"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

Sei domande a Marco Bellocchio

a cura di Marina Pellanda

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Marina Pellanda | Čechov torna spesso nel suo lavoro. Dopo Il gabbiano, in cui sembra abbia cercato tutto ciò che era affine al suo mondo traducendolo nel suo latino, così dice Natalia Ginzburg, lo scrittore torna in Sorelle, Sorelle Mai, Nina, Appunti per un film su Zio Vanja, e nel 2013 al Teatro Quirino di Roma ancora con Zio Vanja. Come mai Čechov ricorre così spesso nel suo cinema? E nel 2013, passando dallo schermo alla scena, poiché si ha l’impressione che sia avvenuto quasi un cambio di focale, in realtà cosa cambia?

Marco Bellocchio | Quando nel 2013 ho portato Zio Vanja in teatro, pur restando molto fedele al testo, mi sono trovato a lavorare, quasi a combattere, sul palcoscenico, con una forma che ha le sue leggi. Sono le leggi della parola, le leggi della distanza, le leggi del piano fisso. In teatro, infatti, si lavora su una specie di totale fisso che mi è abbastanza innaturale perché io sono abituato ad avvicinarmi con lo sguardo ai personaggi, a stare loro vicino. Esempio di ciò è Il gabbiano che, pur forse con qualche piccolo taglio, rispetta il testo originale ma è un vero e proprio film: la macchina da presa mi ha permesso di avvicinarmi ai personaggi e l’avvicinarmi ai personaggi con il primo piano mi permette di suggerire agli attori una interpretazione sussurrata, costruita su tutta una serie di toni, di mezzi toni, sul parlar piano ma anche sull’urlare. E tutto ciò me lo consente proprio l’uso del primo piano mentre, invece, sul palcoscenico, il centro è l’attore, il gioco degli attori che va reso sempre mantenendo una distanza fissa perché, se è pur vero che adesso in teatro gli attori spesso recitano con il microfono, la distanza resta una costante. E, quindi, ogni volta che ho lavorato a teatro, ho dovuto adattare il mio sguardo naturale alle regole fisse, al piano fisso, alla distanza fissa del palcoscenico.

In Čechov tutto un mormorato interiore mi rimanda proprio alla mia vita, alla mia esperienza, alla mia famiglia, ai miei paesi: Il gabbiano, Zio Vanja non possono non ricordarmi Bobbio, non possono non ricordarmi l’esperienza di Sorelle, delle mie sorelle, dei corti girati con Fare Cinema. E Čechov mi ricorda Bobbio più de I pugni in tasca perché, pur essendo stato girato a Bobbio, I pugni in tasca aveva un furore che utilizza Bobbio strumentalmente nel senso che noi abbiamo girato lì utilizzando le case della mia famiglia, però là c’era una ispirazione più brutale e legata a una mia formazione letteraria in fondo diversa da Čechov. Čechov è come qualcosa che io ho recuperato progressivamente: è la disperazione sussurrata, che per esempio c’è anche in Salto nel vuoto, di chi, per usare una espressione di Pirandello, “ha la morte addosso” – non dimentichiamo che quest’uomo muore a quarantatre-quarantaquattro anni di tisi. È una disperazione che poi si rappresenta anche negli amori impossibili, nel fallimento, basti pensare ad Andrej nelle Tre sorelle ma anche a Vanja o a personaggi de Il gabbiano come il vecchio giudice e anche lo stesso Trigorin che vive portando in sé il sentimento di non essere quello che avrebbe voluto essere. È come se, per un periodo, a partire apparentemente ma non casualmente da Il gabbiano, il mondo cechoviano rifluisse nel mio lavoro e ne fosse un motore importante.

[MP] | Nel suo cinema il Melodramma è ‘motivo’ persistente, un modello, un paradigma a partire dal quale si può misurare o meglio, forse, raccontare il suo lavoro. Il Melodramma è refrain che, pur cambiando di segno, ricorre film dopo film da I pugni in tasca a Il traditore e lascia sempre intendere il canto che risiede in ogni grido – si grida molto nei suoi film, di rabbia, d’amore, di follia – e il grido che risiede in ogni canto. Che chiave le offre il Melodramma rispetto alla dimensione di interrogazione identitaria che si evince dai suoi film?

Marco Bellocchio | La mia cultura del Melodramma è legata a qualche decina di opere, le più famose, e anche a frammenti di opere perché magari di un’opera uno ne conosce un paio di romanze ma non la conosce per intero. Il Melodramma era qualcosa che mi piaceva cantare e ascoltare perché, appunto, quando ero ragazzo, avevo una voce tenorile che poi se ne è andata e quindi mi piaceva cantare da solo, in disparte o per gli amici. Poi, dopo, c’è stata come una sparizione, un oblio del Melodramma, che però si è come reimpostato in una forma o grottesca o tragica: in I pugni in tasca Lou Castel, imitando o meglio doppiando la voce di Violetta, muore in questo delirio; in La Cina è vicina c’è Vittorio, Glauco Mauri, che canta “Dormirò sol” del Don Carlos, dopo che è stato respinto dalla ragazza di cui è innamorato. In Nel nome del padre il Melodramma è utilizzato in una forma quasi grottesca, parodistica, nel senso che c’è il bambino che canta il credo di Jago nella recita. Con il passare del tempo, però, il Melodramma e le sue profonde radici sono riemerse in modo diverso, come se, da un certo momento in poi, lo prendessi più sul serio anche con i tentativi di regia – e la regia che mi ha più soddisfatto è quella dei Pagliacci al Petruzzelli. È come se, da un certo momento in poi, riscoprissi il Melodramma non in forma parodistica, non nella forma dell’irrisione grottesca ma prendendolo sul serio, come se nel Melodramma riconoscessi delle partenze molto originarie della mia vita e del mio lavoro come scrittore di cinema, come regista. Tanto è vero che “...addio del passato...” mi corrisponde sia in senso checoviano che in senso melodrammatico: La traviata è raccontata attraverso la generosità di interpreti in parte bravi, in parte dilettanteschi, ma rivissuta con molto sentimento e inserita anche in un contesto piacentino che rimanda alle mie origini; e quindi il Melodramma, in questo caso, è una forma in cui la grande musica, il grande canto è secondario però c’è un sentimento privato, personale, molto profondo.

[MP] | In “...addio del passato...” torna il Melodramma con le cattive esecuzioni tanto amate da Montale, come il coro del brindisi de La traviata intonato da cooperative locali e anche, nel titolo, come un monito non più e non solo per la Violetta di Verdi ma per tutti noi che guardiamo. Pensa si possa dire che in questo film le immagini di repertorio – un carnevale di molti anni fa in Lambretta, Piazza Cavalli a Piacenza, e persino la giostra di un luna park – lasciando spazio per un attimo ai pensieri del pubblico e del regista, funzionano come nell’Opera Lirica gli ‘a parte’ come voce della coscienza dei personaggi?

Marco Bellocchio | In questo piccolo film mi separo da un passato che ha rigenerato un sentimento e, quindi, in qualche modo, nel separarmi da quel passato, lo rivivo con molta emozione. Infatti, al di là di quello che pensa la gente, di quello che ha visto, dei successi, degli insuccessi, ci sono magari alcuni film che possiamo chiamare piccoli film perché sono fatti con un piccolissimo budget ma che, come in questo caso, mi rappresentano molto. Un po’ tutto quello che ho fatto mi rappresenta, ma ci sono delle cose, come questo film [“...addio del passato...”], che mi rimandano all’origine della mia vita, della mia infanzia, della mia vita in famiglia e, anche, alla campagna che è elemento di nuovo checoviano; basti pensare, ancora una volta, dove si svolgono Il gabbiano, Tre sorelle e anche a Zio Vanja. È quella la misura che evidentemente mi ha toccato profondissimamente.

[MP] | Nelle sue regie d’opera – il Rigoletto piacentino del 2004; Rigoletto a Mantova nel 2010; Pagliacci a Bari nel 2014; Andrea Chénier a Roma nel 2017 – il cinema è molto presente. La luce usata per ottenere profondità di campo, le telecamere a circuito chiuso in Pagliacci e citazioni d’autore, per esempio quando nel secondo quadro Andrea Chénier interseca persino Psycho di Hitchcock – come fossimo Norman Bates, guardiamo dalle finestre al Terrore e a Roberspierre – o quando nel duetto finale di Andrea Chénier e Maddalena, par di essere per un momento – guardando ai balconi che si affacciano sul palcoscenico – in Una giornata particolare di Scola. In questi suoi lavori, cinema e teatro convivono come se si fosse in presenza di una dissolvenza incrociata?

Marco Bellocchio | Come sempre, nel fare regia, ci si relaziona con quello che si fa e quello che si è. E dunque, in teatro, sul palcoscenico, porto tutto il patrimonio del mio lavoro cinematografico nell’intento di personalizzare il mio approccio all’Opera mirando, con i miei mezzi e con le mie idee, a coinvolgere il pubblico in un rapporto più ravvicinato. È chiaro che poi, nell’Opera, contano i tenori, i soprano, il bel canto e però, in una necessaria elaborazione, devo sempre trovare il punto di contatto: nel caso per esempio dei Pagliacci l’idea di partenza nasce dal fatto che, all’interno del mio laboratorio Fare Cinema, a Bobbio, avrei voluto fare un film sui Pagliacci ambientandolo nel vecchio carcere di Bobbio creando dei cortocircuiti visivi usando delle tecnologie moderne. È una cosa che in parte sono riuscito a fare proprio nella messa in scena al Petruzzelli. Naturalmente non ho utilizzato una tecnica nuova – anzi, questa tecnica certamente era già stata utilizzata – però, per me, mostrare al pubblico, sul fondale della scena, le immagini delle videocamere posizionate nelle celle e nel cortile del carcere, era il modo per frammentare, avvicinare, sorprendere e rompere quella distanza che di solito c’è tra il teatro e il palcoscenico.

[MP] | Nel suo cinema i ‘traditori’ sono da sempre personaggi preziosi, sono tutti uomini in rivolta: sembra che dicano il loro ‘no’ mentre invece, in realtà, fin dal loro primo muoversi dicono ‘sì’ affermando il primato della coerenza. Ernesto Picciafuoco, Ida Dalser, Giulia e Andrea in Diavolo in corpo, Chiara in Buongiorno, notte, ben prima del Buscetta di Il traditore affermano il valore del proprio sentire. Lei stesso nel suo fare cinema è un ‘traditore’ di questo tipo e penso, solo per citare qualche esempio, a La balia, a Buongiorno, notte, a Bella addormentata, a Fai bei sogni – tutti film che prendono le distanze dalla fonte letteraria o di cronaca che pure è il loro punto di partenza. Che chiave le offre la figura del ‘traditore’ e come funziona il meccanismo del tradire rispetto alla tensione e alla ricerca che connota il suo lavoro e la sua poetica?

Marco Bellocchio | Senza entrare in un ambito morale e filosofico su chi sia il traditore e sulla necessità di tradire, ho capito che alcuni tradimenti sono giusti. Il tradimento è una affermazione identitaria: tutto ciò che faccio lo faccio solo perché ci credo, anche con la consapevolezza di poter sbagliare. Per esempio ho tradito tante cose che una certa educazione ha cercato di impormi. Nel cinema, invece, cerco di tradire il testo per appropriarmene quando il testo non è mio, ed è accaduto anche in Il traditore in cui tutte le scene di processo mi hanno attratto proprio per la loro teatralità. Queste scene mi hanno consentito di seguire la mia passione per la teatralità, una passione che ho profusa in queste sequenze. Il tema del tradire e la figura del traditore mette in luce una indubbia ambiguità che riguarda, direi, un po’ tutta la mia vita nel senso che mi sono esposto in varie situazioni che potremmo dire estreme anche se non totalmente distruttive. Se penso, per esempio, a quando mi sono coinvolto brevemente nella politica e nel rapporto tra marxisti-leninisiti e la rivoluzione, anche in questo caso ho tradito nel senso che mi sono esposto ma fino a un certo punto: mai in modo tale da autodistruggermi o da dover scegliere le soluzioni estreme che sono accadute in quegli anni assai spesso. E anche, nel mio grande coinvolgimento con l’analisi collettiva di Massimo Fagioli, pur essendomi molto esposto, è come se avessi tradito un certo tipo di estremismo. E, di nuovo, il mio tirarmi indietro può essere sembrato come un tradimento. La collaborazione per Diavolo in corpo è stata il momento di maggiore esposizione, sconvolgente ma anche vitalmente enorme, per tutte le problematiche che ha poi suscitato in me. In Il sogno della farfalla c’è stata da parte mia una esposizione addirittura maggiore ma, in questo caso, era un congedo, quasi dovessi fare questo per restituire qualcosa che avevo ricevuto. Tanto è vero che, dopo Il sogno della farfalla, poco alla volta, non rendendomi disponibile totalmente all’impresa fagioliana, mi sono fermato. Mi sono ripreso le mie immagini, i miei progetti e, in parte tradendo l’analisi collettiva che sentivo come una storia che pur gradualmente era finita, ho fatto il primo passo della separazione con Il principe di Homburg e poi La balia. Mi sono fermato prima che le mie immagini e i miei progetti entrassero troppo nell’analisi collettiva. E il fermarmi prima, forse in parte tradendo, ha caratterizzato molti passaggi della mia vita.

[MP] | Le vere protagoniste del suo cinema e del suo teatro sono sempre le immagini. E, se è vero ciò che dice José Saramago quando in Cecità scrive “Le immagini vedono con gli occhi che le vedono”, possiamo affermare che nel suo cinema assumersi la responsabilità di un punto di vista significa costruirlo intersecando ‘scene sorelle’ piuttosto che ‘scene madri’? Queste scene, che pure ci ri/guardano secondo il principio barthesiano della ‘distanza amorosa’, sono anche atto d’accusa che ci interpella come una chiamata di correo rispetto al nostro continuare a essere complici facendo finta di niente, facendo finta di non vedere di fronte all’orrore del potere, alla sua tracotanza, alla sua annichilente prepotenza?

Marco Bellocchio | Il potere dei padri è sempre stato qualcosa che mi ha irritato, che mi rende estremamente reattivo. Coloro che si impongono come padri, spesso non avendone l’autorità, ricorrono come una costante di ribellione che si può riconoscere nel mio lavoro. Per quel che invece riguarda il rapporto che c’è tra ‘scene sorelle’ e ‘scene madri’, ognuno di noi in qualche modo è attratto dalla ‘scena madre’ pur sapendo, però, che una ‘scena madre’ non risolve mai una situazione e può, semmai, essere una conclusione. Per esempio, si può dire che il finale de I pugni in tasca è una ‘scena madre’, una scena che sintetizza e conclude la tragedia di Alessandro. Le ‘scene sorelle’, invece, le associo alle mie due sorelle: se potessimo fare, diciamo così, un ‘tribunale del popolo’, essendo nato dopo, non ho alcuna responsabilità sul loro destino però, sicuramente, io come altri miei fratelli sento di non aver fatto molto per evitare il loro sacrificio, la loro rinuncia. Mi sono appassionato a loro quando non erano più giovani, un affetto tardivo, e ho cercato di coinvolgerle, proprio per recuperare qualcosa di loro nel mio lavoro. È un po’ lo stesso discorso della tragedia di mio fratello suicida. Che colpa ne ho io? Era il mio gemello e non ho capito, non ho sentito, non sono intervenuto quando si poteva fare. In questo senso, pensando alle ‘scene sorelle’, le immagini delle mie sorelle, che pure forse non c’entrano con le ‘scene sorelle’ come le intendi tu, in qualche modo è come se rendessero incancellabili, nei limiti di quello che possiamo ancora fare, questi affetti. E in questo senso è stata molto importante l’esperienza di Fare Cinema a Bobbio: sia pur in piccolo, è stato un mettere in pubblico due immagini, le mie sorelle, che erano rimaste totalmente nell’ombra. Questo non ha riscattato la loro vita però, sicuramente, è stata una scelta preziosa, un rimedio parziale, ma utile, proprio perché a muoverlo è stato l’affetto.

English abstract

Six questions to the awarded director Marco Bellocchio. Bellocchio speaks of the close bond between his life and his art.

keywords | Marco Bellocchio; Čechov; Melodramma; direction; stage.

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Pellanda, Sei domande a Marco Bellocchio, “La Rivista di Engramma” n. 172, marzo/aprile 2020, pp. 171-177 | PDF di questo articolo

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2020.172.0008