Dal mito tragico all’immagine su vaso
Nuclei d’azione e dinamiche transmediali
Alessandro Grilli
English abstract
1. Che cosa passa dalla tragedia messa in scena all’immagine su vaso
Cercare di definire in modo più preciso l’oggetto del passaggio dal teatro alla pittura vascolare significa riflettere in primo luogo sulle differenze tra l’esperienza teatrale e artistica a cui siamo abituati e quella specifica dei Greci dal V al IV secolo a.C. In primo luogo, noi siamo abituati a precise situazioni transmediali (ad esempio l’illustrazione dei testi nei libri) che sono prive di evidenza documentaria (per non dire impensabili) nella Grecia classica. Curiosamente, la prospettiva dei primi studiosi delle raffigurazioni vascolari a soggetto mitologico dava per scontata la trasmissione diretta (Rebaudo 2015), immaginando un rapporto di testo/illustrazione tra la messa in scena drammatica e la pittura vascolare. Ancora in studi come quelli di Séchan o Webster sull’Euripide perduto (Séchan 1926; Webster 1948; 1967), è considerato normale formulare ipotesi sullo svolgimento della tragedia a partire dagli indizi offerti dalla raffigurazione iconografica di un particolare del mito tragico.
Il fatto è che noi siamo abituati a una circolazione delle informazioni in cui è normale che un’esperienza in primo luogo visuale venga diffusa tramite altre immagini: l’evento visuale effimero viene oggi normalmente tradotto in immagini fotografiche o video, che ne assicurano la fruizione anche a distanza, al prezzo di un aggiustamento contenuto dell’esperienza originaria. Non possiamo visitare un luogo remoto? Possiamo guardare delle foto o vedere un documentario. Anche prima della fotografia, peraltro, chi non poteva affrontare il Grand Tour in prima persona aveva a disposizione riproduzioni a stampa, con varie tecniche, delle immagini (paesaggi, monumenti, opere d’arte) non esperibili in prima persona. I mezzi tecnici dell’età moderna erano già in grado di assicurare una circolazione di immagini relativamente ricca per sostituire l’esperienza visiva originale.
Già nell’epoca delle grandi monarchie ellenistiche e ancor più nei primi secoli dell’impero a Roma, la circolazione delle immagini poteva avvenire attraverso copie, contribuendo alla diffusione di modelli, anche in assenza di una penetrazione capillare. Permettersi una copia di un originale illustre era comunque un lusso per le élites, mentre la riproduzione di immagini attraverso immagini doveva aspettare i progressi delle tecniche di moltiplicazione meccanica del segno per diffondersi in modo considerevole.
Nella cultura greca dei secoli V e IV a.C., quando questa circolazione era ulteriormente limitata, la diffusione delle immagini avveniva di necessità – e in grandissima parte – attraverso processi di adattamento transmediale: l’immagine prestigiosa e inamovibile dal luogo monumentale poteva essere descritta, raccontata e dunque fatta oggetto di fantasticherie, che la trasformavano in un oggetto fatto di parole, e poi in una nuova immagine mentale. Per il nostro punto di vista aprioristicamente e forse inconsapevolmente iconocentrico, è difficile anche solo concepire che ci siano state civiltà capaci di raggiungere le vette più alte dell’arte figurativa (la scultura di Fidia, per dire), pur continuando ad attribuire un ruolo centrale alla parola come strumento e supporto del godimento artistico. Ma pochi accenni bastano a capire la differenza tra una cultura dell’immagine come la nostra e le culture della parola che l’hanno preceduta: le letture pubbliche di Erodoto, nell’Atene al culmine della sua civiltà teatrale, sono solo una prova tra tante di come la parola narrativa e descrittiva potesse avere in quell’orizzonte una capacità di attrazione per noi del tutto perduta. Si pensi solo al ruolo culturale che hanno avuto per secoli le declamazioni (Russell 1983), che sia in Grecia che a Roma sono riuscite ad attirare in luoghi pubblici folle desiderose solo di lasciarsi ammaliare dalle capacità suggestive e fantastiche della parola (sulla relazione tra oratoria e teatro in epoca classica vd. Hall 1995; su teatro e movimento sofistico in relazione all’identità democratica ateniese un orientamento in Rosenbloom 2009). A fronte del rilievo che l’oratoria giudiziaria o politica avevano nelle sedi deputate dell’Atene classica, in epoche successive persino semplici declamatori, cioè relatori di conferenze pubbliche, erano in grado di riempire i teatri. Nella civiltà cristiana il fascino del discorso laico è stato assorbito dalla predica religiosa, che si è configurata come un evento spettacolare fino a tempi recenti, quando l’affermarsi della civiltà dell’immagine ha ridimensionato drasticamente lo spazio della parola come spettacolo.
Queste apparenti divagazioni puntano a mettere in prospettiva la posizione che vorrei qui argomentare a proposito del ‘cosa passa’ nella trasmissione dal teatro all’immagine su vaso: la trasmissione non procede da immagine a immagine, come nella logica a noi fin troppo familiare dell’illustrazione, ma procede da un’eventuale esperienza (visuale o letteraria) a un racconto (inteso soprattutto come discorso informale non fissato testualmente), e dal racconto a un’immagine (la pittura mitologica su vaso).
Le ragioni sono presto dette: in primo luogo, anche supponendo che i vasai operassero sulla base dello stimolo di un’esperienza visuale, è facile intuire la distanza incommensurabile tra lo spettacolo teatrale e l’immagine mitologica che in teoria dovrebbe rappresentarne la traduzione. Proviamo a immaginare più concretamente il tipo di esperienza di uno spettatore di teatro: un vasaio seduto sulle gradinate del teatro di Dioniso ad Atene, tra migliaia di spettatori, avrebbe una visione di uno spazio distante, separato dalle teste e dai corpi degli innumerevoli altri spettatori; in quello spazio vedrebbe in primo luogo un certo numero di persone con costumi tutti uguali (il Coro), rispetto ai quali spiccano (è incerto quando e come sono stati articolati gli spazi e le diverse altezze di pertinenza: vd. Di Benedetto, Medda 1997, 13-18), ma sempre a grande distanza, due o tre personaggi, la cui interazione consiste sostanzialmente in un dialogo che si colloca in rapporto prolettico o analettico rispetto agli eventi salienti dell’azione. Supponendo che il vasaio volesse riprodurre realisticamente la sua esperienza (istanza che, a quanto sappiamo, è del tutto aliena dai vasi tragici a soggetto mitologico: Green 1991; Taplin 2007, 26-27) avrebbe dovuto inserire in un contesto spaziale molto ampio una serie di figure umane molto piccole impegnate in una conversazione dai contenuti non immediatamente desumibili dai gesti. Avrebbe dovuto, insomma, disegnare alcune piccole figure giustapposte con costume e maschera teatrali. Senza il supporto del testo, che per definizione è assente o trascurabile nel codice dell’immagine, anche un’ipotetica istantanea di una scena antica risulterebbe del tutto indecifrabile, e non solo per i clienti del vasaio, ma anche per i moderni studiosi di teatro antico (una prova: nel cosiddetto ‘Edipo di Capodarso’, un cratere a calice attribuito al gruppo Gibil Gabib, forse del Pittore di Capodarso, oggi a Siracusa, Museo Archeologico Regionale “Paolo Orsi”, 66557, su cui vd. Taplin 2007, 90-92, l’identificazione della vicenda mitica non è stata fondata tanto sull’azione, quanto sull’identità dei personaggi: un re, due figlie – che potrebbero però essere anche figli, vd. Hall 2016 – una donna che si copre il capo. Il fatto che il vaso contenga anche un’altra figura femminile di pari rilievo, per la quale l’Edipo Re di Sofocle non offre alcuna possibile identificazione è stato semplicemente scotomizzato, facendo leva sul fatto che per fortuna la figura di troppo è sulla faccia del vaso opposta a quella dove si trova il Re con figlie/figli. Per una riconsiderazione complessiva di quest’ultimo problema vd. Taplin 2017).
Un’altra ragione, parzialmente implicita nella precedente, è stata già argomentata altrove (Grilli 2015, in particolare 117 ss.; vd. anche Cerri 2015), e consiste nello specifico semiotico del mito messo in scena e del mito raffigurato: di solito i dialoghi che hanno luogo sulla scena tragica non corrispondono direttamente a eventi salienti, ma ne rappresentano una sorta di preparazione o di elaborazione a posteriori. Al contrario, le scene selezionate per la raffigurazione vascolare sono sempre scene salienti, e in esse si rappresenta il culmine di un’azione specifica e ben riconoscibile.
Un terzo motivo per cui si può ridimensionare, fin quasi a escludere completamente, la rilevanza della diretta esperienza teatrale per la genesi della cosiddetta ‘iconografia tragica’ deriva invece da considerazioni quantitative di storia sociale: pensare a una transmedializzazione nata direttamente dall’esperienza del dramma messo in scena non tiene conto del fatto che l’esperienza diretta della singola tragedia non può essere considerata un’acquisizione comune condivisa. Vero è che in una grande città come la polis ateniese il teatro conteneva una parte significativa della popolazione, ma la Medea di Euripide, per fare solo un esempio dai casi analizzati sopra, è stata messa in scena nel 431 e poi, a quanto sappiamo, mai più rappresentata per molti decenni. Supponendo che altre messe in scena di quel dramma avessero avuto luogo alle Dionisie rurali, o in teatri di altre città (e fossero dunque per definizione esperienze condivise da collettività più piccole o più isolate), è improbabile che l’esperienza diretta della Medea messa in scena costituisse un bagaglio effettivamente condiviso da tutta la popolazione (sappiamo comunque quanto sia difficile documentare messe in scena specifiche nelle zone di produzione dei vasi con iconografia a soggetto mitologico: vd. Giuliani 1995 e 1996). Non dimentichiamo che il repertorio tragico per molti secoli si è sostanziato di nuove produzioni: anche se nel II sec. d.C. Luciano (Demosth. encom. 27) afferma che tutte le rappresentazioni tragiche erano ormai del repertorio antico, le nuove produzioni sono documentate fino al I sec. a.C. (Pickard Cambridge [1967] 1996, 113-4 e n. 150). Dopo la sua introduzione come categoria a parte negli agoni teatrali ateniesi, nel IV sec. a.C., nel I sec. d.C. la παλαιά aveva finito per rappresentare la maggioranza delle messe in scena (vd. Dio Chr., Or. 19, 4), il che certifica l’incidenza crescente del repertorio canonizzato dall’età classica all’età antonina.
La circolazione della versione del mito che produce l’immagine poteva forse anche dipendere da una fruizione del testo in forma scritta, che sarà stata sicuramente un fenomeno minoritario, ma che è impossibile negare anche per la fase più antica della storia tragica ateniese (ne abbiamo numerosi indizi e prove dirette e indirette: vd. Thomas 1989). Tuttavia quel che conta, e che decide davvero della fortuna di un mito tragico, almeno per un certo arco di tempo, è la mediazione discorsiva di elementi salienti e pertanto capaci di imprimersi nella memoria. Insomma: è estremamente probabile che l’esperienza teatrale, che costituiva un momento di esperienza collettiva rilevantissimo per tutta la cittadinanza, ma che era un evento tendenzialmente irripetibile, si trasformasse immediatamente in una produzione discorsiva (descrizione, riassunto, commento, richiesta di chiarimenti, evocazione memoriale di vario tipo, dialogo di confronto tra cittadini, ecc).
Non va dimenticato infatti che anche le immagini più sicuramente dipendenti dal teatro, cioè quelle che documentano un ἅπαξ δρώμενον mitico-drammatico (le varie Medee sul carro, ma anche i vasi riconducibili all’Orestea o all’Andromaca di Euripide), non rimandano con particolare evidenza all’origine teatrale: come nelle altre raffigurazioni a contenuto mitico-drammatico, abbiamo visto, in esse vengono completamente omesse le indicazioni propriamente teatrali del setting. Insomma: anche le immagini dipendenti da ἅπαξ δρώμενα, e pertanto più sicuramente legate a una novità apparsa per la prima volta sulla scena, non riproducono l’evento teatrale ma un nucleo collegato a quell’evento, ma non coincidente con esso (sul punto vd. il contributo Centanni, Grilli 2021 in questo stesso numero di Engramma).
È da quella produzione discorsiva, e non dalla tragedia messa in scena, che finivano per essere isolate cellule di azione mitica formalmente e contenutisticamente adatte alla traduzione nel codice iconografico. Che si tratti più di questi discorsi informali che dei copioni drammatici appare chiaro a chi considera che, messo in scena o letto, un dramma tragico nella sua forma integrale presenta comunque le stesse limitazioni: in particolare, gli eventi salienti amati dagli artisti figurativi sono assenti o circoscritti ai resoconti narrativi, mentre abbondano discorsi di cui le raffigurazioni vascolari non sanno che farsi (e che infatti non lasciano quasi traccia in tutto il corpus vascolare di V e IV secolo). I discorsi informali che si articolano nello scambio sociale ordinario sono invece i momenti in cui è verosimile che l’azione mitica saliente acquisti il massimo rilievo: Medea è ‘quella che uccide i figli’, Oreste è ‘quello che uccide la madre’ e così via. I discorsi informali sono dunque da privilegiare come basi delle produzioni iconografiche, poiché in essi si concentrano, più che nei drammi stessi, le cellule di azione indispensabili a una raffigurazione mitico-teatrale.
Proporrei di chiamare queste cellule ‘nuclei d’azione’: rinunciando a ogni ambizione semiotica generalizzante, mi limiterei a definirli, nel quadro di questa riflessione sui rapporti dramma/immagine, come le unità minime di azione saliente ‘mitico-drammatica’. Perché mitico-drammatica e non mitica o drammatica? Semplice: perché l’azione inscritta in una trama tragica partecipa delle due dimensioni. L’esperienza pregressa di un personaggio, il suo destino successivo, tutte le sue imprese al di là del segmento esplorato dal dramma sono azione mitica (cioè azione che orienta e modifica il percorso esistenziale del personaggio articolandolo in una serie di eventi significativi e portatori di conseguenze, e nota da un corpus che comprende tanto testi fissati che testi informali non fissati: l’uccisione di Laio da parte di suo figlio Edipo viene evocata più volte e con angosciosa precisione nell’Edipo re di Sofocle, ma essa fa parte dell’azione mitica, non di quella drammatica); l’azione drammatica è invece quella che ha effettivamente luogo sulla scena, anche se priva di una effettiva rilevanza evenemenziale per il mito (azione drammatica: Clitemnestra mostra il seno al figlio Oreste, ma il dato mitico rilevante è che Oreste la uccida; l’azione di mostrare il seno, come l’azione di svegliare le Erinni, hanno rilevanza drammatica ma non pari rilevanza mitica).
L’azione drammatica possiede solo in rari casi (come appunto nel gesto di mostrare il seno) i requisiti dell’azione mitica, cioè la narrabilità saliente (Grilli 2015): nella maggioranza dei casi, l’azione drammatica è senz’altro azione (Clitemestra rivendica l’assassinio di Agamennone di fronte al Coro sgomento: Aesch., Ag. 1372 ss.), ma non ha il carattere di un evento apicale o anche solo saliente rispetto al resto della vicenda; tra questi spiccano le situazioni in cui l’evento saliente, cioè l’azione mitica, ha luogo fuori scena (Antigone copre di polvere il cadavere di Polinice, cioè trasgredisce l’editto di Creonte), mentre l’azione drammatica si limita al resoconto di quell’azione (la guardia che denuncia a Creonte l’accaduto: Soph., Ant. 407 ss).
In termini mutuati dalla narratologia (Genette 1972), il binomio mito/dramma può anche essere compreso come un caso molto particolare del binomio storia/racconto (o fabula/trama). Per gli scopi di questo ragionamento, possiamo definire il mito come la concatenazione degli eventi salienti che delineano il percorso esistenziale di un personaggio, e che come tale ne comprende l’intera biografia; mentre la trama del dramma intesse eventi salienti e non salienti in un’azione teatrale il cui arco temporale tende a coincidere con l’arco temporale dell’esperienza teatrale degli spettatori.
Tra i nuclei semplici di azione compresi nella trama drammatica e/o nel racconto mitico se ne trovano alcuni particolarmente adatti – per ambito tematico, per pregnanza simbolica, per rilevanza narrativa o per compressione evenemenziale – a fungere da supporto di un’immagine (da notare, sia detto en passant, che i nuclei d’azione del mito tragico destinati a maggiore fortuna iconografica tendono a coincidere con le funzioni narrative proppiane, come nel caso dell’azione di Antigone, che realizza la funzione proppiana della Trasgressione: Propp [1928] 1988). In ogni caso, il nucleo d’azione di cui sto parlando non ha le stesse ambizioni del termine Mitema, sulla cui base Lévi-Strauss (1955) ha cercato di fondare una scienza strutturale del mito. Il nucleo d’azione è un concetto senza ambizioni sistematiche, ma utile solo ad astrarre, nel processo della trasmissione testo/immagine, la nozione di ‘nucleo minimo di azione saliente’, nozione indispensabile per articolare ogni ragionamento sui rapporti transmediali fra teatro tragico e pittura vascolare.
La prova più interessante di questa parte della mia argomentazione deriva precisamente da uno degli esempi discussi in Centanni, Grilli 2021, il vaso con Neottolemo a Delfi: in quel caso l’azione, come abbiamo già sottolineato, non passa attraverso l’opsis ma attraverso il racconto, dal momento che anche nella tragedia il nucleo d’azione ‘morte di Neottolemo’ ha luogo fuori scena, ed entra nella messa in scena solo come evento narrato (Eur., Andr. 1085-1165).
Che cosa succede in quel caso? Il nucleo d’azione si dimostra tale proprio per la sua capacità di fornire la base per una sintesi iconografica focalizzata su un accadimento saliente, sintesi aperta eventualmente ad accogliere momenti non perfettamente sincronici, che organizza sintatticamente in un racconto immediato. Ciò che passa dall’Andromaca di Euripide al cratere Banca Intesa è appunto il nucleo d’azione ‘agguato a Delfi’, in cui sono le parole della rhesis angelike a evocare la situazione e l’azione saliente, e in cui è il codice semiotico della ceramografia a fornire gli elementi per articolare un enunciato equivalente. Dell’opsis, come si vede, non c’è alcun bisogno fino al momento di pescare nel repertorio i segni per articolare il luogo (naiskos, tripode, Apollo, palma, omphalos = santuario delfico), per articolare l’azione (due figure armate in posa difensiva rispetto a una figura anch’essa armata che si rimpiatta dietro un riparo), per articolare i personaggi (giovani rappresentati nella consuetà nudità delle figure eroiche, con una didascalia onomastica che scioglie le riserve e conferma ulteriormente l’origine teatrale del contenuto, la cui mise en page è però del tutto indipendente dalla dimensione visuale del teatro.
2. La natura ondulatoria del discorso mitico
Sostenere che le immagini siano generate da parole sembra per qualche motivo difficile da accettare a studiosi abituati a ritenere che i testi dialoghino solo con altri testi (per un’esposizione storica e teorica del concetto di Intertestualità vd. Bernardelli 2000) e che le immagini presuppongano sempre e soltanto altre immagini. In realtà l’interesse per gli studi transmediali, che è cresciuto moltissimo negli ultimi decenni (Rajewsky 2002; Rippl 2015), ci permette facilmente di sostituire al modello di generazione visuale (immagine teatrale ⇒ immagine vascolare) un modello diversamente articolato (esperienza teatrale ⇒ discorso ⇒ immagine vascolare).
Questo modello teorico va peraltro illustrato analiticamente nelle sue varie tappe. Di che natura sono i discorsi a cui possiamo attribuire il ruolo di mediazione fra il dramma messo in scena e la narrazione per immagini? Rispondere a questa domanda implica, come vedremo, tornare a riflettere più in generale sulla natura del ‘mito’, dato che proprio la fisionomia notoriamente sfuggente del mito aiuta a capire alcune delle dinamiche della transmedializzazione delle azioni tragiche dal teatro all’iconografia.
La consistenza testuale del mito segue un tracciato che potremmo definire ‘ondulatorio’: il racconto delle vicende degli eroi oscilla tra un polo di massima cristallizzazione formale (l’opera letteraria, inclusa la tragedia nella sua singola messa in scena) e un polo di testualità informale (racconti, sintesi, riferimenti occasionali, ecc.). Anche se il mythos è parola, sarebbe superficiale pensarlo come coincidente senza residui con i testi letterari a contenuto mitologico o anche con una loro somma. La difficoltà nel cogliere la natura (e di conseguenza la dinamica di trasmissione) del mito dipende precisamente dalla variabilità della sua consistenza testuale, che lo rende, come è ben noto, un fenomeno non riducibile a un corpus di testi letterari. La metafora ondulatoria è fondamentale per spiegare la natura viva del mito: il mito non è un dipinto o un testo, fissi nel tempo; il tratto determinante del mito è la sua mobilità diacronica e diatopica. Questa mobilità consiste appunto in un’oscillazione tra la fissità testuale e la fluidità del racconto informale. Il racconto informale è un dato sfuggente, ma essenziale. Noi stessi, nel parlare di miti, nello spiegarli a lezione, nel raccontarli a nipotini curiosi ma ancora inesperti, produciamo racconti informali in cui mettiamo insieme elementi che provengono da fasi del mito cristallizzate in forme e tempi diversi.
Accanto ai momenti di massima stilizzazione formale, il mito si presenta infatti come racconto scambiato nelle relazioni dirette, interpersonali. Platone è ben consapevole dell’importanza di questo aspetto: nella Repubblica fa dire a Socrate che la pedagogia illuminata dei cittadini dello Stato ideale non potrà fare a meno dell’alleanza delle balie e delle madri, che raccontando storie forniscono ai cittadini la loro prima iniziazione culturale (Resp. 377a-c):
Οὐ μανθάνεις, ἦν δ’ ἐγώ, ὅτι πρῶτον τοῖς παιδίοις μύθους λέγομεν; τοῦτο δέ που ὡς τὸ ὅλον εἰπεῖν ψεῦδος, ἔνι δὲ καὶ ἀληθῆ. πρότερον δὲ μύθοις πρὸς τὰ παιδία ἢ γυμνασίοις χρώμεθα. […] Οὐκοῦν οἶσθ’ ὅτι ἀρχὴ παντὸς ἔργου μέγιστον, ἄλλως τε καὶ νέῳ καὶ ἁπαλῷ ὁτῳοῦν; μάλιστα γὰρ δὴ τότε πλάττεται, καὶ ἐνδύεται τύπος ὃν ἄν τις βούληται ἐνσημήνασθαι ἑκάστῳ. […] Πρῶτον δὴ ἡμῖν, ὡς ἔοικεν, ἐπιστατητέον τοῖς μυθοποιοῖς, καὶ ὃν μὲν ἂν καλὸν ποιήσωσιν, ἐγκριτέον, ὃν δ’ ἂν μή, ποκριτέον. τοὺς δ’ ἐγκριθέντας πείσομεν τὰς τροφούς τε καὶ μητέρας λέγειν τοῖς παισίν, καὶ πλάττειν τὰς ψυχὰς αὐτῶν τοῖς μύθοις πολὺ μᾶλλον ἢ τὰ σώματα ταῖς χερσίν. ὧν δὲ νῦν λέγουσι τοὺς πολλοὺς ἐκβλητέον.
“Non capisci […] che ai bambini come prima cosa raccontiamo storie? In generale, potremmo dire che le storie sono una menzogna, ma ci sono anche cose vere. […] Non sai che in ogni opera l’inizio è il momento più importante, tanto più per un essere giovane e tenero? È soprattutto in quel momento che esso viene plasmato, e che ognuno assume la forma che gli si vuole imprimere. […] Per prima cosa dunque, come è ovvio, si dovrà sovrintendere a chi compone storie, e ammettere quelle buone che vengono composte, e respingere quelle che buone non sono. E convinceremo le balie e la madri a raccontare ai loro figli solo quelle che noi avremo ammesso, e a plasmare le loro anime con le storie piuttosto che i corpi con l’azione fisica. Di quelle che raccontano ora ne dovremo escludere la maggior parte” (trad. A. Grilli).
Platone immagina di poter facilmente rifondare la cultura di uno Stato ideale riformulando il corpus dei racconti autorizzati. Eliminati quelli nocivi, solo i racconti edificanti (e dunque utili alla compagine politica) sarebbero trasmessi dalle donne ai bambini, avviandoli sin dai loro primi anni sulla strada migliore. Purtroppo Platone non scende troppo nei dettagli, e non dà esempi dei racconti abitualmente trasmessi dalle donne. Ma è verosimile supporre che, in un repertorio comunque molto vario, le storie del mito eroico avessero una parte non trascurabile, tanto più che le vicende tradizionali degli eroi erano intrecciate in gran parte con le identità locali e con culti molto vivi nell’esperienza condivisa.
Lo sviluppo tradizionale di una vicenda mitica si può dunque immaginare non come una successione di letteratura che produce altra letteratura, ma come un’alternanza continua di testi definiti (fissi, stabili, cristallizzati) e di discorsi informali. Si tratta di un’oscillazione continua: il racconto mitico tradizionale (quello che si perde nella notte dei tempi, per intenderci), è attestato oggi, per noi moderni, come una concatenazione di testi letterari o di testi eruditi (ma comunque testi scritti); tuttavia nei vuoti tra quei testi non possiamo fare a meno di collocare un enorme numero di discorsi informali di ogni tipo, dalla storia raccontata dalle balie al commento degli spettatori sulla tragedia vista alle Grandi Dionisie.
La cristallizzazione del mito in un testo presuppone non solo la risposta di un testo a un altro testo (l’Elena di Euripide che presuppone le innovazioni introdotte dalla Palinodia di Stesicoro, e a sua volta suggestiona l’Encomio di Gorgia; l’Elettra di Euripide che rintuzza le prove del riconoscimento nelle Coefore di Eschilo), ma anche la decantazione di innumerevoli discorsi informali ai quali per ovvie ragioni noi non abbiamo accesso. Quando le testimonianze antiche riferiscono di tragedie scritte per confutare o rettificare un’opinione diffusa, esse non fanno altro che implicare la rilevanza dei discorsi informali nella genesi dell’opera letteraria. Si pensi all’Ippolito velato: Euripide deve aver messo mano a una seconda versione della sua tragedia per rispondere (almeno secondo i paratesti antichi) alle reazioni scandalizzate dei suoi concittadini dopo la rappresentazione dell’Ippolito coronato (sul problema vd. Barrett 1964, 11-15). A sua volta, l’opera letteraria (la Medea di Euripide) produce un’ulteriore curva dell’onda, e si riverbera di nuovo in un discorso informale che diffonde il mito nella sua nuova variante: nei discorsi, nella memoria narrativa delle balie, nell’iconografia vascolare a soggetto mitologico.
Anche qui, testimonianze antiche dai testi più diversi lasciano intuire che per la diffrazione della conoscenza dei miti tragici non era necessario che tutti avessero assistito a una messa in scena. Una notizia riportata da Satiro (Vita Euripidis fr. 39, col. XIX, 11 = Eur. TrGF T 189b) e nota anche da Plutarco (Nic. 29, 3) ci informa che i prigionieri ateniesi a Siracusa ricevevano un trattamento di favore se erano in grado di recitare brani dalle tragedie di Euripide. L’aneddoto mostra che i Siracusani erano avidi di cultura tragica, ma non si aspettavano certo una messa in scena allestita per loro nell’Orecchio di Dionisio: quando ai prigionieri ateniesi veniva chiesto di recitare o cantare brani di tragedie, si trattava di antologie rimediate, ma anche in una simile circostanza è assai probabile che quegli esecutori improvvisati introducessero le loro declamazioni antologiche con un riassunto della trama, o almeno con una breve contestualizzazione dei passi recitati.
Altri elementi si evincono da un passo delle Nuvole di Aristofane: nella parte finale del dramma, Strepsiade e Fidippide tornano in scena dopo che il padre ha dato un banchetto per festeggiare il completamento del percorso educativo del figlio al Pensatoio. Come normale nei banchetti, gli ospiti recitano o cantano testi poetici: a Fidippide viene chiesto di cantare qualcosa di Eschilo, ma lui si rifiuta, e opta invece per una rhesis dall’Eolo di Euripide. Aristofane non cita i versi direttamente, ma fa esprimere a Strepsiade una sorpresa indignata (Nu. 1371-1372):
ὁ δ' εὐθὺς ἦγ' Εὐριπίδου ῥῆσίν τιν', ὡς ἐκίνει | ἁδελϕός, ὦ 'λεξίκακε, τὴν ὁμομητρίαν ἀδελϕήν.
“E lui [invece di recitare qualcosa di Eschilo] attacca una tirata di Euripide, di un fratello – dio ce ne scampi! – che si sbatteva la sorella uterina”.
Da questo passo si evince qualcosa di molto interessante per noi: non sappiamo se il personaggio di Strepsiade avesse una conoscenza indipendente della rhesis dell’Eolo (una delle tragedie perdute, testimonianze e frammenti in Kannicht 2004, 158-173) o se l’avesse ascoltata per la prima volta nella recitazione antologica di Fidippide. Quello che sappiamo è che nel sintetizzare la situazione davanti al Coro delle Nuvole (e al pubblico teatrale, ovviamente), Strepsiade non si perde in dettagli e punta subito al nucleo d’azione: e in effetti l’azione saliente dell’Eolo, anzi l’azione apicale, è precisamente l’amore incestuoso corrisposto.
Insomma, anche senza un completo apparato scenico, la tragedia permeava l’esperienza quotidiana, e la sua fruizione era veicolata inevitabilmente (e continuamente) da discorsi informali di vario tipo. È un errore pensare ai meccanismi di trasmissione testo/immagine come a una transcodificazione immediata, in cui il ceramografo parte dall’evidenza teatrale e la traduce nel codice della pittura vascolare: al contrario, è molto più verosimile che tutti i passaggi siano mediati piuttosto da forme di discorso informale alimentate dalla conoscenza diretta o indiretta del testo di partenza. Nell’indizio testuale si potrebbe così rilevare una traccia del fatto che ogni mito ha alle spalle versioni che sono sia orali che scritte, che vengono trasmesse in forma oscillante e approssimativa, e che dispongono ciascuna di una diversa dose di autorità e credibilità. L’oscillazione testo informale-testo cristallizzato-testo informale è continua, e costituisce si può dire il tratto specifico di quell’oggetto complesso che chiamiamo genericamente (e semplicisticamente) mito.
3. La dinamica del passaggio transmediale
Una volta riflettuto sull’oggetto della trasmissione, può essere utile partire dagli esempi di ἅπαξ δρώμενα riportati nel contributo Centanni, Grilli 2021 per cercare di capire anche come si articola analiticamente sul piano cronologico la dinamica del passaggio dal teatro al vaso. A questo fine, osserviamo che il problema si scompone in realtà in due momenti ben distinti:
1. il vero e proprio passaggio transmediale (dalla tragedia alla pittura: dalla prima novità introdotta sulla scena tragica alla prima eco nella pittura vascolare – di cui ovviamente noi potremmo conoscere oggi solo un riverbero anche di molto posteriore);
2. la diffusione intramediale (da un punto di innovazione iconografica alla cristallizzazione di un nuovo repertorio).
Si tratta di due momenti che è opportuno distinguere almeno sul piano teorico: il primo consiste nella migrazione di una novità mitica (nuovi eventi relativi a personaggi già noti) dal contesto teatrale al contesto della produzione vascolare; il secondo nella diffusione di queste cellule di novità all’interno del medium figurativo. Nella letteratura specialistica i due momenti vengono spesso confusi, con un certo danno per la comprensione della dinamica transmediale nel suo complesso.
Sopra ho cercato di mettere a fuoco il momento della prima cristallizzazione di un ἅπαξ δρώμενον, vale a dire la prima traduzione iconografica della novità di un testo drammatico prima che quella stessa novità si avvii a diventare un modulo di repertorio. Cerchiamo ora di capire come impostare il problema relativo alla diffusione dell’immagine sul piano della produzione vascolare. Come abbiamo visto, la composizione dell’immagine, la prima volta che essa si forma a partire da un background mitico-testuale, è basata su un’immagine mentale generata da un nucleo d’azione e articolata in conformità al codice iconografico. Questo significa che, come giustamente osserva Ludovico Rebaudo, non c’è bisogno di postulare un archetipo perduto, perché le transizioni possono aver luogo più volte anche in modo indipendente (Rebaudo 2019). Questo è un problema fondamentale soprattutto per gli storici dell’arte antica: di fronte a un’evidenza documentaria disparata e impossibile da ridurre ad unum, l’archeologo si pone il problema di capire la varietà delle forme anche relativamente a uno stesso soggetto mitologico. Gli schemi tradizionali di pensiero, dove è preponderante un’idea di causalità assimilata alla successione genealogica, impediscono di cogliere la continua osmosi tra forme cristallizzate del mito e le produzioni discorsive informali che lo veicolano. La trasmissione di un nucleo d’azione dal mito alla figura non ha bisogno di alcun testo definito – anche se per lo studioso di oggi l’inafferrabilità dei discorsi che veicolano i nuclei d’azione sembra costituire un problema insormontabile.
Una volta avvenuto il passaggio del nucleo d’azione, l’immagine prosegue il suo percorso nel medium iconografico. Ma, anche qui, sarebbe imprudente postulare forme di diffusione omogenee e costanti nel tempo. Vista la complessità delle dinamiche di produzione e consumo dei manufatti artistici, e la loro distribuzione frastagliata nel tempo e nello spazio, è più ragionevole pensare a un sistema di generazione integrato e polivalente: penso che sia importante rifarsi alla metafora del Rizoma (Deleuze, Guattari 1980), soprattutto per la sua connotazione antigenealogica, che risulta dirimente in relazione alle dinamiche di proliferazione iconografica nella cultura antica. Per chiarire la dimensione molteplice e inafferrabile della diffusione iconografica, Rebaudo introduce utilmente il concetto di Iconogramma, che lui definisce come “l’insieme di tutte le immagini che, in determinate condizioni, possono derivare da un nucleo narrativo” (Rebaudo (2019, 118-119). La definizione è utile soprattutto per la sua vaghezza, che lascia aperta la possibilità tanto a trasmissioni poligenetiche derivate dal racconto, quanto a dinamiche di riproduzione di modelli come nelle teorie tradizionali.
Tuttavia il concetto di iconogramma non aiuta a mettere a fuoco la dinamica in due tempi, che prevede dapprima il momento del passaggio (l’introduzione di una novità contenutistica mutuata da un repertorio mitico in altra forma) e solo successivamente quello della diffusione (la cristallizzazione o la proliferazione dell’iconografia innovativa all’interno del repertorio iconografico). La rilevanza della dimensione discorsiva anche in questa seconda fase è subito evidente a chi consideri che l’oggetto specifico dell’iconografia vascolare a soggetto mitologico è l’azione, cioè un contenuto narrativo che cognitivamente non può comunque fare a meno di una dimensione discorsiva, che ne costituisce un inafferrabile corredo – tanto nella fase di produzione che in quella di fruizione – sotto forma di testi orali assimilabili alla descrizione/spiegazione, alla narrazione, all’interpretazione.
4. L’effetto Biancaneve
È utile a questo punto presentare – e ripensare – un concetto che attiene in modo specifico non al momento del passaggio transmediale ma a quello della successiva diffusione intramediale delle immagini. Un’idea a cui si fa spesso ricorso – idea nata all’interno del Seminario itinerante Pots&Plays 2012-2015 – consiste nell’analogia con l’iconografia vincente di Biancaneve. Lo schema è questo: se un/a bambino/a oggi (Italia/Europa, 2021) disegna Biancaneve, o a Carnevale chiede ai genitori di vestirsi ‘da Biancaneve’, questo significa semplicemente che quella persona cercherà il modo di riprodurre, citandone i tratti caratteristici, l’immagine felicemente imposta da Walt Disney più di 80 anni fa (Snow White and the Seven Dwarfs, USA, 1937): faccia tonda, caschetto nero, vestito giallo con maniche a sbuffo e gilè nero sopra. Dobbiamo forse pensare che chi disegna Biancaneve, o si veste da Biancaneve nel 2021, abbia visto il film Disney del 1937? Certo che no. Basterà che abbia visto, in una qualunque forma, un’immagine derivata dall’immagine del film:
Ogni iniziativa commerciale che voglia sfruttare il personaggio deve adeguarsi al modello disneyano. Dalla pasticceria all’industrial design, dai giochi per bambini alla pornografia, solo quel modello è in grado di assicurare che Biancaneve sia istantaneamente riconosciuta e che il richiamo sia efficace a fini commerciali e pubblicitari (Rebaudo 2017, 1208).
Nelle riflessioni precedenti del Seminario Pots&Plays del 2015, presupposte dallo studio di Rebaudo, questo “effetto Biancaneve” viene presentato come un modo utile per capire la dinamica della diffusione di novità iconografiche nel repertorio della produzione vascolare di V-IV secolo (Rebaudo 2017). Tornando a riflettere sull’analogia, mi sembra invece che essa funzioni fino a un certo punto, e trovi applicazione convincente solo nei casi in cui si arrivi alla vera e propria cristallizzazione di strutture formali, mentre la diffusione dell’iconografia a soggetto mitologico presuppone soprattutto la diffusione di contenuti.
L’analogia è del resto ardita già in partenza, perché l’effetto Biancaneve presuppone una dinamica di diffusione dell’immagine tipica non solo di una civiltà dove l’opera d’arte è tecnicamente riproducibile su scala industriale (Benjamin [1935-1936] 2017), ma dove la cultura stessa è dominata dai codici dell’immagine. Il punto, come dicevamo sopra, è che oggi siamo abituati ad associare un racconto a un’immagine cristallizzata perché siamo figli di una cultura dell’immagine, che tende a proporci per qualunque segno linguistico un equivalente iconografico (si pensi solo all’uso degli emoji o dei GIF per sostituire formule discorsive di espressione delle emozioni o di reazione situazionale). Oggi non raccontiamo più cosa abbiamo mangiato, ci limitiamo a postare una foto del piatto che abbiamo in tavola. Non è un caso infatti che non abbiamo bisogno di vedere e rivedere il film Biancaneve di Walt Disney, perché ritroviamo le fattezze della protagonista ovunque nella cultura iconocentrica e industriale del presente (gadget, citazioni, costumi di carnevale e simili).
La differenza tra noi e loro (gli antichi) sta invece proprio in questo: gli antichi avevano, rispetto a noi, una superiore capacità di vedere le immagini… immaginando – cioè traducendo in figure (nella mente e sul piano di lavoro) le parole dei racconti. Questo non significa che gli antichi avessero una superiore capacità di generare immagini mentali originali; verosimilmente, ogni persona che visualizzava i contenuti di un discorso lo faceva, come noi, sulla base delle sue competenze, del suo repertorio visuale. Questo significa che, già sul piano dell’immaginazione personale e idiosincratica, un ruolo centrale era svolto tanto dall’esperienza personale (un ateniese che non avesse mai lasciato Atene avrà probabilmente immaginato la rocca di Troia dell’Iliade come molto simile all’acropoli della sua città) quanto dalla competenza nei codici formali (un greco abituato a vedere le menadi sia dal vivo che sui vasi, dovendo immaginarle avrà potuto presupporre entrambe le esperienze, ma dovendo disegnarle avrà presupposto più la seconda che la prima).
Per noi in teoria non è diverso, ma in pratica lo è: essere figli di una cultura dell’immagine significa che anche se in noi la facoltà fantastica non è del tutto atrofizzata, la nostra esperienza non è esperienza diretta del mondo, ma delle rappresentazioni iconografiche del mondo in cui siamo immersi (non a caso oggi viviamo, più che nel mondo, di fronte a una visualizzazione elettronica del mondo). Dunque è normale che le nostre rappresentazioni mentali, ad esempio quando ascoltiamo un racconto o leggiamo un libro, vengano orientate (quando non tiranneggiate) dalle immagini che corredano le nostre esperienze discorsive (si pensi, per rimanere nell’ambito delle fiabe, al ruolo che le illustrazioni di un libro letto precocemente hanno nella successiva capacità dei lettori di immaginare i personaggi di quel libro). Le dinamiche della produzione industriale fanno il resto: un’analisi della fan art sviluppata a partire dalla saga di Harry Potter (sette romanzi di J.K. Rowling pubblicati dal 1997 al 2007) mostrerebbe facilmente che, fino alla Verfilmung di quei testi nel decennio 2001-2011, la base visuale dei fan artists erano le copertine dei romanzi. La diffusione dei film permette invece una sempre maggiore citazione della dimensione iconica dei film (Gymnich, Scheunemann 2017).
A differenza di noi, gli antichi erano invece figli di una cultura della parola: la sola cosa che nel mondo antico riuscisse a circolare con la stessa proliferazione anarchica con cui oggi circolano le immagini non era l’immagine, era la parola (discorso, racconto, descrizione).
Questo ci impone di aggiustare il tiro sulla rilevanza euristica dell’effetto Biancaneve per la cultura antica. Ha fatto bene Rebaudo a riproporlo come fenomeno affine (Rebaudo 2017), ma è imprudente, e in certa misura fuorviante, spingere troppo oltre questa analogia. Nel mondo antico infatti ciò che succede con l’iconografia vascolare a soggetto mitologico non segue precisamente la dinamica dell’effetto Biancaneve, perché la proliferazione delle immagini a partire da un primo nucleo di penetrazione transmediale, come ben mostra l’esempio di Medea, non riproduce un’icona destinata a fissarsi nello stereotipo formale. Al contrario: le attestazioni diversificate nel tempo e nello spazio sembrano seguire modelli diversi, e presuppongono una proliferazione rizomatica più che una vera e propria dinamica genealogica.
Un problema di eccessiva varietà è precisamente il contrario di ciò che succede con l’effetto Biancaneve: nel caso di Biancaneve, infatti, si verificano sia la coincidenza del contenuto (tutti i segni ‘Biancaneve’ rimandano in ultima analisi alla protagonista della fiaba) che la coincidenza della forma (tutti i segni ‘Biancaneve’ rimandano alla forma-Biancaneve del film Disney). Nell’accentramento monopolistico dovuto all’effetto Biancaneve, insomma, uno solo è il contenuto come una è la forma.
Con l’iconografia vascolare a soggetto mitologico non succede così: noi abbiamo non un’immagine, ma una serie di immagini che presentano un identico contenuto mitico-drammatico (Medea che fugge sul carro del Sole). Questo contenuto, tuttavia, assume una varietà di forme che è impossibile spiegare a partire dall’ipotesi della derivazione unitaria. Dunque il contenuto è uno, mentre le forme sono molte (anche per manufatti elaborati negli stessi contesti, come l’idria di Policoro e il cratere di Cleveland, analizzati in Centanni, Grilli 2021). Come si vede, non proprio la stessa cosa che succede con l’effetto Biancaneve. Lo stesso Rebaudo sembra non accorgersene, anche se i suoi studi sul problema affrontano l’iconografia di Medea cercando in primo luogo di dar conto del problema spinoso della grande varietà formale delle soluzioni, per cui giustamente lo studioso suggerisce la pista della cristallizzazione poligenetica (Rebaudo 2017 e 2019).
Nel caso delle Medee, dunque, come in tutti i casi analoghi, ci sembra più utile ragionare in termini analitici e scomporre il problema nelle sue due fasi: il momento della trasmissione e quello della diffusione. È solo distinguendo i due momenti che se ne possono cogliere con maggiore chiarezza i tratti specifici.
Il momento della trasmissione si spiega infatti nel modo più economico con la transcodificazione di un nucleo di azione saliente: un’azione di questo tipo suggerisce immagini mentali che vengono realizzate con gli strumenti del codice figurativo, completamente a prescindere dalla dimensione visuale di un’ipotetica esperienza diretta. Il passaggio di un nucleo d’azione, del resto, è compatibile anche con l’ipotesi della derivazione poligenetica mediata dal racconto informale (Rebaudo 2019; l’idea della derivazione dal discorso informale era già in Grilli 2015): la circolazione del racconto informale, infatti, anche in assenza di un testo fisso, trasmette precisamente e principalmente il nucleo del contenuto narrativo, che è tutto ciò che serve al ceramografo per procedere alla composizione.
L’idea del passaggio transmediale come transcodificazione di un nucleo d’azione veicolato dal discorso informale aiuta anche a comprendere il carattere rizomatico della produzione vascolare, che continua a sconcertarci nella varietà incommensurabile dei manufatti a noi noti: un nucleo d’azione può infatti raggiungere centri di produzione diversi, e determinare in ciascuno di essi una resa specifica di uno stesso contenuto narrativo. Questa dinamica sarebbe ben più difficile da argomentare nel caso della trasmissione dell’immagine, perché se nel passaggio del nucleo d’azione viene trasmesso un contenuto narrativo e non una forma, nel passaggio di un’immagine (come nel caso della Biancaneve Disney) ciò che viene trasferito è in primo luogo la forma, insieme al contenuto.
Posto dunque che il nucleo d’azione sia l’elemento che permette il passaggio di una novità drammatica nel repertorio vascolare, il processo si sviluppa poi in modi molto più frastagliati per quanto riguarda il piano della diffusione dell’immagine. Una volta compiuto il salto transmediale, infatti, l’immagine generata dal nucleo d’azione si comporta come tutte le immagini, e dà il via alle dinamiche ben note: riproduzione, variazione, adattamento ai codici, adattamento alle esigenze della committenza, aggiornamento refenziale, ecc.
Coglie bene il passaggio al nuovo ambito un passo dello studio di Rebaudo già citato sopra, in cui lo studioso evidenzia il fatto che a partire dalla cristallizzazione di un’immagine le regole che ne determinano la diffusione sono quelle intrinseche ai codici figurativi e alle loro specifiche dinamiche di diffusione:
C’è una fondamentale differenza fra ‘illustrare’ la Niobe di Eschilo e rappresentare Niobe secondo la versione eschilea. Le scene ‘tragiche’ recepiscono singoli aspetti caratterizzanti degli intrecci drammatici, il dato è indiscutibile, ma il materiale con cui sono costruite è interno alla bottega. I tipi e gli schemi tradizionali, certe convenzioni grafiche (ad esempio il naìskos come simbolo polivalente di edificio), la forma del campo figurato, l’ingombro del repertorio ornamentale influiscono pesantemente sul risultato. Ciò che vediamo è lo sforzo di adeguare il repertorio alle aspettative della clientela. Una clientela influenzata dalla popolarità del teatro, evidentemente: influenzata al punto da spingere le officine ad assecondarla su questo terreno, almeno per quanto riguarda le produzioni di fascia più alta. Un’operazione commerciale che dobbiamo supporre remunerativa, data la portata del fenomeno, ma condotta con gli strumenti culturali del lavoro quotidiano (Rebaudo 2017, 1209).
Se queste considerazioni mi sembrano totalmente condivisibili, più problematica risulta, poco oltre, una conclusione dello stesso ragionamento:
Gli esempi di Niobe, Oreste e, soprattutto, Medea mostrano a vario titolo come le scene ‘tragiche’ possano essere considerate il risultato dello sforzo delle officine magnogreche di adattare il loro repertorio alle attese di una clientela sensibile alle novità proposte dal teatro. Il modello che meglio aiuta a comprenderle è quello di Biancaneve nel mondo contemporaneo. Una sorta di ‘dittatura dell’immaginario’ innescata dal lungometraggio di Walt Disney costringe chiunque voglia usare Biancaneve, Grimilde, i Sette Nani e gli altri personaggi del racconto a uniformarsi a quel modello. Se non lo facessero, lo scotto da pagare sarebbero l’incomprensibilità e l’inefficacia del messaggio. Ma una pubblicità con Biancaneve o una torta con i Sette Nani non sono ‘illustrazioni’ del testo dei fratelli Grimm; analogamente le scene ‘tragiche’ non sono ‘illustrazioni’ dei drammi che le hanno ispirate. Le une e le altre sono prodotti commerciali che si sforzano di incontrare il favore dei clienti, adattando al loro immaginario il proprio arsenale figurativo. E ogni innovazione, se ha successo, genera immediatamente nuova tradizione, diviene a sua volta repertorio. Tutto da dimostrare, dunque, che chi usava quegli schemi di seconda e terza mano, come ad esempio avviene con le più recenti attestazioni del tema di Niobe in lutto o di Medea a Corinto, fosse ancora consapevole della loro origini (Rebaudo 2017, 1211-1212).
L’analogia con l’effetto Biancaneve evocata in questo passo, infatti, punta a sottolineare l’indipendenza dell’immagine dal sostrato testuale (“una pubblicità con Biancaneve o una torta con i Sette Nani non sono ‘illustrazioni’ del testo dei fratelli Grimm; analogamente le scene ‘tragiche’ non sono ‘illustrazioni’ dei drammi che le hanno ispirate”), e in questo enfatizza un elemento del tutto condivisibile. Tuttavia non è prudente estendere l’analogia, come inevitabilmente si rischia di fare, alla proliferazione serializzata dell’immagine che si impone come prototipo. Non si tratta della stessa serializzazione: quella descritta dall’effetto Biancaneve è tipica della cultura visuale del presente post-industriale, ma non riflette con precisione le dinamiche produttive della ceramografia antica. Essa non è in grado infatti di rendere conto della diversità delle soluzioni formali per uno stesso contenuto narrativo. Ciò che viene serializzato, stando al ragionamento di Rebaudo, è un certo tipo di linguaggio figurativo con una certa ‘aria di tragedia’ – ma questo è ben altro dalla serializzazione di icone specifiche come la ‘Biancaneve dalle maniche a sbuffo’ e la ‘Grimilde col soggolo’ (sul peculiare processo di cristallizzazione di questa immagine vd. Poggi 2007).
L’effetto Biancaneve è utile a spiegare la cristallizzazione egemonica di una forma (che tra l’altro nel presente ha a che vedere con la distribuzione monopolistica delle immagini generate in un circuito di produzione industriale, dinamiche chiaramente assenti nel mondo antico); nelle dinamiche di diffusione dell’iconografia vascolare a soggetto mitologico dobbiamo invece spiegare la diffusione di un contenuto omogeneo, cui fa riscontro una relativa libertà nelle scelte di realizzazione formale. Le raffigurazioni di Medea, come mostra Rebaudo stesso, sono estremamente varie: lo studioso torna più volte sull’iconografia tragica di Medea, fino alla proposta di una derivazione poligenetica, che mira appunto a rendere conto dell’assenza di modelli unitari (Rebaudo 2019). Insomma, l’analogia con l’effetto Biancaneve è insidiosa perché sembra implicare che anche nelle dinamiche di trasmissione Pots&Plays si affermino forme egemoniche di cristallizzazione figurativa, quando in realtà le forme egemoniche sono e possono essere solo quelle del racconto (inteso per di più come discorso informale, non come testo tragico o messa in scena).
Al di là della mediazione svolta dai discorsi informali nel passaggio dal teatro al vaso è difficile andare: le immagini, come osserva più volte Rebaudo, finiscono per vivere di vita propria, attraversando i processi di adattamento tipici di qualunque soggetto iconografico.
Un esempio interessante di questa capacità di adattamento, che ha luogo in totale autonomia rispetto ai testi drammatici e alle loro messe in scena, è offerto da un sarcofago di epoca antonina (già a Palazzo Martelli a Firenze, e poi scomparso nel mercato antiquario; la riproduzione in Rebaudo 2019, fig. 4); in esso l’iconografia della Medea sul carro è adattata al codice e ai referenti dell’esperienza di uno spettatore del II sec. d.C., quando il carro per antonomasia è ormai la biga da circo (Rebaudo 2019, 118). Quella specifica immagine può essere stata elaborata in modo autonomo, come una creazione originale, oppure mutuata dal modello di un’altra immagine perduta, elaborata nello stesso contesto culturale. Non dobbiamo trascurare infatti che anche se i manufatti in nostro possesso sono pezzi unici, la lavorazione artigianale presuppone una certa serialità nella produzione. Ma di ogni atelier, che si tratti di vasi o di altri oggetti con una decorazione iconografica, noi conosciamo per lo più pezzi isolati, e non siamo in grado di stabilire con assoluta certezza la conformità di un singolo oggetto a una produzione seriale.
In ogni caso, qualunque ipotesi formuliamo sull’origine della Medea nel sarcofago Martelli, è impossibile pensare a una filiera tradizionale che riporti indietro la Medea sulla biga fino al tardo classico: è chiaro che a un certo punto l’icona ‘carro’ è stata aggiornata in base alle competenze dei destinatari.
Concludendo: anche se la rilevanza dell’esperienza teatrale nella genesi dell’iconografia a soggetto mitologico nella ceramica tardo classica è stata molto ridimensionata dagli studi più recenti, gli esempi di ἅπαξ δρώμενα più sicuri (in particolar modo quelli analizzati, in questo volume, da Centanni, Grilli 2021) ci incoraggiano a postulare l’esistenza di un collegamento fra teatro e vaso. Niente tuttavia ci spinge a ritenere che quel collegamento sia diretto o immediato, e quindi che esso sia avvenuto come evento isolato in un’officina collegata ai luoghi di fruizione del repertorio teatrale: tra il momento dell’innovazione, avvenuto in occasione della messa in scena, e il momento della prima penetrazione della novità mitico-drammatica in ambito figurativo possiamo ipotizzare non solo una risposta poligenetica della ceramografia, ma soprattutto un numero anche considerevole di passaggi intermedi, tutti peraltro impossibili da documentare. In un primo momento, in un unico luogo o in più luoghi in parallelo, la raffigurazione dell’azione saliente innovativa fa il suo ingresso nel repertorio vascolare; a partire da quel momento di effettivo passaggio transmediale si avvia un processo di proliferazione rizomatico (che può includere pertanto anche singole occorrenze di relazione tradizionalmente genealogica, ma che non si risolve mai nelle dinamiche della genealogia), il quale investe progressivamente altri centri di produzione, e finisce per popolare il repertorio di un ambito anche molto vasto, ormai del tutto indipendente dai contesti originari della produzione tragica.
Le immagini a soggetto mitologico innovativo, quelle che documentano nel modo più sicuro l’esistenza di un contatto fra teatro e ceramografia, sono dunque, sì, il segno di un avvenuto scambio transmediale, ma al tempo stesso suggeriscono una dinamica in cui il contatto non è pensabile senza un frastagliato sfondo di informale scambio discorsivo.
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English abstract
This paper aims to reflect on the relation between tragic myth and 4th century BCE South Italian mythological vase-painting. In so doing, it assumes as a starting point the hapax drōmenon criterion, first introduced in Seminario Pots&Plays 2015 and discussed in detail in Centanni, Grilli 2021. No mythological vase painting can be traced back with absolute certainty to direct theatrical experience; in a few cases, though, the very subject of the painting appears to reflect innovative versions of the myth first introduced in specific tragedies known to us, entailing therefore a certain, although otherwise undetermined, transmedial passage. Even in this case, I argue (following Centanni, Grilli 2021), the picture’s inspiration is not rooted in the visual experience of staged dramas, since it revolves around a ‘focus of action’ which I define as a minimum core of salient events. The ‘focus of action’ can be thought of as a narrative content easily transferred from one medium to another through informal social discourse. Evidence from classical texts allows us to understand the undulatory nature of myth, constantly swinging between the opposite poles of fixed textuality and of informal account. In order to understand the dynamics of this process, I propose to separate, at least theoretically, the moment when the transmedial passage from drama to vase-painting occurs, and the subsequent spreading of the image through a more varied circulation. The unceasing blend of content-related dissemination through text and/or informal discourse, and form-related circulation through reproduction, allusion, and adaptation allows us to realize the rhizomatic nature of iconographic proliferation, which no single genealogical model can pretend to comprehensively account for.
keywords | Pots&Plays; Attic tragedy; hapax drōmenon criterion; text-image transmediality; undulatory nature of myth; Greek and South-Italian mythological vase-painting; rhizomatic proliferation.
Per citare questo articolo: A. Grilli, Dal mito tragico all’immagine su vaso. Nuclei d’azione e dinamiche transmediali, “La Rivista di Engramma” n. 183, luglio/agosto 2021, pp. 95-121 | PDF