Aby Warburg. Per una genealogia del Rinascimento
Arturo Mazzarella
I
Egregio e caro amico,
l’opera che vi offro nel vostro sessantesimo compleanno doveva, originariamente, essere l’espressione personale della profonda amicizia e devozione che vi professo. Non avrei però, d’altra parte, potuto portare a compimento questo lavoro se non avessi ricevuto ininterrotto aiuto e incoraggiamento da quella comunità di studiosi che ha il suo centro spirituale nella vostra biblioteca. Oggi non mi è quindi più lecito parlare solo in nome mio, ma devo farlo anche in nome di questa comunità, in nome di tutti coloro che, già da molto tempo, onorano in voi un maestro nel campo delle ricerche della storia dello spirito.
Con questa dedica Cassirer apre Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento (Cassirer [1927] 1935, 5). Le commosse parole che ha per Aby Warburg, oltre a siglare il devoto omaggio a uno degli ultimi grandi organizzatori di cultura comparsi a cavallo dei due secoli, segnano anche il riconoscimento dell’indiscutibile peso teorico raggiunto, soprattutto nella tradizione degli studi rinascimentali, da Warburg: non solo capace di dare vita a uno dei più vivaci e prestigiosi centri della cultura europea, ma anche di rinnovare un filone di studi, di avviare un organico e solido progetto culturale.
Negli oltre cinquant’anni che ci dividono dalla dedica di Cassirer, proprio questo secondo aspetto della personalità di Warburg è stato, però, progressivamente rimosso. Tranne che per pochi specialisti, oramai da tempo la sua fama è quasi esclusivamente legata al celebre Istituto che porta il suo nome. Ai suoi lavori – veramente innovatori, come notava già Cassirer – è in genere riservato, nelle numerose celebrazioni che nel corso degli anni si sono succedute, solo qualche superficiale accenno. Né l’accurata biografia di Gombrich (Gombrich [1970] 1983), pur ricostruendo puntualmente la complessa rete di relazioni che confluiscono nella formazione culturale di Warburg, è riuscita a riportare al centro dell’attenzione la sua figura di instancabile ricercatore.
Soprattutto in Italia, se si escludono le solitarie incursioni di Ginzburg (Ginzburg [1966] 1986) e di Agamben (Agamben [1975] 2022), l’opera di Warburg è rimasta avvolta da una fitta nube di genericità.
Eppure, a ogni nuova lettura, le minuziose, pazienti analisi micrologiche di Warburg – in parte comprese nel volume La rinascita del paganesimo antico, curato da Gertrud Bing, recentemente ristampato dalla Nuova Italia – suscitano sempre innumerevoli spunti di riflessione. Ancora costituiscono un punto di riferimento obbligato per tutta la storiografia rinascimentale: non solo artistica (un settore che in Italia, negli ultimi tempi, sembra rivolgersi con crescente interesse verso le indicazioni e i contributi di Warburg), ma anche letteraria e filosofica. Al centro dei suoi lavori, prima che specifici temi di ricerca, c’è infatti il problema del Rinascimento: la lucida e serrata analisi di un concetto che, tra la seconda metà e la fine del XIX secolo, aveva visto allargare progressivamente la propria aura. È sulla tenuta teorica di una categoria consunta dal carico di valori e di furori ideali affidatile che Warburg s’interroga, partendo per la sua spregiudicata ricognizione dello stratificato territorio dell’iconografia rinascimentale. Certo, non tutto il recente passato storiografico era da considerarsi terra bruciata. C'era stato Burckhardt, che, con La civiltà del Rinascimento in Italia, aveva decisamente inaugurato una nuova stagione per la storiografia rinascimentale. Ed è da Burckhardt, infatti, che Warburg parte.
Ma quale Burckhardt? Sicuramente non lo storico caro ai suoi fedeli postillatori e ai suoi numerosi epigoni: teso unicamente verso un'acritica esaltazione dell’illimitata libertà conquistata dallo spirito rinascimentale. A un altro Burckhardt si rivolge piuttosto Warburg. Al Burckhardt che affida alla storiografia le funzioni di una sorta di “patologia” dello spirito – come egli stesso afferma in una delle pagine introduttive delle Considerazioni sulla storia universale – allo storico, cioè, profondamente amato da Nietzsche fino alla fine.
II
Se la patologia ritracciata da Burckhardt, che ne La civiltà del Rinascimento in Italia trova una rigorosa, conseguente applicazione, pone al centro del Rinascimento uno scontro incessante tra il piano della soggettività – della ‘cultura’, nella particolare accezione burckhardtiana – e quello istituzionale, Warburg si spinge ancora oltre. Lo scontro è ricondotto all’interno stesso della soggettività: prima che raffigurarsi nei termini di un conflitto tra la potenza della cultura e quella dello Stato e della religione – per riprendere sempre la terminologia proposta da Burckhardt nelle Considerazioni sulla storia universale –, attraversa il piano stesso del soggetto rinascimentale; determinando la genesi di un sapere che sulla scissione, sulla netta divaricazione tra l’ordine della conoscenza e quello della natura, tra i segni e i significati, organizza i propri paradigmi.
Il simbolo rinascimentale non vive più, infatti, della compatta dialettica tra particolare e universale entro la quale si snodava il dispositivo figurale della cultura medioevale. L’unità tra sensibile e sovrasensibile che ancora esso sembra realizzare è solo apparente, illusoria. Il ‘nominare’ del simbolo è a un passo, qui, dallo svelare quella tragicità individuata da Benjamin – ma prima ancora, per vie diverse, da Bachofen – quale fondamento stesso della sfera simbolica (il suo essere, tautologicamente, puro in-sé dell’idea, del tutto ineffettuale nei confronti dell’in-sé della cosa). La trasparenza che i simboli rinascimentali esibiscono sfacciatamente non può in alcun modo nascondere l’ambivalenza che Ii percorre, che li surdetermina. È solo attraverso un inesauribile gioco di opposizioni, infatti, che il simbolo rinascimentale riesce a ‘rappresentare’.
L’unità è composta di differenze; l’armonia si regge sui contrasti: occultarli, da Ficino in poi, sarà sempre più difficile – quasi impossibile – per tutto il pensiero rinascimentale.
Lo dimostra proprio il De hominis dignitate di Pico. La celebre oratio, pur nella sua estrema originalità, fissa i termini del problema in modo davvero esemplare. La sfrenata esaltazione della dignitas umana, che nella sua ininterrotta ascesa verso la perfezione non sembra conoscere ostacoli o arresti, protesa com’è in un infinito autopotenziamento, puntualmente rimanda, quasi come suo risvolto speculare, a un fondo sempre più inafferrabile: rispetto al quale la potenza del soggetto è relativa solo alla potenza del suo annientamento. L’indeterminata libertà dell’uomo è una diretta conseguenza del suo sradicamento. Se l’uomo è infinito divenire, illimitato agire, il suo destino coinciderà con quello del suo libero, continuo determinarsi: in simboli, immagini in perenne trasformazione. Il vertice della perfezione è posto infatti nell’estrema accelerazione di questo processo. Solo se non pago di nessuna forma definita (“si nulla creaturarum sorte contentus”), cioè solo autodissolvendosi, l’uomo potrà congiungersi con Dio. Raggiungere la propria forma perfetta: quello stesso ‘nulla’ con il quale all’origine coincideva il suo essere.
Oramai la sintesi tra individuo e cosmo è in frantumi. Il nichilismo di Pico, per quanto si presenti in una veste ‘trionfalistica’, circonfuso da un’abbagliante luminosità, lo testimonia esplicitamente. La concordia tra finito e infinito non può essere, dunque, che utopica.
La rappresentazione del divenire, il tentativo di fermarlo, di racchiuderlo in una forma, in simboli capaci di esprimere un senso, di durare nel tempo, sono destinati a rivelare tutta la propria tragicità: l’avvolgente melanconia alla quale sono condannati. Ogni simbolo, ogni forma, non riesce – e non riuscirà – più a emergere dall’incolmabile voragine di segni in cui la profondità della riflessione è costretta a inabissarsi totalmente, fino a perdersi in un infinito labirinto di apparenze, nella disperata impresa di accertarsi dell’infinito.
È il paradosso che regola tutto il linguaggio – e la teoria del linguaggio – rinascimentale:
Le parole, cieche, incatenate l'un l'altra dalle leggi meccaniche di un linguaggio non diretto, cercano a tentoni, sotto un cielo di tenebre, l'Idea inafferrabile, in costante metamorfosi (Dubois [1970] 1988, 50).
Quanto più la nostalgia dell’Idea procederà nella sua frenetica ricerca, tanto più sarà la babele dei simboli – il vuoto semantico che essi contengono al proprio interno – a rivelarsi come l’unica sede del Verbo, dell’armonia tenacemente inseguita. Oltre le tenebre di questa babele esistono solo altre tenebre: la cecità alla quale è condannata la contemplazione melanconica è direttamente proporzionale alla sua profondità. Come l’ebbrezza provata di fronte al vuoto è pari solo alla sua vocazione autodistruttiva.
Con il simbolo rinascimentale (proseguendo in una generalizzazione che avrebbe ovviamente bisogno di numerose precisazioni, sia teoriche sia storiografiche) siamo già all’interno di quello spazio vuoto del senso – di un senso ontologicamente presupposto – che il Trauerspiel metterà al centro della propria scena quando l’utopia di una consonantia cosmica, espressa dal linguaggio simbolico, si sarà definitivamente consumata.
Rotta la specularità che legava nell’unità del Logos verba e res, ogni ‘figura’ della cultura medioevale si scompone e atomizza in una catena di tradizioni simboliche, in una molteplicità di modelli iconografici che incrinano radicalmente l’organicità del sapere, la sua universalità. Le forme in cui si realizza questo salto, le fasi attraverso le quali passa questa sorta di rottura (che in effetti si rivela un processo di trasformazione estremamente lungo e laborioso, le cui lente scansioni disegnano un quadro molto più mosso e variegato dell’uniforme affresco dipinto da Burckhardt) sono al centro della riflessione di Warburg.
Il Rinascimento – un concetto che fino a quel momento aveva goduto di una granitica compattezza – con Warburg si frantuma per la prima volta in un mosaico di frammenti contraddittori, di schegge composte da materiale diverso (questa profonda eterogeneità di tradizioni e di modelli di sapere che, intrecciandosi, percorrono gran parte del pensiero quattro-cinquecentesco sarà ripresa e approfondita, tra i primi, dallo stesso Cassirer).
Ogni aprioristica definizione della Rinascita – etica quanto estetica – è destinata dunque a cadere per sempre: ribaltata dal violento assemblaggio di geroglifici che Warburg scopre dietro ogni immagine, ogni simbolo della cultura rinascimentale. La trionfale crescita del Geist sembra interrompersi una volta per tutte. E in modo davvero drammatico: incrociando un tempo storico che proprio sul continuo intreccio, sulla fitta compresenza di modelli di sapere profondamente diversi, se non antagonistici, fonda, in una circolarità senza fine, i propri statuti teorici. È questa polivocità a rendere un enigma ogni simbolo: dalle edeniche utopie neoplatoniche di Botticelli alle tormentate visioni di Dürer; dal sereno municipalismo del Ghirlandaio all’inquietante ciclo dei Mesi del Palazzo Schifanoja di Ferrara.
Se ogni volta gli indizi dai quali Warburg parte nelle sue analisi mettono a fuoco una precisa, determinata forma di coincidentia oppositorum (modelli dello stile pagano che incorniciano temi dell’iconografia cristiana; fedeli ricalchi classici accanto a residui della tradizione medioevale; reminiscenze dell’astrologia ellenistica e araba all’interno della cultura riformista; iconografia religiosa e simbologia profana), l’immagine complessiva del Rinascimento che ne viene fuori presenta tuttavia un’ambivalenza inconfondibile: l’improvviso tramonto del mito della soggettività quale centro unificatore del sapere e, insieme, la sfibrante, vana ricerca di una sua ricostituzione.
Opachi frammenti di senso, vischiosi grovigli di immagini, caotici ingorghi di simboli: sono queste le piste seguite da Warburg nella sua esplorazione del Rinascimento. Un itinerario lungo il quale viene radicalmente smontata l’immagine mitica che il Rinascimento occupava nella memoria di intere generazioni di ‘viaggiatori’. Firenze non conserva più alcuna aura; come d’altronde Ferrara. Lo sguardo di Warburg è assolutamente disincantato: Firenze, ma anche Ferrara, delimita solo lo spazio entro cui, dalla seconda metà del XV secolo, si svolge un interminabile conflitto tra stili diversi, se non alternativi. Tra la pluralità di simboli che la profondità della riflessione melanconica continua ininterrottamente a riportare alla superficie, nella speranza di raggiungere finalmente il “sapere assoluto” – per riprendere un’altra immagine di Benjamin.
III
Solo su questo sfondo il tema della rinascita del paganesimo antico – nodo cruciale della ricerca di Warburg – risulta comprensibile nei suoi termini reali, fuori dalle deformazioni che spesso ne hanno accompagnato l’interpretazione.
Dipanando l’intricata rete di rapporti che la cultura letteraria e figurativa del Rinascimento intrattiene con la tradizione classica, Warburg non si pone certo nel solco di quella autonoma storia delle forme artistiche che, tra la fine del XIX secolo e i primi anni del XX, attraverso i teorici della ‘pura visibilità’, conosce il suo periodo di maggiore auge. Niente è più lontano da lui che seguire le pacificate traiettorie disegnate nel corso del tempo – un tempo assolutamente omogeneo, impermeabile a ogni rottura – dalla Forma: sia essa regolata dal Kunstwollen di Riegl o dagli schemi ottici di Wölfflin.
Il concetto di Rinascita, come è inteso da Warburg, fuoriesce violentemente dai consueti modelli storicistici. Non sono i modi e le forme attraverso i quali nel Rinascimento avviene la trasmissione dell’eredità culturale pagana, del suo ‘spirito’, a interessarlo.
Rinascita del paganesimo per Warburg significa, piuttosto, ritorno – dopo la ‘conciliazione’ propiziata dal medioevo – alle origini di quella polivocità, quella tragica polivocità, sulla quale la civiltà greca aveva edificato i propri simboli. Ritorno di quella sfida, di quell’agonismo (tra il dio e l’uomo, in un primo tempo, e tra l’uomo e l’altro uomo, successivamente) sul quale essa aveva fondato la sfera della propria “sapienza” (Colli 1975).
Rinascita, dunque, di un problema – anzi del próblema stesso, in quanto, nella sua originaria accezione, puro “enigma”–, non banale recupero di stili o contenuti. È questo il ‘classico’ che Warburg vede penetrare con forza nel Rinascimento, lacerando nel segno di Apollo e Dioniso (del loro conflitto, ma soprattutto del loro legame) l’immagine della sua armonia:
Ci decidiamo ora un po’ alla volta a considerare questa irrequietezza classica una qualità essenziale dell’arte e della civiltà antica; gli studi sulle religioni dell’antichità greco-romana ci insegnano sempre più a guardare l’antichità quasi simboleggiata in una erma bifronte di Apollo e Dioniso. L’ethos apollineo germoglia insieme con il pathos dionisiaco quasi come un duplice ramo da un medesimo tronco radicato nelle misteriose profondità della terramadre greca. Il Quattrocento sapeva apprezzare questa duplice ricchezza dell’antichità pagana. Gli artisti del primo Rinascimento veneravano l’antichità risorta tanto per la sua bella regolarità, quanto per la maestria con cui essa conferiva espressione al temperamento patetico (Warburg [1966] 1980, p. 307).
Apollo e Dioniso: “un duplice ramo che germoglia da un medesimo tronco”. La dialettica nietzscheana di apollineo e dionisiaco è colta da Warburg in tutta la sua complessità. Le due facce dell’“erma bifronte”, più che indicare i termini di una radicale polarizzazione di due principi opposti, lo strenuo conflitto a cui essi danno luogo, definiscono quella discordante compresenza di significati, quella paradossale “cerchia degli estremi” entro la quale si articola ogni simbolo.
Il sogno non si oppone all’ebbrezza, come Apollo non si oppone a Dioniso. Il sogno irrimediabilmente deriva dall’ebbrezza; come l’ebbrezza necessariamente rinvia al sogno. La circolarità di Apollo e Dioniso, la stretta complementarità a cui rimanda il loro conflitto, non ammette, come per Nietzsche, alcuna schematica alternativa.
Su questo le puntuali analisi filologiche di Warburg gettano veramente una nuova luce. La compresenza degli opposti attraversa ogni simbolo dell’iconografia rinascimentale. Le “formule di movimento” (Pathosformeln) mediante le quali i corpi delle Grazie esprimono nella Primavera la propria ebbrezza sono inscindibili dalla staticità, quasi ieratica, dei loro volti, dal sogno che la fissità dello sguardo sembra contemplare nel vuoto. Come il trionfo delle divinità olimpiche preposte a ogni mese dell’anno – soggetto della fascia superiore del ciclo degli affreschi dei Mesi del Palazzo Schifanoja di Ferrara – si oppone alle torbide immagini dei corrispondenti demoni astrali di derivazione ellenistico-araba rappresentati nella fascia mediana.
Il volto olimpico del dio rimanda direttamente al suo volto demoniaco: senza alcuna mediazione. L’oracolo benevolmente offerto dalla divinità è il segno infatti della sua stessa malvagità. Riproduce all’infinito, nell’inesauribile interpretazione che richiede, la violenta sfida ingaggiata dal dio con l'uomo. Una sfida che nella Melencolia I di Dürer – simbolo per eccellenza del sapere rinascimentale, al quale Warburg dedica un’analisi davvero magistrale – è rappresentata in tutta la sua brutalità: la sapienza umana è inestricabilmente congiunta alla potenza annientatrice della divinità. Dal tentativo di dominare i perfidi influssi di Saturno – di scioglierne i demoniaci oracoli, di decifrare gli enigmi che avvolgono la sconcertante ambiguità della sua immagine – nasce la grave pensosità della figura alata al centro dell’incisione di Dürer. Saturno, il terribile dio degli estremi, perdendo il suo tradizionale aspetto demoniaco, sembra finalmente domato. Se questa pare la tesi per cui Warburg propende, gli indizi da lui raccolti ci conducono ancora oltre.
La vittoria, infatti, è solo apparente. L’enigma, appena sembra sciolto, immediatamente si ripropone. Il compasso che il genio alato tiene in mano – attributo, come gli altri utensili presenti nell’incisione, del Typus Geometriae – non servirà mai a svelare alcun segreto; non riuscirà in alcun modo a abbattere il “pathos del nascosto” (direbbe Giorgio Colli). Il suo sguardo continua infatti a errare nel vuoto, cercando di interpretare i nuovi enigmi, i nuovi misteri che si profilano all’orizzonte: come la cometa che si intravede sullo sfondo. La sfida con il dio dunque prosegue. Se l’immagine di Saturno si è ‘umanizzata’ non per questo la sua crudeltà è scomparsa: si è solo spostata, dissimulandosi perversamente nelle pieghe di quello stesso sapere che ha generato.
IV
Di fronte alla molteplicità di volti assunti da Apollo e Dioniso nella cultura rinascimentale, il tentativo di classificarli iconograficamente, di ricondurli una volta per tutte dentro una specifica tradizione figurativa, non può essere che vano. Entrambi non si lasceranno mai imprigionare, proprio come nella tradizione greca, in un’immagine isolata, in un simbolo. Apollo e Dioniso indicano solo il campo di tensione, di scontro, entro il quale si iscrive l’orizzonte del senso.
Il conflitto di simboli che attraversa la cultura rinascimentale non consente tregua: Warburg ne è pienamente consapevole. Si può solo ripercorrere, con il più assoluto disincanto, le tappe di questo eterno conflitto, in una paziente analisi genealogica, che, ogni volta, partendo dall’idea, dal significato attribuito da una specifica koinè a un determinato simbolo, tenti di ricostruire la pluralità di voci, la benjaminiana “cerchia degli estremi” che solcano la stratificata superficie del simbolo stesso.
Riportata entro queste coordinate, la ‘filologia’ di Warburg risulta assolutamente irriducibile al metodo iconologico di Panofsky, che pure, apparentemente, si presenta come una sua diretta filiazione. Le rigide connessioni che stringono il simbolo a un universo di significati preesistenti – sulle quali Panofsky, profondamente influenzato dalla neokantiana filosofia delle forme simboliche di Cassirer, elabora i principi del metodo iconologico – si infrangono definitivamente: dietro il simbolo non si nasconde alcun significato da portare alla luce, alcuna essenza da svelare. Si celano solo altri simboli.
È davvero impossibile, allora, definire il Rinascimento. Anche l’“individualismo”, nel quale Burckhardt aveva creduto di cogliere – nella fase forse più alta della sua distaccata “contemplazione” schopenhaueriana – l’idea del Rinascimento, per Warburg diventa unicamente un nome: un simbolo anch’esso da analizzare.
Lo storico, come il filologo, potrà solo aggirarsi nel labirinto di immagini, di impenetrabili geroglifici entro cui si snodano tutte le rotte che muovono dalla cultura rinascimentale: è l’unica lezione di metodo offerta da Warburg. Benjamin l’accoglierà in pieno. È da questo labirinto, infatti, che egli partirà nel Dramma barocco tedesco: un altro frammento della stessa interminabile analisi iniziata da Warburg.
La prima edizione di questo saggio è stata pubblicato ne “il Centauro” 4, (gennaio/marzo 1982), 164-169.
Riferimenti bibliografici
- Agamben [1975] 2022
G. Agamben, Aby Warburg e la scienza senza nome, in “Prospettive settanta” (luglio/settembre 1975), 70-85 ora in M. Centanni (a cura di), Warburg e il pensiero vivente, Dueville (VI) 2022, 79-102. - Auerbach [1938] 1963
E. Auerbach, Figura, in Studi su Dante, Milano 1963, 174-221. - Benjamin [1928] 1999
W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco, a cura di F. Cuniberto, Torino 1999. - Burckhardt [1860] 2006
J. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento in Italia, a cura di M. Ghelardi, Torino 2006. - Burckhardt [1905] 2012
J. Burckhardt, Considerazioni sulla storia universale, a cura di M.T. Mandalari, Milano 2012. - Cassirer [1927] 1935
E. Cassirer, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, Firenze 1935. - Colli 1975
G. Colli, La nascita della filosofia, Milano 1975. - Dubois [1970] 1988
C.G. Dubois, La lettera e il mondo, introduzione di L. Bolzoni, Venezia 1988. - Ginzburg [1966] 1986
C. Ginzburg, Da A. Warburg a E.H. Gombrich, in “Studi medioevali”, s. 3, VII, 1966, 1015-1065, ripubblicato in Da A. Warburg a E. H. Gombrich. Note su un problema di metodo, in Miti, emblemi, spie. Morfologia e storia, Torino 1986, 29-106. - Gombrich [1970] 1983
E.H. Gombrich, Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Milano 1983. - Nietzsche [1872] 1977
F. Nietzsche, La nascita della tragedia, nota introduttiva di G. Colli, traduzione di S. Giametta, Milano 1977. - Warburg [1966] 1980
A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico, a cura di G. Bing, Firenze 1980.
English abstract
The contribution aims to highlight the profound innovations made by Warburg, compared to the most widespread interpretations of Renaissance artistic culture. The analytical surveys carried out by Warburg oppose the dominant rhetoric of ‘harmony’ to an interpretative hypothesis marked by the pre-eminence of the deepest dissonances, of the most bitter conflicts that open up within the thought patterns as well as the stylistic paradigms of Renaissance culture.
keywords | Aby Warburg; Jacob Burckhardt; Renaissance; Apollo; Dyonisus.
Per citare questo articolo / To cite this article: A. Mazzarella, Aby Warburg. Per una genealogia del Rinascimento, “La Rivista di Engramma” n. 199, febbraio 2023, pp. 45-55 | PDF of the article