"La Rivista di Engramma (open access)" ISSN 1826-901X

223 | aprile 2025

97888948401

Il rebus del godimento perduto

L’enigma oggettuale di Venus im Pelz

Massimo Stella

English abstract

Wommen desiren to have sovereynetee
As wel over hir housbond as hir love,
And for to been in maistrie hym above.
(Women desire to have sovereignty/ As well over her husband as her love,/ And to be in mastery above him).
Geoffrey Chaucer, The Wife of Bath’s Tale

Invidiai il povero trovatore che la sua capricciosa signora obbligò a rivestirsi di una pelle di lupo
per potergli dare la caccia come a una fiera. […] “Incredibile!” gridò Wanda.
“Vorrei augurarle di cadere tra le grinfie di una donna di questa razza selvaggia,
e le passerebbe ogni poesia, dentro una pelle di lupo, sotto i denti dei mastini o sulla ruota”.
Leopold von Sacher-Masoch, Venere in pelliccia

La frusta di Platone, vista d’altrove. Tra Fedro e Simposio

1 | Lou von Salomè, Friedrich Nietzsche e Paul Rée nel 1882. Fotografia di Paul Bonnet, Lucerna.

Il vero amante – ovvero il folle d’amore – vive il desiderio, e accede, se mai e quando vi accede, al godimento, attraverso il dolore. Così Platone nel Fedro e nel Simposio.

L’indimenticabile eikon del Fedro, che raffigura l’anima dell’erastes come un cocchio a due cavalli – uno nero ed uno bianco – guidato da un auriga, ci racconta le terribili odynai del corsiero nero frustato e pungolato a sangue nel tentativo del pilota di contenerne e dominarne l’indominabile e incontenibile sete di godimento – l’animale, infatti, pur di soddisfare i suoi irrefrenabili calori, è pronto a sfidare la sofferenza fino al limite estremo della morte; mentre il cavallo candido, lui, pieno com’è, da un lato, di reverenziale timore per l’amato idolo, nonché, dall’altro, di soggezione assoluta alla severità dell’auriga, appare come il docile succube coartato da un inflessibile (l’auriga) e inarrivabile se non divino (l’amato) padrone (Fedro, 253d-256a). Mi sono sempre chiesto se la celebre fotografia scattata nel 1882 che ritrae Lou Salomé, frusta alla mano, sulla cassa di una charrette e Friedrich Nietzsche e Paul Rée alla stanga, quasi sostituissero i due cavalli da tiro, abbia preso umoristica ispirazione dal celebre passo platonico.

Il mito di Aristofane, poi, ci narra di quella ferita originaria da cui l’amante è generato: è il doloroso, luttuoso taglio in due metà che Zeus infligge agli umani sferici dei primordi. Da quella ferita fiotta e scorre l’inestinguibile sofferenza per la metà perduta che spinge le creature dimidiate a lasciarsi morire d’inedia, non fosse per lo stratagemma del sesso che Zeus escogita onde evitare l’estinzione totale dell’anthropinon genos. Si dà il caso, però, che i genitali vengano sovraimpressi alla ferita, come a dire che il luogo del godimento è quello stesso del dolore e della mancanza originarie. Si gode, qualora si goda, là dove si soffre e non altrove. Ma la stessa compenetrazione dei corpi, che nel e con il sesso avviene, è del tutto illusoria, non tanto perché essa altro non è se non un’apparente compensazione, quanto piuttosto perché quel desiderio della fusione totale con la metà desiderata adombra la pulsione a estinguersi in un fantasmatico intero primevo… ed è la pulsione di morte (Simposio, 189e-193d).

Precedendo di qualche decennio Freud, e di meno d’un secolo Lacan, Leopold von Sacher-Masoch – autore, tra altre ben più note opere, d’un racconto epistolare intitolato Die Liebe des Plato – riconobbe nella rappresentazione platonica dell’eros una testimonianza esperienziale: in altri termini, agli occhi di von Sacher-Masoch, l’amore-dolore sub specie Platonis attesta la struttura psichica fondamentale dell’eros. Tale esperienza dell’amore-dolore – il ferimento-taglio, la frusta, l’assoggettamento, il terrore sacro per l’amato idolo, la nostalgia per il bene perduto – von Sacher-Masoch la chiamava, ricorrendo ad un conio goethiano, Übersinnlichkeit; noi e la psicoanalisi – la quale ci insegna, dopo Freud, che la perversione è la sola possibile modalità di ingresso nella sessualità – la chiamiamo ‘masochismo’. Nella teoria lacaniana il masochismo è, anzi, la forma per eccellenza della perversione e dunque la forma per eccellenza che ci consente d’avvicinarci a uno dei più grandi enigmi dello psichico umano: l’enigma del godimento. Che cos’è il godimento? In che relazione sta il godere con il desiderio ovvero con la mancanza costitutiva, che è ribadita dalla funzione significante e cioè dal linguaggio?

“Perverso è colui che si dedica a tappare il buco dell’Altro”, sentenzia Lacan nel Seminario XVI (Lacan [1968-1969] 2019). In altri termini:

Il masochista interroga la completezza e il rigore della separazione tra il godimento e il corpo e la sostiene come tale […]. L’atto perverso si pone a livello dell’interrogazione sul godimento (Lacan [1966-1967] 2024).

E ancora, nel Seminario XIV:

Il tentativo della perversione è di ricongiungere il godimento e il corpo, separati dall’intervento significante.  […] Il godimento che il perverso ritrova, dove lo ritroverà? Non lo ritroverà nella totalità del suo corpo, il cui godimento per quanto sia perfettamente adeguato e forse esigibile, fa nondimeno problema quando si tratta dell’atto sessuale. […] Ora, esistono degli oggetti che, nel corpo, si definiscono per essere in qualche modo, rispetto al principio di piacere, fuori corpo. Sono gli oggetti a. Ebbene è lì che l’uomo, soprattutto lui […], ritroverà il godimento perduto (Lacan [1966-1967] 2024, 353-54).

La Forma-rebus

Il godimento perduto – quello che gli umani aristofanei dei primordi tagliati in due metà anelano restaurare attraverso la fusione oceanica con l’altro – si è rifugiato  negli “oggetti a”, negli oggetti sostitutivi ossia nei feticci. Ma i feticci – come la pelliccia e la frusta – sono un’attrezzeria scenica e rituale, così come è puro teatro-rito il gioco del partenariato sessuale tra vittima e carnefice, perché il godimento di cui il perverso, il masochista ovvero l’Amante ricerca è il godimento assoluto il quale, ribadisce ancora Lacan, è “completamente enigmatico” (Lacan [1966-1967] 2024) 358).

Il perverso, il masochista, è dunque un interrogante e, se così posso dire, un ‘trafficante in enigmi’ che si trova ognora, come direbbe Roland Barthes, en situation prophétique (Barthes 1966, 37), al pari di colui che consulta l’oracolo di Apollo. Sicché, lo scenario della sua inchiesta si presenta al modo di un rebus. La forma-rebus, affermava Freud, tra il capitolo VI dell’Interpretazione dei sogni (Freud [1900] 1978) e il celebre saggio del 1907 Il poeta e il fantasticare (Freud [1907] 1976), è quella stessa della lingua onirica e quindi dell’inconscio, ma anche della Dichtung, della creazione poetica, perché der Dichter und der Träumer compiono lo stesso lavoro.

È dunque nella forma-rebus che si cristallizza il movimento significante di Venus im Pelz?

Nella pelle dell’Asino ovvero l’autoderisione dell’iniziato. L’Arte, il ridicolo e la Cosa

Nel dialogo iniziale di Venus im Pelz tra il co-protagonista, l’amico anonimo nonché narratore, e il protagonista Severin, risuona una parola cruciale: Erfahrung(en). L’attenzione dell’anonimo amico è stata magnetizzata dal soggetto assai singolare raffigurato in un quadro che campeggia nello studiolo faustiano di Severin: una signora in pelliccia che, frusta alla mano, calca il piede sulla testa d’un giovane semi-prostrato a terra. Quel quadro, avverte Severin, non è (solo) un objet d’art.  È piuttosto una scena di vita vissuta, un ‘pezzo’ d’esperienza vivente: “io sono stato frustato!” (“ich bin im Ernste gepeitscht worden”) – esclama Severin (von Sacher-Masoch [1870 e 1878] 2017, 20). Il giovane del dipinto, insomma, è lui stesso; e ciò a dire che l’arte tutta, quando di vera arte si tratti, è restituzione di un’esperienza. Allo stesso modo ne va della scrittura e della creazione poetica: diremo anzi che il quadro, nella finzione di Venus im Pelz, è metonimia della scrittura – esattamente come accadrà in The Picture of Dorian Gray di Oscar Wilde.

L’esperienza ferisce e lascia cicatrici indelebili, pronte di riaprirsi quando la scrittura le risveglia.

– Prima mi hai chiesto di quel quadro. È da tempo che ti devo una spiegazione. Ecco… leggi. […] Presi il manoscritto e lessi: Ho raccolto queste pagine dal mio diario di allora, poiché non si può mai rievocare imparzialmente il proprio passato, ma così tutto conserva il suo fresco colore, il colore del presente. Gogol’, il Molière russo, dice – sì, ma dove? –  beh, da qualche parte l’avrà detto – che “la vera musa comica è quella sotto la cui maschera ridente grondano lacrime”. Meraviglioso aforisma! È proprio la sensazione che provo a buttar giù queste pagine. L’aria mi sembra pervasa da un inebriante profumo di fiori, che mi stordisce e mi dà il mal di testa; il fumo si snoda in ghirlande uscendo dal caminetto e poi si condensa e vedo figure davanti a me: sono piccoli coboldi dalla barba grigia, che mi segnano a dito con aria di scherno; amorini paffuti stanno a cavalcioni sui braccioli della mia poltrona e sulle mie ginocchia, e io sono costretto a sorridere contro voglia, anzi a ridere forte, mentre trascrivo la mia avventura. E non uso il normale inchiostro, ma il sangue rosso che stilla dal mio cuore, poiché tutte le sue ferite da tempo cicatrizzate si sono riaperte ed esso palpita e duole, e di quando in quando una lacrima cade sul foglio (von Sacher-Masoch [1870 e 1878] 2017, 20-21).

La storia di Severin è scriptura rubra. Scrittura vergata col sangue. Perché la scrittura torna a far sanguinare le ferite cicatrizzate: le ripercorre e vi scorre come un secondo sangue. Frustate e scrittura sono metafora l’una dell’altra. Nell’immaginario mistico, devozionale e penitenziale, gesuitico in particolare, la scrittura di sangue è immagine derivata dall’essudazione di sangue che il Cristo Uomo, colto dal terrore per il sacrificio imminente, visse, durante la disperata preghiera al Padre, nell’orto del Getsemani, come Luca 22, 44 racconta. Ma della filigrana cristica che percorre Venus im Pelz torneremo a parlare più oltre.

Il manoscritto vergato col sangue contiene dunque l’esperienza di Severin, e si tratta di una storia strutturalmente comica, come è subito sottolineato nel prologo del racconto. L’amore è un sentimento comico – diceva Lacan nel Seminario VIII (Lacan [1960-1961] 2008). Sulla scena di Venus im Pelz il comico è incarnato dalla figura dell’Asino: Severin si attribuisce la pelle dell’Asino, ripetutamente. Non ho dubbi che von Sacher-Masoch abbia qui in mente il Lucio-Asino delle Metamorfosi di Apuleio e il Bottom-Testa-d’asino di A Midsummer Night’s Dream, che dalle Metamorfosi apuleiane molto attinse. D’altra parte, Wanda-Venere è chiamata espressamente Titania dal protagonista: “Il guaio è che la nostra Titania si è accorta ben presto delle nostre lunghe orecchie” (von Sacher-Masoch [1870 e 1878] 2017, 121).

2 | Johann Heinrich Füssli, Titania e Bottom, 1790 ca., olio su tela, London, Tate Britain.

È dunque in forma asinina che Severin fa il primo incontro con Wanda-Venere, nel dubbio perturbante – lampante la memoria della Vénus d’Ille di Mérimée –  se sia statua o donna in pelliccia, nel parco della villa sui Carpazi, inondato di luce lunare isiaca: “vidi nella donna Iside, e nell’uomo il suo sacerdote, il suo schiavo” (von Sacher-Masoch [1870 e 1878] 2017, 30; c.vo dell’autore).

La statua di Venere si erge luminosa, sublime. Ma… cosa vedo? Sulle spalle marmoree della dea, fluente e morbida, una grande pelliccia scura che le scende fino ai piedi. Rimango a fissarla, stupito, immobile, poi s’impadronisce nuovamente di me quell’indescrivibile angoscia, e mi do alla fuga. Accelero sempre più il passo, ma a un tratto mi accorgo di aver sbagliato vialetto e sto per piegare in una delle verdi gallerie laterali, quand’ecco, su una panchina di pietra, Venere, la bella donna di marmo, no, la vera Dea dell’Amore, calda e palpitante, davanti a me. Sì, si è animata per me, come quella statua che cominciò a respirare per il suo creatore; certo, il miracolo è compiuto solo a metà. I suoi candidi capelli sembrano ancora di marmo e la candida veste ha i riflessi della luna, o è il raso?, e dalle sue spalle scende fluente la pelliccia scura – ma le labbra sono già rosse e le guance van prendendo colore, e dardi verdi, diabolici, lampeggiano dai suoi occhi. Sta ridendo. La sua risata è così strana, così… ma no, è indescrivibile, è qualcosa che toglie il respiro; riprendo la fuga e dopo pochi passi devo fermarmi per prender fiato, e quella risata di scherno mi perseguita lungo le cupe gallerie frondose, mi insegue sui prati lucenti, fin dentro il folto degli alberi, dove i raggi della luna giungono appena; non riesco più a ritrovare la strada, mi aggiro sperduto, gocce gelide mi imperlano la fronte. Finalmente mi fermo e recito fra me e me un rapido monologo.
– L’uomo in certe occasioni, mi dico, non trova mai una giusta via di mezzo.
Poi dico a me stesso:
– “Asino!”
E questa parola, quasi fosse una formula magica, ha un effetto sensazionale: scioglie l’incanto e mi fa tornare in me.
Sono di nuovo calmo. Soddisfatto, ripeto a me stesso:
– “Asino!”.
Ora tutto è di nuovo chiaro intorno a me: la fontana, il vialetto bordato di bosso, la casa, verso la quale mi dirigo lentamente. Ma ecco – ancora una volta all’improvviso – in mezzo alle pareti di vegetazione, intrise di chiaro di luna e come trapunte d’argento, ecco la bianca figura, la bella donna di marmo, che adoro, di cui ho paura, dinanzi dalla quale fuggo. Altri pochi passi e sono in casa; riprendo fiato e comincio a riflettere:
– Bene, e ora che cosa sono, un piccolo dilettante o un grande asino? (von Sacher-Masoch [1870 e 1878] 2017, 26-27).

Severin non poteva incontrare la Dea – ora Wanda-Venere ora Luna-Titania ora Luna-Iside – che nella pelle dell’Asino, come Lucio incontra Iside nelle Metamorfosi e Bottom Titania in A Midsummer Night’s Dream. Il travestimento asinino è dichiaratamente rituale e iniziatico ovvero vittimario: se l’Asino è, infatti, l’animale dell’eccesso fallico in tutta la tradizione antica e a seguire, tale eccesso, ben lungi dall’essere una celebrazione della potenza maschile, è, affatto diversamente, il marchio dell’elezione a vittima sacrificale. La pelle dell’animale ridicolo e osceno è il manto protettivo che consente all’iniziato di accostarsi all’indicibile e all’innominabile: il derisorio, to geleion direbbe il greco, il comico che circonfonde la scena, è il segno e il sintomo che c’è trasgressione del tabù, che c’è violazione del Mistero, che c’è effrazione nel campo della Cosa, nel campo del Godimento. È fatale, allora, che chi ha trasgredito meriti la frusta ed effonda il suo sangue fino al limite della morte.

Il comico apre però un altro orizzonte: quello della salvezza. Che accadrà al trasgressore, una volta che egli si è addentrato nel proibito? Nella declinazione tragica non può che attenderlo la morte. Ma non una qualsiasi morte, evidentemente. Deve anzi trattarsi di una morte epocale, una morte che porti a morte il senso stesso del sacrificio. Se il sacrificio, nel suo fondamento religioso primario, è il rito attraverso cui l’homo necans (il cacciatore) si auto-assolve dal crimine dell’uccisione (Burkert [1972] 1981; Calasso 2018) e allontana da sé il destino di morte che lui stesso ha compiuto sulla vittima, ebbene, la morte di colui che si è contaminato con il mistero del godimento non può aprire a vie di fuga, non può, non deve schiudere alcuna possibilità e illusione di redenzione. E, se il sacrificio di Cristo, l’Agnus dei qui tollit peccata mundi, è, in ordine di tempo, l’ultima rielaborazione del paradigma sacrificale prodotto dalla cultura alto-paleolitica della caccia; se il sacrificio di Cristo è il tentativo più scoperto e più audace di redimere la legge della morte che stringe nella sua morsa tutto il vivente, ebbene, la morte del masochista deve annullare quel sacrificio, il sacrificio di Cristo. Ciò avverrà sulla scena di Die Gottesmutter, la Madre di Dio (1883), il cui protagonista viene crocifisso, appunto, come Cristo, ma non nella veste di vittima redentrice, di animale divino, bensì di quel povero e fragile animale inutile che l’uomo è al di là di ogni illusione. Non a caso, Die Gottesmutter è il romanzo che chiude, ponendo a tema la Morte, il progetto del ciclo narrativo Das Vermächtnis Kains che Venus im Pelz inaugura nel segno dell’Amore.

L’Asino-Amante, invece, si salva. Ma come si salva?

Sappiamo che il finale di Venere in pelliccia favoleggia di una guarigione: “E mi dissi che la cura era stata crudele ma radicale e che sono guarito, questo è l’importante” (von Sacher-Masoch [1870 e 1878] 2017, 143) – così conclude Severin il racconto del manoscritto. Wanda stessa, nell’ultima lettera inviata a Severin, afferma:

Dal momento in cui capii che non sarebbe potuto diventar mio sposo, mi decisi a fare di Lei il mio schiavo, trovai eccitante realizzare il Suo ideale e forse in tal modo, divertendomi, guarirLa. […] Spero che la mia frusta L’abbia risanata; la cura fu crudele ma radicale (von Sacher-Masoch [1870 e 1878] 2017, 143).

3 | Gradiva, copia del rilievo vaticano, acquistata da Sigmund Freud nel 1908, London, Freud Museum.

Viene in mente la Gradiva di Jensen: Gradiva-Zoe che guarisce Norbert Hanold dalla sua agalmatofilia, accettando di abitarne il delirio e così guidandolo fuori dall’ossessione. Freud rimase folgorato, come è noto, dalla novella di Jensen, cui dedicò un cospicuo e fondamentale saggio (Freud [1906] 1976); folgorato soprattutto dal fatto che Gradiva-Zoe sembrava a tutti gli effetti abitare la posizione dello psicoanalista nella relazione clinica con il paziente.

Ma, quanto a Wanda-Venere, occupa forse, lei, la posizione dello psicoanalista rispetto a Severin? E Severin è davvero liberato, al termine della relazione con Wanda, dalla propria perversione? ‘Guarigione’ appare essere, piuttosto, una parola di copertura per evocare la fuga, la fuga di fronte alla Cosa del Godimento, l’arretramento di fronte alla distruzione.

La forma che tale arretramento prende è l’Arte: la pittura, ossia, per metonimia, la scrittura.

La vera barriera che ferma il soggetto davanti al campo innominabile del desiderio radicale in quanto è il campo della distruzione assoluta, della distruzione al di là della putrefazione, è precisamente il fenomeno estetico in quanto è identificabile con l’esperienza del bello – il bello nel suo fulgore, quel bello di cui si è detto che è lo splendore del vero. È evidentemente per il fatto che il vero non è tanto grazioso da vedere che il bello ne è, se non lo splendore, la copertura. […] Il bello ci arresta, ma ci indica anche in quale direzione si trova il campo della distruzione (Lacan [1959-1960] 2008, 255-56).

Che cosa resta, infatti, a Severin della sua relazione con Wanda? Il quadro, quel quadro che sta appeso là nello studiolo faustiano del protagonista. È Wanda a inviarglielo come souvenir e memento, accompagnandolo con la sua ultima lettera:

In ricordo di quei tempi e di una donna che Lei ha amato appassionatamente Le dono il mio ritratto dipinto dal povero tedesco (von Sacher-Masoch [1870 e 1878] 2017, 143).

Il pittore tedesco non ha però dipinto solo un “ritratto” di Wanda: ha piuttosto raccontato un accadimento per immagini, accadimento i cui protagonisti sono Wanda, Severin nelle vesti di Gregor servo-schiavo di Wanda e il pittore stesso …

Questo quadro non sarà soltanto un ritratto, ma narrerà anche una storia, come tanti altri della scuola veneziana (von Sacher-Masoch [1870 e 1878] 2017, 122).

Così dichiara l’anonimo pittore, esponendo a Wanda, per così dire, i suoi propositi poetici. E la scena dell’esecuzione del quadro diventa allora il teatro di un rito al contempo spiato e partecipato. Assistiamovi anche noi:

Il giovane pittore ha sistemato nella villa il suo atelier. Wanda lo ha completamente irretito. E lui ha incominciato a dipingere una Madonna, una Madonna dai capelli rossi e dagli occhi verdi! Solo l’idealismo di un tedesco può ricavare un’immagine della verginità da questa donna di razza. Il povero giovane è un asino quasi più grande di me. Il guaio è che la nostra Titania si è accorta ben presto delle nostre lunghe orecchie. Ora se la ride di noi, e forte! Sento la sua risata melodiosa e spavalda nello studio del pittore mentre io, roso dalla gelosia, rimango a spiare sotto la finestra aperta.
“Ma lei è pazzo! Io… io come Madre di Dio! Da non credere!” la sentii dire. Ancora una risata. “Aspetti un momento e le mostrerò un altro quadro, un quadro che ho dipinto io stessa. Lei me lo deve copiare”.
Apparve alla finestra la sua testa, fiammeggiante nella luce del sole.
“Gregor!”
La raggiunsi nell’atelier correndo su per le scale e attraversando la galleria.
“Conducilo nella sala da bagno” mi ordinò Wanda, uscendo in fretta dalla stanza.
Entrammo nella rotonda e io chiusi la porta dall’interno. Dopo pochi istanti lei scese le scale, con indosso solo la pelliccia di zibellino, la frusta in mano, e come la volta precedente si adagiò sui cuscini di velluto, calò un piede su di me, prosternato davanti a lei, mentre la sua mano destra giocherellava con la frusta. “Guardami” mi disse “con quel tuo sguardo profondo, fanatico… così, così va bene”.
Il pittore si era fatto pallidissimo, divorava la scena con i suoi begli occhi azzurri e sognanti, le sue labbra si aprirono, ma non ne uscì alcun suono.
“Bene, le piace il quadro?”
“Sì… la dipingerò così” disse il tedesco, ma più che di parole articolate si trattava di un mugolio, del pianto di un’anima malata, vicina a morire. Il disegno a carboncino è finito, le parti essenziali, la testa, hanno ricevuto il colore di fondo, il suo viso diabolico ha preso forma in pochi tratti audaci e la vita lampeggia dai suoi occhi verdi. Wanda è davanti alla tela, le braccia incrociate sul petto.
“Questo quadro non sarà solo un ritratto, ma narrerà anche una storia, come tanti altri della scuola veneziana” le spiega il pittore, pallido come un morto.
“E che nome gli darà?” chiese lei. “Ma che cos’ha, è malato?”
“Temo…” rispose lui, lanciando uno sguardo ardente alla bella donna in pelliccia “ma parliamo del quadro”.
“Sì, parliamo del quadro”.
“Penso alla Dea dell’Amore che è scesa dall’Olimpo per un mortale e che, tremando di freddo nel nostro mondo moderno, cerca di riscaldarsi avvolgendo il corpo sublime in una pesante pelliccia e ponendo i piedi in grembo al suo amante; penso al favorito di una bella despota che frusta lo schiavo quando è stanca di baciarlo, e lui l’ama tanto più follemente quanto più lei lo calpesta. E dunque chiamerò il quadro Venere in pelliccia”.
Il pittore dipinge lentamente, ma tanto più rapidamente s’impadronisce di lui la passione. Ho paura che finirà per togliersi la vita. Lei ci scherza, gli propone degli enigmi che lui non sa risolvere, e si sente ribollire il sangue, mentre lei si diverte. Durante la seduta di posa lei succhia caramelle, fa palline con gli involucri di carta e lo bersaglia.
“Sono lieto che lei sia così di buon umore, graziosa signora”, dice il pittore “ma il suo volto ha perso quell’espressione di cui ho bisogno per il quadro”.
“Ah, quell’espressione di cui ha bisogno per il quadro…” risponde lei sorridendo. “Abbia pazienza solo un momento”.
Si alza e mi infligge una frustata; il pittore la fissa con gli occhi sbarrati, uno stupore infantile, un misto di orrore e di ammirazione gli si dipinge sul volto. Mentre mi frusta, il viso di Wanda assume, ogni istante più intenso, quel piglio crudele e sprezzante che tanto mi inebria.
“È questa l’espressione che le serve per il suo quadro?” grida. Di fronte al raggio gelido del suo sguardo il pittore abbassa gli occhi, turbato.
“Sì, è questa…” balbetta “ma non posso dipingere ora…”
“E perché mai?” chiede Wanda in tono di scherno. “La posso forse aiutare?”
“Sì…” urla il tedesco, come impazzito: “frusti anche me”.
“Oh, con piacere!” risponde lei con un’alzata di spalle. “Ma guardi che faccio sul serio”.
“Mi frusti a morte” dice il pittore.
“Si farebbe legare?” chiede lei con un sorriso.
“Sì…” geme lui.
Wanda uscì un momento e ritornò con le corde.
“Dunque, lei osa darsi in balìa a Venere in pelliccia, la bella despota, a sua completa discrezione?” cominciò a dire in tono di scherno.
“Mi leghi” rispose il pittore con voce strozzata. Wanda gli legò le mani dietro la schiena, gli fece scorrere una corda fra le braccia e una attorno al corpo e lo assicurò alla sbarra della finestra, poi aprì la pelliccia, afferrò la frusta e gli si parò davanti. Quella scena esercitava su di me un fascino spaventoso, che non saprei descrivere. Mi batteva forte il cuore mentre lei si preparava, ridendo, ad assestare il primo colpo facendo sibilare la frusta in aria, e lui ebbe un lieve sussulto. Poi prese a sferzarlo brutalmente, la bocca socchiusa e i denti che lampeggiavano tra le labbra rosse, e lui sembrava implorare grazia con i suoi toccanti occhi azzurri… ah, è qualcosa di indescrivibile. Ora sono soli. Lei posa e lui sta lavorando alla testa. Wanda mi ha ordinato di stare dietro alla pesante tenda della porta, da dove vedo tutto senza esser veduto. Lei che cos’ha, ora? Ha forse paura di lui? lo ha fatto impazzire abbastanza, o è destinato a diventare un nuovo strumento di tortura per me? Mi tremano le ginocchia. Stanno chiacchierando. Lui parla a voce così bassa che non afferro una parola, e lei risponde nello stesso tono. Che cosa significa tutto questo? C’è forse tra loro un’intesa? Soffro spaventosamente, il cuore mi si sta per schiantare. Adesso è in ginocchio davanti a lei, l’abbraccia e le preme la testa contro il petto, e lei, crudele, ride, e la sento esclamare forte:
“Ah! qui ci vuole ancora un po’ di frusta”.
“Donna! dea! Non hai dunque un cuore, non sei capace di amare?” chiede il tedesco. “Non sai cosa significhi struggersi di passione, di bramosia, non riesci a immaginare quanto soffro? Non hai pietà di me?”
“No!” risponde lei, superba e sprezzante. “La frusta!”
La estrae fulminea dalla pelliccia e lo colpisce sul viso col manico. Lui si alza e indietreggia di qualche passo.
“Ora ce la fa a ricominciare a dipingere?” gli chiede, indifferente. Lui non risponde, ma torna al cavalletto e riprende pennello e tavolozza. Riuscita meravigliosa! È un ritratto molto somigliante e al tempo stesso idealizzato, tanto ardenti, soprannaturali, direi quasi diabolici, sono i colori. Il pittore ha trasfuso nel quadro tutti i suoi tormenti, la sua adorazione e la sua maledizione. Ora ritrae me. Ogni giorno restiamo soli alcune ore. Oggi si volge a un tratto verso di me e mi dice, con la sua voce vibrante:
“Lei ama quella donna?”
“Sì”.
“Anch’io l’amo”, I suoi occhi erano pieni di lacrime. Rimase per un poco in silenzio, seguitando a dipingere.
 “Da noi in Germania abita nel cuore di una montagna”, mormorò poi fra sé “è una diavolessa”.
Il quadro è terminato. Lei voleva ricompensarlo con la generosità di una regina.
“Oh! lei mi ha già pagato” disse, rifiutando ogni compenso, con un sorriso doloroso. Prima di andarsene aprì la sua cartella con aria di mistero e mi fece vedere qualcosa che mi diede i brividi. La testa di lei, viva come se fosse riflessa in uno specchio, mi guardava.
“Questa la porto con me”, disse “è mia, e non può portarmela via, mi è costata abbastanza cara” (von Sacher-Masoch [1870 e 1878] 2017, 121-125).

Anche noi abbiamo spiato, da sotto il davanzale della finestra e da dietro la pesante tenda, insieme all’Asino-Severin-Gregor, l’Asino-servo, doppio dell’Asino-Lucio che ha assistito, nella pelle dell’animale, al racconto della favola di Amore e Psiche – racconto, quello di Amore e Psiche, che inscena un’iniziazione attraverso il sesso e il dolore, proprio come accade in Venere in pelliccia. Il teatro dell’inchiesta perversa sul mistero del Godimento non può che essere, necessariamente, spiato: tornano in mente, a segnare l’inizio e la fine della Recherche, i due peep-shows di Montjouvain (là dove un Marcel fanciullo si trova involontario testimone del teatro-rito masochista organizzato da M.lle de Vinteuil e goduto con la sua amante) e della stanza 43 nel bordello per uomini di Jupien (dove un Marcel adulto volontariamente si sporge a guardare da un vasistas la scena della fustigazione a sangue di Charlus).

Spiare: lo spiare è un guardare ovvero un vedere-con-desiderio, sguardo-che-sottrae, sguardo-che-ruba. C’è sottrazione dalla scena dell’Altro d’un frammento di godimento (un frammento del fantasmatico godimento perduto), sottrazione che viene portata a compimento attraverso una complessa semiotica reggentesi su un doppio movimento: Severin-Gregor, che è parte del ‘quadro’ come oggetto-della-frusta di Wanda (facendo così corpo con quell’ ‘oggetto a’ in cui egli si figura si sia rifugiato il godimento introvabile), ne esce come riguardante esterno, testimone-fuori-quadro, onde perpetrare ‘il furto’ agognato; mentre il pittore, lui, che non fa parte del quadro e costituisce l’osservatore hors-scène, vi entra, si offre di entrarvi a rischio della morte – “Mi frusti a morte”, chiede a Wanda – prendendo il posto di Gregor-Severin come oggetto-dello-scudiscio. Il testimone fuoriuscito gode del dolore-godere dell’altro che è stato risucchiato dalla scena, ma anche questi sottrae, poi, a sua volta, il proprio ‘oggetto a’, la propria spoglia sostitutiva, il proprio feticcio, la testa di Wanda-Venere “viva come se fosse riflessa in uno specchio”, l’esquisse del suo volto abbozzata a carboncino durante le séances dell’esecuzione. Movimento semiotico che sbocca in due esiti: il primo – l’opera d’arte come processo è vera, perché trascina al proprio interno chi la guarda, perché è abitata, perché è infestata, perché è vissuta, perché è, come già prima si diceva, esperienza – è il tema ‘Dorian Gray’; il secondo – l’opera d’arte come objet non è che residuo, essa stessa feticcio, e l’artista è ridotto a copiatore: “le mostrerò un altro quadro, un quadro che ho dipinto io stessa. Lei me lo deve copiare”.

L’effetto generale è derisorio, comico. Cionondimeno, proprio grazie a questo resto degradato che è l’arte come objet-jouet, il movimento di distruzione si arresta. Si tratta forse di una riformulazione della nietzschiana coppia apollineo-dionisiaco? L’arte, ovvero l’apollineo, come barriera di fronte allo sparagmos dionisiaco? Senza dubbio Nietzsche è all’orizzonte di tutta la scrittura di von Sacher-Masoch. Ciò che von Sacher-Masoch fa è però rivelare, proprio attraverso il comico, quanto del dispositivo apollineo/dionisiaco, per come è rappresentato nella Nascita della tragedia (almeno prima del celebre Tentativo di autocritica del 1886, ispirato dall’incontro con Carmen di Bizet, l’incontro con la Donna fatale e dominante…), rimane latente: il problema del godimento. Sul terrore di Nietzsche per la donna, il sesso, il desiderio e il godimento, Lou Andreas-Salomé ha lasciato trasparire abbastanza… (Salomé [1894] 2009; Nietzsche-Salomé-Rée [1970] 1999). Leopold von Sacher-Masoch, il proprio terrore lo confessa interamente senza veli…

Ancora sul rebus: l’insolubile enigma

Se, a questo punto, ci sembrasse di aver inteso qualcosa della scena di Venus im Pelz, è opportuno che riflettiamo sulla formula narrativa cui è informato il romanzo.

Il romanzo si apre con il racconto di un sogno che non sembra affatto un sogno finché, dopo circa tre o quattro pagine, ci viene detto che di sogno si tratta! e si tratta, appunto, del sogno dell’amico anonimo di Severin nonché narratore della vicenda, il quale si trova a sognare… che cosa? 

Mi trovavo in dolce compagnia. Di fronte a me, vicino al massiccio caminetto rinascimentale, sedeva Venere, proprio lei, la Dea dell’Amore in persona […]. Sedeva in poltrona e il fuoco scoppiettante da lei ravvivato le lambiva con riverberi rossastri e guizzanti il viso pallido dagli occhi chiari e, di tanto in tanto, quando cercava di scaldarli, i piedi. Aveva una testa stupenda, malgrado i morti occhi di pietra, ma non riuscivo a veder altro di lei. La sublime donna aveva il corpo marmoreo avvolto in un’ampia pelliccia in cui si era rannicchiata, tremando, come una gatta.
“Non la capisco, gentile signora”, le dissi “a dire la verità non fa più freddo, e da due settimane poi abbiamo una primavera splendida. Evidentemente lei è nervosa”.
“Bella primavera!” mi rispose con voce profonda e dura come il sasso, e dopo due rapidissimi e celestiali starnuti aggiunse: “Io non ne posso più e ora comincio a capire…”.
“Che cosa, mia graziosa signora?”
“Comincio a credere l’incredibile, a comprendere l’incomprensibile. Capisco finalmente la virtù delle donne germaniche e la filosofia tedesca, e non mi meraviglio più che voi del Nord non sappiate amare, anzi non abbiate la più pallida idea di che cosa sia l’amore” (von Sacher-Masoch [1870 e 1878] 2017, 13).

Sogna, l’anonimo narratore amico di Severin, Venere in pelliccia: sogna di dialogare con lei sulla guerra dei sessi e sulla natura dell’amore nel mondo dei Moderni: 

Certo, però, avete anche un’eterna, intensa e insaziata nostalgia per il paganesimo nudo” intervenne Madame. “Ma quell’amore che è la gioia più alta, la serenità degli dèi, non è cosa per voi uomini moderni, per voi figli della riflessione. Vi arreca sventura. Non appena volete esser naturali, diventate volgari. La natura vi si presenta come qualcosa di ostile, avete trasformato in demoni gli dèi sorridenti della Grecia, e di me avete fatto un essere diabolico. Sapete solo mettermi al bando e maledirmi oppure scannarvi come vittime sacrificali davanti al mio altare, in preda a un furore orgiastico. […] Restatevene pure fra le vostre brume nordiche e fra le nubi del vostro incenso cristiano; ma lasciate noi pagani in pace sotto le ceneri e la lava, non dissotterrateci. Pompei non fu certo costruita per voi, non per voi furono costruite le nostre ville, i nostri bagni, i nostri templi. Voi non avete bisogno di dèi! E noi nel vostro mondo moriamo di freddo! (von Sacher-Masoch [1870 e 1878] 2017, 15).

Nel nostro mondo, l’amore – e per amore si intende il sesso – è diventato oggetto fobico, oggetto d’angoscia perché vissuto tra esplosione pulsionale – l’orgia – e rimozione – la demonizzazione: la Venere antica rediviva è il fantasma del godimento perduto – risuonano qui, evidentemente, le scene della Dea Diana e del Dottor Faust di Heinrich Heine, che ci ha narrato, nelle due straordinarie pantomime, l’esilio degli dèi antichi. Ben prima di Jensen e della rilettura freudiana di Jensen, forse ispirato – chissà? – dal conte phantastique Arria Marcella (1854) che dobbiamo al genio di Théophile Gautier e dal seminale The Last Days of Pompeii (1834) di Bulwer-Lytton, von Sacher-Masoch elegge la scena pompeiana a luogo della Wiederkehr des Verdrängten, della ricorrenza o, se preferiamo, del ritorno del rimosso (così direbbe, appunto, Freud). La Venere mezzo statua e mezzo carne e ossa, mezzo morta e mezzo viva, mezzo sepolta nell’oblio del tempo antico e mezzo presente, qui tra noi, hic et nunc, questo convivere di pietra e corpo, trasla in immagine il movimento incessante del conflitto tra rimozione nell’inconscio e riemersione sintomatologica.

Ma torniamo al sogno. Non è forse vero, dunque, che il narratore anonimo si trova a sognare lo stesso sogno dell’amico protagonista Severin – Traumnovelle, intitolerebbe Arthur Schnitzler – ? Ma il sogno di Severin si è avverato! Venere è tornata dal ‘passato’ per lui, come la Gradiva per Norbert Hanold. Venere si è incarnata in Wanda. Che significa, allora, sognare il sogno dell’altro quando il sogno dell’altro è verità? Come già insegna il Bottom-Asino di A Midsummer Night’s Dream, il sogno abbraccia il cosiddetto ‘mondo vero’ e lo contiene all’interno dell’esperienza inconscia: sognare il sogno dell’altro vuol dire che, in altre parole, sulla scena di Venus im Pelz, non si esce mai dal sogno. I confini tra coscienza e inconscio sono cancellati, l’ ‘interiore’ si è riversato nel ‘fuori’ e lo ha invaso, lo ha infestato, come avviene nei fenomeni di ‘crisi magica’ (o di estasi, se preferiamo) collettiva. Tutto è interno al sogno in Venus im Pelz. E ciò richiede che noi si legga ‘la storia’ non come ‘storia’, ma come frammento o meglio come frammentario mosaico di lingua onirica.  

Nella Traumdeutung, come già accennavamo più sopra, Freud sancisce che il sogno è un rebus verbo-visivo, proprio un po’ come il rebus dei giochi enigmistici: nel sogno nulla è ciò che sembra, le immagini dicono altro da ciò che rappresentano e i lacerti di linguaggio che vi compaiono sono un richiamo al simbolico puro del significante. Il sogno, per come lo ricordiamo da svegli, è la traslazione, ovvero la trascrizione-traduzione, dei pensieri onirici inconsci, die unbewussten Traumgedanken. Per intendere il transfert visivo e linguistico manifesto è necessario quindi ritradurlo nella lingua primaria dei pensieri onirici inconsci e quindi procedere nuovamente alla retroversione da quest’ultima a quella del rebus verbo-visivo ricordato:

Tutti i precedenti tentativi di risolvere i problemi del sogno si rifacevano direttamente al contenuto onirico manifesto, dato nel ricordo, e si sforzavano di ricavare da questo l’interpretazione del sogno, oppure, se rinunciavano a un’interpretazione, di fondare il loro giudizio sul sogno riferendosi al suo contenuto. Noi siamo i soli a trovarci di fronte a una situazione diversa; per noi, fra il contenuto del sogno e i risultati della nostra osservazione si inserisce un nuovo materiale psichico: il contenuto latente o pensieri del sogno, ottenuto per mezzo del nostro procedimento. Da questo contenuto, e non da quello manifesto, siamo venuti sviluppando la soluzione del sogno. È a noi pertanto che spetta anche un nuovo compito, che prima non esisteva, il compito di esaminare i rapporti tra contenuto manifesto e pensieri onirici latenti e di indagare per quali processi da questi ultimi abbia a risultare il primo. Pensieri onirici e contenuto onirico manifesto stanno davanti a noi come due esposizioni del medesimo contenuto in due lingue diverse, o meglio, il contenuto manifesto ci appare come una traduzione dei pensieri del sogno in un altro modo di espressione, di cui dobbiamo imparare a conoscere segni e regole sintattiche, confrontando l’originale con la traduzione. Noti questi, i pensieri del sogno ci riescono senz’altro comprensibili. Il contenuto del sogno è dato per così dire in una scrittura geroglifica, i cui segni vanno tradotti uno per uno nella lingua dei pensieri del sogno. Si cadrebbe evidentemente in errore, se si volesse leggere questi segni secondo il loro valore di immagini, anziché secondo la loro relazione simbolica. Per esempio, ho davanti a me un indovinello a figure (rebus): una casa sul cui tetto si vede una barca, poi una singola lettera dell’alfabeto, poi una figura che corre, con la testa cancellata da un apostrofo, eccetera. Potrei ora cadere nell’errore critico di dichiarare assurda questa composizione e i suoi elementi. Una barca non è al suo posto sul tetto di una casa, e una persona senza testa non può correre, per di più la persona è più grande della casa e se il tutto deve rappresentare un paesaggio, sono fuori posto le singole lettere, che non si trovano certo in natura. Evidentemente, la valutazione esatta del rebus si ha soltanto se io non sollevo obiezioni di questo tipo né contro l’insieme né contro i singoli particolari, ma se invece mi sforzo di sostituire ad ogni immagine una sillaba o una parola, che sia rappresentabile, secondo un rapporto qualsiasi, con un’immagine. Le parole, che in questo modo si connettono fra loro, non sono più assurde, ma possono costituire la più bella e la più significativa frase poetica. Ora, il sogno è un indovinello a figure di questo tipo, e i nostri predecessori nel campo dell’interpretazione del sogno hanno commesso l’errore di giudicare il rebus come una composizione pittorica. Come tale apparve loro assurdo e senza valore (Freud [1900] 1973, 262-263).

Ma… come giungere alla verità latente che soggiace al transfert verbo-visivo? L’accesso all’inconscio (o meglio, il tentativo di accesso all’inconscio) può rendersi possibile solo attraverso la clinica, ma la lingua poetica, la Dichtung, non è un oggetto clinico. E se certamente la lingua poetica affonda le sue radici nell’esperienza, è pur vero che tale esperienza non può essere contemplata se non nel linguaggio, a meno che la creazione non torni ad incarnarsi nel lettore ovvero nell’interprete, a meno che essa non ‘faccia nodo’, se così si può dire, con la verità del lettore-interprete. Hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère, scriveva il Poeta… Il dispositivo narrativo di Venus im Pelz intreccia la Traumszene alla scena-di-lettura. E, come ricorderemo, von Sacher-Masoch costruisce un cortocircuito tra scena-del-sogno e scena-di-lettura, perché il lettore si trova a sognare ciò che poi leggerà! Sicché sorge la legittima domanda se l’ ‘Io’ del romanzo non sia, piuttosto che Severin, il lettore-narratore anonimo… e se Severin fosse solo il personaggio del sogno dell’Anonimo? E noi, che stiamo leggendo, non siamo forse invitati a prestarci a quella storia, a farla entrare in noi, a sognare anche noi?

Tutto resta enigma in Venus im Pelz perché tutto è ivi onirico. Il rebus, come ogni rebus, è costruito su una serie di oggetti-immagini. Li possiamo meglio chiamare segni. Perché la scrittura di Venus im Pelz è scrittura di segni: voglio dire che Venus im Pelz è una Scena e nulla vi è narrato. Piuttosto, tutto vi è indicato a mo’ di traccia. Non racconta nessuna vicenda Venere in pelliccia. E, non a caso, il movimento onirico e narrativo origina dall’ekphrasis del famoso quadro che campeggia nello studiolo faustiano di Severin: il falso movimento della narrazione prende avvio dalla descrizione del tableau vivant dipinto, a suon di frusta, dal pittore tedesco. Venere in pelliccia è tutta ecfrastica, e, se tale si trova ad essere, è perché è tutta sguardo – sguardo nostro, va da sé. Lacan ci dice che lo Sguardo è un ‘oggetto a’, come la Voce – si faccia caso a come Severin annoti spesso gli effetti e le caratteristiche della voce di Wanda. Voce e Sguardo: feticci. Come la pelliccia. Cerchiamo, dunque, di enumerare i segni che questa scrittura-pittura dà in pasto ai nostri occhi – scrittura-pittura: è proprio il caso di dire con i Greci, e soprattutto con il Platone del Fedro, zoigraphia. Voce, sguardo, pelliccia, frusta, capelli, piede-tacco… e poi c’è la bambola-maschio ovvero il Greco, bello da far svenire chiunque e altrettanto crudele, che interpreta la parte… già, quale parte mai interpreta la ‘bambola-maschio’, se non, come la frusta, quella del fallo di Wanda? Fallo di fronte al quale Severin si prostra e cade in un’estasi fatta al contempo di adorazione, d’invidia e d’odio… fallo che lui vuole, vuole pazzamente… venisse anche la morte… vuole il Simbolo, e vuole esserne marchiato, ferito, frustato… Ogni feticcio – ci avverte Freud e Lacan a fargli eco – non è altro che l’avatar del fantasma primario, il ‘fallo materno’ – non c’è dubbio che, in questa prospettiva, il bellissimo e crudelissimo greco sia une poupée phallique, vero e proprio feticcio in mostra:

Un uomo è come una donna, e lui sa di esser bello e si comporta di conseguenza; cambia vezzosamente toilette quattro o cinque volte al giorno, proprio come una cortigiana che non abbia nient’altro da fare. Al suo arrivo a Parigi si presentò in pubblico in abiti femminili, e gli uomini lo tempestarono di lettere d’amore. Un cantante italiano, celebre per la sua arte e la sua passionalità, riuscì a penetrare in casa sua e, in ginocchio davanti a lui, minacciò di togliersi la vita se non avesse esaudito le sue brame. “Mi spiace”, gli rispose lui con un sorriso “le concederei volentieri la grazia, ma non le resta che eseguire la sua condanna a morte, poiché io sono… un uomo” (von Sacher-Masoch [1870 e 1878] 2017).

Ma la rappresentazione mitica cui diamo il nome di ‘fallo materno’ altro non designa che la scoperta, il terrore e la legge della castrazione. Il Sarrasine di Balzac, nella ricreazione di Roland Barthes, scopre nella Z di Zambinella (l’Altro castrato), al contempo, la ferita della propria mancanza e la legge del linguaggio (del significante):

Z est la lettre de la mutilation: phonétiquement, Z est cinglant à la façon d’un fouet châtieur […] graphiquement, jeté par la main, en écharpe, à travers la blancheur égale de la page, parmi les rondeurs de l’alphabet, comme un tranchant oblique et illégal, il coupe, il barre, il zèbre; d’un point de vue balzacien, ce Z (qui est dans le nom de Balzac) est la lettre de la déviance (voir la nouvelle Z. Marcas); enfin, ici même, Z est la lettre inaugurale de la Zambinella, l’initiale de la castration. […] Sarrasine reçoit le Z zambinellien selon sa véritable nature, qui est la blessure du manque (Barthes 1970, 113).

Ma allora Wanda, la Venere in pelliccia, non è altro che un fantasma materno? È la tesi su cui si regge il celebre Le froid et le cruel di Gilles Deleuze… Ammettiamo pure che la Madre fallica sia una delle figure, come un Arcano Maggiore dei Tarocchi, dell’indovinello, del gioco enigmistico, del rebus, uno degli ‘oggetti’ convocati alla compositio loci… resta tuttavia pur sempre un’immagine costruita ‘ad arte’… il punto è allora: come se ne serve il perverso? A quale scopo se ne serve? Secondo Deleuze a quello di realizzare la sua sovversione politica ovvero la distruzione del Padre e della Legge del Padre. A me non sembra che una lettura in chiave politica, se non ideologica, possa illuminare la scena onirica nella sua forma di enigma oggettuale (Lacan non lesinava ironia su Le froid et le cruel, nel suo Seminario XIV). 

E poi c’è la pelliccia. Robert Eisler, nel suo Man into Wolf, ove il masochismo viene a far parte della storia violenta di specie, la ‘specie Homo’, osserva che:

archetipico è il fascino erotico esercitato sul masochista dei nostri giorni dalla nudità della “Venere in pelliccia”, che rappresenta la femme fauve, la nuda, la sanguinaria menade o “donna furiosa” coperta di pelle d’orso, di lince o di volpe – la femmina che, nella foresta primordiale, insegue la preda insieme ai compagni maschi, colti da un’eccitazione sfrenata, nel branco del Cacciatore Selvaggio, gareggia con loro in spietatezza al momento di ucciderla , infine placa in un amplesso selvaggio la folle eccitazione che li accomuna dopo l’orgia omofagica, e banchetta con la carne viva, cruda e sanguinolenta della preda (Eisler [1951] 2019, 52-53).

La pelliccia è un trofeo di caccia. Nessun dubbio su questo, almeno. E lo scenario della caccia rimonta alla nostra memoria di specie: memoria immemoriale, pre-storica, paleolitica. Il cacciatore e la preda. Il cuore, tanto del cacciatore quanto della preda, che batte d’angoscia. La comunanza, nell’angoscia e nel pericolo, dell’uccisore e dell’ucciso: Dioniso Zagreus, al contempo cacciatore e vittima smembrata. La mia pelle è il tuo trofeo? È mia quella pelle che ti ricopre? Ma chi è tra di noi predatore? Pensiamo all’Uomo dei lupi (Freud [1918] 1977; Ginzburg 1989): quei lacerti di antichissime memorie sciamaniche che sopravvivono nella nostra tradizione culturale ci ricordano che il vestirsi della pelle dell’altro è anche esserne presi: mortuus saisit vivum, le mort saisit le vif, recita la nota formula giuridica del passaggio ereditario. La vittima abbranca il carnefice? Che rito stiamo dunque celebrando? Che teatro è questo? Senz’altro tutt’affatto diverso da quello etico-politico tracciato da Deleuze. Qui è in scena la menade cacciatrice che è poi avatar della Signora degli Animali, ben altra cosa dal ‘materno bachofeniano’ cui la lettura deleuziana è grandemente debitrice.

Ci sono, infine, la statua-che-prende-vita – Wanda-Venere è anche statua che prende vita, ovvero l’antico e ricorrente tema pigmalionico – e il Cristo.  Sono anch’essi due feticci? Si tratta, quantomeno, di oggetti catturati nella suite linguistico-visuale del rebus e vi partecipano, credo, al modo di significante-rimuovente, l’imago Christi, e di significante-del ritorno-del-rimosso, l’imago Veneris:

[parla Wanda] In natura si dà solo quell’amore dei tempi eroici “quando dèi e dee amavano”. Allora “guardare era desiderare, desiderare era godere”. Tutto il resto è finzione, affettazione, menzogna. Il cristianesimo – il cui torvo emblema, la croce, è per me spaventoso – ha introdotto per la prima volta nella natura e nei suoi istinti innocenti qualcosa di estraneo, di ostile. E se ora la natura è crudele con voi, non fa che vendicarsi per la crudeltà con cui la trattate (von Sacher-Masoch [1870 e 1878] 2017, 29).

4 | Félicien Rops, La tentation de saint Antoine, 1878, disegno a pastello, Bruxelles, Biblioteca Reale del Belgio.

La Croce, il sacrificio del Figlio, ha rimosso Venere, ma Venere ritorna grazie alla Croce, al sacrificio del Figlio in cui si identifica il masochista.

“Non ricordo nessun periodo della mia vita in cui non avessi tali inclinazioni” risposi. “Già da bambino manifestavo un’inesplicabile timidezza verso le donne, che altro poi non era se non l’espressione di un interesse abnorme per loro. Le volte buie, la penombra di una chiesa mi comunicavano un senso di oppressione, e una vera e propria angoscia s’impadroniva di me davanti agli altari illuminati e alle immagini sacre. Mi recavo invece di soppiatto, come per cogliere un piacere proibito, da una Venere di gesso nella piccola biblioteca di mio padre, e mi inginocchiavo davanti a lei rivolgendole le preghiere che mi avevano insegnato, il Pater noster, l’Ave Maria e il Credo. Una volta mi alzai in piena notte per andare a farle visita; la falce della luna mi illuminava la via e circonfondeva la dea di una fredda luce azzurrina. Mi prostrai dinanzi a lei e le baciai i piedi freddi, come avevo visto fare ai nostri contadini con il loro Salvatore morto. Si impadronì di me un desiderio indefinito e irrefrenabile. Mi alzai, strinsi fra le braccia il bel corpo gelido e baciai quelle labbra fredde; un brivido mi scosse dalla testa ai piedi e fuggii, e in sogno mi parve di vedere la dea che mi minacciava con il braccio levato, in piedi accanto al mio lettuccio” (von Sacher-Masoch [1870 e 1878] 2017, 42).

Se il feticcio è linguisticamente una metonimia, la statua-di-Venere e il Cristo-sulla-Croce sono dunque i significanti correlativi, opposti e non sintetizzabili, della rimozione – e supponiamo, supponiamo dico, che la cosa rimossa sia il godimento: il corpo inscalfibile della Venere, da un lato, il corpo aperto e ferito di Cristo, dall’altro; il corpo divino (Venere), il corpo umano (Cristo); il corpo immortale (Venere), il corpo mortale (Cristo); il marmo (Venere) e la carne (Cristo); e ancora ‘l’idolo pagano’ e la Croce… e poi ancora ‘l’Amore Venereo’ e ‘l’Amore di Cristo’ (l’agape)… e infine il Godimento (Venere) e lo Spirito (Cristo)… Ebbene, il masochista – mi pare vada da sé – si mette nella posizione di Cristo, della vittima sacrificale… ma per carpire Venere! D’altra parte, sembra abbastanza verisimile che Cristo, l’offerentesi-in-sacrificio per amore, potesse apparire, al genio umoristico di von Sacher-Masoch come il primo masochista della storia… E aggiungo che forse Freud, per quanto non l’abbia mai scritto né detto, pensava altrettanto, perché nel finale del terzo saggio dell’Uomo Mosé (Freud [1938] 1979), egli sembra quasi arrivare a dirlo, laddove addita nella Passione del Figlio una mascherata di copertura dell’assassinio del Padre: con il teatro del suo sacrificio per amore, il Figlio scalza definitivamente il Padre, esattamente come la richiesta di sacrificio del masochista è finalizzata al proprio (umoristico) Trionfo.

Ho detto che il masochista si mette nella posizione di Cristo per carpire la Venere perduta… e ho poi, a proposito di Cristo, pronunciato la parola ‘Spirito’, ma, in verità, avrei forse dovuto dire, anziché Spirito, Morte… sì, perché la morte di Cristo rappresenta o no la nostra morte, la morte umana? E non è la morte di Cristo, come Freud diceva, ancora nell’Uomo Mosè, una messa in scena per rimuovere la certezza inconscia della morte con il miraggio della resurrezione e della vita eterna? Il rimosso è dunque duplice? Del godimento e della morte? Fuggire la morte, l’Orco divoratore, nella pelle della vittima sacrificale, come nelle fiabe, per inseguire le tracce di Venere, del venus ovvero del godimento perduto? sempre che queste tracce non ci riportino, per altra via, dal “gioi che mai non fina” à la maison de l’Ogre

5 | Gustave Courbet, L’Origine du monde, 1866, olio su tela, Paris, Musée d’Orsay.

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    R. Velardi, a c. di, Platone. Fedro, Milano 2006.
English abstract

Leopold von Sacher-Masoch's Venus in Furs is not the narration of a story, but rather a rebus, a combination of images and fragments of language whose meaning lies in its being an open question addressed to the reader: what does the novel's protagonist seek on the stage of masochistic desire? Plato was the first to establish, through philosophical discourse,  in the Phaedrus and the Symposium, the dyad ‘desire-pain’ as the emblem of love experience. Starting with the Platonic myths of the winged chariot (Phaedrus) and the spherical creatures of primeval times (Symposium), this essay is a re-reading of Leopold von Sacher-Masoch’s Venus in Furs, through the lens of Apuleius’ Metamorphosis and Shakespeare’s A Midsummer Night’s Dream, to which the author alludes throughout his novel. The purpose of this re-reading is to enucleate the verbo-visual features through which Leopold von Sacher-Masoch assembles his puzzle game.

keywords | Leopold von Sacher-Masoch; Venus in Furs; Freud; Lacan; Apuleius; Metamorphosis.

questo numero di Engramma è a invito: la revisione dei saggi è stata affidata al comitato editoriale e all'international advisory board della rivista

Per citare questo articolo / To cite this article: Massimo Stella, Il rebus del godimento perduto. L’enigma oggettuale di Venus im Pelz, “La Rivista di Engramma” n. 223, aprile 2025.