"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

201 | aprile 2023

97888948401

Hopi, a ovest del mondo

Cosmologia, etnografia e risonanze psicopatologiche

Miriam Gualtieri, Salvatore Inglese

1. Viaggiare, Immaginare, Pensare

Nell’articolo che segue proveremo a riflettere sul viaggio americano di Aby Warburg per mezzo di associazioni ideative, lasse o serrate, circostanziate o intuitive. In tal modo rievocheremo ambienti, persone, figure dell’immaginario, dati storici, soggetti antropologici, culture, religioni, concezioni e fantasie che ne hanno influenzato l’avventura giovanile.

La nostra ricerca pluriennale sul personaggio – sviluppatasi intorno a temi e problemi che si aprono a ventaglio sulla Storia della cultura europea, sull’Etnologia e sull’Antropologia (culturale e medica), sulla Psicologia e sulla Psicopatologia transculturale (individuale e collettiva) – si è avvalsa di una metodologia dinamica (peripatetica) e multidisciplinare, grazie alla quale gli studi d’archivio sono stati catalizzati da proiezioni mobili sul terreno (americano ed europeo; ad oggi, dalle kiva del sudovest americano ai Mitrei campani, dalla dimora amburghese alle piazze romane, dalla biblioteca londinese ai musei d’Europa). In particolare, nel 2014 ci siamo recati nei territori nordamericani attraversati dal giovane studioso dall’autunno-inverno del 1895 alla primavera del 1896. Il nostro itinerario ha ricalcato, in senso inverso, le tappe rilevanti del cammino esperienziale e riflessivo di Warburg, da lui stesso ricostruito negli appunti preparatori della Conferenza di Kreuzlingen dedicata ai Pueblo (21 aprile 1923; Warburg 2006) e riformulato nel suo testo più famoso, Il rituale del serpente.

Il nostro punto di partenza è stato il Gran Canyon, dove gli Hopi (il gruppo pueblo esecutore del suddetto rituale) collocano il punto di emersione (sipapu) attraverso il quale sarebbero giunti alla luce, dispiegandosi sulla superfice del Quarto mondo (arido e solarizzato), dopo aver lasciato il Terzo (sotterraneo, acquatico e buio). Da qui ci siamo portati nei loro villaggi ancora abitati (Oraibi, Hotevila), poi nelle aree deserte e silenziose dove si riconoscono le tracce evidenti ed evocative (pittogrammi; petroglifi; resti archeologici) di un passato storico, ancora insondato (Walpi, Wupatki, El Morro). Muovendoci da Ovest verso Est, abbiamo infine lasciato la riserva hopi per raggiungere altri insediamenti (Acoma, Laguna, San Ildefonso, Isleta) al fine di confrontare tra loro le concezioni cosmologiche, le pratiche rituali e le memorie storiche di tutti i popoli pueblo (Keresan, Tewa, Zuni). Sulla base di queste premesse metodologiche discuteremo con quali modalità e risultati Aby Warburg sia riuscito ad accostarsi alla filosofia (navoti) implicita dei gruppi umani studiati (Gualtieri 2020).

Privilegeremo una ricostruzione parziale del mondo ideologico e delle pratiche rituali degli Hopi. La polarizzazione del nostro interesse sul loro zelante cerimonialismo ruota intorno a quello che Warburg chiama lo Schlangenritual, la cui portata e significato colloca al centro del suo ragionamento sui rapporti tra pensiero e credenza, tra preghiera e riflessione, tra devozione rituale (ad elevata tonalità emozionale) e tecnica operatoria (saturata dal calcolo razionale). Il nostro contributo rinvierà anche ad alcune risonanze psicopatologiche sprigionate dall’esperienza ‘indiana’ a carico dello studioso. Dal 1918 al 1924 una catabasi psicotica lo trasforma in un paziente difficile, ‘ristretto’ (talvolta fisicamente ‘contenuto’) nella più prestigiosa clinica psichiatrica europea dell’epoca (Binswanger, Warburg 2005; Inglese 2020). Ci limiteremo ad alcune osservazioni che rivelano il benefico effetto di compensazione mentale esercitato dalla conferenza: richiedendo la mobilitazione integrale di energie intellettuali ingenti, messe a dura prova dal processo morboso in corso ormai da anni, essa ristora e rinforza la determinazione di Warburg ad emanciparsi da un devastante marasma emozionale. Abbiamo redatto altrove una versione dettagliata di questa complessa vicenda psicopatologica ancora meritevole di approfondimenti (Gualtieri 2020; Inglese 2020).

2. Derive

Fin dal titolo deciso da Fritz Saxl, Il Rituale del serpente evidenzia alcune deviazioni dalla complessa realtà antropologica sperimentata dal giovane Warburg. L’intestazione e le argomentazioni del saggio, che sistema e raccoglie i contenuti traslati della conferenza pronunciata a Kreuzlingen, comprimono e rimuovono il punto di vista dei nativi. Ciò avviene in funzione della costruzione di una ‘teoria generale’ che intende demarcare le differenze irriducibili tra il mondo occidentale e quello dei popoli americani originari.

L’elaborazione warburghiana isola, centralizza e dispone lungo una scala gerarchica (mimetica, analogica, simbolica), inesistente nel pensiero nativo, tre riti diversi eseguiti, tra l’altro, da due popoli distinti, senza vincoli cerimoniali reciproci, dotati di concezioni ideologiche differenti, indipendenti dal punto di vista sociale e politico (Parsons 1939a; Parsons 1939b; Sebag [1971] 1976). I riti sono: 1) la danza del Bufalo e dell’Antilope (osservata nel gennaio 1896 a San Ildefonso, pueblo di lingua tewa); 2) la danza Hemis (o Humis) e Mana Kachina (vista il primo maggio 1896, nel villaggio hopi di Oraibi); 3) la danza hopi del Serpente, a cui Warburg non ha mai assistito (Cestelli Guidi, Mann 1998).

Il ricercatore anseatico tenta di riconnettere, in una matrice esplicativa unitaria, le concezioni autonome e differenziate che i popoli dell’area difendono come originarie e originali. Seppur inesperto sull’etnografia locale, prefigura la sussistenza di un unico sistema ideologico, soggiacente alle vicende e alle attitudini di gruppi umani eterogenei per idioma, organizzazione sociale e sensibilità spirituale. Gli Hopi non si considerano, infatti, apparentati con gli altri popoli pueblo – sebbene scambino idee e tecniche (es. colturali) con alcuni di essi (es. Acoma, Tewa, Zuni) – e difendono strenuamente la propria cosmovisione ‘chiusa’ all’esterno. Diffidano, inoltre, dei Bianchi euroamericani, un’entità ‘divergente’ (separatasi dagli Hopi fin dal tempo delle origini, secondo la leggenda del Fratello bianco perduto – Bahana), ‘pervasiva’ (infiltratasi attraverso le missioni religiose e l’espropriazione per via mercantile, o manu militari, di territori e manufatti), ‘pericolosa’ (votata alla cancellazione dell’identità nativa attraverso la lottizzazione forzata e arbitraria delle terre, il taglio coercitivo dei capelli e l’educazione scolastica obbligatoria dei bambini).

Proprio in rapporto ai Bianchi si consuma il cosiddetto Scisma di Oraibi (1906), atto finale di un conflitto pluriennale tra due fazioni: la prima, avversa alla progressiva ‘americanizzazione’ della tribù (Ostili: Qa-Pahannanawaknaqam); la seconda, incline a perseguire una via di conciliazione e di tolleranza per garantire la propria sopravvivenza culturale (Amichevoli: Pahannanawaknaqam) (James 1974; Levy 1992; Titiev [1944] 1992; Whiteley 2008). Nel 1891 gli Ostili si ribellano al governo di Washington che, in risposta, incarcera i capi della rivolta. L’evento innesca il processo scismatico che si risolve con lo sgretolamento della più grande e importante comunità hopi (Oraibi) nel settembre 1906, due giorni dopo il rito del Serpente, per la prima volta eseguito dai membri di una sola delle due confraternite necessarie all’esecuzione della cerimonia (l’alleanza tra i clan Antilope e Serpente sarà ripristinata solo nel 1916) (Parsons 1939b). I due gruppi contrapposti, infatti, avevano gradualmente cominciato a sottrarsi alle funzioni prescritte nelle partiture cerimoniali, provocando la mutilazione progressiva del corpo organico delle celebrazioni e il deterioramento dell'intero ciclo rituale, dalla cui integrità e coesione esecutiva dipendono la vita del popolo e l’ordine del cosmo (Perez 2004). Warburg, dunque, raggiunge e attraversa i territori hopi proprio mentre intorno ai loro villaggi si stringe una spirale critica di tensioni conflittuali, generate dalla penetrazione dei Bianchi.

3. Mondo Hopi

Bahana

Bisogna risalire al mito delle origini per illuminare il senso del rapporto accidentato ed equivoco che gli Hopi intrattengono con gli Euroamericani. Narrazioni e profezie raccolte alla fine del XIX secolo contengono episodi che riguardano Bahana, un consanguineo bianco emigrato oltre oceano dopo l’emersione dei pueblo dal mondo sotterraneo. Il suo viaggio verso un oriente sconosciuto – al seguito del Serpente ancestrale, un essere ibrido, piumato come gli uccelli – ne prevede il ritorno e il ricongiungimento con gli Hopi. Questi ultimi, perciò, lo attendono da tempo immemore e sottopongono a un vaglio identitario ogni ‘viso pallido’ che giunge nel loro territorio. Allo scrutinio profetico non dev’essere sfuggito nemmeno Warburg e, prim’ancora, il missionario mennonita Voth, che lo aveva introdotto a Oraibi (Courlander [1971] 1987; Geertz 1994).

Organizzazione sociale 

Ogni villaggio hopi è organizzato in clan ufficiali e società segrete, che hanno il compito di prendersi cura del materiale sacro e selezionare gli officianti.

I clan derivano dall’alleanza di lignaggi materni (case, semi, orti, sorgenti sono di proprietà delle donne), discendenti da un solo antenato comune (umano), a cui si appartiene per diritto di consanguineità, che a sua volta fissa doveri cerimoniali ineludibili. Essi portano il nome di animali, piante o elementi dell’ambiente naturale primigenio e la loro organizzazione istituisce un reticolo inestricabile di appartenenze (‘parentela’). Le società segrete sono, invece, responsabili di riti specifici da eseguire insieme alle altre associazioni indicate dalla tradizione. Il capo del clan dirige anche la società segreta corrispondente (che può reclutare membri di altri clan o villaggi hopi) e ne detiene gli oggetti rituali più importanti.

In occasione delle cerimonie, i membri di tali gruppi si riuniscono per nove o più giorni nelle kiva (ambienti ipogei) dove, insieme, fumano foglie di tabacco, cantano, pregano, preparano offerte a divinità e antenati. Le offerte vengono depositate in luoghi sacri e ogni società ordina ad alcuni degli officianti di correre velocemente lungo circuiti prestabiliti intorno al villaggio. Le società sono inoltre responsabili della costruzione di altari, bastoncini di preghiera (paho o baho), pitture di sabbia; con acqua, erbe, parti animali ed elementi minerali preparano ‘medicine’ per aspergere il pavimento polveroso delle kiva e i corpi dei celebranti. Le medicine sono anche assunte come libagioni purificatrici, protettive o terapeutiche. A scopo lustrale, gli Hopi ricorrono infine a digiuno protratto, continenza sessuale severa, lavaggio dei capelli con sapone di yucca. Possono passare a una depurazione viscerale più drastica, ricorrendo a emetici di cui sanno modulare il dosaggio. Per antica decisione non ricorrono mai a distillati alcolici con cui ottenere l’ebbrezza ludica o estatica.

Ogni società segreta è connessa a una particolare malattia, la cui causa può essere trasformata in uno strumento terapeutico. L’infermità colpisce i trasgressori dei segreti cerimoniali o quanti vengono in contatto con gli oggetti sacri, finanche in modi legittimi. Di conseguenza, gli officianti vanno sempre ‘trattati’ nelle diverse fasi rituali perché lo scambio fisico con il sacro non danneggi loro stessi o gli altri. Di solito le attività rituali terminano all'ottavo giorno del ciclo liturgico con lo smontaggio degli altari e la cancellazione delle pitture di sabbia. Il nono giorno si procede a un’esibizione pubblica. La cerimonia sprigiona i suoi benefici comunitari se i partecipanti vi attendono in ‘purezza di cuore’, condizione necessaria a influenzare l’intenzione positiva delle divinità primigenie.

Concezioni religiose 

Gli Hopi animano con le speciali qualità del sacro i molteplici elementi della vita terrestre e celeste. Attribuiscono questa vitalità intenzionale anche ai minerali inerti e agli elementi atmosferici (sole, nubi, pioggia) (Eggan F. 1994). L’attivazione del sacro avviene attraverso pratiche rituali, melopee, danze, drammatizzazioni che rendono visibile l’invisibile, permettendo una comunicazione finalizzata tra esseri appartenenti, per natura, a differenti ordini ontologici. La religiosità ancestrale si ispira alla continuità circolare tra la vita e la morte: compiuto il trapasso, i defunti ritornano nel mondo sotterraneo, attraverso il sipapu dal quale è emerso il genere umano, e vi conducono un’esistenza identica a quella dei viventi. Mentre gli esseri umani assimilano la sostanza trofica degli alimenti, i defunti si nutrono dell’odore o dello spirito sottile dei nutrienti naturali, trattati secondo modalità tecniche prescritte dalla tradizione (Lévi-Strauss [1964] 1980).

In base a questa partizione distintiva, gli Hopi sostengono che i morti non hanno peso e fluttuano nell’aria sotto forma di nuvole, nelle quali vengono trasformati dopo aver attraversato il mondo sotterraneo immerso in acque perenni. I trapassati prendono anche l’aspetto di kachina (katchina; katsina: divinità con il viso mascherato) e, sotto questa veste, fungono da intercessori tra il popolo e le numerose divinità. La continuità circolare tra vita e morte è confermata dai rituali funerari: per esempio, sul viso del defunto viene apposta una maschera di cotone mentre gli si dice: “non sei più un hopitu (essere umano pacifico) ma un kachina (divinità) in procinto di divenire nuvola (agente atmosferico sacralizzato)”.

Tra novembre (Wüwüchim) e luglio (Niman), i kachina – che nel tempo mitico si presentavano di persona nei villaggi – ormai giungono sotto forma di maschere indossate da uomini adulti, iniziati agli arcani delle divinità originarie. Gli Hopi pensano che tali maschere possano diventare agenti potenzialmente pericolosi, in quanto capaci di far cadere in bassa fortuna, rendere infermi o addirittura uccidere coloro che le indossano senza le dovute cautele rituali, oppure in condizioni di spirito impuro o perturbato.

In sintesi, l’universo spirituale e materiale degli Hopi obbedisce a un principio generale e periodico di inversione: dal basso verso l’alto, dal buio alla luce, dalle acque sotterranee ai deserti superficiali, dalla sostanzialità concreta alla smaterializzazione della fisicità delle creature, e viceversa. Tale principio costituisce la cifra distintiva del dinamismo processuale che informa l’ontologia di questo popolo. La circolarità del principio di inversione fisica e metafisica si riflette anche nel calendario cerimoniale che, come già detto, prevede la presenza degli spiriti degli antenati (divinità originarie, defunti divinizzati) all’interno dei villaggi, durante l’inverno, e sulle vette di alcune montagne sacre (San Francisco Mountains – Nuvatukya’ovi), nella seconda metà dell’anno. Attraverso stadi intermedi, dunque, la sostanza vitale degli esseri ricade sul mondo reale come pioggia (favorevole al ciclo agrario di frutta, legumi e cereali). Quest’ultima, attesa da una stagione all’altra, è un elemento onnipresente nelle preghiere, nei manufatti sacri e nelle cerimonie degli Hopi, verso i cui villaggi Warburg si dirige dopo essere approdato sulla costa orientale degli Stati Uniti.

4. Verso il West

Warburg si sottrae quasi subito alle vanità della società del nuovo continente e al tedio di un’aborrita storia dell’arte estetizzante. Come spesso gli accade, lascia briglia sciolta al proprio impeto vitale e decide di spostarsi nel ‘selvaggio’ West (novembre 1895). 

Un’altra motivazione a intraprendere l’avventura esotica si rinviene nel fatto che gli Hopi discendono da un’antica civiltà palaziale, organizzata intorno a città e villaggi dove sviluppano creazioni estetiche, forme ornamentali e codici simbolici. Dal 200 a.C. al 1300 d.C., nella regione semiarida degli attuali Four Corners, gli Hopi ancestrali – Anasazi (“antenati dei nostri nemici” in navaho; Stuart [2000] 2014) erigono un sofisticato sistema sociale e politico, collassato misteriosamente nel XII secolo (Fewkes 1894; Mindeleff, Mindeleff 1886-1887). Warburg legge e assimila le prime spiegazioni di questo mistero storico, archeologico e antropologico, cogliendone l’importanza per le sue ricerche (Warburg 2006). Raggiunge quindi l’area nel dicembre 1895 dopo essersi confrontato con i ricercatori dell’autorevole Smithsonian Institution (Boas, Cushing, Fewkes, Mooney).

Il tempo non gli manca e possiede la volontà, oltre che i mezzi, per riuscire nell’impresa. Nonostante la sua determinazione, pochi mesi dopo l’arrivo nel sudovest americano, il primo maggio 1896, abbandona improvvisamente il territorio hopi e gli Stati Uniti. A motivo della ritirata precipitosa, uno scompenso soggettivo: il 30 aprile lamenta un malessere intenso (verosimilmente gastroenterico) dopo aver partecipato alla cerimonia del fumo in una kiva di Oraibi.

5. Esperimenti e suggestioni rettiliane 

Trent’anni dopo quel viaggio, Warburg rievoca la sua esperienza giovanile, concentrandosi sulla ‘danza’ del Serpente e collocandola al vertice della spiritualità hopi. In realtà essa costituisce, come vedremo, solo uno snodo rituale di un complesso sistema liturgico – coeso e coerente, variegato e vincolante, dinamico e ripetitivo (Lévi-Strauss [1984] 1992) – che si inaugura in novembre, con la celebrazione Wüwüchim e prosegue con almeno altre otto grandi cerimonie, intervallate da un’infinità di riti minori.

Isolare un rituale coreutico (del Serpente) e ritenerlo di importanza primaria nel quadro della religione hopi impedisce allo storico amburghese di ricostruire dettagliatamente l’architettura del sistema religioso. La ricostruzione di questa struttura – a complessità crescente, indeterminata, forse infinita, ancora del tutto opaca all’esterno – sarebbe stata oltremodo necessaria per poter comprendere l’ontologia hopi. Sarebbe però stato indispensabile un lavoro pluriennale oltre che una modificazione delle metodologie analitiche e operative dello studioso. Esse avrebbero richiesto anche una disponibilità soggettiva all’interazione sul campo con i protagonisti di quel sistema di pensiero e con gli attori di quelle pratiche culturali (Freedberg 2013).

Nella contingenza delle riflessioni preliminari alla Conferenza, Warburg costruisce, invece, sulla base di ricordi e letture, un binomio concettuale, ritenendolo dimostrativo di una catena eziologica fondata sulla trasformazione simbolica dei serpenti (animali) in fulmini (fenomeni atmosferici).

Questo convincimento viene sostenuto da un singolare esperimento psicopedagogico, forse ispirato da Earl Barnes, un pioniere della psicologia infantile americana, conosciuto durante le sue escursioni californiane primaverili (Cestelli Guidi, Mann 1998; Didi-Huberman [2002] 2006). Giunto alla Moki Industrial School di Keam’s Canyon nella primavera del 1896, Warburg chiede al maestro elementare F.M. Neel di raccontare e poi far disegnare agli alunni una storiella per l’infanzia – Giannino guard’in aria – arricchendone la trama con lo scoppio improvviso di un temporale. Vuole infatti osservare la forma che i bambini assegnano ai fulmini, sebbene non compaia alcun evento atmosferico nella popolare filastrocca tedesca (Gombrich [1970] 1983; Saxl [1957] 1984, 2023; Steinberg 1995). Il temporale rappresenta quindi un espediente retorico e un influenzamento diretto con cui Warburg crede di appurare la sopravvivenza di simboli arcaici negli schizzi infantili (McEwan 1998). Questi ultimi, purtroppo, non sono più fruibili per un esame diacritico aggiornato perché andati distrutti, insieme ad altri importati reperti pueblo, durante il secondo conflitto mondiale.

Solo un paio di bambini disegnano il fulmine sotto forma di serpente e, nonostante il debole riscontro, il Nostro crede di rafforzare l’equivalenza, culturalmente determinata, tra la forma sagittata dei fulmini e quella dei serpenti. Inoltre, nel mese di novembre 1896, Neel risponde dettagliatamente a una sollecitazione epistolare di Warburg, descrivendo le modalità e gli esiti della prova fatta eseguire agli allievi. Afferma di avere, innanzitutto, tradotto la storia di Giannino in moki (termine utilizzato nella corrispondenza e adottato ripetutamente da Warburg per riferirsi agli Hopi) in modo che i bambini, poco abili con l’inglese, potessero comprendere il racconto (Michaud 1998). Poi precisa di aver eseguito, in altre occasioni, esercitazioni simili con i piccoli allievi, sollecitandone l’abilità di scrittura piuttosto che quella ideografica, al fine di educarli all’uso di una lingua estranea e straniera. Aggiunge di averne guidato a volte i componimenti, evocando immagini diverse da quelle presenti nei libri di testo. Infine chiarisce che, durante la prova suggerita da Warburg, i bambini non hanno copiato un modello grafico preesistente e non si sono ispirati a esso né a un altro disegnato dall’insegnante. In tal modo difende la genuinità e la libertà immaginativa dei piccoli che, a suo dire, saprebbero scrivere a lungo anche su un soggetto brevissimo, arricchendone la trama con la loro fantasia.

Dalle parole di Neel sembra dunque ricavarsi l’assenza di Warburg durante quel curioso compito in classe, circostanza che avrebbe poi indotto il secondo a ottenere dal volenteroso maestro le specifiche necessarie per elaborare le proprie riflessioni successive. Il tono del dialogo a distanza tra l’insegnante di frontiera e lo studioso d’Amburgo sembra, tra l’altro, rimuovere completamente il conflitto permanente tra nativi recalcitranti e dominatori europei, alimentato proprio dalle politiche di educazione scolastica finalizzate a sottrarre i bambini indiani alle ‘tenebre’ delle loro superstizioni (Gombrich [1970] 1983; Warburg 2006).

I retaggi e le ferite di quel periodo storico continuano ad essere attuali, come dimostrano le recenti cronache internazionali sulle coercizioni, sui condizionamenti e sui gravi traumi subiti dai piccoli nativi per mano delle agenzie governative e delle organizzazioni confessionali (protestanti o cattoliche). Esiste anche una vasta letteratura che dimostra i punti di torsione e di tortura delle attività psicopedagogiche dirette alla cancellazione dell’autonomia culturale degli indigeni nordamericani (Duran, Duran 1995; Miller 1996).

6. Serpenti per immagini

Nel corso del viaggio, Warburg si focalizza sulla figura del serpente già prima di arrivare alla Moki Industrial School, in un incontro con Cleo Jurino (nativo Keresan, convertito al Cristianesimo ma ‘sacerdote’ della kiva di Cochiti), e ne influenza l’apparizione nell’‘esperimento’ con i bambini hopi.

I due episodi comproverebbero, secondo Warburg, la propensione dei nativi a disegnare serpenti sagittati perché ispirati dall’analogia formale tra l’aspetto realistico del fulmine e quello del rettile. La risonanza grafica è portata a sostegno di un sillogismo: chi sa domare il rettile (fascinans et tremendum; Otto [1917] 1992) crede di dominare il corrispondente fenomeno atmosferico. L’efficacia fattuale del dominio rituale presuppone l’equivalenza tra due entità ontologicamente differenti, ma vincolate da uno stesso significante.

La centralità del serpente serve allo storico della cultura per enfatizzare la contrapposizione tra il pensiero simbolico dei nativi – ingenuo, naturalistico, striato di totemismo – e quello tecnico-scientifico degli Occidentali (Lévi-Strauss [1962] 1964; Descola 2005; Descola 2021). Solo questa seconda modalità assicura il reale ‘dominio’ sui fenomeni naturali, ma può far collassare l’intervallo e lo spazio che separano l’immaginazione dal pensiero (Warburg 1984), come accade in Occidente, dove la comprensione del cosmo avviene grazie alla scoperta di leggi irrevocabili in cui le forze della natura diventano ingranaggi di meccanismi sorretti da altri meccanismi.

In questa perdita dell’aura magica del mondo, Warburg individua il rischio di svuotare il senso originario e misterioso dell’universo, alimento perenne dell’immaginazione che costituisce, a sua volta, il sostrato generativo del pensiero (Benjamin [1936] 2011; Didi-Hubermann [2002] 2006). L’intervento dell’immaginario sul fenomeno naturale si realizza, secondo lo studioso, lungo gli stadi operativi della magia imitativa, analogica e simbolica, che costituiscono altrettante leve tecniche di un pensiero nativo sistematico. In questo senso, tutte le azioni rituali si caricano della stessa forza di influenzamento sugli eventi naturali, secondo procedimenti logico-formali che si dispiegano sulla scena sociale. Tali atti performativi sono: immateriali (riti orali: melopee, preghiere, formule incantatorie), mimetici (maschere e travestimenti danzati), operativi (cattura, lavaggio, marcia ritmica con i serpenti).

Prima di analizzare le riflessioni di Warburg, tramandate dal testo e dagli appunti preparatori della sua conferenza, sintetizziamo i momenti salienti della cerimonia: un ciclo liturgico di sedici giorni, scandito da una successione ordinata di attività collettive, pubbliche e segrete.

I protagonisti associati e complementari della celebrazione sono membri scelti di associazioni con ascendenze marziali (Antilope: Chöb; Serpente: Chu).

Il primo clan inquadra i veterani di età avanzata, incaricati di preparare la ‘medicina di guerra’ ed esonerati dallo scontro cruento. Il secondo recluta i giovani combattenti d’avanguardia o da disporre in prima linea (Stephen [1936] 1996). Le tecniche di combattimento delle schiere Serpente consistono nell’assalto corpo a corpo: stringono al collo il nemico e lo abbattono con l’ascia o la mazza da guerra. Avanzano in file ravvicinate, a passo ritmato e pesante, il corpo indurito da pitture, scure e compatte (huriitcakaci) ritenute resistenti alle frecce del nemico (Voth 1903). Si fanno scudo solo del loro coraggio silenzioso. Provvedono a scotennare il soccombente ed esplodono in urla di trionfo. Nutrono i trofei scuoiati nella kiva principale (monkiva) del villaggio per riappacificarsi con lo sconfitto affinché il suo spettro non li perseguiti. Sul pavimento disegnano cumuli stilizzati di nuvole e, davanti a esse, trattano gli scalpi come propri neonati (Parsons 1939a; Parsons 1939b), rispettando un preciso rituale funerario che prescrive condotte astinenziali riferite all’alimentazione carnea e ai rapporti sessuali (Sebag [1971] 1976; Sebag 1979). L’omaggio reso al trofeo ‘capelluto’ indica che la guerra è un’azione diversa dalla caccia e che dev’essere scongiurata la confusione ontologica tra la preda animale (uccisa, poi mangiata) e il nemico umano (ucciso, poi nutrito) (Sebag [1971] 1976; Sebag 1979).

Quando i clan Antilope e Serpente cooperano nel rito analizzato da Warburg, l’azione cerimoniale congiunta viene definita dagli Hopi con un’espressione unitaria e completa – Chu:Chöbti(va) o (ya); Ti(va/(ya) – che non assegna un privilegio concettuale o emozionale a favore del rettile (Stephen [1936] 1996). L’amburghese conosce la denominazione completa e corretta della cerimonia e sa anche che essa deriva dal concorso di due gruppi distinti. Decide però di assegnare un peso rilevante alla fenomenologia e all’ermeneutica del Serpente, mentre trascura quelle dell’Antilope. L’effetto euristico della decisione appare evidente nel momento in cui l’attrazione per l’entità ofidica consegue alla scissione verticale tra le parti costitutive dell’insieme rituale, nonostante tali sezioni conservino una funzione specifica solo all’interno dello stesso quadro esplicativo e la loro separazione distorca il senso dell’intero processo rituale, anche perché ne mette in ombra la seconda frazione attiva, ugualmente necessaria. In tal modo, Warburg accelera il suo anelato transito verso una teoria generale, rinunciando però ad esaminare da vicino il senso specifico di una teoria altrettanto generale (navitu) elaborata da una soggettività etnica specifica.

7. Cerimonia Antilope-Serpente, dentro e fuori

Attività del clan

L’attività congiunta dei clan dell’Antilope e del Serpente inizia con un incontro preliminare dedicato alla cerimonia del fumo e alla preghiera. Per otto giorni, poi, gli officianti si dedicano a funzioni interdette agli estranei, eseguite indipendentemente e nelle rispettive kiva, nonostante la riproduzione di un identico schema.

La partecipazione alle fasi ‘coperte’ richiede l’iniziazione preliminare e completa dei partecipanti nativi. In passato sono stati ammessi anche stranieri euroamericani (es. Alexander MacGregor Stephen, Jesse Walter Fewkes, Heinrich Richert Voth) o pueblo procedendo prima alla loro trasformazione iniziatica.

Le attività rituali sono numerose: preparazione degli strumenti necessari alla cattura dei serpenti; caccia ad altri animali (es. conigli selvatici); offerte a divinità e feticci; iniziazioni; confezionamento degli abiti cerimoniali; costruzione di altari e oggetti cultuali; pellegrinaggi in luoghi sacri; recita di preghiere; interpretazione di canzoni, anche in lingue sconosciute agli Hopi (es. Keresan; Tyler 1964); uso di strumenti musicali; digiuno alternato a pasti cerimoniali; corse pedestri lungo perimetri sacri; preparazione di un emetico (nanayo’ya), la cui composizione viene protetta dalla riservatezza e dall’interdetto tribali (se ne enfatizzano le proprietà profilattiche o antidotali, rispetto al veleno dei crotali, o quelle che purificano dal contatto con gli ofidi). A proposito delle corse, gli Hopi ritengono che l’avanzamento accelerato dei corpi sollevi la forza ‘fonica’ del vento che riesce a compattare le nuvole in cumuli. La veloce rotazione del bullroarer sprigionerebbe, invece, un brontolio amplificato nell’effettivo rombo di tuono che risucchia la pioggia dal corpo soffice e scuro delle nubi (Voth 1903).

Ultimati i riti nelle kiva, i nativi provvedono anche a battere il deserto nelle quattro direzioni cardinali, al fine di raccogliere i rettili.

Infine, l’ultimo giorno della cerimonia, gli officianti della società del Serpente procedono all’esecuzione di uno dei riti più importanti nella propria kiva: il ‘battesimo’ dei serpenti.

Lavando serpenti

La testa dei rettili, la cui pelle può essere dipinta con i colori di guerra, viene immersa in recipienti appositi, dopo avere soffiato o spruzzato su di essi la ‘medicina’ specifica (chu’ana:u).

La rapida immersione degli animali nella soluzione di lavaggio (chu’chu’aashi, di composizione segreta e variabile) serve a rimuoverne l’odore sgradevole e silenziarne il suono gorgogliante. La ‘pulizia’ viene ripetuta più volte per indebolire le forze degli ofidi più vivaci e recalcitranti.

La procedura tecnica prevede anche una manipolazione continua degli esemplari (carezze, massaggi delicati, stretta leggera dal collo alla coda), che vengono infine sistemati in una cesta, sul pavimento di sabbia e sopra letti di farina per diminuirne la viscidità della pelle (Stephen [1936] 1996). Le manipolazioni equivalgono a un addomesticamento per contatto, quasi a indurre un’intesa senza timori né sorprese tra l’essere umano e quello animale. La maestria di tali gesti attira da secoli l’attenzione degli altri nativi (es. Zuni), ma il Popolo pacifico (Hopi-tu) continua a opporre un fermo rifiuto alla richiesta di addestrare gli stranieri a governare i serpenti.

Il rettile sollecita una ragionevole cautela solo nel momento critico della raccolta, che avviene quasi sempre negli stessi luoghi, vista la stanzialità dei crotali. L’animale è individuato dai guerrieri esperti e catturato dai novizi con l’aiuto di un bastoncino particolare. Quest’ultimo non viene mai impiegato come corpo contundente o trafittivo, ma sfruttato quale bersaglio su cui indirizzare il morso del rettile per fargli svuotare le sacche velenifere.

La confidenza degli Hopi con i serpenti è tale da indurli a delegare la loro sorveglianza ai bambini e ai ragazzi, che sanno impedirne la fuga dalla kiva riunendoli in una massa compatta, in grado di diminuire le capacità del singolo rettile di scaricare la propria potenza reattiva contro un obiettivo (Devereux 1941).

Coreutica bellica

Nell’ultimo giorno della cerimonia, al termine del lavaggio dei rettili, gli officianti appaiono in pubblico sulla piazza principale del villaggio. Dividendosi in piccoli gruppi, inscenano un movimento coordinato con posture, gesti e passi misurati, trattenuti, di evidente sobrietà espressiva. I membri Antilope si dispongono su una sola linea, spostano leggermente il piede destro avanti e indietro, muovendo sinuosamente il corpo di lato, in un lento zigzag.

Lungo gli arti superiori e inferiori dei loro corpi sono disegnate linee bianche e ondulate, che simulano il guizzo delle folgori, mentre la forma convessa delle nuvole ne decora le spalle; sul dorso degli officianti Serpente, invece, sono tracciate rappresentazioni ovalari di colore chiaro (Parsons 1939b). I disegni, quindi, iconizzano le caratteristiche realistiche degli enti atmosferici (lampi di luce; cumuli aerei) e animali (riproduzione ovipara) (Kohn [2013] 2021; Waters [1963] 1977).

Secondo lo stesso principio, sugli altari policromi delle kiva predominano raffigurazioni che accostano linee rette (pioggia in caduta), convesse (cumuli di nubi), zigzaganti (figure ibride stilizzate, dove si riconosce la trasmutazione formale del fulmine nella testa triangolare e negli occhi puntiformi del serpente).

A proposito della pioggia, si deve specificare che, per gli Hopi, quella ‘buona’ è intensa e violenta perché in grado di rompere e dilavare la dura crosta superficiale. Questa preparazione ‘umida’ permette, infatti, una seconda semina (estiva) su un terreno che dev’essere necessariamente ammorbidito per scavare e deporre a 20-40 cm di profondità il seme di mais, così da conferirgli sufficiente protezione da improvvise ed estreme variazioni termiche. Le linee oblique o verticali della pioggia scrosciante sono riprodotte anche dai gesti dei celebranti, quando i membri Antilope sollevano le mani in orizzontale e lasciano pendere le dita, mentre cantano a bassa voce (l’intonazione ricorda il vento che precede il temporale).

La coreutica tradizionale è salmodiata dalla voce gutturale degli interpreti e accompagnata dal suono di rombi, raganelle, sonagli, fischietti laceranti, senza uso di tamburi (utilizzati invece nella danza Antilope-Bufalo fotografata da Warburg a San Ildefonso).

Gli officianti Serpente marciano lungo una sola direzione di avanzamento e battono i piedi in terra con forza (ogni battito trasmette, verso le profondità del mondo sotterraneo, un suono grave, capace di trasformarsi in un cupo rimbombo quando viene colpita la tavola di legno che ricopre un’apertura scavata nella terra). Si muovono in coppie ravvicinate (in trio a Walpi; Donaldson 1893). Uno dei due tiene in bocca il rettile, che prende in consegna dal sacco o dal cesto di raccolta, tenendolo delicatamente, ma fermamente, tra le labbra; ne afferra il corpo con entrambe le mani, si muove a passo cadenzato, sincronizzato sul tempo del canto monotono; si sposta lungo un circuito levogiro mentre il secondo compagno gli posa la mano sinistra sulla spalla omolaterale, quasi dirigendolo delicatamente nella direzione prestabilita. Dopo qualche minuto i rettili vengono adagiati in direzione dei punti cardinali e di nuovo raccolti da altri membri di questo clan. Sono poi consegnati ai membri Antilope, che li gettano a terra all’interno di uno spazio circolare delimitato da farina di mais.

Quando tutti gli ofidi sono stati ammassati all’interno di questo spazio, i membri Serpente afferrano quanti più rettili possibili dal groviglio brulicante. Tenendoli in braccio e a stretto contatto corporeo, si mettono a correre e si sparpagliano in direzione dei punti cardinali per liberare gli animali nel deserto, a una certa distanza dal villaggio. Al ritorno bevono l’emetico e ne accelerano l’effetto espulsivo infilandosi le dita in bocca. La giornata si conclude con un ennesimo rito purificatorio nella kiva.

Bisogna a questo punto ricordare che la centralità del rapporto tra celebranti e ofidi è relativizzata nel ciclo rituale complessivo: ogni due anni, la cerimonia Antilope-Serpente si alterna a quella del Flauto, eseguita dai clan Antilope e Flauto (Lenyam). Essa si svolge nelle stesse kiva, costruendo i medesimi altari e salmodiando le identiche canzoni, senza tuttavia impiegare serpenti. L’esibizione pubblica prevede, inoltre, la sostituzione di questi animali con tralci di vite e una sfilata di maschere kachina.

8. Antilope-Serpente, semantiche cerimoniali

Alcune autorevoli analisi della ritualità hopi, la descrivono come un caleidoscopio di esercizi devozionali, simili e affini, i cui moduli vengono eseguiti in varie combinazioni (Fewkes 1894; Fewkes 1897; Parsons 1939a; Parsons 1939b; Sebag [1971] 1976; Sebag 1979).

Le cerimonie non ruotano intorno a una sola concettualizzazione o a una finalizzazione dominante, ma tematizzano molteplici istanze, eterogenee e coordinate. In tali drammaturgie gli attori interpretano lo schema sinottico di una più ampia visione cosmogonica. Nel caleidoscopio rituale, la cerimonia dell’Antilope-Serpente non occupa un posto particolarmente privilegiato o addirittura preminente né risulta essere la maggiormente impegnativa o quella di significato più generale.

Gli osservatori vicini allo spirito religioso degli Hopi ne colgono, certo, i legami con l’impetrazione della pioggia e la crescita del mais (ciclo agrario), ma anche le corrispondenze con il culto del sole e delle kachina (ciclo cosmogonico e teogonico) e con i rituali funerari (trasformazione del defunto in antenato sacralizzato e in principio vitale perenne oltre che in continua mutazione).

La celebrazione è inoltre correlata con l’irruzione della guerra, il più terribile tra gli eventi culturali e cosmopolitici, causa della cessazione dello stato di pace esistente al tempo delle origini e della successiva imposizione di codici ontologici (riconoscimento paritario del nemico), etici (conservazione rispettosa degli scalpi) e pragmatici (come colpire e uccidere il rivale; in quale modo recidergli la capigliatura). Le prescrizioni normative – che servono a differenziare l’antagonismo politico distruttivo (contro gli uomini) dalla violenza esercitata durante le battute venatorie (a bersaglio animale) – devono essere assolutamente rispettate per evitare di confondere l’essenza specifica del nemico tribale con quella della preda animale (es. caccia al coniglio e all’aquila; Fewkes 1894; Fewkes 1897; Devereux 1941; Stephen [1936] 1996; Voth 1903; Voth 1905).

La guerra, sorvegliata da divinità e società specifiche, rappresenta la figura aborrita del disordine cosmico. Suo unico rimedio è la prevenzione quotidiana, fondata sul riconoscimento delle prerogative legittime e sulla mediazione tra gli interessi divergenti dei possibili contendenti. Laddove la conciliazione non sia realizzabile, l’evitamento dello scontro esiziale impone la separazione (scisma) e l’allontanamento degli antagonisti, costretti ad adattarsi allo scioglimento del vincolo reciproco piuttosto che soffocare tra le spirali assassine dell’evento bellico.

I miti hopi imputano l’irruzione della distruttività armata nel mondo alle incomprensioni tra divinità intolleranti e umanità arrogante: le une e l’altra condividono quindi la responsabilità del bagno di sangue primigenio (Sebag [1971] 1976; Sebag 1979). Una volta apparsa nello scenario cosmopolitico, la guerra è diventata un evento non più reversibile, ma solo condizionabile, con norme giuridiche ed esecutive finalizzate ad attenuarne l’impatto materiale e spirituale. Perciò, a differenza dei vicini Apache, gli Hopi non idealizzano né esaltano mai il conflitto, sebbene deleghino a settori sociali specifici il dovere di prepararsi alla sua occorrenza (Sebag [1971] 1976).

Sempre e soprattutto, essi temono la dismisura negli eventi ambientali, umani, divini, cosmologici: la siccità, la carestia (complicata da infanticidio, antropofagia, scatoressia; Sebag 1979), la violenza diluviale delle tempeste; lo sterminio e l’efferatezza umiliante contro i nemici; l’arroganza di uomini e dèi; la trasgressione degli interdetti e dei confini ontologici tra gli esseri.

Solo evitando gli squilibri e gli eccessi nelle varie sfere vitali, valoriali e comportamentali (moderazione etico-politica dell’appetito alimentare, sessuale e marziale; Sebag [1971] 1976) gli Hopi ritengono di poter portare a compimento e mantenere in equilibrio il ciclo esistenziale, vitale e culturale che ne delinea la specificità filosofica e antropologica (agricoltura, caccia, medicina, guerra).

Un esempio dell’anelito alla moderazione di questo popolo è rintracciabile nella stigmatizzazione dei cacciatori nomadi (Navaho), dei guerrieri (propri e degli altri Pueblo) e dei Bianchi: i primi due gruppi vengono biasimati perché non coltivano la terra, mentre i ‘visi pallidi’ perché, al contrario, la coltivano troppo (Sebag [1971] 1976).

All’ordine caotico della dismisura appartiene anche il ‘dominio’, la categoria concettuale, tecnica, etica e politica evocata da Warburg, ma intenzionalmente espulsa dall’orizzonte esistenziale e dalle pratiche cultuali degli Hopi. I riti e le cerimonie di questi ultimi danno forma alla fenomenologia descrittiva degli eventi possibili o auspicabili nel quadro di condizioni date e in cui vengono ricondotte anche le azioni degli esseri umani (rispetto e osservanza della direzione vitale originaria).

Riti e cerimonie, inoltre, esercitano un’attività mnemotecnica, profilattica o riparativa delle disarmonie intenzionali o involontarie, naturali o artificiali, attese o impreviste.

Nel sistema di pensiero hopi, ogni invenzione culturale discende dall’interazione tra esseri umani e divini, che genera sempre qualcosa di nuovo e necessario. Ottenuta la novità, la relazione prossimale, temporaneamente stabilita in occasione di momenti rituali codificati dalla tradizione, deve essere sciolta per ripristinare il giusto distanziamento tra gli esseri. I riti consentono, perciò, l’avvicinamento sperimentato nel tempo mitico anche per caso o per errore (in illo tempore; De Martino [1948] 1973; De Martino 1977).

9. Il Rituale del serpente di Warburg

Possiamo adesso analizzare gli elementi descrittivi e le prospettive privilegiate da Warburg negli appunti preparatori e nel testo della sua Conferenza.

Secondo il Nostro, gli Hopi costituiscono un’“enclave di uomini primitivi e pagani”. Essi continuano “a praticare con incrollabile fiducia rituali magici” in un Paese in cui l’“uomo razionale” maneggia, invece, una mirabile sapienza tecnica. Questa comunità tribale “crede” in un mondo naturale dotato di anima e soggetto all’influenzamento umano attraverso modalità spirituali.

Le considerazioni di Warburg abbracciano tutti i Pueblo e i loro culti animistici, rappresentati nelle danze: Antilope e Bufalo (San Ildefonso); Hemis-Mana Kachina, Antilope-Serpente (Oraibi). Sulla scia di James Mooney, lo studioso amburghese spiega che, nella prima, gli attori cerimoniali imitano le sembianze e i movimenti dell’Antilope mitica. Il danzatore eleva l’animale (estinto) ad antenato e, con un travestimento carico di forza magica, cerca di assimilarne le prerogative superiori, di cui resterebbe privo “senza ampliare e modificare la sua condizione umana”. Nell’opinione di Warburg, la danza Antilope permetterebbe una transizione verso quella Hemis kachina, secondo una stratificazione gerarchica dei moduli coreutici.

Il secondo modulo cerimoniale gravita attorno a un piccolo albero (pino nano), piantato in un angolo protetto della piazza principale del villaggio, da cui pendono penne d’uccello (nakwakwoci), che veicolano allo spirito protettore le preghiere degli agricoltori devoti affinché esso difenda le piante coltivate dal gelo e dal calore. L’esemplare botanico fungerebbe da offerta sacrificale incruenta alla divinità androgina della crescita vegetale (Muy’ingwa; Malotki, Gary 2001; Titiev [1944] 1992).

Il sacrificio violento sarebbe completamente superato nel vertice più elevato del triangolo coreutico, costituito dalla danza insieme ai serpenti vivi, con cui gli Hopi tenterebbero di condizionare i fenomeni naturali secondo una terza modalità magica: gli animali (reali) non vengono imitati, ma diventano intercessori particolari presso le potenze sovrane sui processi naturali.

L’interpretazione warburghiana utilizza una leva comparativistica ed evoluzionistica per riuscire a elaborare una teoria sistematica a valenza universale che, però, viene resa possibile dalla sostituzione del mondo culturale analizzato. Il Nostro procede, infatti, a una comparazione delle pratiche native contemporanee con i culti della Grecia arcaica. Questi ultimi prevedono sacrifici cruenti in ambienti dove ofidi di varia forma e grandezza (aspidi, colubridi, pitonidi) si muovono sulla scena rituale, lungo la trama mitica e nella creazione artistica (Burkert [1972] 2005). Propone così un periplo tematico intorno al culto di Dioniso, portando in primo piano la presenza delle Menadi danzanti (intorno alle cui braccia e gambe si attorcigliano rettili guizzanti) che, all’apice di uno stato di possessione furente, strappano e sbranano le carni crude di animali catturati (omofagia).

Il tentativo di ricondurre il peculiare rito hopi entro una cornice fenomenologica ed esplicativa più ampia era stato già compiuto da altri osservatori, i quali avevano esaminato vari esempi cultuali, storicamente esistenti nel mondo semitico e in quelli dell’Oriente asiatico (Cina, India). Tra di loro annoveriamo Cosmos Mindeleff e, soprattutto, John Gregory Bourke, forse il primo a partecipare al rito nel 1881 (Bourke 1884; Mindeleff 1886) e di cui Warburg ha certamente letto la versione ‘marziale’, nonostante non la citi mai. Le concezioni evoluzionistiche dello studioso amburghese vengono peraltro condivise da Fewkes oltre che dallo sfortunato Stephen (Dilworth 1996).

Mai sacrificare serpenti!

Warburg fa notare che, a differenza dei culti ellenici, il rituale ofidico non ammette il sacrificio cruento del rettile e, grazie a tale esclusione, si emancipa virtuosamente dalla pratica dell’immolazione. In realtà, gli Hopi evitano intenzionalmente di sopprimere i serpenti, in quanto considerati specie amiche, collaborative e domestiche, utili per regolare il numero di roditori che attaccano le riserve di mais (Benedict [1934] 1970).

Peraltro, la presenza territoriale dei rettili, animali di superficie che si nascondono dietro o sotto qualche riparo d’occasione (sasso, anfratto, base di cactus), non è mai eccessiva: nell’estate del 1896 e del 1898 ne viene raccolto un numero tanto esiguo da far temere ai nativi di non ottenere la massa animale ‘temperata’ (correlata anche alla varietà delle specie catturate) da cui dipende l’addensamento di quella aeriforme (nuvole) e la precipitazione di quella liquida (pioggia torrenziale) (Canetti [1960] 2015).

Nel modo hopi i serpenti hanno un notevole valore cerimoniale e, per questo, sono sempre trattati con rispetto gentile. Non sono nemmeno caricati di una valenza fobica che induca a evitarli o ad attaccarli. I nativi temono, piuttosto, di sognare Palölökong, il serpente ancestrale multicolore, perché questa visione li arruola nei ranghi di una società considerata poco importante (Serpente) e li obbliga a partecipare alla sua perturbante esibizione coreutica (chu’tiva; Eggan D. 1967).

Warburg ritiene che i nativi ostentino questi animali quale causa vivente della pioggia in quanto carichi di energia vitale (fulmine). Pertanto la coreutica corrispondente diventerebbe una sorta di ‘causalità danzata’ autoevidente e concettualmente condivisa. La pioggia sarebbe evocata dagli Hopi con strumenti mitico-rituali (simbolici), costruiti e attivati in base alle similitudini percepite (formali, figurali e cinetiche: gestalten) tra un essere terrestre (serpente) e uno celeste (fulmine). Il ragionamento del ricercatore anseatico trascura che la presenza di un associato prossimo non è condizione necessaria né sufficiente perché assurga a costrutto simbolico: un leone è più simile a una leonessa che a un valoroso guerriero, ma l’arbitrarietà e la convenzionalità dell’equivalenza simbolica, a certe condizioni, riesce a trasferire la potenza del primo (animale) all’ultimo (umano) termine della comparazione. L’efficacia dell’evocazione dipende dal contesto ontologico specifico e non solo dalla pregnanza formale dell’associazione. In quanto insieme coerente, pertinente e operante, il contesto disegna la scala degli esseri esistenti in un mondo dato, ordinandone le possibilità relazionali e trasformative. Riconoscere il ruolo del contesto, atto a rendere intelligibili le informazioni ricevute o derivabili, serve ad ammettere che proprio il trattamento razionale delle informazioni costituisce la precondizione necessaria dell’evocazione simbolica. Le rappresentazioni congruenti con il contesto facilitano la selezione delle evocazioni maggiormente probabili, scartando quelle riferibili o in possesso degli associati prossimi. In tal senso, l’interpretazione simbolica è una forma creativa di risoluzione del problema sollevato da un’informazione ‘resistente’ che sovraccarica il dispositivo razionale (Sperber [1979] 1988).

Alla causalità mitica e magica dei nativi Warburg contrappone il sapere tecnico dell’Occidente (rappresentato dall’iconico zio Sam) che, mediante la scienza, cattura il fulmine e lo trasferisce nella serpentina di rame costruita da Edison.

Acque di sotto e pioggia di sopra

Gli Hopi cercano di assicurarsi da secoli pioggia e raccolti con innumerevoli azioni e strumenti (Eggan F. 1994). Tuttavia essi temono la furia dell’acqua almeno quanto la sua mancata precipitazione (angoscia idrofobica alternata ad ansia idrofilica).

La loro ecologia reale, trascritta in quella mitologica e operata nella ritualità sistematica, costituisce un composito di umido e arido, bilanciati in un mirabile equilibrio naturale e metafisico. In tale contesto i serpenti d’acqua – che vivrebbero sul fondo dell’universo liquido dal quale sono emersi gli antenati nativi – sono di natura e forma diversa dagli ofidi ordinari. Non solo, essi sorreggerebbero la terra e sarebbero in grado di scatenare terremoti e inondazioni con una loro capovolta irosa (Eggan F. 1994).

In base alla concezione nativa, l’acqua cade dal cielo grazie a una dinamica circolare, che presuppone una prima ascensione dell’elemento idrico dalla terra (dal basso). L’evaporazione massiva produce l’addensamento delle nuvole che poi precipitano di nuovo (dall’alto) in forma liquida. Tale circolarità trova espressione nella convinzione, apparentemente paradossale, che la pioggia ‘cada’ dal basso (Perez 2004).

La massa liquida esegue lo stesso movimento dell’originario popolo hopi, salito in superficie dopo essersi ritirato dalle profondità del proprio mondo ancestrale, composto da laghi, fiumi, mari collegati da vie acquatiche sotterranee.

Questa iniziale spinta idrofobica attiva innumerevoli manovre controfobiche: la vita sociale viene finalizzata a ottenere acqua in tutti i modi. Alle domande sul significato dei vari riti gli Hopi rispondono in modo invariabile e convenzionale: “è per la pioggia” (Benedict [1934] 1970). Cionondimeno essi temono, come già detto, il diluvio. I miti della regione raccontano di inondazioni ripetute che rendono molle e fangosa la terra, impedendo l’indurimento moderato della sua crosta, oltremodo necessario alla coltivazione. L’angoscia per le carestie da siccità si associa, quindi, a quella per i disastri idrogeologici provocati dalle tempeste e dalla forza delle acque provenienti dal sottosuolo e dal cielo. I rituali propiziatori sono eseguiti allo scopo di far riversare sui campi la pioggia in una fase precisa, con l’intensità desiderata e nella giusta misura. Ciò permette che il ciclo pluviale si raccordi con quello delle coltivazioni a secco, di cui gli Hopi sono diventati tra i migliori specialisti del pianeta.

In questo scenario, il fulmine viene guardato con particolare rispetto, anche perché dotato di una forza smisurata, in grado di incenerire gli alberi o di mineralizzarne la sostanza vegetale (Sebag [1971] 1976). Porzioni e frammenti di rocce folgorate sono utilizzate dagli Hopi per costruire punte di freccia, coltelli e asce da combattimento. La costruzione di tali protesi offensive concede nuovi significati al fulmine. Esso fuoriesce dall’ambito meteorologico per assumere un ruolo centrale in quello della caccia e della guerra, dove viene trascinato anche il suo associato animale (serpente). Si rinsalda così una catena di senso che collega eventi atmosferici e comportamenti sociali istituzionalizzati (caccia, guerra, medicina; ad esempio, la Società della selce usa la pietra di fulmine per curare le persone folgorate; Parsons 1939b; Sebag [1971] 1976). Le competenze delle confraternite guerriere sul clima e l’atmosfera sono confermate dalla presenza, sugli altari hopi, dell’ascia di guerra, considerata un potente attrattore di pioggia (Parsons 1939a; Stephen [1936] 1996).

Nell’universo culturale hopi si tramandano anche analogie tra l’azione aggressiva del fulmine, del serpente e della freccia: il primo colpisce dall’alto, il secondo morde da terra, la terza ferisce a mezz’aria.

Il complesso mitologico degli Hopi, come quello dei Pueblo, ammette che l’uso umano del fulmine – intrappolato grazie alla sua trasformazione reale, naturale (in minerali) e tecnica (in protesi) – è talmente efficace da scatenare tempeste e diluvi. In questo senso, la catena che collega elementi naturali e artificiali eterogenei si dimostra perfettamente reversibile e ammonisce, implicitamente, di impiegare in modo temperato i prodotti (culturali e tecnici) che derivano dalla trasformazione degli agenti atmosferici. Tutto dev’essere fatto secondo misura e quest’ultima trova le proprie giuste ponderazioni nella narrazione mitica e nella corretta esecuzione rituale. Ad esempio, il rito del Serpente procede a una drammatizzazione della deterrenza agita contro nemici attuali e potenziali. Esso dimostra di saper domare l’indomabile, di non tremare di fronte al pericolo, di non arretrare al cospetto dell’aggressore. La scena rituale – ‘plotoni’ in ‘marcia’ che avanzano, lenti e inesorabili, tenendo a contatto di pelle e di bocca il crotalo letale (chu’ah) – dissimula il riposto senso guerresco con un astuto travestimento, celebrativo e augurale (Stephen [1936] 1996). Gli officianti non trascendono mai nel furor clastico – che ha lasciato tracce profonde nei conflitti interetnici e nella sollevazione generale dei Pueblo contro gli Spagnoli del 1680 (James 1974; Page 2013) – ma restano nei limiti di una dissuasione implicita e allusiva.

Le sorprendenti associazioni formali e sostanziali tra cose e fenomeni impediscono di ricondurre un rito o un simbolo hopi a una sola finalizzazione. Il contenitore rituale funge da deposito di fenomeni eterogenei anche quando appare dominato da una figura preminente, eventualmente rinforzata da una spiegazione totalizzante. Le associazioni ideative e le tecniche operatorie del rito abbracciano dimensioni più ampie ed embricate tra loro in una sorta di sincizio culturale (per es. caccia, guerra, ciclo agrario, cura delle morsicature e delle folgorazioni).

L’insieme coerente e coeso risultante dalla convergenza, dall’interdipendenza e dalla retroazione continua tra miti, riti, razionalità, pratiche quotidiane, tecniche di governo del sé e dell’ambiente genera una complessità, vitale ed esistenziale, irriducibile alla rappresentazione di un significante unico e univoco. Mito narrato e rito operato affrontano una variazione continua di temi e problemi, lanciando una linea tendente all’infinito intorno a questioni conoscitive ineludibili (cosmogonia, teogonia, ontologia, ecologia; Lévi-Strauss [1984] 1992). Dunque, quando Warburg ritiene che la penuria d’acqua sia “un fattore costituente oggettivo” della religiosità dei Pueblo, la sua ipotesi appare parziale e forse fuorviante.

Se quanto scritto nelle pagine precedenti non bastasse, si tenga presente il mito d’origine degli Hopi: operando una scelta esistenziale precisa, sono emersi da un precedente mondo umido e sotterraneo (Kuskurza: Terzo mondo) quando il nuovo (Tuwaqachi: Quarto mondo) era ormai pronto ad accoglierli (Sekaquaptewa 2008).

La storia materiale di questo popolo ne dimostra anche l’ingegno adattivo, capace di addomesticare l’ambiente difficile e di stabilire con esso una relazione rispettosa grazie alla quale conquista una ‘buona vita’, indefettibilmente hopi (Wright 1979). D’altro canto, non esiste società umana che si sia stabilita, se non per costrizione o violenza, su uno spazio naturale impossibile da controllare. Il bisogno d’acqua non obbliga gli Hopi ad assumere un comportamento superstizioso nei confronti del liquido vitale. Al contrario, essi sviluppano un’abilità impareggiabile, inventiva e instancabile, nel coltivare la terra: procedono a un’attenta selezione delle piante locali in grado di crescere in condizioni di penuria idrica e di produrre una qualità di mais resistente all’ambiente desertico. L’intero sistema sociale è specializzato nella gestione razionale della scarsità di risorse, materiali e alimentari, al punto da liberare tempo sociale da dedicare collettivamente al gioco, alla festa, alla caccia e alle cerimonie. Warburg scrive, invece, che la siccità insegna (volendo dire: ‘costringe’) a fare incantesimi e pregare. Eppure, l’attitudine volitiva, intelligente e prudente degli Hopi nei confronti dell’habitat dovrebbe correggere la certezza che il possesso di beni limitati condanni, automaticamente, a una condizione di povertà materiale e, conseguentemente, di minorità psicologica. Bisogna accettare l’evidenza che i nativi negoziano con la natura modalità relazionali all’insegna del vantaggio reciproco. Se, invece, si enfatizzano gli aspetti irrazionali dei Pueblo, si rischia di non riconoscere le competenze tecniche e l’efficienza delle consuetudini sociali di tali popoli (Sahlins [1972] 2020).

In sintesi: il mondo hopi è sorretto dall’osservanza zelante, dall’interdetto sanzionato e dall’ermetismo discorsivo che ne strutturano e orientano la cosmogonia, la teogonia e l’organizzazione sociale. L’obbedienza, il divieto e l’indecifrabilità costituiscono altrettanti meccanismi culturali di difesa. Tali dispositivi elevano e sorvegliano barriere invalicabili intorno alla comprensibilità immediata delle concezioni sapienti di questo popolo. Contro di esse urtano coloro che, dall’esterno, cercano di decifrare la struttura, il funzionamento e il senso profondo del loro mondo.

All’epoca del suo passaggio estemporaneo, il giovane Aby sembra sfasato rispetto all’orologio del mondo nativo e di quello personale: giunge in ritardo al profetizzato appuntamento degli Hopi con il fratello bianco giusto e arriva in anticipo su se stesso, non avendo ancora gli strumenti e le capacità analitiche per decifrare gli arcani di una civiltà originaria che, un paio di secoli prima, ha saputo sottrarsi alla presa opprimente o alle rapine di avventurieri, mercenari e monaci spagnoli. Gli Hopi vivono la loro continuità esistenziale e culturale, mitica e storica, anche perché refrattari all’americanizzazione (acquisizione di uno stile di vita alieno) e recalcitranti alla conversione religiosa (nei loro confronti, le missioni protestanti e cattoliche continuano da tempo immemore a predicare nel deserto).

10. Malintesi

I pensieri organizzati per la Conferenza tramandano un malinteso culturale: la cerimonia Serpente-Antilope sarebbe un culto magico del serpente, praticato da un popolo primitivo in via di estinzione, che tenterebbe di influenzare i fenomeni atmosferici attraverso la manipolazione rituale del rettile, analogo tangibile del fulmine (Inglese, Gualtieri 2012; La Cecla 2009). Se la cerimonia servisse soltanto a far cadere la pioggia agirebbe come le altre poiché il copione esecutivo di tutti i riti hopi contempla questo fine strumentale. Ad esempio, nel giorno che precede la rappresentazione pubblica inscenata dai membri della società del Serpente, i membri del clan dell’Antilope eseguono una copia di questa danza, ma sostituiscono il rettile limitandosi a portare in bocca tralci di vite. Ricordiamo, inoltre, che la successione regolamentare dei riti prevede l’alternanza annuale della cerimonia Serpente-Antilope con quella Flauto-Antilope. Quest’ultima riproduce la prima, ma senza la partecipazione di rettili.

La complessità e l’indecifrabilità del rituale non dipende soltanto dall’osservanza di un segreto (Zempléni 1996). Gli officianti acquisiscono abilità e conoscenze cerimoniali parziali per rendere indispensabile la cooperazione clanica in ogni azione rituale, segreta e pubblica. Tali drammaturgie viventi conservano la loro coerenza formale e l’efficacia attesa solo grazie alla sinergia tra i diversi gruppi istituzionali.

Warburg, in fondo, batte una pista analitica parallela a quella etnografica. Le varie versioni testuali della Conferenza sono organizzate intorno alla sua decisione euristica di inserire il rito in una dinamica evolutiva, ideale e universale, che conduce i popoli del mondo a emanciparsi dalla ‘barbarie’ per abbracciare la ‘civiltà’. Questo necessario passaggio attraverso stadi di sviluppo preordinati non è, tuttavia, mai sicuro e definitivo. Nei contenuti testuali della Conferenza traspare un disagio soggettivo e teoretico che trattiene lo studioso, travagliato e frammentato interiormente, in una posizione ambivalente. Quest’ultima viene alimentata dalla sensazione che la via (metodo) dei nativi americani riesca comunque ad aprire uno spazio per l’esercizio di un pensiero contemplativo e riflessivo. Warburg è portato a riconoscere che la vitalità ideativa, e forse l’equilibrio mentale dell’umanità, dipende anche da una proiezione metafisica, talvolta ineffabile, e non esclusivamente dal trionfo universale del pensiero tecnico e scientifico. L’oscillazione decisionale, l’attrazione per i temi classici della ricerca storica (nel 1907 scrive a Mooney di essere totalmente assorbito dalle ricerche sulla civiltà europea) e i severi esami di coscienza, infine distolgono Warburg dall’elaborare una compiuta etnografia o una storia culturale dei Pueblo. Egli non reputa pubblicabile il suo cimento testuale, fondato sulla limitata letteratura scientifica che Saxl gli mette a disposizione nella clinica svizzera. La resistenza a pubblicare la Conferenza è rinforzata dalla consapevolezza che alle sue parole manchino la chiarezza e l’organicità assicurate da uno spoglio approfondito di testi e documenti a sostegno delle sue osservazioni da viaggiatore. Teme pure che la memoria di eventi vissuti tanto tempo prima possa fargli commettere errori dai quali non vuole essere tormentato.

La materia oscura trattata da Warburg può essere meglio compresa specificando che gli Hopi non sono inclini alla sperimentazione di stati non ordinari di coscienza. Le loro cerimonie non ammettono dinamiche di transe né esplosioni coreutico-musicali, ma gesti consapevoli e coordinati tra gruppi complementari. Questi ultimi non ricercano il soprannaturale attraverso l’estasi, la ‘visione’ (per deprivazione o eccesso sensoriale) o l’allucinazione indotta da sostanze.

La danza del serpente gravita intorno a un essere che, agli occhi degli Hopi, non ha nulla di tremendum. Il retaggio psicologico e culturale degli Occidentali concepisce, invece, i rettili come naturalmente malefici, spaventosi, ripugnanti e ritiene che i movimenti dei danzatori nativi siano convulsionari, esageratamente dinamici a imitazione del movimento ofidico, spiraliforme, costrittivo o pronto allo scatto mordace.

11. Risonanze psicopatologiche

L’esperienza con i nativi d’America viene registrata dalla coscienza sismografica di Warburg come perturbazione psicologica e cognitiva sommersa (Inglese, Gualtieri 2012). Del resto, nel diario clinico di Kreuzlingen, alcuni sintomi della sua deriva psicopatologica richiamano varie fenomenologie comportamentali, rituali e sociali presenti tra i Pueblo (Binswanger, Warburg 2005; Inglese 2020).

Innanzitutto, l’innesco della sua condizione sindromica sembra trasformarlo nel ‘doppio’ patologicamente deformato, culturalmente decontestualizzato ed energeticamente sovraccaricato di un cosiddetto clown, una figura rituale bizzarra e sinistra che interviene in vari riti pueblo. In almeno tre occasioni cerimoniali Warburg ne incontra alcuni, restando impressionato, oltre che interdetto, dai loro comportamenti e dalla capacità con cui catalizzano interazioni sociali turbolenti. Il clown perturba l’atmosfera solenne delle cerimonie con ingiurie, provocazioni, minacce, attacchi fisici. Parla, canta e urla in modo scomposto; si vanta di conoscere tutte le verità cerimoniali, ma le imita in modo grottesco e ne rovescia le sequenze ordinate. È indisciplinato a oltranza; esibisce la sua eccentricità, confessa ad alta voce desideri bramosi (sessuali, alimentari), si ubriaca di facezie e argomentazioni paradossali.

Nel mondo delirante e allucinatorio di Warburg si manifestano anche entità teriomorfe corrispondenti alle specie che popolano le mesa hopi: insetti dal movimento incessante (falene, farfalle, libellule, formiche, tutte onnipresenti sui petroglifi dell’area) e animali aggressivi (cane idrofobo, orso, puma).

Quando l’erudito europeo teme di trasformarsi in una creatura dalla duplice natura (lupo mannaro) entra inconsapevolmente in risonanza con la principale fobia culturale dei nativi, alimentata dal rischio della mescolanza e della confusione ontologica tra gli esseri viventi.

Emergono in lui ossessioni e terrori antropofagici che rinviano ai pasti rituali degli Hopi, nella composizione dei quali vengono dissimulati parti cruentate di animali (coniglio, daino) e attributi umani (scalpi), indistinguibilmente amalgamati per mezzo di miscele e composti di varia provenienza (animale, vegetale, minerale).

Sorprende e colpisce, peraltro, il fatto che egli classifichi crudamente la famosa Conferenza di Kreuzlingen come le convulsioni di una “rana decapitata”. Per una strana coincidenza, il disegno stilizzato e inciso di questo anfibio adorna la faccia posteriore e superiore della parte lignea (tableta) delle maschere Hemiskachina. Alcune foto mostrano Warburg che, durante una pausa della danza omonima, ne calca una sulla testa, contravvenendo all’etica hopi (Cestelli Guidi, Mann 1998; Freedberg 2013). Eppure lo studioso scrive: “Chi vede un danzatore senza maschera morirà…” (Warburg 1998, 41). Dimostra quindi di conoscere la sanzione fatale della trasgressione, ma ne trascura l’implicazione e si fa addirittura fotografare in posa (dal reverendo Voth) a fianco di un danzatore preoccupato dall’invadenza pericolosa dell’ospite indesiderato. Questo episodio sembra particolarmente distonico in una personalità ossessionata dalle superstizioni del proprio mondo (Heise [1947] 2005).

Sintomo ulteriormente interessante, associabile alle strumentazioni tecniche occidentali da lui richiamate nelle parti conclusive del Rituale del serpente, è il suo timore per gli oggetti metallici, attraverso i quali sente passare la stessa scarica che scorre lungo il filo elettrico delle lampadine moderne.

Infine l’acqua, propiziata dai rituali hopi, sommerge la sua vita quotidiana nella clinica Bellevue di Kreuzlingen. Warburg la lascia dilagare nella sala da bagno personale, dove si intrattiene per ore intere, totalmente assorbito in cerimoniali ossessivi di pulizia. Il suo lavacro idiosincrasico diventa talmente eccessivo, per durata e volumi idrici impiegati, da provocare l’allagamento ripetuto degli ambienti in cui è confinato. Quasi per contrappasso, viene spesso sottoposto a cicli di idroterapia, dalla quale prova invece a sottrarsi con la sua proverbiale, oltre che inusitata, energia e forza fisica.

L’occorrenza e la coincidenza di questi pochi e suggestivi elementi consentono di riconoscere, anche solo per ipotesi, la forza patoplastica dell’esperienza americana di cui abbiamo raccolto, in altra occasione, un campionario variegato (Gualtieri 2020; Inglese 2020). Gli Hopi scompaiono progressivamente dall’orizzonte euristico di Warburg che, cedendoli ai musei, allontana da sé anche i materiali di sicuro valore estetico e documentale (manufatti e ceramiche; i disegni dei fanciulli nativi), condannandone alcuni alla distruzione, causata dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale. Il popolo pacifico si perde così negli strati recessivi dell’archivio scientifico warburghiano, ma per riemergere nelle alterazioni psicopatologiche più intense della sua persona.

12. Warburg e Saxl, sempre cugini...

Saxl sprona il suo mentore, sprofondato in un abisso apparentemente senza fondo, a utilizzare la residua potenza intellettuale come leva (auto)terapeutica. Anche Warburg intravede la funzione riparatoria del lavoro scientifico. Insieme all’amico e collega, si applica in una specie di terapia congiunta dove gioca il doppio ruolo di paziente e coterapeuta.

Nelle intenzioni dei due studiosi, la conferenza non è esclusivamente centrata sull’esposizione ragionata dei riti pueblo. Proprio perché effettuata in uno spazio clinico, essa mira, innanzitutto, a ripristinare le facoltà mentali di un paziente oppresso da spaventosi demoni culturali, scientifici e idiosincrasici. Di fronte a questo sforzo titanico, Ludwig Binswanger (direttore della casa di cura) non riesce, invece, a intrattenere una relazione collaborativa ed efficace con il suo paziente ‘rompicapo’. Si limita a tollerare, incoraggiare, sorvegliare il processo di autoguarigione progressiva avviato da una strenua impresa di ricostruzione intellettuale e di rimemorazione esperienziale (Heise [1947] 2005).

Bisogna rendere merito a Saxl, che appare fin da subito deciso ad agire per ridurre gli effetti del duplice errore di Binswanger: diagnostico e prognostico. Nel 1923 la famiglia di Aby, anch’essa insoddisfatta dell’andamento delle cure a Bellevue, conferisce a Emil Kraepelin l’incarico di eseguire un delicato consulto specialistico. Il più influente psichiatra europeo, a differenza del grande clinico svizzero, conclude che il geniale paziente non è schizofrenico, ma maniaco-depressivo, e che riuscirà a guarire, seppur con qualche limitazione delle sue facoltà mentali (Binswanger, Warburg 2005).

Un riconoscimento ulteriore andrebbe esteso alle modalità con cui Saxl appoggia la scelta di recuperare le memorie dell’avventura ‘nativista’. Così facendo mette Warburg in condizione di lavorare, in modo implicito e inconsapevole, su figure e temi psicopatologici culturalmente correlati alle esperienze soggiacenti di quel viaggio. Queste ultime possono aver agito come fattori traumatici sulla struttura psichica, disarmonica e vulnerabile, del prestigioso intellettuale.

Il Nostro, peraltro, riconosce in vari passaggi il carattere ‘perturbante’ (unheimlich; uncanny) del serpente, da lui esaminato come figura capitale del rito hopi per poi elevarlo a sembiante universale.

L’azione congiunta di Saxl e dall’empatico Max, figlio altrettanto sofferente di Aby, permette la realizzazione di un lavoro di gruppo che riporta alla luce una matrice psicoculturale dell’America ‘primitiva’. Al suo interno i sintomi idiosincrasici di Warburg possono ritrovare corrispondenze e significazioni sorprendenti.

Lo studioso viene aiutato a riordinare reminiscenze frammentarie, riflessioni soggettive, materiali eterocliti, destinati a interessare la scienza generale della cultura da lui preconizzata. La ripresa della capacità di liberare uno spazio per il (proprio) pensiero (Denkraum) gli permette un migliore controllo soggettivo dei sintomi. Nonostante qualche riaccensione episodica, questi ultimi incominciano a spegnersi come previsto da Kraepelin. Per quanto imperfetto e travagliato dal disordine mentale, l’inquadramento narrativo ed esplicativo argomentato nella Conferenza rimette in contatto lo storico europeo con il sistema ideologico e le pratiche sociali di un popolo non occidentale che, con strumenti culturali integrati, controlla le angosce contingenti del proprio mondo. Warburg si applica a studiare, essenzialmente, il dispositivo mitico-rituale congegnato oltre le frontiere dell’Occidente e finalizzato al controllo dei fenomeni naturali per mezzo di strumenti alternativi a quelli tecnico-scientifici. Crede che il congegno ‘magico’ sia destinato a governare il più ampio ciclo vitale di quel popolo grazie al controllo delle acque e delle colture. Lascia sullo sfondo analitico alcune importanti applicazioni del dispositivo rituale degli Hopi che avrebbero potuto interessare ancora più da vicino la sua persona, gettata nella piega apocalittica della storia europea. Riconoscendo le piste marziali degli Hopi, dissimulate dietro apparenze apollinee, avrebbe potuto illuminare per tempo le derive distruttive e autodistruttive dei popoli. Vi avrebbe anche individuato gli antidoti, la profilassi e i rimedi rituali che consentono ad alcune società umane di controllare e moderare l’uso della forza collettiva quale strumento di risoluzione delle controversie intraetniche e interetniche. Lungo questi sentieri di ricerca e scoperta avrebbe infine trovato l’istanza antropologica della cura, altrettanto organizzata su base comunitaria, in grado di esercitare la funzione di contrappeso etico e tecnico della guerra istituzionalizzata.

Nel 1918, Warburg diventa una delle vittime eccellenti di una violenza cosmopolitica smisurata, innescata dalla competizione tra i nazionalismi e colonialismi europei che stanno finendo di sbranarsi nella Grande guerra. Da studioso ammirato, finanche invidiato, ma poco riconosciuto dal mondo accademico, giunge ormai esausto allo scontro con le potenze demoniche di cui ha registrato l’influenza pervasiva e interstiziale sugli antichi mondi culturali e si trasforma in paziente da curare con attenzione compassionevole e fermezza d’acciaio. La corretta istanza terapeutica emerge abbastanza in ritardo rispetto al decorso del processo psicotico. Lungo un tracciato del tutto inesplorato, essa viene lentamente esercitata anche grazie al cimento filologico della Conferenza. Quest’ultima si conclude con la restituzione al mondo di Warburg, ormai segnato in profondità dall’esperienza della malattia. La produzione scientifica del Nostro, successiva al suo ritorno nel mondo sociale, tradisce, per esempio, la fatica della parola (Warburg [1925] 2009). Egli allora modifica gli strumenti della sua metodologia, lasciando tracimare un flusso torrenziale di immagini estratte dai repertori del Vecchio mondo. Dotate di particolare forza comunicativa e potenzialità analitica, queste figure gli permettono di continuare a studiare un gran numero di temi e a elaborare un pensiero originale. Con la celebre e paradossale dichiarazione: “La parola all’immagine!”, Warburg mette a punto l’Atlante Mnemosyne, un insieme iconografico sperimentale, instabile e cangiante sulla sopravvivenza, nelle espressioni estetico-artistiche, di forme e formule precedenti o antiche. La prima costruzione del suo straordinario dispositivo non lascia finora emergere indizi e segni da cui si possano ricavare nuove e più avanzate riflessioni sui Pueblo conosciuti decenni prima. È tuttavia noto che, nel 1927, si fa strada in lui il desiderio di ritornare in America per proporre un confronto più diretto, per quanto ex cathedra, con la scuola etnologica statunitense e offrire all’attenzione dei colleghi d’oltre Atlantico la metodologia e i risultati della propria ricerca (Warburg 2006). Mentre illustra il suo agognato secondo viaggio a persone che vi dovrebbero giocare un ruolo significativo (J. Sachs), si rammarica di non aver potuto coltivare quei promettenti studi giovanili e di non essere riuscito a ‘rinfrescare’, per tempo, le sue ‘esperienze precedenti’ in mondi remoti, anche a causa della tempesta patologica da cui è stato travolto.

Warburg lamenta anche l’esaurimento progressivo del suo tempo terreno e della propria energia fisica, circostanze che lo inducono a viaggiare verso l’Italia (Steinberg 1995; Warburg 2006). Rinvia al 1928 la nuova ricognizione intercontinentale, durante la quale vorrebbe essere affiancato dalla fidata e devota Gertrud Bing, e progetta il movimento di Saxl “lungo le rotte della migrazione dei simboli” dall’Asia alle Americhe.

Come è noto, il vagheggiato trasferimento transatlantico non avverrà mai. Nel maggio 1928, dopo un incontro sollecitato dalla famiglia Warburg a Francoforte, Binswanger si opporrà senza indugio al progetto itinerante del suo vecchio paziente (Binswanger, Warburg 2005). Di conseguenza, il grande studioso non ridiscenderà mai più in una kiva. In compenso, durante l’ultimo soggiorno italiano, si calerà in un ipogeo di Mitra (divinità orientale a cui miliziani, schiavi e popoli assoggettati dedicano un culto misterico) e si concederà uno sguardo, curioso e rapito, verso le volute celestiali infinite immaginate da Giordano Bruno (Warburg, Bing [1928-1929] 2005).

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English abstract

The essay discusses the outcomes of Aby Warburg’s trip to the United States. In particular, the scholar’s theses that were disseminated through the text A Lecture on Serpent Ritual, which conveys a cultural misunderstanding: Hopi religious practices are a stage of development in a universal process of working through fearful impulses to achieve at rational responses to the world.

keywords | Hopi; Aby Warburg; Claude Lévi-Strauss; Lucien Sebag; Ethnology; Antropology; History of Religion. 

Per citare questo articolo / To cite this article: M. Gualtieri, S. Inglese, Hopi, a ovest del mondo. Cosmologia, etnografia e risonanze psicopatologiche, “La Rivista di Engramma” n. 201, aprile 2023, pp. 131-159 | PDF of the article 

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2023.201.0004