"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

208 | gennaio 2024

97888948401

Lettera luterana su Edipus

Luca D’Onghia

English abstract

E-di-pus: forse è un’astuzia dell’inconscio o forse è un caso, ma nel nome dell’ultimo scarozzante si annida il pus, l’umore infetto che in Sofocle minaccia la città di Tebe e che in Testori minaccia la ben più inquietante Civis o Poliscùria tebanica: “[...] io, per te, evo la gotta de sbora infettata e incancrenata; el desordino evo; el futuro destruttore e macellatore del tuo gran partorimento fisego et metafisego” (Testori 2023, 856, corsivi miei: così Edipus al padre, poco prima di vendicarsi infliggendogli tremende umiliazioni). Ma il pus è significativamente evocato già nel manifesto del 1968, Il ventre del teatro: “Deve esserci, sempre, l’irrespirabile senso della gloria e della cenere, dello splendore e del pus. Gli opposti, insomma, compresenti e fusi in un’unica imprecazione arrogante” (cito da Santini 1996, 44). La lingua viscerale dell’ambigua tragedia di Testori si presterebbe del resto a chissà quanti altri analoghi esercizi di ricomposizione paralacaniana – ecco per esempio Iocasta mentre cerca di convincersi che il figlio è morto (Testori 2023, 849):

No! Ille turiddicatus est! Turiddicatus et sopressatus! Lo voso et revoso a me medesma, alla nocce, a Tebe, alla terra, all’universo tutto e intrego! Lo voso et revoso, 'doperando la lengua che 'dopera el mio capo e marido quando che celebra le sue messe e le sue funzioni. Manducatus fuit lionorum et tigrorum boccazzibus. Le stesse trigri, i stessi lioni, le stesse lionesse, le stesse pantreghe, i stessi luffi e i stessi coccodrilli che, ogni sira, sento boiare, luffare e coccodrillare anca de qui, in dell’interno più interior della Reggia, 'lora che el sole dise addio alla beltà del giorno e scarliga giù [...]

Boccazzibus: le fauci-tomba che hanno sbranato e inghiottito il bambino; fauci che però contengono, come in una premonizione, anche i cazzi che simbolicamente si succederanno nel corso della tragedia: il pene ancestrale e autoritario di Laio e quello dionisiaco di Edipus (il quale tiene a dichiarare, per altro, che proprio le fiere del monte sono state la sua scuola sessuale: “Io che la monta l’ho imparada in tra le bestie del Citarone [...]” (864). Più in generale si pensa al membro virile come simbolo del potere: “il cazzo del potero e del dominamento”, il poteràz del Macbetto (Testori 2021, 144-145; poteràz fonde potere e caz(zo), ma per infinita ironia della materia verbale racchiude anche la pota della mascolina Ledi, dotata di un grilletto che “più del sesso d’un aseno di monta / è turgedo e acciaresco”, Testori 2021, 151). È un divertimento, certo, ma Testori stesso indulge a una miriade di figure etimologiche e pseudo-etimologiche talvolta crude: qui tra le molte il “Làmbero che lambisce [...] el nostro Santopietro cremlinico” (847), il letto-lettame (850), “la pompinante Pompeia” (851), “la bocca et el bocchino” (864) e così via, fino al “tafanario del pater” denudato “in tutta la sua cellulitigante rotondetà” (857: da cellulitico con morfema del participio presente e sonorizzazione settentrionale, a evocare anche litigante).

È bastato avvicinare il testo prendendo spunto da una questione laterale – il possibile significato riposto del nome di Edipus – per sbattere subito il muso contro la sua oltranza linguistica. Il Testori scarozzante sta anche qui, nella violenta svolta espressiva che prende corpo con L’Ambleto (1972), prosegue con Macbetto (1974) e si chiude provvisoriamente con Edipus (1977); ma anche dopo – sia pure con varianti e sperimentazioni e miscele sempre diverse – la lingua teatrale testoriana si terrà in questi paraggi: quelli dell’espressionismo più livido ed esasperato, e dell’insistito ‘sorpasso a destra’ di Gadda (nonché della sistemazione critica more gaddiano che Contini aveva prospettato per Testori nell’ultima pagina del saggio introduttivo alla Cognizione del dolore, 1963: circostanza su cui insiste a ragione anche Agosti 2023, XV-XVII).

Com’è fatta la lingua di Edipus? Per molti versi somiglia a quella dell’Ambleto, ed è perciò inutile ripetere cose già dette altrove (rinvio in sintesi a Lazzerini 1973, 68-70; Taffon 2005, 120-122; D’Achille 2012, 366-369; D’Onghia 2017, 170-177; D’Onghia 2022, 1385-1386; Paccagnella 2019, 30-31); qui basta richiamare pochi tratti salienti: a) forte base milanese-brianzola, e concomitante fricassea macaronica di lombardo e italiano (si vedano sopra nocce ‘notte’, luffi ‘lupi’, scarliga ‘cade’, anca ‘anche’ dise ‘dice’); b) apertura ad altre lingue (qui il latino paraliturgico, acciaccato e ricreato nel delirio: “Manducatus fuit lionorum et tigrorum boccazzibus” etc.); c) violenta inventiva morfologica (denominali come luffare e coccodrillare, e in apertura l’oltranzistico turiddicatus, che vale ‘ridotto come compare Turiddu (alla fine di Cavalleria rusticana)’, ‘assassinato’); d) tratti di ‘italiano popolare’ o italiacano (“quando che celebra le sue messe”). Tutto mira al più netto allontanamento sia dall’italiano (‘medio’, scolastico o letterario che sia) sia dal dialetto inteso in senso mimetico (come si dava nei modelli remoti di Ruzante e Porta): il risultato è una lingua radicalmente altra, ricreata nel calderone da incubo della barbarie contemporanea; una lingua lombarda, non c’è dubbio, ma mai scritta e mai parlata prima, e perciò disturbante e irrevocabilmente contestataria.

Questo in generale; ma il nostro testo ha anche qualche tratto linguistico peculiare che proverò a indicare alla buona (altrove si potrà magari perfezionare il discorso). Per prima cosa va detto che per il rispetto espressivo Edipus si salda (o torna) all’Ambleto, distaccandosi dal Macbetto, che rappresenta un esperimento isolato anzitutto per via della scrittura metrica e delle rime (Lazzerini 1975), e che esibisce una “lingua / porcellenta e falsatoria” (Testori 2021, 143), percorsa da continui brividi verso l’alto nel senso del solenne di cartapesta o del trovarobato librettistico (“col verso tuo, che è sifolento sì, / ma è anche un po’ laurato!” (Testori 2021, 146). Edipus torna invece alla prosa dell’Ambleto e anzi, come è stato notato subito da un lettore di grande intelligenza, Giuliano Gramigna, spegne quel tanto di cangiante che si coglieva nella riscrittura shakesperiana, arrivando così a toccare “una forma assoluta, vale a dire svincolata da ogni rimando o imprestito, che si giustifica e chiede di essere ricevuta solo secondo le sue leggi interne e originali” (cito da Boccardo 2023, 1521; la recensione di Gramigna apparve in “Giorno Libri” dell’11 maggio 1977).

In effetti in Edipus gli ingredienti della miscela sono ridotti al fondo italo-lombardo di cui si diceva e al latino sghembo e temibile dell’autorità. Le parole straniere sono poche, e alludono per lo più alla ‘vita moderna’ nella quale è immerso il teatrante-locutore (fuaiè 850, striptiso 853, giazze 853 etc.): manca cioè il poliglottismo che nell’Ambleto si estrinsecava nelle venature di inglese (lingua di Shakespeare), spagnolo (lingua dei dominatori nella Lombardia borromaica, ma anche del Maradagàl della Cognizione del dolore) e francese (lingua del Franzese-Orazio: ossia Alain Toubas, l’uomo amato da Testori per tutta la vita). La specificità strutturale di Edipus è data inoltre dalla presenza sul palco di un solo attore, che assume via via i ruoli di Laio, Iocasta ed Edipus; che esorta le residuali maestranze a predisporre la scena; che con rabbia crescente squaderna davanti al pubblico le miserie di una piccola compagnia di provincia oramai disgregata (l’attore che recitava la parte di Laio ha lasciato l’equippe per darsi al travestitismo; l’attrice che impersonava Iocasta, un tempo amata dallo scarozzante che parla, se n’è andata con un mobiliere di Meda). Un testo a una voce sola, pieno di sfasature e percorso da un furore crescente; un lungo monologo che a più riprese tocca le vette del delirio, della paranoia, della visione (per Edipus vale la diagnosi clinica emessa per l’Edipo internato di Elsa Morante: “Logorroico... magniloquente... stereotipie verbali di stile pseudo-letterario... infiorato di citazioni classiche… Flusso verbale carat-teriz-zato da lunghe mo-no-die d’intonazione pseudo-litur-gica o epica... Contenuti deli-ranti strut-turati... Accessi aggressivi... mito-manie... Manierismi... Fughe” (Morante [1968] 2013, 13).

Anche per via di questa furia monologica, ben più che in Ambleto e in Macbetto, il copione è punteggiato di enumerazioni a briglia sciolta che danno voce alle ossessioni dei personaggi e restituiscono l’immagine di un mondo (non solo teatrale) percepito come un cumulo di barricate, detriti e rovine. Basta dare un’occhiata all’inizio della concione di Laio in apertura (Testori 2023, 830):

Quello o colui ot anca colesso che vardate intronato qui, qui indorato, imperlato e inzafferato de robini, de corniole e de diamanti, sunt et est ego: Laio: el Re e Imperatorio di questo Regno che se nomina e nominerà per semper della grandissima, gemmantissima e cristallentissima Tebe; Re de questo e, nell’istessissimo tempo, Pontifex maximum, maximum et unichissimum, della qui insiemata e coincarnata Giesa, tebanica o tebaica anca lei; la qual Giesa et el qual Regno, nel continuo, 'famato e mai sentato girar del globo terracqueo in sul perno del proprio asso, se son incontrati e, 'me due amanti famelichi che si fudessero cercati fin dai tempi dei tempi, se son reuniti, imbracciati, inlettati, fusi, perfusi, inchiavati e incoitati dedentro el grembo maternissimo della storia, vegnendo a formare un’unità mai prima de 'desso vista e cognossuta; un’unità impastata int una solissima tessitazione de volontà, de ardori, de amori, de 'bligazzioni, de statuti, de camare senatoriali e deputatoriali, de parrocchie, de ordini, de conventualità, de tutto questo et, in primis et in 'solutis, de carna, de ossa e de sangua.

E così via. Ancora: tra i vari procedimenti di espressionismo morfologico ce n’è uno che spicca sopra tutti gli altri, e che ha una frequenza altissima, sconosciuta a Ambleto e Macbetto: si tratta della coniazione di aggettivi suffissati in -ico (già D’Achille 2012, 368 ha opportunamente notato la predilezione testoriana per prefissati e suffissati abnormi, collegandone l’uso al “proposito di allontanarsi il più possibile dalle corrispondenti voci italiane”). Nelle prime due scene del Macbetto (Testori 2021, 133-154) si incontrano, tanto per dare un’idea, solo cervatico (136), radarichi (139) e boemico (150); nelle prime pagine dell’Edipus (829-836) ecco un vero fuoco di fila di gioviddica, rododendrico, cervico, aquilico, condorico, teatralica, tebanica, tebaica, estraterrica, primaverilico, sciresica, mandorlatica, etruschiche, cistercensichi, tonsilliche, portrattistica, acropolica, dentifricico, antiunitarico, magiostrica, aranciatica, civiliche, maialiche, antagesiche, tebaniche, tommasiche, leonardica, blattarico, operarichi (ma la serie è in realtà ben più nutrita, perché a essa appartengono a pieno titolo anche gli aggettivi in -ico uguali o vicini a quelli dell’italiano come istorica, angelichi, partitichi bis, endevedualistiche etc., oltre che gli aggettivi/sostantivi con suffisso sonorizzato come politiga, socialiga, clericaliga, metafisiga, patafisiga etc.). Una schedatura completa di questo solo tipo riunirebbe centinaia di addendi nel giro di poche decine di pagine, tanto che non sembra illegittimo parlare di una vera ossessione, una sorta di tic incontrollabile. Perché? Non lo so, ma noto che escono in -ico alcuni attributi-chiave alla base dell’intera tragedia, assenti o presenti che siano nel testo: edipico, politico, cattolico, pisichiatrico (o psicotico).

Particolare attenzione meritano infine certi effetti di cumulo o coalescenza pronominale, che portano all’eccesso procedimenti già dell’Ambleto (D’Onghia 2017, 179-180): nel passo di Laio citato mette sull’avviso (anche se si tratta a rigore di altra cosa) quel “sunt et est ego”, dove alla prima persona vengono riferite due voci verbali, una di sesta e una di terza (salvo il fatto che sunt è leggibile al limite anche come un dialettale sun ‘io sono’ con -t finale a mo’ di escrescenza, come quella di ot ‘oppure’, at ‘a’, seràt ‘sarà’: tutte forme esclusive dell’Edipus, che un po’ rifanno parodicamente il latino un po’, per analogia, i dialettali int e cont). Ma a spiccare sono i vari io me (840, 864), io me ego (841), io et ega (844, parla Iocasta), io essa me (845), il rintoccante te e tetego (845 ter, con cui Iocasta si riferisce, prendendone le distanze, a Laio), io et ego (854), me et ego (854 bis), sunt io et ego (860), ego me (860 bis), io ego, io me (869), io? me? mego? (869 bis). Insistenza patologica sull’io (e in parte sul tu) proprio in un testo che si svolge sotto la cappa di un unico risentito e a tratti delirante io, quello dello scarozzante superstite costretto a dar voce, come un istrione, a personaggi (a io) tanto diversi tra loro.

La lingua, d’accordo. Ma chi è Edipus? Che cosa significa questo testo, scritto e riscritto e ripensato a più riprese tra il 1973 degli abbozzi iniziali e il 1977 della stampa Rizzoli e della prima rappresentazione al Salone Pier Lombardo (con Franco Parenti nei panni del monologante)? La risposta più forte l’ha data Testori stesso, riferendosi a una redazione del dramma intitolata Edipo a Novate, in stato avanzato già a metà del 1974: “Edipo sono io. Novate è il paese dove abita la mia famiglia. Credo non ci sia altro da aggiungere” (Boccardo 2023, 1518; la frase viene da un’intervista di Donata Righetti apparsa su “Il Giorno” del 4 ottobre 1974). Di questo Edipo a Novate restano vari materiali, e l’attacco del più antico dattiloscritto è inequivocabile: “Ti revedo, paese del mio papà e della mia mamma. Ti revedo, Novate Milanese” (cito ancora da Boccardo 2023, 1518). Poi, dal 1975 almeno, l’idea di Edipo a Novate cade e si torna a una controfigura distopica della Tebe di Sofocle (per la verità nel testo finale non sarà raccontato neppure l’arrivo a Tebe: “saltiamo el viaggio in mezzo alla platea che sarisaresse in della figurazion trageca la Tebis unitariga; saltiamo el mio arrivo”, 850); il protagonista assume inoltre il nome latineggiante di Edipus e si fa avanti l’idea metateatrale dell’ultimo scarozzante sulla scena, che riallaccia il testo all’Ambleto (Boccardo 2023, 1519-1520). Certe immagini, certi materiali però resistono, come si vede anche dai preziosi brani messi a disposizione da Boccardo: per esempio nella scena iniziale del ritorno, poi cassata, Edipo rivede la Garbogera, il torrente che passa per Novate (Boccardo 2023, 1518):

Ti revedo Garbogera, fosso che mi parevi più grande della Senna e del Tamigi; ti revedo redotta a una latrina, senza più acqua, tutta impienita de bidoni, de watern, de scarpe, de reggiseni, de mutande e de calzette!

L’enumerazione – in cui si concentrano il disgusto per i rifiuti prodotti dalla moderna società industriale e il ribrezzo per certi essudati della vita intima (reggiseni, mutande) – è recuperata e potenziata nella pagina d’apertura dell’Edipus definitivo, dove gli stessi oggetti sono chiamati a comporre il miserevole sipario del teatro scarozzante (Testori 2023, 829):

E 'lora, derva, sù, derva 'sti strasci fatti domà de camise, de gipponini, de sottane, de calzette, de pezze, de reggitette, de mudande smangiate su tutte dai vermeni, dalle camole e dalle piattole de 'sta vagina de coiti e de morte che ha da essere e sarà in eternis la latrina teatralica!

Il guitto, rimasto solo sulla scena, rivive ogni sera la tragedia di Edipo-Edipus, e ogni sera rimima – triste, solitario y final – le truculente azioni del dramma. Edipus ha dunque già vissuto tutto e sa già tutto per definizione, e Testori taglia così di colpo il nodo gordiano della Umwissenheit dell’Edipo sofocleo (vedi la traduzione di Sofocle in Condello 2021, CXXXI-CXXXIV). Il suo Edipus agisce infatti non per caso o per fatalità, bensì lucidamente e per vendetta: sodomizza, evira e uccide il padre (ossia il mucchio di stracci che lo rappresenta); e quindi si accoppia violentemente con la madre (una vecchia pelliccia di volpe-renarda), facendosi un punto d’onore di farla godere davvero per la prima volta e di convertirla all’anarchia. Edipus si proclama creatura bacchica, adepto di Dioniso che è patrono “dei lunateghi, dei malinconighi, dei diseredati, dei deversifigati, dei reietti, dei degetti, dei oscurati de mente, dei maledetti dal Cristo e dal Marxo [...]” (854). La Tebe poliziesca su cui ha dominato suo padre Laio (Laio di Lissone) è in effetti il luogo del più cupo terrore e del più terrificante conformismo, nel quale si è consumata la saldatura tra potere secolare-politico e potere religioso, fusi in una irrespirabile “unità cristiga et socialiga” (846). Le variazioni sinonimiche e le trovate retoriche su questo aspetto sono numerose, perché toccano un nervo scoperto: “io sono contro l’unione delle due chiese, quella cattolica e quella marxista, che sarebbe la distruzione della libertà. Io sono senza partito, non ho una casa politica e non voglio averla. Mi piacciono i pittori, gli scrittori, gli artisti, ma non i cosiddetti intellettuali in senso generico. Amo quelli che cercano di capire, non quelli che sanno tutto [...]” (così Testori in una conversazione con Tino Dalla Valle nel 1977, a proposito dell’Edipus: Santini 1996, 68).

Una tragedia ‘della fine’ dunque, radicale e contestataria, che non potrebbe abitare altro decennio se non quello plumbeo che muove dalle illusioni del 1968 e sbocca nel sequestro Moro (da scrittore lombardo a scrittore lombardo, si dovrebbe tornare a leggere, su quella atroce primavera del ’78, In questo Stato di Alberto Arbasino). Il salto nell’utopia annunciato verso la fine del dramma (872-874) – quando tutti i tebani vengono invitati a uscire dalle loro case e a migrare “in del grando e leberissimo Colono” (874) – dura però poco più di un orgasmo; la sfida di Edipus contro la tetra uniformità della poliscùria (< polis + curia), e cioè della mostruosa società di massa, è messa a tacere da una sventagliata di mitragliatore. Lo scarozzante muore in scena subito dopo la madre amatissima, affidando a un sussurro la sua buonasira “per adesso et per sempris” (876). Finisce lo spettacolo (buonasira), chiude il teatro dei guitti di provincia (ma non si esaurisce il teatro in quanto tale); l’individuo Edipus è messo a tacere, ma “inlùdeti no d’aver vinciuto, Unifigazzione porca e ’sassina! La scala è longhissima, ma là, in la cima, ce stiamo noi, no te; noi, quelli che han da perdere e crepare perché ce sia sempre quarcheduno che poda vencerti e destruggerti!” (876). Il testo si situa per altro al culmine di un decennio memorabile anche quanto a ri-creazioni e riflessioni su Edipo: nel 1967 l’Edipo re di Pier Paolo Pasolini con Franco Citti (Pasolini 1967); nel 1968 la stupenda Serata a Colono di Elsa Morante, i cui legami con l’Edipus di Testori andrebbero indagati (Morante [1968] 2013); nel 1972 un libro straordinario che chissà se Testori aveva visto (ma è ben possibile), ossia La Violence et le sacré di René Girard, quasi tutto imperniato su Edipo (Girard [1972] 1980).

Ma la sorte ha voluto che Edipus assumesse la sua forma definitiva al displuvio di due avvenimenti diversamente decisivi. A valle c’è un fatto privato cruciale: il 20 luglio 1977 muore l’adorata madre di Testori, Lina (Frangi 2023, LXXXVII). Gianni-Edipus è rimasto davvero senza la sua “carissima mamma” (così scrivendone a Piero Ottone il primo settembre di quell’anno: Frangi 2023, LXXXVII; inizia da qui un percorso di riavvicinamento alla fede, si apre una fase della parabola creativa testoriana segnata da una discontinuità forte, subito visibile nella Conversazione con la morte del 1978 (Testori 2023, 899-954; vedi anche Doninelli 2018, 41-43). A monte, invece, sta un avvenimento pubblico che segna anche una cesura nella storia italiana: l’assassinio di Pasolini la notte del 2 novembre 1975, a Ostia. Ebbene, leggendo e rileggendo Edipus non si può non pensare questo: il protagonista di quella tragedia – pubblicata in veste definitiva nella primavera del ’77 – è (anche) Pier Paolo Pasolini. Lo è diventato per un crudele caso della storia, fatalmente, dopo il novembre del ’75. Chi è l’implacabile accusatore della società dei consumi, l’oppositore solitario ed ebbro della Unifigazzione se non (anche) Pasolini? Chi l’esiliato tanto dalla chiesa di Cristo quanto da quella di Marx? Esiste in quegli anni una figura pubblica più esposta di lui, ed egualmente segnata da uno spettacolare ‘edipismo’ (ribellione al principio paterno, inestricabile legame con la madre, fervore dionisiaco coi ragazzi di vita)? Si dà forse una contestazione più violentemente e misteriosamente spenta di quella condotta da Pasolini? E del resto il suo Edipo re, nel 1967, si concludeva in una Bologna resa irriconoscibile dal boom, “dentro un chiassoso e soddisfatto mondo di automi” (Fofi 2022, 157), proprio come il primo Edipo di Testori, nel 1973, si apriva con il ritorno in una altrettanto irriconoscibile Novate. Scrivendo della morte di Pasolini il 9 novembre 1975 – un pezzo bellissimo che il “Meridiano” magnificamente pensato da Giovanni Agosti sistema subito prima di Edipus (Testori 2023, 823-825) – Testori ha, verso la fine, una frase che calzerebbe a pennello anche al suo Edipus: “Così chi ha voluto veramente e totalmente la vita può trovarsi più presto degli altri dentro le mani stesse della morte che ne farà strazio e ludibrio” (824-825). Non si potrebbe dire meglio.

Grazie a Piermario Vescovo che mi ha aspettato (e aspettandomi mi ha incoraggiato).

Riferimenti bibliografici
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    Edipo re, un film di P. P. Pasolini, con S. Mangano, F. Citti, A. Valli, C. Bene, J. Beck, L. Bartoli, P.P. Pasolini, L. Betti, N. Davoli, A. Belhachmi, prodotto da A. Bini per Arco Film, Roma 1967.
English abstract

This article delves into the theatrical text Edipus by Giovanni Testori, shedding light on the linguistic and stylistic intricacies that characterize the work. Emphasis is placed on the frequent use of neologisms and wordplay, with particular attention to adjectives suffixed with -ico. The character of Edipus is examined as a dystopian counter-figure linked to Testori's personal experience. The author explores the relationship between Testori's text and the socio-political context of the time, referencing events such as the '68 protests and the Aldo Moro kidnapping. Additionally, the article highlights the connection between Edipus and the figure of Pier Paolo Pasolini, underscoring similarities in themes and the fate of the two authors.

keywords | Theater of the 20th century; Giovanni Testori; Edipus; Linguistic analysis.

La Redazione di Engramma è grata ai colleghi – amici e studiosi – che, seguendo la procedura peer review a doppio cieco, hanno sottoposto a lettura, revisione e giudizio questo saggio.
(v. Albo dei referee di Engramma)

The Editorial Board of Engramma is grateful to the colleagues – friends and scholars – who have double-blind peer reviewed this essay.
(cf. Albo dei referee di Engramma)

Per citare questo articolo / To cite this article: L. D’Onghia, Lettera luterana su Edipus, “La Rivista di Engramma” n. 208, gennaio 2024, pp. 55-63 | PDF

doi: https://doi.org/10.25432/1826-901X/2024.208.0004