"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Il melodramma della nazione

Marzia Gandolfi

English abstract

C’è un campo totale, magistrale, ne Il traditore, ‘lirica’ evocazione del destino di Tommaso Buscetta, che mette in scena l’Italia intera. La geometria del quadro espone letteralmente un teatro della follia mafiosa con le sue celle abitate da pazzi criminali, coi suoi magistrati interdetti e immobili nel golfo mistico, i suoi fotoreporter voraci nei loggioni e Tommaso Buscetta al centro, in piena trasparenza nella cornice di un bunker di vetro. Per il verdetto Marco Bellocchio convoca Verdi, compositore nazionale, e il suo Nabucco. Perché la Mafia è ‘cosa nostra’. Alla morte di Giovanni Falcone un altro campo totale, solenne, fa eco al Maxiprocesso di Palermo, i drappi bianchi alle finestre e le note del preludio di Macbeth salutano il giudice onesto. La teatralità occupa un posto importante nei sistemi di rappresentazione permanente di Buscetta, dongiovanni fuggitivo dedito alla chirurgia plastica e alla falsa identità, e della mafia, ossessionata dalla settima arte che si sogna ‘padrino’ al cinema e si risveglia ‘soprano’ in una serie televisiva, ma è altresì il partito preso estetico della carriera erratica e accidentale di un autore che sa come nessun altro gettarsi nell’ignoto. Non è mai dove ce lo aspettiamo, Marco Bellocchio, e ogni suo film tradisce quello precedente. Eppure c’è nel suo cinema la persistenza di un ‘motivo’, degli elementi distintivi suscettibili di isolare un modello, un paradigma di ‘melodramma’, a partire dal quale misurare il lavoro dell’autore emiliano. La sua filmografia non ha niente di naturalista né di realista. Fatto di lungimiranza, rigore e mistero sensuale, il cinema di Marco Bellocchio è teatrale. Bellocchio si dà sovente dei vincoli spaziali formali per meglio esercitare il suo talento di metteur en scène e internare psicologicamente e materialmente i soliloqui dei suoi personaggi. I suoi film si consumano come un rito, che monda e fugge il confinamento, la colpa, la frustrazione, il tradimento, il peso della religione. Al cuore della sua produzione cinematografica perdura un melodramma chimicamente puro (l’‘opera’) declinato in strutture, motivi o ricorso a personaggi caratteristici del genere. Un genere che come il suo cinema si guarda e si ascolta.

Gli occhi, la bocca, l’orecchio

Tra gli elementi che costituiscono lo stile di Bellocchio, il più marcante è senz’altro la ‘musica’ e, più precisamente, l’‘aria’. Guidati dalla musica, che diventa un autentico vettore di emozione collettiva, i film dell’autore intendono sempre il canto interiore dell’angoscia esistenziale che trascende il reale fino alla pura espressività emozionale. La ‘sua’ musica non si limita a sottolineare le peripezie dell’azione drammatica ma contribuisce in maniera determinante all’implicazione emotiva dello spettatore: è un’‘ouverture d’opera’ con i suoi valzer tradizionali ad aprire Il traditore trovando daccapo un’armonia tra immagini, parole e note. Note che compongono negli anni le ‘partiture’ di Carlo Crivelli (Diavolo in corpo, La visione del Sabba, La condanna, Vincere e altre ancora), Ennio Morricone (I pugni in tasca, La Cina è vicina), Nicola Piovani (Sbatti il mostro in prima pagina, Nel nome del padre, Marcia trionfale, Il traditore), Astor Piazzolla (Enrico IV), Raffaella Carrà (Fai bei sogni), Toto Cutugno (Il traditore), Pink Floyd (Buongiorno, notte) e naturalmente Giuseppe Verdi, a cui Bellocchio consacra un documentario nel 2002 (“...addio del passato...”), prima di dirigere in televisione e poi a teatro il suo Rigoletto. In “...addio del passato...”, viaggio nell’opera, in quella forse più rappresentativa e rappresentata (La Traviata), Bellocchio sembra cogliere spontaneamente l’attualità di ciò che nel melodramma lirico si suole liquidare come anacronismo. Giuseppe Verdi, piacentino come lui, è il ‘territorio’ che permette al regista di trovare affinità e punti di contatto scavando dentro una memoria personale e una collettiva. Verdi e la sua Violetta diventano il tempo e lo spazio dentro cui ricercare una radice comune, individuare un’identità nazionale e popolare. ‘Femmina’ come l’Italia, l’opera secondo Bellocchio è geneticamente predisposta a ospitare modi di sensualità, di sessualità, di identità alternative ed eccentriche, di aderire al suo cinema con quell’irrazionale abbandono emotivo che nel melodramma sembra essere esclusivo appannaggio delle donne. Di questo afflato lirico il regista piacentino non priva certo i suoi protagonisti, rivelandoci fin l’ultima piega della loro follia. La sua figura archetipale è senz’altro l’Ale de I pugni in tasca, col suo parlar da solo e il suo far gesti inconsulti senza che altro veda o sappia. I suoi impulsi e le deflagrazioni interiori resistono in Egidio Picciafuoco (L’ora di religione), bestemmiatore internato e aggiornamento di una furia personale a cui fa eco l’Oreste di Händel, scacciato dai fantasmi della madre assassinata e dunque condannato dal suo stesso atto di ribellione. Ma certamente lo scettro quantitativo delle rappresentazioni di follia appartiene nel suo cinema alle donne. La Maddalena de La visione del sabba coi suoi occhi ardenti, la voce sonante o dimessa, il vagare per fondi, il cadere negli abissi o fuggire davanti ai mostruosi fantocci dell’Inquisizione come della realtà, la ‘celeste, Ida’ (Dalser) di Vincere, col suo sentimento irriducibile per un uomo diventato inaccessibile, proiezione sullo schermo del suo fantasma passionale. Altra risorsa invariabile ed eterna del melodramma in musica è la malattia mortale. Se la tisi è uno dei segni tipici del ‘corpo’ lirico, ‘l’epilessia’ tormenta quello bellocchiano. ‘Riascoltando’ il suo debutto (I pugni in tasca), i cori infantili diretti da Morricone che ‘stonano’ i Dies Irae verdiani, la morte in controcanto di un antieroe epilettico sulla cabaletta “Sempre libera degg’io” e tutti quei corpi che cadono come semicrome sulla pagina musicale, ‘sentiamo’ già le sincopi e i ritmi irregolari delle future composizioni, il refrain che ricorre invariato, film dopo film, caduta dopo caduta, lasciando intendere il canto che risiede in ogni grido, e il grido che risiede in ogni canto. Perché si grida molto nei film di Bellocchio, di rabbia, d’amore, di follia. Ma quegli urli volgono presto in versi, concretizzando un ‘luogo’ di incontro tra il film e lo spettatore. Grazia e gravità, mirabilmente accordati nel ‘grande teatro’ di un manicomio o di un tribunale. Forma artistica che ha segnato più profondamente la cultura italiana moderna, il melodramma lirico è la sorgente a cui attinge, per rigettarla (La Cina è vicina, Nel nome del padre) o integrarla (Vincere, Il traditore), l’opera di Marco Bellocchio. Nel primo caso e nel primo Bellocchio, quello dell’alienazione familiare, sociale e istituzionale, l’autore pesca il repertorio melodrammatico ottocentesco per denigrarlo. Il materiale operistico, fortezza borghese da abbattere con implacabile furore, viene ‘frainteso’ e berciato dentro una vasca da bagno (Don Carlos in La Cina è vicina) o esacerbato fino al grottesco in un collegio cattolico (Otello in Nel nome del padre). Al debutto di carriera la intendiamo ‘in fanfara’, banalizzata, meccanizzata, svuotata del suo senso e dei suoi effetti. Immagine del Risorgimento, di cui è segno e richiamo, la ‘nota’ verdiana non è più buona per l’autore che a orchestrare la decadenza borghese e le utopie lontane. Nel secondo e più recente Bellocchio, contribuisce diversamente alla grande narrazione dell’Italia e della sua storia, della sua identità politica e psicologica, delle sue virtù e delle sue contraddizioni. È a Verdi (Aida e Rigoletto in Vincere; Nabucco e Macbeth in Il traditore), che due dei recenti capolavori del melodramma cinematografico italiano devono il loro ritmo. Regista per vocazione, melomane per istruzione (familiare), Marco Bellocchio interroga con Verdi la nazione e la condivisa piacentinità. Ma questa dimensione di interrogazione identitaria produce un’immagine meno direttamente patriottica della musica di Verdi.

Celeste (A)Ida

Punta d’orgoglio del periodo fascista e referenza musicale principale degli italiani ai tempi di Mussolini, l’opera disegna tre momenti di Vincere, melodramma di denuncia che ripercorre il destino di Ida Dalser e del suo tormentato rapporto con Mussolini. Alternata ad altri riferimenti culturali e politici, la pittura e il Manifesto futurista, l’opera accompagna nel film l’ingresso in guerra dell’Italia (Aida), la firma dei patti lateranensi (Tosca) e l’internato di Ida Dalser (Rigoletto). Nel primo ‘movimento’, Bellocchio cortocircuita il plot dell’opera verdiana (Aida è la figlia del re di Etiopia catturata dagli egiziani durante una spedizione militare contro l’Etiopia) con l’immaginario culturale fascista (occupazione dell’Etiopia e sua annessione al Regno d’Italia), producendo una combinazione di prospettive temporali e dimostrando l’inesauribile potenziale narrativo dell’opera italiana. Nel secondo è la Tosca pucciniana a ‘siglare’ gli accordi stipulati nel 1929 tra Stato italiano e Chiesa cattolica e a sacrificare nella stessa ‘intesa’ i diritti e la libertà di Ida Dalser, internata in un ospedale psichiatrico sotto la supervisione di suore. Lo storico trattato, ci dice Bellocchio, risolve in un baleno la ‘questione romana’ e il problema domestico maggiore del Duce. Se nella Tosca è il barone Scarpia a rappresentare l’unione tra Stato e Chiesa, in Vincere è Mussolini a incarnare l’arci-cattivo dell’opera per eccellenza, fugando ogni ambiguità e dichiarando la distanza del regista dal suo ‘eroe’. In quella ‘distanza’ si iscrive la lezione di Vincere, che fa il paio con quella de Il traditore, ricordare a chi racconta (l’Italia) che ricostruire una vita reale non esclude apportare un punto di vista, mettendo mano agli archivi, (rac)cogliendo la pertinenza delle rivelazioni, evocando le ore oscure della storia italiana imbrigliate negli spartiti verdiani. Terzo momento operistico è l’aria “Zitti, zitti, moviamo a vendetta” intonata dal medico di Ida e i suoi pazienti di ritorno dalla Fenice. L’aria che ‘rapisce’ Gilda, figlia di Rigoletto, da una parte dice la partecipazione del medico alla malattia dei suoi pazienti, dall’altra traduce il raggiro dei ‘cortigiani’ del diverso, a cui viene chiesto di ‘recitare’ per sopravvivere. Niente come il melodramma serve la visione poetica di Bellocchio, la causa di Ida Dalser e la visione del fascismo non tanto come apparato di dominazione ma come passione fusionale, conquista dell’anima, devozione di cuori, trasporto amoroso, orgasmo erotico. Nel suo costante andare e venire tra effusione carnale e adesione politica, lirismo furioso e trance collettiva, Vincere partecipa alla ‘nascita di una nazione’ che ha trovato nella forma melodrammatica la sua espressione più compiuta.

1 | Vincere, regia di Marco Bellocchio, 2009.

Vespri siciliani

Il traditore, dieci anni dopo, partecipa dello stesso movimento di riappropriazione artistica e critica di una forma di racconto teatrale e musicale, capace di far dialogare l’intimo col pubblico e di avere il ‘popolo’ come punto di origine, oggetto e destinatario della fiction. La dimensione operistica non cessa di ossessionare il melodramma come il cinema di Marco Bellocchio, di rilanciare il suo stile rivisitando le pagine buie della nostra storia, offrendogli una profondità estetica e morale. Perché il melodramma crede malgrado tutto all’esistenza di valori morali, o almeno prova a rianimarli. Più indisciplinato e ‘infantile’ della tragedia, insorge davanti a ogni forma di ingiustizia, tenendo in conto l’ideologia, la meccanica sociale, la politica. Il peccato capitale contro i codici di Cosa Nostra, che ha permesso la condanna di centinaia di padrini e soldati della Mafia siciliana, è sufficiente a fare di Tommaso Buscetta un personaggio dal carattere eccezionale e il destino fuori dal comune, a farne un ‘titolo verdiano’ (Il traditore) che stabilisce un orizzonte di attesa e l’iscrizione del film in un genere che non solo invita lo spettatore a scoprire il film ma a riconoscerlo, a identificarlo come un melodramma e a condurlo al di là del realismo della situazione, verso un senso che trascende l’aneddoto. Il ‘coro degli schiavi’ (“Va pensiero”), che intona la ‘patria perduta’ e il risorgimento culturale di un popolo schiavo, anticipando la caduta prossima di Babilonia e del tiranno Nabucco-Riina, è applicato da Bellocchio al Maxiprocesso, a cui apporta col prestigio di una filiazione culturale una dimensione surreale e il dispiegamento vertiginoso di un momento storico. Con la musica di Verdi e un teatro-tribunale a disposizione, Il traditore guadagna in intensità e rivitalizza la messa in scena. L’immaginario di Bellocchio investe sugli spazi e sul volto dell’eroe, la follia di un altro eroe che come il ‘principe’ di von Kleist sfida la gerarchia ‘militare’ di Cosa Nostra e infila la dismisura del melodramma allucinato di Vincere. La grandezza di Bellocchio sta ancora una volta nella maniera di trovare delle soluzioni plastiche a questo gioco sulla frontiera tra reale e onirico. La sala del tribunale di Palermo è quindi l’arena dove giocare la grande lotta della giustizia raccordata a un tema caro all’autore: l’isteria collettiva. Nell’ora più buia della patria, la scelta musicale di Bellocchio (“Va pensiero”) trascende la fugacità del momento con l’esacerbazione dei sentimenti, supera la frattura e apre la via di una possibile emancipazione, perché la musica e il canto avvicinano il mistero della vita (e della morte) con un’intuizione maggiore di qualsiasi altro mezzo espressivo. Un’aria come una canzone (L’italiano di Toto Cutugno) ha la capacità singolare di unire particolare e universale. A differenza di altre forme di racconto speculari, costituisce il mezzo privilegiato per costruire una ‘comunità’. E in fondo Vincere e Il traditore raccontano la storia di una ‘canzone’, una melodia che accorda insieme le azioni, le temporalità e gli spazi, sottolineando quello che condividono. Attraverso quella canzone gli spettatori, riuniti attorno a un coro antico, ascoltano un’epopea che si rinnova. Siamo insieme perché siamo già stati insieme. Riuniti tutti gli ingredienti del melodramma, compreso il senso primo e italiano del termine, Bellocchio fa quello che sa fare meglio: regolare i conti con una famiglia mostruosa. Una ‘famiglia’ a cui non accorda nessun potere di fascinazione, che tratta come una struttura alienante e distruttrice, che considera da sempre il suo nemico intimo.

2 | Il traditore, regia di Marco Bellocchio, 2019.

La (ri)prova è tutta nella sequenza di apertura che celebra un accordo di pace tra generazioni (di clan palermitani). Bellocchio scorre sulle note popolari dei suoi ‘vespri siciliani’ tutti i simulacri della mitologia mafiosa: la pietà ostentatoria (si celebra Santa Rosalia) e il machismo, la matrice familiare e il dispiegamento di un arsenale impressionante dietro il risvolto di una giacca. Tutto è lì, in quel ritratto di famiglia in un interno.

Ma Tommaso Buscetta non è più lì. Sulle “ali dorate” di Verdi, riflette sul cambiamento e sul posto del ‘pentimento’ nella coscienza umana. Sull’affermazione della vita malgrado la presenza ineluttabile del nulla. Proprio come il Melodramma.

3 | Il traditore, regia di Marco Bellocchio, 2019.

English abstract

The ouverture of The traitor, a film about Italian history pierced by dreamlike visions and imbued with an operatic spirit, evokes something specific. A motif that endures at the heart of Marco Bellocchio’s cinema: distinctive elements coalescing into a paradigm of melodrama. Central to Bellocchio’s style is music, and more precisely the aria. As music becomes a vector of collective emotion, his films grow particularly receptive to an inner tune of existential dread, which transcends the real and reaches the level of pure sentimental expression. No art form has more deeply shaped Italian modern culture than opera and melodrama, and Bellocchio often engages with them, at times in rejection (La Cina è vicina, Nel nome del padre), at other times in acceptance (Vincere, Il traditore). Director by vocation, melomaniac by (family) education, Marco Bellocchio interrogates the nation with Verdi and locates a national identity through his arias. Giuseppe Verdi, hailing from Piacenza like the director, constitutes the territory in which he finds affinity and commonality, digging through personal and collective memory. With The traitor, Bellocchio succeeds in directing his own version of the ‘vespri siciliani’, delivering a masterpiece in the canon of Italian melodrama.

keywords | body; lyric; Giuseppe Verdi; Melodrama; nation; madness.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio
(v. Albo dei referee di Engramma).

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Gandolfi, Il melodramma della nazione, “La Rivista di Engramma” n. 172, marzo/aprile 2020, pp. 97-104 | PDF di questo articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/.172.0007