nell’immaginario di Atene, e che ha precise ricadute anche sul piano strettamente politico. Girarsi verso il mare implica una condivisione nella responsabilità e nel governo della città con tutto il demos.

L’idea che Salamina sia stata decisiva per l’egemonia ateniese e che proprio la vittoria navale (e in generale la torsione verso il mare) sia stata la prova del fuoco per l’affermazione del regime democratico che sarà siglato da Pericle, appare del tutto consolidata nella Politica di Aristotele:

ὁ ναυτικὸς ὄχλος γενόμενος αἴτιος τῆς περὶ Σαλαμῖνα νίκης καὶ διὰ ταύτης τῆς ἡγεμονίας διὰ τὴν κατὰ θάλατταν δύναμιν τὴν δημοκρατίαν ἰσχυροτέραν ἐποίησεν (Arist., Pol. 1304a 21).

La massa dei marinai che era stata la causa della vittoria di Salamina e con essa della egemonia [di Atene] grazie alla potenza sul mare, rese più forte la democrazia (cfr. Arist., Cost. Ath, 23 e Pol. 1274a 13-15 in cui viene ribadita la potenza acquisita dal demos dopo le guerre persiane ma si profila anche la sua manipolazione da parte dei “demagoghi”).

L’immagine della nave costella la vicenda biografica e politica di Temistocle e lo stesso immaginario della democrazia ateniese. La nave abbandonata sulla sponda del mare perché vecchia e inservibile, nell’immagine allegorica che il padre gli consegna e che Temistocle ribalta nella figura di un’impresa da perseguire; la nave come decrittazione del ‘muro di legno’ dell’oracolo, espediente inatteso che scarta rispetto alla prospettiva più scontata e letterale, che sceglie un nuovo campo di gioco e decide dell’evacuazione degli Ateniesi dalla città; la tolda della nave da cui Temistocle minaccia gli alleati di andare a ‘fondare Atene altrove’; le navi di Salamina che intrappolano la flotta persiana e sconfiggono incredibilmente il nemico, infinitamente più potente, danzando la giostra dell’agilità e dell’intelligenza.

La scelta di Temistocle di “girare la città dalla parte del mare” produce dunque una accelerazione del processo di democratizzazione delle istituzioni ateniesi: “così facendo accrebbe il potere del demos verso gli aristoi e li rese spavaldi perché il potere politico toccò ai marinai, ai comandanti, ai piloti” (Plut., Them. 19, 5). La nave dunque è il mezzo concreto e la figura imaginale della vocazione geopolitica della nuova Atene che troverà la sua fortuna, costruirà la sua egemonia, volgendo le spalle alla terra e puntando la prua verso il mare.

5. Cimone e la nave di Teseo

E proprio in quegli stessi anni un’altra, mitica, nave entra in scena nell’immaginario ateniese. Dopo il rapido tramonto della stella di Temistocle, nel 476 il nuovo leader della città è il figlio di Milziade (che da essere l’eroe di Maratona era stato anch’egli messo al bando dopo la gloria dalla città ingrata), il giovane e aristocratico Cimone che, nell’imminenza della battaglia di Salamina, con una mossa a sorpresa aveva esibito pubblicamente la sua adesione alla decisione a favore della battaglia navale e aveva dichiarato il sostegno alla scelta di Temistocle di tutto il Consiglio dell’Areopago (un bell’intreccio dei profili dei leader ateniesi è proposto da Piccirilli 1987).

Nel ‘laboratorio politico’ di una città che in vario modo – dalle arti all’architettura, dalla moda, all’urbanistica – investe potentemente sulla costruzione dell’immaginario e “vive di simboli” (Fuscagni 1989, 108-111), Cimone, in parallelo e a sostegno di una sua impresa di intervento militare contro il partito filo-persiano a Sciro che frutterà ad Atene l’insediamento di una propria cleruchia nell’importante isola, dà il via a una memorabile azione di mitopoiesi, inventando per la città un mito formidabile:

παραλαβὼν δ᾽ οὕτω τὴν νῆσον ὁ Κίμων [...] πυνθανόμενος δὲ τὸν παλαιὸν Θησέα τὸν Αἰγέως φυγόντα μὲν ἐξ Ἀθηνῶν εἰς Σκῦρον, αὐτοῦ δ᾽ ἀποθανόντα δόλῳ διὰ φόβον ὑπὸ Λυκομήδους τοῦ βασιλέως, ἐσπούδασε τὸν τάφον ἀνευρεῖν. καὶ γὰρ ἦν χρησμὸς Ἀθηναίοις τὰ Θησέως λείψανα κελεύων ἀνακομίζειν εἰς ἄστυ καὶ τιμᾶν ὡς ἥρωα πρεπόντως, ἀλλ᾽ ἠγνόουν ὅπου κεῖται, Σκυρίων οὐχ ὁμολογούντων οὐδ᾽ ἐώντων ἀναζητεῖν. τότε δὴ πολλῇ φιλοτιμίᾳ τοῦ σηκοῦ μόγις ἐξευρεθέντος, ἐνθέμενος ὁ Κίμων εἰς τὴν αὑτοῦ τριήρη τὰ ὀστᾶ καὶ τἆλλα κοσμήσας μεγαλοπρεπῶς κατήγαγεν εἰς τὴν αὐτοῦ δι᾽ ἐτῶν σχεδὸν τετρακοσίων. ἐφ᾽ ᾧ καὶ μάλιστα πρὸς αὐτὸν ἡδέως ὁ δῆμος ἔσχεν (Plut., Cim. 8, 5-7).

[Nel 476] Cimone conquistò l’isola e quando venne a sapere che Teseo, figlio di Egeo, in vecchiaia era stato esiliato da Atene e si era rifugiato a Sciro, dove era stato ucciso con l’inganno da Licomede perché aveva paura di lui, si impegnò a trovare la sua tomba. C’era infatti un oracolo che ordinava agli Ateniesi di riportare in città i resti di Teseo e di onorarlo come un eroe, come gli si conveniva. Non si sapeva dove fosse la tomba e gli abitanti di Sciro non collaboravano, e non consentivano che venissero fatte ricerche. Cimone con molto impegno e molta tenacia lo trovò e mise le ossa e il resto sulla sua trireme e in gran pompa le riportò ad Atene dopo 400 anni. Per questa impresa, soprattutto, il popolo aveva un atteggiamento di favore nei suoi confronti.

Come è stato notato la variante mitica della morte di Teseo a Sciro, pur presente nella tradizione, “evidentemente non era così acclarata e diffusa se si ricorse all’oracolo di Delfi per riproporla alla pubblica memoria” (Fuscagni 1989, 119). E comunque, è in questo clima che si impone l’istanza – la reinvenzione del mito – dell’‘eroe nazionale’:

Nel decennio successivo alle guerre persiane […] si concretizza l’esigenza di un eroe nazionale – cioè politico – come sintesi e proiezione del surplus di identità collettiva che si è prodotta per il fenomeno di auto-celebrazione conseguente alla vittoria […]. In questo clima la figura di Teseo si stabilizza nella forma dell’eroe nazionale: la selezione degli elementi mitici e il peso relativo assunto da ciascuno di essi, avviene in relazione a un unico scopo: quello della rappresentatività dei caratteri ideali che la comunità ateniese del dopo Salamina si attribuisce (Fuscagni 1989, 123).

Ora non si trattava, soltanto, di costruire il Theseion, destinato a ospitare le reliquie del fondatore della città; e neppure, soltanto, di fare di Teseo il principe saggio e temperato destinato a entrare nel cast di tante tragedie, e in particolare in gran parte di quelle che presentano una forzatura della materia del mito nella forma di un ‘lieto fine’ in Atene (sul punto, rimando a Centanni 2012). Sul piano della “rappresentatività dei caratteri ideali” si trattava anche di ribadire la centralità della figura della nave, retrodatando quell’icona all’età mitica della fondazione della città.

E a quanto risulta, la reliquia della nave di Teseo non era semplicemente esposta ma era in uso, almeno dall’età in cui viene rilanciato il mito dell’eroe nazionale, fino alla fine del V secolo e oltre. Stando a quanto riferisce Platone, il lasso di tempo che intercorre tra la condanna e il suicidio di Socrate sarebbe stato dovuto alla concomitanza tra la data della conclusione del processo e l’annuale theoria della nave di Teseo verso Delos:

τοῦτ᾽ ἔστι τὸ πλοῖον, ὥς φασιν Ἀθηναῖοι, ἐν ᾧ Θησεύς ποτε εἰς Κρήτην τοὺς ‘δὶς ἑπτὰ’ ἐκείνους ᾤχετο ἄγων καὶ ἔσωσέ τε καὶ αὐτὸς ἐσώθη. τῷ οὖν Ἀπόλλωνι ηὔξαντο ὡς λέγεται τότε, εἰ σωθεῖεν, ἑκάστου ἔτους θεωρίαν ἀπάξειν εἰς Δῆλον· ἣν δὴ ἀεὶ καὶ νῦν ἔτι ἐξ ἐκείνου κατ᾽ ἐνιαυτὸν τῷ θεῷ πέμπουσιν. ἐπειδὰν οὖν ἄρξωνται τῆς θεωρίας, νόμος ἐστὶν αὐτοῖς ἐν τῷ χρόνῳ τούτῳ καθαρεύειν τὴν πόλιν καὶ δημοσίᾳ μηδένα ἀποκτεινύναι, πρὶν ἂν εἰς Δῆλόν τε ἀφίκηται τὸ πλοῖον καὶ πάλιν δεῦρο (Pl., Phaed. 58 a-b).

A quanto dicono gli Ateniesi, si tratta della nave sulla quale viaggiò Teseo, portando a Creta le ‘sette coppie’ di ragazzi che poi portò in salvo, salvando anche sé stesso. Per questo avevano fatto voto ad Apollo che, se si fossero salvati, avrebbero mandato ogni anno una processione sacra a Delos. Da allora, e fino ad ora, ogni anno la mandano al dio. Ed è legge che, dopo l’inizio della processione, la città sia mantenuta pura la città e siano sospese le condanne a morte, finché la nave non sia andata e tornata da Delos.

Platone dunque suggerisce che la nave sia proprio la stessa sulla quale aveva viaggiato Teseo e quindi sarebbe rimasta continuativamente in funzione per secoli e sarebbe stata la stessa utilizzata per l’annuale theoria verso Delos. Più credibile che l’usanza della processione annuale fosse stata rilanciata in concomitanza con la consacrazione di Teseo a ‘eroe nazionale’, con il recupero dei resti di Teseo da parte di Cimone. Sta di fatto che già in antico la ‘nave di Teseo’ era considerata un esempio di conservazione e di longevità di una reliquia. Così Plutarco:

τὸ δὲ πλοῖον ἐν ᾧ μετὰ τῶν ἠϊθέων ἔπλευσε καὶ πάλιν ἐσώθη, τὴν τριακόντορον, ἄχρι τῶν Δημητρίου τοῦ Φαληρέως χρόνων διεφύλαττον οἱ Ἀθηναῖοι, τὰ μὲν παλαιὰ τῶν ξύλων ὑφαιροῦντες, ἄλλα δὲ ἐμβάλλοντες ἰσχυρὰ καὶ συμπηγνύντες οὕτως ὥστε καὶ τοῖς φιλοσόφοις εἰς τὸν αὐξόμενον λόγον ἀμφιδοξούμενον παράδειγμα τὸ πλοῖον εἶναι, τῶν μὲν ὡς τὸ αὐτό, τῶν δὲ ὡς οὐ τὸ αὐτὸ διαμένοι λεγόντων (Plut., Thes., 23, 1).

La nave sulla quale [Teseo] navigò con i ragazzi e tornò indietro sano e salvo, una nave di trenta remi, gli Ateniesi la conservarono fino all’epoca di Demetrio di Falero, levando le tavole di legno invecchiate e sostituendole con altre di solide. E questa sostituzione ha indotto i filosofi a ricorrere a quella nave come paradigma della ‘teoria del mutamento e della crescita’ dato che alcuni dicono che si tratta della stessa nave, altri che non è la stessa.

Anche se la conservazione della nave fino all’età ellenistica è confermata da altre fonti (Callim., Del. 314), e perciò va dato per certo che avesse bisogno di una continua manutenzione e ripristino, è certo che la antichissima reliquia sarà stata più una nave da parata che una imbarcazione in grado di trasportare tutti i materiali, l’equipaggio e le persone coinvolte nella cerimonia. Perciò, com’è stato riproposto di recente, è verosimile che la fragile “nave di Teseo” per il suo annuale pellegrinaggio dovesse essere affiancata dalle triremi sacre in forza al tempo:

During the Peloponnesian War years we hear a great deal in our sources about the two Athenian “admiralty ships,” named the Salaminia and the Paralia, particularly swift triremes that delivered dispatches, sometimes participated in the fighting fleet, and at other times functioned as “sacred ships” that carried theoriai to sanctuaries. It is possible that these included the theoria to Delos, since an inscription of the Athenian amphictyony on Delos records a sum of money paid to a trierarch for carrying theoroi to Delos. In other words, the triakontoros of Theseus would not have been large enough to carry all the participants going to Delos (e.g. choruses and chorus-masters), so would have been accompanied by a larger trireme such as the Paralia or Salaminia (Shapiro 2019, 228).

La Paralos o la Salaminia dunque avrebbero fatto scorta alla reliquia ‘originale’ della mitica nave del fondatore ovvero a una struttura che nei secoli, pezzo per pezzo, era stata ricostruita e rinnovata e che, pur concretissima, della nave originaria non conservava che l’anima e la forma. Il paradigma della “nave di Teseo”, della sua mutazione e della sua integrazione, e quella che è stata nominata come “la metafisica dell’artefatto” animava già le discussioni dei filosofi antichi (cfr. Plut., De comm. not., 1083a; De sera vind., 559b) e non ha cessato di stimolare, nei secoli, l’esercizio del pensiero occidentale. Fare e rifare con nuovi materiali quello che il tempo disfa e deteriora è la procedura con cui si muove la tradizione classica, sul filo del paradosso tra originalità e identità, in cui l’origine non è mai data per presupposta ma è sempre materia di contesa. È la scommessa sulla revocabilità di ogni genealogia e sulla fondatezza di ogni radicamento, che nella nave ateniese che solcava l’Egeo nel V secolo a.C. ha una sua figura esemplare.

6. 411 a.C.: Paralos e i fatti di Samo

Nel torno d’anni che seguono il disastro della campagna di Sicilia e preludono all’ultimo accidentato decennio del V secolo a.C., Tucidide fa teatro della storia e imbastisce un copione in cui la scena politica di Samo è una sorta di specchio di Atene – una quinta in cui si rifrange il ritratto delle profonde inquietudini della città (per la lettura della relazione di Samo/Atene e in generale per tutto questo paragrafo rimando a Centanni 2004). Tra il 412 e il 411 va al potere a Samo un governo filo-oligarchico: nel set di una dislocazione virtuale – l’isola – e con una leggera sfasatura cronologica – in anticipo di qualche mese rispetto ad Atene – Tucidide allestisce in Samo la teatralizzazione di quel che, di lì a poco, avverrà in Atene con il successo del progetto eversivo che passerà alla storia come il ‘regime dei Quattrocento’. In questo senso, in una stagione in cui il teatro, tragico e comico, si esercita nella rappresentazione della realtà politica, Tucidide si rivela un grandissimo ‘drammaturgo’ che riesce a rappresentare la storia di quell’anno cruciale, fornendoci con il suo racconto un montaggio suggestivo, in contropiano, della rivoluzione oligarchica e poi della restaurazione democratica in una successione prima collaudata a Samo e quindi messa in atto (e ripetuta su vasta scala) ad Atene tra il 412 e il 411 a.C. (v. Potts 2013, 161-ss.).

412 a.C.: la prima scena si svolge a Samo, in un periodo politicamente assai turbolento e per di più agitato dalle trame di Alcibiade che – esule presso Tissaferne – tesse la sua rete di alleanze per garantirsi in qualche modo il ritorno in Atene. Fomentato e appoggiato da Pisandro, prende il potere un gruppo antidemocratico che per breve tempo istituisce un regime costituito “da trecento circa” – così, genericamente, Tucidide che sottolinea che una buona parte di essi erano transfughi dalle file democratiche, in una situazione politica estremamente instabile (Thuc. VIII, 73).

Nel frattempo, in Atene, animata dallo stesso Pisandro (e dietro le quinte, come ben vede Tucidide, da Antifonte: Thuc. VIII, 68, 2) è in corso una congiura per “abbattere il demos”, passando per una serie progressiva di provvedimenti di “salute pubblica” (a partire dall’insediamento preventivo della magistratura dei probouloi, già nel 412), si procede per tappe all’instaurazione del governo oligarchico, in pratica un tentativo di profonda revisione della politeia ateniese. In un clima avvelenato da vendette incrociate, denunce, omicidi politici, gli affiliati delle eterie hanno già saldamente in mano le leve della decisione politica, mentre il demos continua a riunirsi e ad eleggere formalmente i suoi rappresentanti in assemblea, ma le deliberazioni avvengono su un ordine del giorno dettato e controllato dai congiurati (Thuc. VIII, 66, 1). Tucidide descrive con cura le fasi successive che sfociano alla fine nell’effimero esperimento del governo oligarchico (Thuc. VIII, 67-69): la nomina dei dieci xyngrapheis plenipotenziari, che dovevano stilare la carta di una nuova costituzione da sottoporre alla ratifica del voto popolare per alzata di mano; l’istituzione del nuovo organo governativo “con pieni poteri” dei Quattrocento, deputati a governare autocraticamente nel modo secondo loro migliore (Thuc. VIII, 67, 1: ἄρχειν ὅπῃ ἄν ἄριστα γιγνώσκωσιν αὐτοκράτορας) e dell’assemblea dei Cinquemila da convocare discrezionalmente per consultazione; e, in primis, la proposta dell’abolizione del compenso per le cariche e le magistrature pubbliche.

Ma lo storico è attento nel segnalare un fatto che soltanto di recente la critica ha sottolineato con la giusta considerazione: nel 411 in Atene neppure un regime oligarchico può più rinunciare allo stile democratico di rappresentazione e di teatralizzazione della decisione. Gli oligarchi possono, di fatto, adulterare le deliberazioni e le votazioni, condizionare i cittadini con il terrore, blandire il popolo con la promessa di vantaggi, inquinare la serenità di ogni decisione insinuando tra i cittadini un sentimento di reciproca diffidenza (Thuc. VIII, 66, 5; una ricostruzione accurata della temperatura politica in Atene tra il 413 e il 411 è in Tuci 2013): ma sono costretti, comunque, a seguire le procedure costituzionali vigenti, a fare passare le loro volontà, i loro disegni, e i loro progetti, attraverso il meccanismo democratico della discussione assembleare e della votazione deliberativa. Sul piano giuridico la democrazia nell’Atene del V secolo è comunque, fino alla fine, la cornice sistemica ancora formalmente rispettata, anche a dispetto delle alterne vicende politiche. Anche nell’ambito di un progetto eversivo intenzionalmente antidemocratico, le procedure democratiche che si erano consolidate in Atene fin dalla prima età periclea risultano ormai irreversibili; la prassi della relazione politica fondata sul confronto e sulla votazione dell’assemblea è irrinunciabile.

Nota acutamente Tucidide che soltanto la presenza tra i congiurati di esponenti abili politicamente ed eccezionalmente intelligenti (del calibro di Teramene e, sopra tutti, di Antifonte “uomo straordinario, secondo a nessuno in città a quel tempo per eccellenza e virtù, il più abile e forte di mente e di parola in Atene”: Thuc. VIII, 68, 2) giustifica, secondo lo storico, il pur effimero successo della rivoluzione oligarchica:

χαλεπὸν γὰρ ἦν τὸν Ἀθηναίων δῆμον ἐπ᾽ ἔτει ἑκατοστῷ μάλιστα ἐπειδὴ οἱ τύραννοι κατελύθησαν ἐλευθερίας παῦσαι, καὶ οὐ μόνον μὴ ὑπήκοον ὄντα, ἀλλὰ καὶ ὑπὲρ ἥμισυ τοῦ χρόνου τούτου αὐτὸν ἄλλων ἄρχειν εἰωθότα (Thuc. VIII, 68, 4).

Infatti era ben difficile privare il demos della libertà a più di cento anni dalla caduta dei tiranni, e il demos di Atene era abituato non solo a non essere sottomesso, ma da cinquant’anni a comandare su tutti gli altri.

Di fatto, dunque, l’assemblea che ratifica le decisioni si riunisce a Colono e approva senza opposizioni la nuova costituzione, e quindi la decadenza della democrazia (Thuc. VIII, 69,1); Tucidide nota che anche i consiglieri del bouleuterion democraticamente sorteggiati si ritirano davanti ai Quattrocento (che si erano presentati armati in assemblea) senza proteste e che nessun altro dei cittadini si ribella (Thuc. VIII, 70, 1). Si tratta di un deperimento sostanziale della democrazia, ma per un gesto eversivo, dall’interno, non per una deposizione formale da parte di un soggetto proclamatosi portatore di una fonte autonoma di sovranità: il guscio democratico viene svuotato, non demolito.

Atene dunque mette in atto senza grossi traumi la sceneggiatura preparata da tempo dalle eterie, secondo un copione del quale si era svolta una prova generale in Samo grazie a Pisandro e, dietro di lui, ad Alcibiade. La congiura antidemocratica dà vita ai progetti rivoluzionari delle associazioni filoaristocratiche attive da sempre in Atene, anche nell’epoca del maggior consenso democratico nella stagione periclea. Da notare però che il partito filo-oligarchico, nel contesto di un’Atene assuefatta all’assemblearismo e allo stile partecipativo-democratico della gestione del potere, si reinventa in una nuova formula collettiva, che verrà chiamata dallo stesso Tucidide, con espressione ossimorica, “la tirannide dei Quattrocento”. L’istituto tirannico era stato, fin dal VI secolo, la forma politica in cui emergeva l’arete individuale, in cui il principe, per sua eccezionale virtù, riusciva a spezzare la necessità della perpetuazione dinastica, ereditaria, del potere. Iscritta nel contesto della consumata democrazia ateniese, la tirannide diventa paradossalmente un’istituzione plurale: viene coniato ad hoc l’ossimoro concettuale dei “Quattrocento autocratori” (Thuc. VIII, 67), chiamati per altro a consultarsi con l’assemblea ancor più allargata dei Cinquemila. Come tutte le fonti antiche suggeriscono, quando non indicano espressamente, è il preludio di quello che nel 404 sarà il regime, seppur in numero più ristretto pur sempre collettivo, dei “Trenta tiranni”.

Ma è Tucidide stesso a darci una notizia rilevante: a differenza di quanto lo storico stesso asserisce (Thuc. VIII, 66, 1; Thuc. VIII, 70, 1) non tutti i cittadini di Atene erano succubi del clima di terrore e non tutti dovevano aver subìto passivamente, senza alcuna forma di opposizione, di ribellione, o di resistenza, l’insediarsi del regime antidemocratico. C’erano Ateniesi, fuori di Atene, che si sentivano comunque militanti attivamente impegnati nel partito del demos.

Dopo un primo momento di smarrimento in cui il partito del demos sembra ridotto all’afasia, la reazione comincia a farsi sentire: ma dapprima la restaurazione della democrazia si esercita non ad Atene ma a Samo. Come si è visto, nel racconto in parallelo Samo/Atene che Tucidide ci propone, il teatro politico di Samo è in anticipo di un atto rispetto alla sceneggiatura di Atene.

Infatti, in quello stesso torno di tempo in cui ad Atene si insedia il governo dei Quattrocento, a Samo è già in atto una sollevazione contro “i Trecento” oligarchi al potere, una congiura per la restaurazione della democrazia (Thuc. VIII, 73, 2-4). In una situazione assai confusa, i ribelli avversi all’oligarchia cercano sponda nel contingente ateniese di stanza a Samo, appoggiandosi tra gli altri al “trierarca Trasibulo” (Thuc. VIII 73, 4: è la prima volta che compare il nome del futuro protagonista prima della resistenza ai Trenta tiranni, poi a capo dei fuoriusciti democratici che nel 403 abbatteranno la tirannide). I comandanti del contingente ateniese si spendono nel proselitismo a favore della causa antioligarchica; lo slogan a cui ricorrono è la necessità di tener saldo il rapporto con Atene che vede in Samo la più importante alleata:

οἱ δὲ ἀκούσαντες τῶν τε στρατιωτῶν ἕνα ἕκαστον μετῇσαν μὴ ἐπιτρέπειν, καὶ οὐχ ἥκιστα τοὺς Παράλους, ἄνδρας Ἀθηναίους τε καὶ ἐλευθέρους πάντας ἐν τῇ νηὶ πλέοντας καὶ αἰεὶ δήποτε ὀλιγαρχίᾳ καὶ μὴ παρούσῃ ἐπικειμένους[...], ὥστε ἐπειδὴ αὐτοῖς ἐπετίθεντο οἱ τριακόσιοι, βοηθησάντων πάντων τούτων, μάλιστα δὲ τῶν Παράλων, περιεγένοντο οἱ τῶν Σαμίων πλέονες, καὶ τριάκοντα μέν τινας ἀπέκτειναν τῶν τριακοσίων, τρεῖς δὲ τοὺς αἰτιωτάτους φυγῇ ἐζημίωσαν· τοῖς δ᾽ ἄλλοις οὐ μνησικακοῦντες δημοκρατούμενοι τὸ λοιπὸν ξυνεπολίτευον (Thuc. VIII, 73, 5-6).

Udito ciò, questi andarono dai loro soldati, uno a uno, perché non venissero meno a quell’impegno, e prima di tutto dai Paralii, che erano cittadini ateniesi, tutti liberi a bordo di quella nave sempre schierati contro l’oligarchia, anche se non era presente. […] Cosicché i democratici di Samo quando furono assaliti dai Trecento, con l’aiuto di tutti questi e soprattutto dei Paralii, ebbero la meglio sugli avversari: uccisero trenta dei trecento e condannarono all’esilio tre di coloro che erano maggiormente responsabili. Verso gli altri, non serbarono rancore e da allora governarono insieme l’isola secondo il regime democratico.

I Samii dunque, con l’appoggio dei ‘Paralii’, restaurano nell’isola il regime democratico – questa volta, a differenza dell’episodio immediatamente precedente della guerra civile che da anni travagliava l’isola, senza eccessi e stragi. La nave Paralo fa rotta verso Atene, senza sapere che nel frattempo il regime oligarchico dei Quattrocento aveva preso il potere:

τὴν δὲ Πάραλον ναῦν καὶ Χαιρέαν ἐπ᾽ αὐτῆς τὸν Ἀρχεστράτου, ἄνδρα Ἀθηναῖον, γενόμενον ἐς τὴν μετάστασιν πρόθυμον, ἀποπέμπουσιν οἵ τε Σάμιοι καὶ οἱ στρατιῶται κατὰ τάχος ἐς τὰς Ἀθήνας ἀπαγγελοῦντα τὰ γεγενημένα. οὐ γὰρ ᾔδεσάν πω τοὺς τετρακοσίους ἄρχοντας. καὶ καταπλευσάντων αὐτῶν εὐθέως τῶν μὲν Παράλων τινὰς οἱ τετρακόσιοι δύο ἢ τρεῖς ἔδησαν, τοὺς δὲ ἄλλους ἀφελόμενοι τὴν ναῦν καὶ μετεμβιβάσαντες ἐς ἄλλην στρατιῶτιν ναῦν ἔταξαν φρουρεῖν περὶ Εὔβοιαν (Thuc. VIII, 74).

I cittadini di Samo e i soldati mandarono subito ad Atene la nave Paralos, con a bordo l’ateniese Cherea, figlio di Archestrato, che era stato molto attivo nella rivoluzione democratica, per portare notizia dell’accaduto: non sapevano infatti che avevano preso il potere i Quattrocento. Non appena sbarcarono subito i Quattrocento imprigionarono due o tre dei Paralii, tolsero la nave agli altri, li fecero salire a bordo di una nave da guerra e li mandarono a sorvegliare il tratto di mare intorno all’Eubea.

Dunque, gli oligarchi provvedono all’arresto di alcuni membri dell’equipaggio della Paralos e costringono i rimanenti a imbarcarsi su un’altra nave da guerra. Il racconto di Tucidide prosegue con una lezione di imparzialità storica, denunciando le trucide esagerazioni e “le altre numerose menzogne” contro i Quattrocento a proposito dell’episodio, diffuse da Cherea a Samo, per aizzare i democratici alle vendette contro gli esponenti del partito avverso (Thuc. VIII, 74, 3; 75, 1). A questo punto, in una Samo ormai nuovamente votata alla democrazia, Trasibulo e i suoi riescono a disinnescare le provocazioni volte a radicare divisioni e rancori e viene siglato, con un giuramento collettivo, un patto di fedeltà alla democrazia (Thuc. VIII, 75). Non solo: in questi mesi tra il 411 e il 410, la Samo democratica si sostituisce ad Atene e il governo democratico samio agisce per supplenza del governo democratico ateniese deposto dai Quattrocento. Samo – afferma Tucidide – in questa fase si comporta ‘come se’ fosse Atene, radunando presso di sé l’intera flotta e arrivando perfino a chiedere tributi agli alleati (Thuc. VIII, 76, 4): Samo supplisce al ruolo di Atene. E Atene stessa, a sua volta, prenderà spunto dalle vicende di Samo per l’imminente restaurazione democratica, dopo la parentesi del regime dei Quattrocento.

Sta di fatto che, nel momento della sollevazione antioligarchica, i democratici dell’isola trovano un appoggio, anche sotto il profilo militare, nell’equipaggio della Paralos. E sarà da notare che di Paralos proprio in questo passo Tucidide proietta una surreale, straordinaria figura; una sorta di corsara goletta della libertà, veleggiante per il mare, il cui equipaggio sarebbe stato composto da cittadini ateniesi. Infatti stando alla testimonianza di Tucidide si dovrebbe dedurre che l’equipaggio della Paralos includeva soltanto e in toto liberi cittadini ἄνδρας Ἀθηναίους τε καὶ ἐλευθέρους πάντας ἐν τῇ νηὶ πλέοντας e non schiavi né meteci; e questo è un dato a quanto risulta eccezionale rispetto alla formazione degli altri equipaggi (Bubelis 2020, 394; non in riferimento alla Paralos, ma più in generale, alla necessaria inclusione dei meteci tra i marinai della flotta ateniese, che avrebbe provocato l’allargamento anche a loro di una pari libertà di parola, fa riferimento Ath. Pol. I, 12, e commento in Centanni 2011, 136-137).

La notizia di Tucidide è confermata indirettamente da Suida: i Paraloi, intesi non come gli abitanti della provincia costiera ma come l’equipaggio della Paralos, essendo politai, liberi cittadini, percepivano uno stipendio per la loro attività:

Πάραλοι δ᾽ ἐκαλοῦντο οἱ ἐπιβεβηκότες αὐτῆς, οἳ καὶ διὰ ταύτην ὑπηρεσίαν τέσσαράς τε ὀβολοὺς έλάμβανον, καὶ τὸ πλεῖστον τοῦ ἐνιαυτοῦ οἴκοι τε ἔμενον καὶ ἄλλα τινὰ ὑπῆρχεν αὐτοῖς παρὰ τῆς πόλεως (Suida π 389, IV 37, 23-26 Adler).

‘Paraloi’ è il nome dei marinai a bordo di essa che per quel servizio prendevano 4 oboli e per la maggior parte dell’anno stavano a casa e godevano di altri privilegi da parte della città.

Dunque, i Paraloi avevano una paga giornaliera che doveva essere, se non più alta, certo continuativa rispetto a quella degli altri marinai (ingaggiati solitamente a missione o comunque a tempo determinato) e per di più godevano del privilegio di lunghe pause dal lavoro, evidentemente quando la nave non era impegnata in missione (Bubelis 2010, 394; Potts 2013, p. 103). Che i Paraloi costituissero una vera e propria ‘corporazione’, e che grazie anche alla loro professionalità godessero di uno statuto, cariche proprie e privilegi unici rispetto agli altri equipaggi delle navi sacre, pare attestato da varie fonti (Bubelis 2010, 392-ss., 396).

La notizia riportata dalla Suida sullo stipendio dei marinai della Paralos e, soprattutto, sulla flessibilità del loro impegno di lavoro unito ai privilegi che la città avrebbe loro concesso, va incrociata con una notizia che si ricava da Plutarco sull’investimento di Pericle sull’impegno nautico dei cittadini, a scopo non esclusivamente militare ma come palestra pubblica, sul versante delle attività ricreative e lato sensu sportive. Dopo aver introdotto la mirabile immagine del “difetto di fusione” di un’opera in ferro a rappresentare il problema originario della politeia ateniese – la frattura tra gli aristoi e il demos che minava intimamente il codice genetico del nuovo corpo politico e che Pericle cerca di colmare – tra i rimedi compensativi di quella fessurazione, Plutarco così scrive:

ἦν μὲν γὰρ ἐξ ἀρχῆς διπλόη τις ὕπουλος, ὥσπερ ἐν σιδήρῳ, διαφορὰν ὑποσημαίνουσα δημοτικῆς καὶ ἀριστοκρατικῆς προαιρέσεως […]. διὸ καὶ τότε μάλιστα τῷ δήμῳ τὰς ἡνίας ἀνεὶς ὁ Περικλῆς ἐπολιτεύετο πρὸς χάριν, ἀεὶ μέν τινα θέαν πανηγυρικὴν ἢ ἑστίασιν ἢ πομπὴν εἶναι μηχανώμενος ἐν ἄστει καὶ ‘διαπαιδαγωγῶν οὐκ ἀμούσοις ἡδοναῖς’ τὴν πόλιν, ἑξήκοντα δὲ τριήρεις καθ᾽ ἕκαστον ἐνιαυτὸν ἐκπέμπων, ἐν αἷς πολλοὶ τῶν πολιτῶν ἔπλεον ὀκτὼ μῆνας ἔμμισθοι, μελετῶντες ἅμα καὶ μανθάνοντες τὴν ναυτικὴν ἐμπειρίαν (Plut. Per. 11, 3-6).

C’era fin dall’origine una frattura insidiosa, come accade nel ferro, che indicava una difformità tra la parte del demos e quella degli aristoi […]. Perciò Pericle allentò le redini al demos e istituì una politica del consenso: fece in modo che ci fossero sempre in città spettacoli o convivi pubblici o processioni, dandosi da fare perché la città si intrattenesse con divertimenti non rozzi. Allestì anche 60 triremi sulle quali ogni anno venivano imbarcati per otto mesi molti cittadini che percepivano uno stipendio per dedicarsi all’arte nautica e per impararla.

Notevole la segnalazione di un investimento di Pericle sulle navi non rivolto soltanto al fronte militare (su cui Atene, da Salamina in poi, aveva dimostrato di primeggiare), ma che include le attività nautiche, con le feste pubbliche e gli spettacoli, fra i “piaceri raffinati” (οὐκ ἀμούσοις ἡδοναῖς) che l’accorto governante concede al demos per ingraziarselo e per educarlo alla nuova invenzione della politica. In questo senso la pratica nautica diventa un passaggio fondamentale della paideia democratica. La trireme diventa insomma una “school of democracy” (Strauss 1996):

Service at sea was a fundamental part of the democratic education […]. The trireme was a paradigmatic community. As a locus of equality, it gave the lie to the notion that to merit isonomia one had to own oplite armour. As a locus of order, it countered the slander that seamen were a mob. As a locus of power, it taught poor men how to be free (Strauss 1976, 320).

Una nave ‘politica’ dunque, al servizio del demos al governo in città, che si trovava per altro in buona compagnia; molte altre triremi della flotta ateniese portavano nomi ‘militanti’ quasi slogan del partito del demos, molte il nome di Eleutheria (Libertà), una il nome Parrhesia (Casson 1971, 77-96, 352-353; lo studio di riferimento per i nomi delle navi ateniesi resta Schmidt 1931; un elenco di nomi di navi ateniesi – privo di riferimenti alle fonti – è proposto da Wilson 2011; v. anche Brouwers 2019).

Ma non si tratta soltanto di ‘liberi cittadini’, professionisti della navigazione e per questo con uno status speciale, in città. Si tratta, attesta Tucidide, di cittadini politicamente impegnati in modo preciso: antioligarchici per opzione ideologica, ‘per partito preso’, anche a prescindere dall’effettiva esistenza dell’oligarchia. Liberi cittadini a bordo della loro nave, sempre pronti ad avversare l’oligarchia, anche quando non ne incombesse il pericolo.

E per neutralizzare questo spirito non bastano gli arresti, non basta, come fanno i Quattrocento al momento dello sbarco in Atene, deportare l’equipaggio su un’altra nave; anche in servizio sulla nave da guerra che doveva controllare le rotte dell’Eubea, i Paralii trovano modo di mettere in atto la loro attività antioligarchica: poco dopo, anziché trasportare a Sparta gli ambasciatori inviati dai Quattrocento, all’altezza di Argo li consegnano agli Argivi in quanto “responsabili dell’abbattimento della democrazia”.

τοὺς μὲν πρέσβεις ξυλλαβόντες τοῖς Ἀργείοις παρέδοσαν ὡς τῶν οὐχ ἥκιστα καταλυσάντων τὸν δῆμον ὄντας, αὐτοὶ δὲ οὐκέτι ἐς τὰς Ἀθήνας ἀφίκοντο, ἀλλ᾽ ἄγοντες ἐκ τοῦ Ἄργους ἐς τὴν Σάμον τοὺς πρέσβεις ἀφικνοῦνται ᾗπερ εἶχον τριήρει (Thuc. VIII, 86, 9).

Presero gli ambasciatori [che avevano inviato i Quattrocento] e li consegnarono agli Argivi in quanto erano tra i maggiori responsabili dell’abbattimento della democrazia. Poi loro non fecero ritorno ad Atene ma condussero quegli ambasciatori da Argo a Samo con la stessa trireme che avevano.

Un atto di vera e propria insubordinazione: un atto di libertà che presuppone una consapevolezza politica eccezionale (sulla ricostruzione dell’episodio v. di recente Nýult 2015). I cittadini ateniesi non hanno bisogno di far ritorno ad Atene. Atene resta Atene comunque e la sua anima più inquieta, l’anima stessa della città le cui fortune nel V secolo sono strettamente legate alla torsione verso il mare, è tutta a bordo della nave Paralos. E quando, dopo il 411, viene restaurata la democrazia, forse gli stessi Paralii, impegnati così attivamente e coraggiosamente in azioni anti-oligarchiche durante il regime dei Quattrocento, finalmente di ritorno in Atene potrebbero aver dedicato il rilievo della grande nave con Paralos come ex voto sull’Acropoli (cfr. Beschi 1969-1970, 131-132).

Anche se non viene più nominata, già nella fase immediatamente successiva al 411, con l’ammorbidimento del primo esperimento ‘tirannico’ con il regime dei Cinquemila, è del tutto verosimile che i membri dell’equipaggio avessero ripreso il loro ruolo e fossero state ripristinate le funzioni della Paralos. Nelle fonti, la nave torna protagonista nel 405 quando è la Paralos che approda in Atene a portare la notizia della sconfitta nella battaglia navale di Egospotami (Xen., Hell. II, 3).

Ma l’immagine della nave ci racconta anche altro sulla ‘costituzione’ della polis: a bordo della nave sta la politeia di un’Atene assoluta, la cui costituzione prescinde dall’effettivo insediamento territoriale e anche dalla sua effettiva realizzazione. La ‘costituzione’ propria di Atene resiste comunque, anche se Atene è occupata dal nemico o è governata da chi nella patrios politeia ateniese, improntata ab origine sull’arrischiato coinvolgimento del demos, non si riconosce. In passato, nella stagione gloriosa delle guerre persiane, erano stati i barbari che avevano costretto gli Ateniesi a evacuare la città e a rifugiarsi sulle navi; ora chi “occupa” la città è il partito degli avversari del demos, e i cittadini che portano con sé l’insegna della libertà navigano per mare.

7. La città è una nave

Nel 472 a.C., Eschilo aveva portato in scena i Persiani, mettendo al centro della tragedia sulla sconfitta del potente invasore e sulla sua ricacciata in Asia la battaglia di Salamina. Porre la battaglia navale come fulcro del dramma è una scelta importante: la vittoria di Salamina è infatti un ‘tempo mediano’ delle guerre persiane: né la prima, epica, battaglia di Maratona; né l’ultima e decisiva vittoria sul campo di Platea. È, quello di Eschilo, un taglio del mythos che comporta un felice esito drammaturgico: nello sviluppo del dramma si annoda una trama in cui il ‘presente’ del tempo drammatico si connette al passato e al futuro, mediante flashback e flashforward: è la possibilità di far risuonare in scena, per bocca del Fantasma di Dario, una ‘profezia del passato’ rievocando Maratona e una profezia del futuro annunciando Platea. Ma si tratta anche – è evidente – di una netta scelta ideologica e propagandistica: al pubblico panellenico che assiste allo spettacolo durante le Grandi Dionisie, Atene e la sua battaglia navale sono presentate come la vittoria decisiva in cui si concentra il senso primo e ultimo della insperata vittoria del valore e della strategia dei Greci contro le immense forze dell’esercito nemico.

La coregia dei Persiani è il primo atto pubblico del giovane Pericle. Soltanto quattro anni prima, nel 476 a.C., Temistocle era stato corega delle Fenicie, la tragedia che Frinico aveva composto sulla battaglia di Salamina; nei Persiani di Eschilo non compare menzione del nome dell’artefice della vittoria navale ateniese ma, secondo una importante lettura del dramma e delle sue valenze politiche, Eschilo avrebbe messo in scena i Persiani anche per esaltare il ruolo di Temistocle nella strategia della battaglia nonché, soprattutto, per riabilitare il condottiero ateniese che in quel periodo, dal culmine del successo e del consenso, era caduto in disgrazia e forse era già al bando da Atene (Centanni, Nanni 2019, 88-99. L’intenzione di Eschilo di riscattare Temistocle e di scagionarlo dall'accusa di intelligenza con il nemico, e più in generale la valenza filotemistoclea della tragedia, è ormai riconosciuta quasi unanimente dalla critica: vedi, fra gli altri, Canfora 1988, 128-132; Sommerstein 2010, 14-15; sull’episodio del pedagogo dei figli di Temistocle Sicinno, mandato per due volte a portare messaggi al campo persiano, narrato in Plut., Them. 12, 4-5; Diod. XI, 17, -ss., cfr. Aesch., Pers., 355-385).

In particolare, il Messaggero riporta in scena in forma diretta il breve, edificante, discorso che il condottiero avrebbe rivolto alla flotta greca prima della battaglia, e che sarebbe stato percepibile anche dai barbari perché pronunciato a gran voce; il testo dell’appello riecheggia nelle parole che Erodoto attribuisce a Temistocle, nel discorso che avrebbe tenuto al sorgere del sole davanti alla flotta riunita, prima dell'attacco (Persiani, vv. 402-405; cfr. Hdt. VIII, 83). Ma anche a prescindere dall’innegabile collegamento tra il dramma eschileo e le vicende di Temistocle, più importante è in questo contesto sottolineare il rovesciamento della figura della nave nel repertorio imaginale e retorico evocato nella tragedia. In bocca al nemico, a raccontare la sua disastrosa e sanguinosa sconfitta, la nave, la trireme greca diventa il primo strumento di morte. Così è nella reiterata apostrofe del coro alle agili triremi, presentate ed evocate in scena come “veicoli di rovina”:

λινόπτεροι κυανώπιδες
νᾶες μὲν ἄγαγον, ποποῖ,
νᾶες δ᾽ ἀπώλεσαν, τοτοῖ,
νᾶες πανωλέθροισιν ἐμβολαῖς
 (Pers., vv. 559-562).

Ali di lino, occhi scuri sul mare
Le navi – ah – li guidarono,
Le navi – ah – li rovinarono
Le navi con i loro mortiferi assalti.

Le triremi sono creature animate, esseri sinistri che dalle cubie – i fori posti a prua che avevano la funzione di far passare le catene delle ancore – scrutano il mare (v. 559: la stessa figura, più esplicita, è in Supplici, al v. 716, in riferimento alle navi minacciose dei figli di Egitto). Nel testo l'immagine è sottolineata con insistenza grazie all’anafora (vv. 560-562). 

E se le triremi ateniesi sono le macchine della distruzione, le grosse navi persiane, grazie a una scelta lessicale particolarmente felice, sono presentate come imbarcazioni funebri (v. 553: baris – da cui per altro, per la mediazione del latino deriva l'italiano ‘barca’) è un tipo di imbarcazione egiziana (barides sono le navi degli Egizi in Suppl. ai vv. 836, 873, 882). Ma, secondo la testimonianza di Diodoro “si chiama baris l'imbarcazione che trasporta i cadaveri” (Diod. I, 96); e baris è anche detta la barca di Caronte in Antologia Palatina (VII, 67, 635). Il termine baris richiama dunque contemporaneamente l'immagine di un’imbarcazione esotica, e anche di un veicolo funebre. Un’immagine funebre è anche nel finale del secondo stasimo di Persiani, il corale del lutto: è una nuovissima figura di parola 'navi non-navi non-navi' (νᾶες ἄναες ἄναες, al v. 680) che dice l'ultima, nuovissima, sciagura; ma è anche, quasi, un’onomatopea del lamento.

E alla fine della tragedia, quando entra in scena Serse, solo, nudo, privo di tutto l’esercito, sigla così il riconoscimento ad Atene della vittoria sull’armata navale persiana:

ἰὼ ἰώ μοί μοι
τὰς ὠγυγίους κατιδόντες
στυγνὰς Ἀθάνας πάντες ἑνὶ πιτύλῳ,
ἐὴ ἐή, τλάμονες ἀσπαίρουσι χέρσῳ
(Aesch. Pers., vv. 974-977).

Ahi ahi – hanno ben visto l'antica
Atene crudele: un colpo di remo e tutti,
ahi ahi miserabili! come pesci a riva, a morire di spasmi.

I colpi funesti del remo tornano anche nell’esodo finale guidato dal re-corifeo, come metafora della gestualità del lutto, istruzioni al coro per il corteo del compianto:

– ἔρεσσ᾽ ἔρεσσε καὶ στέναζ᾽ ἐμὴν χάριν.
– διαίνομαι γοεδνὸς ὤν
 (Aesch. Pers., vv. 1046-1047).

Serse | Colpo su colpo, come il colpo del remo: battiti, piangi per me!
Coro | Piango! Sono tutto un lamento!

E infine l’immagine della trireme compare nelle ultime parole che Serse rivolge al suo coro in lutto:

ἰὴ ἰὴ τρισκάλμοισιν,
ἰὴ ἰή, βάρισιν ὀλόμενοι
(Aesch. Pers., vv. 1074-1075).

Ah, per le navi triremi…
Ah, per quelle barche funeste, sono morti!

Secondo Vitruvio, Temistocle avrebbe recuperato e riutilizzato il legno dei relitti delle navi persiane distrutte nella battaglia di Salamina per costruire la copertura dell’edificio teatrale di Atene che Vitruvio identifica con l’Odeon, in realtà costruito più tardi da Pericle (Vitr. V, 9: Odeum […] Themistocles […] navium malis et antemnis ex spoliis Persicis pertexit). Come è stato argomentato di recente, è del tutto probabile che nel 472 a.C., i Persiani di Eschilo vadano in scena sulle pendici dell’Acropoli, in un edificio teatrale ligneo costruito anche con i relitti delle navi persiane naufragate nello specchio di mare intorno a Salamina (Trainor 2016, 21-22, 34-35).

Se dunque in Persiani, nelle parole e nelle immagini del nemico sconfitto la trireme ateniese è un’icona rovesciata in una figura di morte, pochi anni dopo nel 467 a.C., quando Eschilo mette in scena i Sette contro Tebe, la nave torna a essere l’immagine positiva della città:

Κάδμου πολῖται, χρὴ λέγειν τὰ καίρια
ὅστις φυλάσσει πρᾶγος ἐν πρύμνῃ πόλεως
οἴακα νωμῶν, βλέφαρα μὴ κοιμῶν ὕπνῳ
(Aesch. Sept., vv. 1-3).

Voi della città di Cadmo!
Dire le parole giuste in quest’ora è il dovere
di chi governa e, in poppa alla nave,
regge il timone della città senza mai abbassare le palpebre al sonno.

La tragedia inizia con una stupefacente invenzione drammaturgica. Entra in scena Eteocle e già nelle sue prime battute compie una semantizzazione precisa di sé stesso, dello spazio scenico, degli stessi spettatori del teatro di Dioniso di Atene. Eteocle si presenta come ‘governante’ nel senso etimologico del ‘timoniere’ alla guida della nave-città; gli spettatori seduti nella cavea del teatro – gli Ateniesi e gli altri greci, convenuti per lo spettacolo nell’ambito del festival delle Grande Dionisie – sono chiamati, dal primo appellativo, a identificarsi come ‘cittadini’ di Tebe, la città in cui è ambientato il dramma, e coinvolti nell’azione come l’assemblea politica che Eteocle ha convocato per l’emergenza e a cui rivolge il discorso contenuto nei primi versi del prologo.

L’immagine della città-nave risale già a Omero: all’origine del paragone sarà stata la suggestione dell’analogia fra l’eminenza dell’Acropoli, arroccata rispetto alla pianura circostante, e il profilo della nave emergente sulla distesa piatta del mare. Ma nei Sette non si tratta di una metafora di repertorio: la nave è un’immagine guida del dramma, tutto costellato di richiami al lessico navale. Non è soltanto la figura del bravo timoniere della nave/città già presente nella poesia arcaica, e che diviene presto un topos letterario molto sfruttato (lo slittamento semantico timoniere/guida politica finisce per avere tanta fortuna che nell’italiano ‘governante’ si è quasi totalmente oscurato il significato originario del greco κυβερνήτης, ‘timoniere’). Dote condivisa da chi governa una nave e da chi governa una città è l’intelligenza versatile che gioca le sue chanches di efficacia nella complicità con il reale. Abilità del timoniere è trovare una via nel mare che, per definizione, è senza percorsi; reggere il timone e inventare, all’impronta, la manovra giusta, opportuna e tempestiva che permette di tener salda la barra e di correggere la rotta.

Il re deve saper “dire le parole opportune” (λέγειν τὰ καίρια, al v. 1), ma anche, come il pilota, nel momento cruciale deve saper “afferrare l’istante” (καιρὸν … λαβέ, al v. 65). Kairos è la dimensione temporale puntuale e istantanea che richiede un intervento pronto e tempestivo: è il frangente in cui il kybernetes-gubernator esercita la sua dote di prudenza regale e ha occasione di dar prova della sua metis.

La stessa cittadella che va difesa dall’attacco nemico viene presentata da Eteocle come una nave, nelle sue parole è via via sempre più in assetto da combattimento, e i cittadini vengono esortati all’azione proprio come l’equipaggio di una nave da guerra. La sovrapposizione linguistica contagia dettagliatamente l’immaginazione, per cui le mura diventano le “murate” e le torrette sugli spalti diventano i “parapetti” (θωρακεῖα, κἀπὶ σέλμασιν al v. 32 sono termini mutuati dal lessico navale, e indicano le parti della nave da guerra attrezzate militarmente per la difesa e l’attacco): nell’elemento liquido e incerto del mare minaccioso la città-nave emerge come un frammento solido. L’immagine della città-nave non è più, soltanto, una metafora letteraria, ma le parole di Eteocle provocano nei cittadini (e negli spettatori del dramma) la magia teatrale di una metamorfosi visiva.

Nella descrizione del Messaggero l’immagine contagia anche la piana intorno all’Acropoli che si trasforma nella distesa del mare: la bava dei cavalli ansimanti (creature sacre a Poseidone) è “spuma marina” (v. 60); l’attacco nemico è come una tempesta sul mare (v. 62); un uragano incombe, un’“onda di terra” è l’esercito all’assalto (con felice ossimoro al v. 64) contro la nave-città. Nel canto terrorizzato delle fanciulle del coro, tornano i fantasmi del mare che attentano alla tenuta della nave-città: “scorre” verso la città l’esercito assediante (v. 80): è un flusso dilagante, come una corrente in piena, gonfia e impetuosa; o come il succedersi di ondate violente che si infrangono rumorosamente sulla nave-città (vv. 113-115). E su questa tempestosa e minacciosa distesa marina, le creste dei cimieri dei guerrieri si confondono con le creste delle onde (al v. 114).

Via via che ci si avvicina alla Porta Settima, comincia a sgretolarsi anche l’immagine della nave-città, guidata dal suo re-timoniere: già il Messaggero aveva rilanciato la metafora della nave, raccomandando a Eteocle di trovare bravi “rematori” contro i nemici (v. 595). Ma la nave ora presta la sua figura al veicolo di una ciurma violenta e insubordinata, destinato ad affondare (vv. 602-604), e da questo punto in avanti l’orizzonte metaforico si apre a una pericolosa polisemia. Ritorna nell’ultima battuta del Messaggero (v. 652) – l’ultimo momento in cui resiste ancora un brandello di speranza – l’immagine positiva della nave-città e del suo bravo pilota: la ripresa della prima metafora del dramma sigla la clausola definitiva del ruolo regale a cui Eteocle, fin dal verso immediatamente successivo, abdicherà. Ma poi, in perfetto contrappunto all’immagine del saggio passeggero Anfiarao imbarcato fra gli empi, nella nave-città sarà Edipo – precedendo nel ruolo i suoi figli – il “passeggero contaminante”, la “zavorra da scaricare” per ottenere salvezza (così nel corale, ai vv. 768-771).

A distanza di sessant’anni dalla sua prima rappresentazione, i Sette contro Tebe vengono riportati in scena tra il 411 e il 407; nel clima avvelenato dell’ultimo decennio del V secolo il finale del dramma viene stravolto e rifatto, sulla base dell’Antigone di Sofocle (sulla ripresa del dramma e sul finale interpolato rimando a Centanni 2011). Ma se nella ripresa post 411, a differenza di quanto accadeva nel finale originale, un ‘Creonte’ dai tratti prepotenti e tirannici, avvalendosi dell’autorità dei probouloi, poteva negare la sepoltura a uno dei ‘fratelli nemici’, la parte iniziale della tragedia resta intatta. Di scena è, ancora, la nave-città.

Atene, la città, è una nave, come tutte le navi in balia delle onde del mare. Molto può fare un buon governante. Il governante è il maggior responsabile della condotta, della tenuta della nave, della sua rotta. Parole, coloritura retorica, immagini dell’Eteocle eschileo erano riecheggiati nel discorso di Pericle per i primi morti della guerra dei Peloponneso, tutto punteggiato di riferimento espliciti e metaforici alla nave-città e al suo equipaggio (Thuc. I, 140-144).

Molto può fare un buon equipaggio, tutti i cittadini nel loro complesso, ma soprattutto l’equipaggio della trireme simbolo: l’ottimo equipaggio, qualificato professionalmente e politicamente impegnato della Paralos. Un equipaggio militante, quello della Paralos, che assieme alla coloritura ideologica ‘filodemocratica’ (come abbiamo visto guadagnata sul campo, almeno negli anni intorno al 411) si doveva portar dietro, con altrettante buone ragioni, anche una certa qual fama di tendenza all’insubordinazione. Nelle Rane, ‘Eschilo’, nel denunciare il fatto che Euripide avrebbe allenato il popolo alla pericolosa arma del dibattito e della contestazione dell’autorità, attacca l’antagonista con questa battuta:

εἶτ᾽ αὖ λαλιὰν ἐπιτηδεῦσαι καὶ στωμυλίαν ἐδίδαξας,
ἣ ᾽ξεκένωσεν τάς τε παλαίστρας καὶ τὰς πυγὰς ἐνέτριψεν
τῶν μειρακίων στωμυλλομένων, καὶ τοὺς Παράλους ἀνέπεισεν
ἀνταγορεύειν τοῖς ἄρχουσιν. καίτοι τότε γ᾽ ἡνίκ᾽ ἐγὼ ‘ζων,
οὐκ ἠπίσταντ᾽ ἀλλ᾽ ἢ μᾶζαν καλέσαι καὶ ‘ῥυππαπαῖ’ εἰπεῖν
(Aristoph., Ra., vv. 1069-1073).

A imbastire chiacchiere e dibattiti a vanvera, questo hai insegnato
e così si sono svuotate le palestre, sono diventati flaccidi i glutei
dei ragazzi, tutti a far dibattiti; e i marinai della Paralos li hai convinti
a mettere in discussione chi comanda; ma finché ero vivo io
non facevano i sapientoni ma chiedevano la pagnotta e tutti insieme, ad alta voce dicevano: ‘hè-ia’.

Ιl celeuma ῥυππαπαῖ – la battuta cadenzata dei rematori, che abbiamo tradotto convenzionalmente con ‘hè-ia’ – ricorre anche nello scambio tra Dioniso e Xantia all’inizio della commedia. E che la nave sia una precisa sineddoche della città è comprovato da una battuta di ‘Dioniso’ che, a conferma della licenza che si sarebbe diffusa con l’abitudine a discutere tutti e di tutto, così chiude il discorso:

νῦν δ᾽ ἀντιλέγει κοὐκέτ᾽ ἐλαύνων πλεῖ δευρὶ καὖθις ἐκεῖσε (Aristoph., Ra., v. 1077).

Ora tutti a contestare tutto, e nessuno che rema più: e così la nave sbanda di qua e di là.

Sul contesto della battuta, nel quadro dell’attacco alla ‘democratizzazione’ che Euripide avrebbe indotto nei drammi, v. da ultimo Rosenbloom 2012, in particolare 437-438. E che i Parali fossero noti per essere particolarmente solleciti alle mobilitazioni in cui si trattava di prendere la parola contro il potere, potrebbe essere confermato anche da una battuta della Lisistrata, quando la protagonista, in apertura dell’assemblea, nota con sorpresa:

ἀλλ᾽οὐδὲ Παράλων οὐδεμία γυνὴ πάρα (Aristoph., Lys. v. 58).

Ma come mai delle mogli dei Parali non ce n’è nessuna?

È in discussione se la battuta sia da intendersi in riferimento all’equipaggio della Paralos o agli abitanti della circoscrizione costiera (cfr. Bubelis 393, n. 38, Sommerstein [1990, 19982] 2007, p. 157, Potts 2013, 102) e forse il senso è anche un altro: il confronto con una analoga battuta aristofanea (Eccl. 37-40) può far pensare infatti anche a un’allusione al fatto che le donne di Paralos e di Salamina (intendendo sia i quartieri costieri che le navi omonime) disertano le assemblee delle donne, o tardano ad arrivare, perché i loro uomini in quanto marinai sono particolarmente bravi a “sbattere”, non solo il remo (sul doppio senso del verbo ἐλαύνειν LSJ ad voc. 5. = βινέω, Aristoph., Eccl. 39; Pl. Com. 3.4).

Comunque, per come abbiamo ricostruito che i riferimenti alla Paralos e al suo equipaggio risuonavano intorno al 411 (data di rappresentazione della Lisistrata), anche il primo significato della battuta resta valido accanto al doppio senso sessuale: Lisistrata si stupisce che nel consesso sovversivo che ha convocato non siano presenti le Paralie – sovversive per antonomasia.

L’allenamento al dibattito, alla parrhesia, è tipico infatti dalla pratica di bordo: è a bordo della nave che tutti i cittadini, condividendo “sulla stessa barca” rotta e destino, acquistano l’indispensabile “self-confidence” che è il presupposto della libertà di parola e di azione.

To become free and equal, ordinary people must first believe they deserve to enjoy liberty as the rich or well-born do; in other words, they must accumulate self-confidence (Strauss 1976, 314).

Come stigmatizza l’autore dell’anonimo trattato sulla Costituzione di Atene, c’è una connessione diretta tra il successo del partito del demos e la particolare declinazione marittima dell’economia e dell’orizzonte geopolitico ateniese: la democrazia nasce direttamente dal fatto che “è il popolo che fa andare le navi e ha dato potenza alla città”.

αὐτόθι οἱ πένητες καὶ ὁ δῆμος πλέον ἔχειν τῶν γενναίων καὶ τῶν πλουσίων διὰ τόδε, ὅτι ὁ δῆμός ἐστιν ὁ ἐλαύνων τὰς ναῦς καὶ ὁ τὴν δύναμιν περιτιθεὶς τῇ πόλει, καὶ οἱ κυβερνῆται καὶ οἱ κελευσταὶ καὶ οἱ πεντηκόνταρχοι καὶ οἱ πρῳρᾶται καὶ οἱ ναυπηγοί· οὗτοί εἰσιν οἱ τὴν δύναμιν περιτιθέντες τῇ πόλει πολὺ μᾶλλον ἢ οἱ ὁπλῖται καὶ οἱ γενναῖοι καὶ οἱ χρηστοί. ἐπειδὴ οὖν ταῦτα οὕτως ἔχει, δοκεῖ δίκαιον εἶναι πᾶσι τῶν ἀρχῶν μετεῖναι ἔν τε τῷ κλήρῳ καὶ ἐν τῇ χειροτονίᾳ, καὶ λέγειν ἐξεῖναι τῷ βουλομένῳ τῶν πολιτῶν (Athenaion politeia I, 2).

Qui [ad Atene]  sia i lavoratori sia il popolo hanno più potere dei nobili e dei ricchi per questo motivo: perché è il popolo che fa andare le navi e dà potenza alla città. Timonieri, caporematori, sottoufficiali, piloti, carpentieri. Σono costoro che danno potenza alla città molto più degli opliti, dei nobili, delle persone oneste. E dato che è così che stanno le cose, pare giusto che tutti possano partecipare alle cariche politiche, sia alle elezioni per sorteggio sia per alzata di mano, e che abbia la facoltà di prendere la parola chiunque dei cittadini lo voglia (sul passo, rimando al commento in Centanni 2011, 86-87 e 120-122).

Per tutto il V secolo ricorre in Atene l’idea di una nave-città in cui si condividono oneri e onori, in cui tutti i membri sono coinvolti nella stessa sorte e sono chiamati a rispondere di tutte le decisioni. L’aspetto caratteristico della democrazia ateniese è la responsabilizzazione attiva dell’intera comunità dei cittadini. Si tratta di quell’estensione della responsabilità all’intera collettività, per cui la città greca sarà paragonabile a una nave in cui tutti i cittadini sono impegnati non come passeggeri, ma come indispensabile equipaggio:

In questa strana nave senza passeggeri […], che non imbarca che l’equipaggio, tutti i cittadini sono richiamati all’impegno: ‘essere polites’, insomma, si può tradurre in linguaggio moderno [non con l’espressione ‘essere cittadino’, ma con l’espressione ‘fare politica’ (Veyne 1989, 79 ss.).

L’egemonia ateniese del V secolo è il frutto di una scelta: la decisione di rivolgersi al mare. E non si tratta di pesare (come parte della critica pur si esercita a fare) quanto contasse la classe dei marinai nell’Atene del V secolo, in termini di presenza alle assemblee, di rappresentanza nelle magistrature, di voti e di numeri. Si tratta di pesare la forza di un’immagine, oggettivamente efficace non solo nel paesaggio concettuale e imaginale, ma sul piano della realtà strategica, sociale, economica e delle istituzioni politiche.

Resta, concettualmente e ideologicamente, l’idea di una comunità politica che non è costituita da persone connesse da legami genetici stabili, da case con fondamenta gettate nel suolo, da un reticolo di radici conficcate nel seno della terra e da là inestirpabili. Questa è l’idea pericolosa e inquieta di città e di politica che Temistocle lancia con l’invenzione di Salamina, che Eschilo – sodale di Temistocle – porta in scena con l’immagine della nave-città nei Sette, a cui Pericle dà materia e forma istituzionale: è l’invenzione della democrazia, ovvero della politica, che consiste in un riequilibrio dei privilegi e nella rotazione di uno sguardo. Lo vide bene Aristotele:

δημοτικωτέραν ἔτι συνέβη γενέσθαι τὴν πολιτείαν. καὶ γὰρ τῶν Ἀρεοπαγιτῶν ἔνια παρείλετο, καὶ μάλιστα προύτρεψεν τὴν πόλιν ἐπὶ τὴν ναυτικὴν δύναμιν (Arist., Ath. Pol. XXVII, 1).

La costituzione divenne ancora più democratica; infatti [Pericle] tolse alcuni privilegi ai membri dell’Aeropago e soprattutto spinse la città verso la potenza navale.

E lo sapeva bene Pericle che, quando muore di peste poco dopo il figlio Paralos, fra le ultime sue raccomandazioni lascia come mandato ai concittadini di “aver cura delle navi” (τὸ ναυτικὸν θεραπεύοντας, Thuc. II, 65, 7).

La nave è la figura della democrazia e volgere lo sguardo verso il mare è l’atto decisivo per la nascita della politica. Lo sanno bene anche i tiranni. Figura architettonica di questa idea è la tribuna dell’assemblea popolare sulla collina della Pnice, “costruita in modo da guardare verso il mare”; e, quando alla fine del V secolo a.C. i Trenta Tiranni prendono il potere, procurano subito di far ruotare l’orientamento della tribuna verso l’entroterra “convinti che l’impero marittimo fosse l’origine della democrazia” (οἰόμενοι τὴν μὲν κατὰ θάλατταν ἀρχὴν γένεσιν εἶναι δημοκρατίας: Plut., Them. 19, 6). 

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English abstract

During the fifth century BCE, Paralos is, primarily, the name of the sacred ship devoted to ceremonial functions and diplomatic missions. However, according to the sources, ‘Paralos’ was also the name of a minor god, ‘inventor of navigation’, who had his own sanctuary in Piraeus. The same name also appears as the name of a son of Pericles, the youngest, who died in the plague of Athens shortly before his father. However, Paralos represents, above all, a great figure – the ship par excellence. In 480 BCE, investment in the naval fleet had been Themistocles’ decisive move for the victory of Salamis. However, the shifting of perspective towards the sea is also a geopolitical move, essential for the affirmation of the hegemony of Athens from the time of the Persian wars up to the end of the fifth century. Indeed, Paralos is the ‘sacred ship’ but, as evident also from the texts of Aeschylus, it is also a figure of the democratic city: on board the Paralos, there is an ‘absolute Athens’, which, without territorial roots, sails freely on the sea, even when the city is occupied by tyrants. By cross-referencing literary, historical, archaeological, and iconographic sources, the essay reconstructs the conceptual value of the ‘ship’ and in particular of the ship par excellence, Paralos, in the Athenian imagination of the fifth century BCE.

keywords | Paralos; Athenian Democracy; Themistocles; Aeschylus; ship of Theseus.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo: Monica Centanni, Paralos. La città è una nave, la nave è la città, “La Rivista di Engramma” n. 174, luglio/agosto 2020, pp. 249-304. | PDF dell’articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2020.174.0006